33 Apprendimento nelle tappe evolutive del bambino
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33 Apprendimento nelle tappe evolutive del bambino
Apprendimento nelle tappe evolutive del bambino ‘Come essere canali che aiutano i gen 4’ Giuseppe Milan Innanzitutto vi saluto tantissimo e riconosco di essere emozionato per l’incontro con ciascuno di voi in questa ricchezza di presenza delle diversità. Sono emozionato anche per il bellissimo tema dell’arte d’amare che abbiamo ascoltato stamattina e che per noi può diventare l‘arte di educare’. Il sapere educare, come si diceva prima, non è facile: ci troviamo di fronte a un compito meraviglioso e bellissimo, perché meraviglioso, bellissimo e impegnativo è ogni bambina, ogni bambino, ed è la sfida bellissima alla quale siamo tutti chiamati. Ho visto il bellissimo messaggio di Emmaus che vi dice di essere canali che aiutino i gen 4 a diventare l’Ideale a cui ciascuno è chiamato. Nella loro crescita ideale e umana c’è una strettissima corrispondenza tra questa dimensione ideale e la dimensione di umanità alla quale tutti noi siamo chiamati. Come diceva Emmaus, la vostra è una missione, una chiamata importantissima. Tutti dovremmo inchinarci di fronte alla grandezza del compito dell’educazione, una missione grandissima e trasversale. Io vi parlerò di alcune idee, di alcuni concetti che devono poi essere trasformati in vita: saper vivere i concetti educativi. Umilmente dobbiamo dire che cerchiamo di tradurre in parole scientifiche nel campo della pedagogia il grande messaggio dell’arte di amare. Io utilizzerò altri termini, altri concetti, perché dobbiamo arricchirci anche di concetti molteplici che ci provengono dalle scienze. Però, in fondo in fondo, umilmente, dobbiamo riconoscere che l’Ideale è un grandissimo dono anche per il mondo della pedagogia. Parto dall’immagine di una statua di Bernini, importante, che mostra Enea, che è l’adulto, che sulle proprie spalle porta il padre Anchise e porta e trascina il piccolo bambino, il gen 4 suo figlio. Questa immagine è rappresentativa di un dialogo tra le generazioni in cui si va avanti insieme e ciascuno ha bisogno dell’altro. L’educatore è proprio questo adulto, capace di farsi carico e di accompagnare. Ecco l’arte dell’accompagnare, l’arte di essere via, in greco si diceva metodo. Il metodo è l’educatore. Il primo passo: noi ci troviamo di fronte ad un bambino, ad 33 una bambina. Il bambino, la bambina, l’esser umano, ha vissuto all’inizio il grande abbandono, la grande separazione. Il parto, la nascita, è stata l’esperienza cruciale di una separazione. A partire da questa separazione il compito dell’essere umano è ritrovare l’unità. Quindi andare dalle separazioni - e uso un termine che si usa in psicologia - alla ‘base sicura’, alla sicurezza che proviene, dice il grande psichiatra Erikson, dal dialogo ‘occhio a occhio’ e quindi dallo sguardo capace di includere in una relazione. Attraverso questo sguardo l’adulto non è più ‘extra’ (fuori, lontano) ma diventa ‘intra’. Se funziona questo sguardo, se funziona questo dialogo, questa relazione. E il bambino non è più solo ma ha dentro di sé la forza dell‘adulto interno’, la forza del ‘genitore interno’, la forza dell’essere uomo, la vera energia dell’io. Fin dall’inizio c’è questa dimensione interna, di qualcuno che è relazione con te, che ti accompagna, e allora tu puoi affidarti, fidarti. La ‘fiducia di base’ è questa dimensione, questa energia affettiva, umana, esistenziale che fa sì che l’essere umano ritrovi se stesso. Dalla disunità all’unità, e io sono relazione, io sono questo dialogo. Il bambino, il gen 4, la gen 4, fortunatamente può vivere questo incontro, perché può avere il genitore interno, la famiglia interna, ma per fortuna incontra anche un altro, l’educatore, che diventa, per la forza di questo sguardo, l‘educatore interno’ che gli dà forza. Allora io poi troverò anche il ‘gruppo interno’, i miei amici che sono gli altri gen 4, interni. Ho visto prima, rappresentati e testimoniati la socialità, il vivere insieme, il costruire insieme: allora io ho anche la forza del gruppo interno, del ‘noi interno’. Io mi trovo, essere umano pur piccolo in questa fase di costruzione, con la ricchezza dell’umanità che comincio a diventare sempre di più, perché c’è questa realtà educativa che non è più ‘extra’ ma che mi diventa ‘intra’ e mi permette questo gioco, questo dialogo. In poche parole, questo è il segreto del percorso di cui vi parlerò ora andando avanti. Per l’educatore è necessario passare dall’essere base sicura protettiva, i primi tempi, per il bambino piccolo (ma questo continuerà sempre perché anche noi adulti abbiamo bisogno di protezione), all’essere base sicura guidante e orientante. Il compito dell’educatore: guidare e orientare, andare 34 ‘verso l’oriente’, lanciare. Dal contenere, che è l’abbraccio, al lanciare, al lanciare fuori. Alcuni dicono che la mamma contiene e che il papà lancia il bebè, ma questo è il compito dell’educatore: contenere e lanciare. Ma è il compito di ciascuno: le mamme e i papà, contenere (la protezione e la fiducia) ma poi lanciare: l’autonomia. Perché tu devi diventare un essere umano aperto al mondo, alla vita, al dialogo. Quindi Piaget, uno dei padri della psicologia infantile, diceva: “Allargare lo spazio di libero movimento”1, movimento fisico ma soprattutto movimento affettivo, emotivo, esistenziale. Tu sei importante, tu sei OK! Ecco il messaggio che deve passare a ciascuno, ciascuno con la sua bellissima differenza. Prima Luisa diceva: siamo uguali ma siamo ciascuno differente. L’educazione è dire a ciascuno: Tu sei unico, tu sei OK! Col tuo nome, il tuo cognome, la tua situazione, il tuo popolo, il tuo luogo. E attraverso questo aiutare i fattori protettivi che danno forza che danno protezione, che aiutano a crescere. In sintesi i fattori protettivi sono: l’autocontrollo aiutare ciascuno ad avere padronanza di se stesso, delle proprie emozioni, dei propri impulsi, della propria aggressività (che è un’energia anche positiva). I bambini cominciano attraverso il lavorio dell’educazione a diventare capaci di una padronanza, piano piano, “io sono padrone di me stesso”, mi controllo. A volte quelli che chiamiamo i ‘capricci dei bambini’ sono delle richieste di aiuto per dire: fino a dove posso arrivare? E allora tu adulto, con la tua regola, lo aiuti. E’ difficile, ci vuole tanto tempo per giungere a questa padronanza di sé a cui l’esser umano è chiamato fin da piccolo, a piccoli passi. Quindi l’autocontrollo. Poi l’autostima io sono OK, io sono in gamba, come si dice, perché ho qualcuno che mi dice: ‘Tu sei importante’; qualcuno che conferma che 1 J. Piaget, La psicologia del bambino, Einaudi, Milano, 2001. 35 tu, con tutti i limiti che hai, e che ciascun bambino ha, tu sei importante: tu in ogni caso. L’altro indice protettivo e di crescita sono le relazioni interpersonali e sociali di cui abbiamo già parlato: mi trovo bene con loro, loro si trovano bene con me. Questo lo imparo fin dai primissimi tempi. Il bambino è già un competente nell’incontro con l’altro. Ci sono delle ricerche che mettono in evidenza la socialità del bambino, ad esempio una si intitola “Il buon samaritano a due anni”, perché il bambino è altruista, il bambino si fa contagiare dal problema, dalla sofferenza altrui. Ha questa dimensione, però deve essere abituato a questa socialità. Aspettative ottimistiche: ce la farò? Progetto (vuol dire gettarsi avanti). L’educatore deve aiutare il bambino a lanciarsi anche con questa speranza perché molte volte i bambini si tirano indietro, come noi adulti che spesso ci ritiriamo, ci chiudiamo, ci inibiamo, blocchiamo le nostre energie perché forse non abbiamo questo ok da altri. Allora l’ok deve dare anche aspettative ottimistiche e la capacità e l’energia di andare oltre, di sconfinarsi e di andare incontro al mondo. Accennerò ora ad alcune ‘parole chiave’, alcune dimensioni necessarie per fare questo accompagnamento, per aiutarci in questo ‘essere canale’, via per questo percorso educativo, in ogni ambito: famiglia, scuola, gen 4. Si tratta di competenze fondamentali dell’educatore: io ho preparato dieci ‘parole chiave’ che riguardano la relazione dell’educatore con il bambino, con ciascun bambino, con ciascuna bambina. Competenze da mettere in atto, forse “l’arte di amare” detta con altre parole. 1) L’educazione è ‘tensione’ all’Utopia l’intenzionalità di essere amore Comincio con la prima: Intenzionalità. L’educazione è una “tensione a”, è in tensione verso un qualcosa di grande, io ho messo questa parola, Utopia. Una parola strana che però non è un sogno irrealizzabile. L’utopia è un’isola che non c’è ora ma che può e deve esserci, che si può raggiungere. Quindi l’educazione è anche un andare verso un’utopia. Ogni bambino ha un’utopia nascosta, il suo dovere essere, le sue potenzialità che devono venir fuori. Io devo cogliere quell’isola che ancora non c’è ma che c’è già presente e farla diventare, avendo questo desiderio (desiderio viene dal Latino: de-sidera, dalle stelle). E’ 36 qualcosa di grande, qualcosa di alto, quindi bussola: orientare la nostra azione. Oggi, come si dice, c’è un’emergenza, un problema, l’assenza di desiderio, spesso l’assenza di volontà. Chiara: lei ci parla dell’utopia-realtà anche nel suo tema a Washington sull’educazione. L’utopia è l’unità da costruire anche con il bambino, anche con i bambini tra di loro perché noi li aiutiamo a questo e lo si fa vivendo la Volontà di Dio, l’intenzionalità di essere amore e di costruire, qui ci vuole l’intenzionalità. L’educatore è uno specialista in intenzionalità, non vive banalmente, vuole, desidera, ha un’intenzione profonda di educare. 2) Problematicità: l’educatore è specialista in ricerca, non ci sono ricette Passo alla seconda parola. Problematicità: questa è strana, ma c’è una bellissima - per fortuna - insicurezza dell’educatore. Noi non abbiamo un sistema di regole belle e fatte, c’è un rischio dell’educazione ‘ricetta’. Tutto precostituito, tutto bello e fatto, no! Sbaglieremmo molto, non cercate esperti che vi diano le soluzioni, cerchiamo invece di essere noi stessi, umilmente (l’umiltà è una forza dell’educazione) ricerca, perché la situazione di ognuno è unica, ogni bambino, ogni bambina è unica, le famiglie sono diverse, i contesti sono diversi. L’educatore, di fronte al bisogno educativo, deve avere il ventaglio di scelte e guardarle, cercare, cercarsi, cercare insieme e umilmente trovare una decisione, ma nasce da questa problematicità: è un problema, bellissimo, che mi sfida. Non ho le ricette belle e fatte. Allora l’educatore è uno specialista in ricerca tra di noi. Oggi molto spesso i nostri bambini e bambine hanno molte risposte belle e fatte e sono poco abituati ad avere domande e a cercare insieme. Noi stessi dobbiamo essere domanda, chiedere e abituarci più a chiedere che a dare risposte belle e fatte. Quindi ho messo quella figurina dell’essere umano che ha tante vie e deve cercare di capire dove va. 3) Educatore: specialista in responsabilità Chiara: dà-chiede responsabilità. Terza parola, e cito il messaggio di Emmaus di ieri bellissimo: la Responsabilità. È una parola grande: responsabilità, ‘abilità di risposta’, la parola stessa. Ogni bambino è un appello, l’educatore deve essere risposta. Non dare risposte, ma ‘essere risposta’, è diverso! Ma anche dare risposte. L’esser umano adulto allora è un responsabile. L’adulto è un responsabile, lo dice un grande filosofo, Paul Ricoeur: 37 ‘L’uomo è responsabile’: se non vive la responsabilità tradisce, tradisce la sua essenza. Questo vale per l’educatore soprattutto con il bambino piccolo, la bambina piccola. Jonas, un importante pensatore, diceva: “Il bambino è il segno della responsabilità.”2 L’adulto deve esser responsabile perché l’utopia del bambino può emergere soltanto se c’è qualcuno capace di questo nutrimento non solo fisico ma affettivo, educativo e allora la vita emerge, la sua utopia emerge, perché c’è questa abilità di risposta. Jonas diceva che “però c’è tanta negligenza.” E’ una parola strana che dal Latino vuol dire: negare, vuol dire, dire no, non ci sono, tu non ci sei. La responsabilità è: sì ti rispondo, perché tu sei appello. L’educatore allora è uno specialista in responsabilità. Chiara, lo sappiamo, dà responsabilità, chiede responsabilità. Noi abbiamo il compito di essere risposta a questa missione. 4) Emergenza ‘dialogo’ Chiara: Maestra del dialogo Un’altra parola uscita anche prima dal tema di Chiara è Reciprocità. In realtà dal latino: recus- procus, vuol dire avanti e indietro. Quindi reciprocità è l’andata e il ritorno della relazione educativa con il bambino, con la bambina. Quindi si parla di asimmetria, è una parola difficile. Non c’è un’uguaglianza all’inizio, c’è qualcuno che deve partire per primo ad essere proposta, guida, però chiedendo immediatamente il feed-back, la risposta, dando parola, dando potere, dando iniziativa, dando progetti. Ecco allora che si entra nella reciprocità, quando si assegna un compito importante, e si educa lui o lei a vivere comunque pure la reciprocità. In educazione ci sono stati dei grandi pedagogisti, cito don Milani in Italia e Paulo Freire in Brasile, che hanno criticato l’educazione a ‘imbuto’ (l’imbuto è quello strumento attraverso il quale si versa dall’alto una materia in un contenitore che deve essere vuoto). L’educazione non deve essere imbuto, l’educazione deve essere dialogo, reciprocità e Chiara è maestra del dialogo, maestra di reciprocità, di ascolto, di parola e di responsabilizzazione. Questa è la reciprocità: Dostoevskij, il grande scrittore russo, diceva: “I figli diventeranno padri dei loro padri.” Perché l’adulto se dà questo potere, questa abilità fa sì che lui, lei, a partire dall’inizio diventino adulti, capaci di diventare padri e madri perfino dei loro genitori perché poi l’asimmetria si capovolge. 2 H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Milano 2009. 38 5) Creatività. No alle progettazioni-gabbia …emergenza relazione creativa L’educazione non ha la legge della ripetizione, della ripetitività, quello è un tradire l’educazione. Invece c’è la legge della creatività, lo spazio dell’imprevisto. Il bambino, la bambina, soprattutto in questi anni è creatività, spontaneità, fantasia: il bambino è creatività, questa è un’equazione. Se noi non valorizziamo questa creatività facendo in modo che siano loro, con le loro mani ad essere creativi, realizzando un contesto che faciliti la creatività, se non facciamo questo tradiamo il bambino, la bambina. Potremmo avere tante parole, tanti progetti ma sono spesso progetti che io chiamo ‘gabbia’, che chiudono e magari impediscono la creatività. Allora saper amare, saper educare, saper fare che il bambino sia quella creatività a cui Dio l’ha chiamato. Dio ha fatto l’essere umano a propria immagine e somiglianza, il bambino è la più grande rappresentazione di questa creatività che è la somiglianza a Dio che crea e costruisce dal nulla. Quindi l’emergenza è una relazione creativa. Chiediamoci: aiutiamo la creatività dei bambini? Chiara, lo sappiamo, maestra di creatività nelle relazioni, ci ha aiutato ad essere creativi nelle relazioni, persino nella relazione educativa; da Chiara noi, che siamo educatori, abbiamo avuto il segreto di essere creativi in questa nostra missione. 6) Temporalità Ciò che succede, anche tra di noi, anche nei nostri incontri con i gen 4 e le gen 4, lascia un segno, tutto lascia un segno. In Psicologia pragmatica si dice: tutto comunica, non si può non comunicare, tutto lascia un segno, lascia una traccia: non è come l’aereo che passa in cielo, c’è una traccia che poi si cancella immediatamente, no! Nell’educazione tutto lascia un segno. Quindi è necessario dare importanza al tempo, che è il luogo, lo spazio in cui noi lasciamo delle tracce. Quindi dare importanza al tempo dell’educazione, anche questo è arte d’amare. Traduciamo Chiara: vivere l’attimo presente, è un segreto dell’educazione, vivere l’attimo presente perché è importante, perché comunica al bambino, alla bambina attraverso quello sguardo e quel fare ‘tu sei importante’, oppure comunica il contrario, quando non lo si vive bene si comunica il contrario. Valorizzare il passato, la propria storia, il proprio percorso, le proprie esperienze. È già passato, ricordare (dare 39 continuamente al cuore), aiutare i bambini a mettere in cuore ciò che si è vissuto: il cuore si arricchisce. Il tuo genitore, la tua famiglia, il tuo gruppo, la storia dell’Ideale, rimettere in cuore perché altrimenti siamo sradicati e l’esser umano ha bisogno di essere anche radicato nella sua storia che insegna, che dice tante cose. Il futuro, ecco il tempo. Progettare, amare il futuro, essendo progetto, buttandoci oltre. Guardiamo al futuro che non deve essere il luogo della paura, come spesso oggi succede, ma della speranza (la speranza è una virtù del tempo). Quindi nell’educazione è importante, l’educatore è uno che organizza il futuro, pianifica il tempo e fa passare questo ai bambini piccoli, che hanno soprattutto il presente. Li fa entrare anche nel campo dell’impegno per costruire, seppur piccolo, qualcosa insieme. Si entra nel progetto del futuro. L’esser umano è uno che ama anche il futuro, altrimenti perde tanto di importante. L’arte dell’educatore, in rapporto al tempo, è anche la Continuità. E’ uno dei grandi problemi dell’educazione oggi. Ci sono a volte fasi educative, come dire, a strappi. Bisogna riuscire a dare continuità. La frequenza, la presenza, ripetere, ritrovarsi, ricordare, e questo con la dimensione della continuità che è il tempo. E anche saper attendere. Un’altra virtù con i bambini è la pazienza. Oggi molto spesso per la nostra vita si è impazienti, si ha una frenesia che però nega il tempo del bambino e della bambina che ha bisogno di pazienza. Un grande della storia della pedagogia, Rousseau, diceva: “Perdere tempo, in realtà per guadagnarlo”, perché allora si aiuta il bambino, per esempio, ad essere creativo. Senza forzare in maniera artificiosa: molti bambini sono iper forzati, e alla fine, forse, avranno dei problemi, saranno adulti prima e avranno perso l’infanzia. Adulti senza infanzia sono molto spesso adulti infelici o adulti a volte patologici, quindi è una questione importante. Bauman, questo grande pensatore contemporaneo che forse conoscete, dice: “Oggi noi, tra di noi, anche nel mondo educativo, rischiamo di essere coloro che pattinano sul ghiaccio sottile, perché non abbiamo a volte, i valori di fondo” 3, di fondamento. C’è un terreno fragile, per stare a galla dobbiamo correre, abbiamo l’incapacità di sostare, di fermarci. Quindi c’è un’emergenza di fedeltà, vuol dire stare in un patto. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari, 2001. 3 40 L’educazione è un patto con questo bambino, con questa bambina, capacità di stare e di fermarsi nell’incontro con lei o lui, che ha bisogno di questa profondità e di questo tempo vissuto in questo modo. Perciò l’educatore (sto parlando degli assistenti e delle assistenti gen 4) è specialista nell’uso ideale del tempo. Chiara è una maestra nel vivere intensamente, pensate in poco tempo cosa è successo a Trento e cosa è successo nel mondo in poco tempo e cosa sta succedendo adesso perché, nel nostro caso Chiara e i suoi compagni e le sue compagne hanno saputo vivere il tempo con questa intensità di amore che lascia il segno che educa. Per cui il momento, come si diceva nel tema di Chiara, è una grande esperienza educativa. 7) Socialità L’essere uomo, è chiamato ad essere noi a sentirsi noi. L’unità nella diversità. Un bellissimo proverbio africano, nigeriano, dice: “Per far crescere un bambino ci vuole un villaggio”. Per far crescere una gen 3, un gen 4, ciascuno di noi, abbiamo bisogno del villaggio, della polis, della città, del noi, della comunità. Quindi l’educatore che sollecita la vita di gruppo è un esperto del ‘noi’, perché lo vive in primo luogo lui evidentemente. Tutto passa attraverso l’esempio e quindi gli amici coetanei, il gruppo interno, i gen 4 interni. Il bambino vive, la bambina vive di questa energia fin dall’inizio. Molti però tra bambini e bambine, lo sappiamo, oggi sono soli, dimenticati, abbandonati. L’educazione alla socialità non la si costruisce con la bacchetta magica, ma ha bisogno di tempo, di esperienze e di luoghi di spazi e di persone che aiutano. Questa esperienza molti la perdono; poi diventerà comunità, intercultura (butto delle parole grandi ma si parte da lì, si parte dalla’educatore interno, non si improvvisa) a quell’età lì, l’educazione interculturale tra bambini diversi, come siamo tutti, anche di origini culturali diverse abitua alla molteplicità nel gioco bellissimo dell’unità. Si tratta perciò di costruire solidarietà: vuol dire relazioni solide; Bauman diceva ”fragilità oggi”. 4 La rivoluzione è invece: costruire relazioni solide fin dall’inizio con la forza dell’incontro, del dialogo. Il problema è l’individualismo a tanti livelli. 4 Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004. 41 8) Sistemicità Un’altra parola un po’ difficile però che diventa, secondo me, facilissima, perché stiamo parlando di rete. Il sistema sono le reti delle diversità che creano alleanze. Una grande studiosa francese, Francoise Dolto diceva: “Il bambino nella sua crescita, poi l’adolescente, l’essere umano, è spesso un ‘acrobata senza rete’ ”.5 Pensate ai trapezisti che al circo fanno i loro virtuosismi. La sicurezza proviene dalla rete sottostante. È la metafora del nostro lavoro per creare legami con la famiglia, con il territorio, con altri soggetti presenti e costruire il tessuto. Il tessuto è una rete, tessuto comunitario, tessuto educativo, quindi l’educatore, l’assistente è un costruttore di rete. Promuovere rete, alleanze educative, linking-agent, è un termine che si usa anche in scienze pedagogiche e della psicologia. Linking-agent, vuol dire essere agenti di rete, di alleanze educative. Il rischio oggi è la frammentazione ‘senza reti’. Anche i nostri gruppi possono essere bellissimi, ma se viviamo solo la dimensione “intra”, senza la rete con altri, poi perdiamo tutto. L’educazione è anche un costruire rete, tessuto. Chiara, maestra di socialità, di sistematicità, pensate al dialogo tra le generazioni, pensate all’ecumenismo, ha costruito sempre reti. Il giornale Città Nuova all’inizio si chiamava ‘La Rete’, ed essere maestri di rete è importantissimo, non è estranea al dialogo con il bambino. Il compito dell’educatore è costruire quel tessuto che fa in modo che, i bambini siano poi in un sistema di relazioni a tessuto, che creano lo sfondo comunitario che poi diventa educativo. 9) Verticalità Nei libri di pedagogia non trovo quasi mai questa parola. L’ho inserita anche nei miei testi per i miei studenti perché credo che nell’educazione siano importanti la dimensione dell’altezza e della profondità. La verticalità è la dimensione che va in altezza (pensate alla spiritualità, ai valori più alti di noi) e in profondità: l’interiorità. Molto spesso oggi viviamo un ‘terra-terra’, una superficialità, oppure giustamente valorizziamo i ponti, le relazioni, ma a volte si dimentica l’altra dimensione. Allora io uso, se possibile, la ‘metafora del ponte’ importantissima, ma anche la ‘metafora della scala’: educatore specialista in spiritualità ed interiorità. Le cose alte: i bambini, (voi li conoscete meglio di me) hanno il senso della magia, delle altezze e delle profondità 5 F. Dolto, Adolescenza, Mondadori, Milano, 2001. 42 e hanno bisogno non di banalizzare la loro giornata con cose piccole e banali ma hanno bisogno di qualcuno che si riferisca sempre a qualcosa di alto e di profondo. Si innesta nel percorso esistenziale di ciascuno il senso che io non sono solo questa figura chiusa, ma io sono ‘oltrepassamento’ in altezza, questo termine lo usava Nietzsche, e ‘oltrepassamento’ in profondità, aprendo sempre squarci nuovi di umanità in me. Chiara maestra di verticalità, lo possiamo tutti testimoniare. Ultima parola, perché ho usato una specie di decalogo (10 parole pedagogiche): 10) Testimonianza Cosa vuol dire testimonianza? La parola è italiana, ma penso che l’abbiate anche in altre lingue. A volte si può tradurre ‘portatore di testo’. Il testimone porta un testo, un testo che ha dentro le parole belle, il discorso bello è (torno a quello che si diceva prima dell’esperienza) però un testo che viene vissuto, un testo che viene confermato dalla vita: ecco il testimone, colui che diventa credibile. L’educatore, l’assistente è credibile perché ha un discorso e parla e a volte non parla, però passano lo stesso delle parole forti perché la vita, è il portatore, l’agire con coerenza. Platone diceva, e faccio un riferimento antichissimo: l’educatore è colui che “sa scrivere nell’anima” sul bello, sul vero e sul bene. Ma lui diceva, sa scrivere perché ha un discorso, un testo. Poi diceva ai suoi “ma l’avete voi un testo”? E metteva in crisi perché il testo e le parole - diceva Platone - sono “come figli” cioè non nascono facilmente. Le parole non sono facili, le parole autentiche passano attraverso il parto della vita, del vivere, allora lasciano un segno cioè insegnano. Quindi l’educazione è questa bellissima ‘lotta’, passi questa parola, in cui si lasciano delle ferite bellissime che sono i segni dell’incontro. Per me un’immagine bellissima di questo incontro, per tutte le età ma in particolare per i bambini, è l’incontro-lotta di Giacobbe, narrato nella Bibbia: di notte, nell’oscurità, nell’insicurezza (Giacobbe era un ‘senza nome’, un senza identità, chiedeva l’identità anche per il suo popolo). Di notte c’è una lotta, meravigliosa e inquietante, con un angelo. Però l’angelo era Dio e alla fine di questa lotta, che dura tutta la notte, all’alba, Dio, che è il più grande (come l’educatore) si fa vincere e dà a Giacobbe la parola, il nome Israele. Gli ha dato un nome che poi è diventato 43 il nome del popolo. E ha avuto questa eredità, il più grande si è fatto vincere, ma in realtà è stato un atto d’amore vincente. Giacobbe però si è ritrovato con una ferita, un segno: zoppicava. Il segno che si porta tutta la vita in ricordo di un incontro che c’è stato, di un incontro autorevole, (l’autorevolezza) perché l’altro è stato ‘autore’ di qualcosa che ha lasciato un segno. Questa è l’educazione, ma questo lo si fa ‘essendo testimoni’, portatori di un testo credibile che lascia dei segni. Chiara è maestra di testimonianza, lo sappiamo. L’ha mostrato con la parola, con parole sempre confermate dalla vita già vissuta prima. Quindi la testimonianza che diventa di per sé stessa educativa. In psicologia - dicono gli studiosi dell’apprendimento dell’infanzia - l’apprendimento fondamentale avviene perché si vede qualcosa che qualcuno vive. Allora c’è 1) una memoria pragmatica, dicono gli studiosi, 2) una memoria episodica di ciò che vedo vissuto, molto più importante della 3) memoria semantica o della memoria delle parole sentite. Questo insegna di più. Ecco la testimonianza. Ho dato alcune parole così in punta di piedi perché sono parole importantissime che vanno vissute, possono essere la strumentazione fondamentale del nostro essere educatori. Sono tradotte in parole povere, forse, in parole pedagogiche: l’arte di amare di Chiara detta in parole povere in ambito pedagogico, in ambito educativo. * Giuseppe Milan è Professore ordinario di Pedagogia interculturale e sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione e del Centro Interdipartimentale di Pedagogia dell’Infanzia dell’Università di Padova. 44 Giuseppe Milan: dialogo con i/le assistenti Assistente: Abbiamo tanto materiale per gli incontri gen 4 e mi veniva la paura di cadere in quell’educazione a imbuto, per cui vorresti mettere dentro in un incontro gen 4 tutte le ultime novità. La domanda che si collega a questo tentativo nostro di adattare invece il programma alle loro necessità è: come distinguere il loro voler “mettersi in mostra”, da un programma che nasce e si evolve con Gesù in mezzo? Come fermarle quando la loro proposta diventa un loro capriccio? Giuseppe Milan: innanzi tutto sbaglierei se pretendessi di dare delle ricette. Riflettiamo insieme: è vero che oggi nel nostro contesto c’è spesso un bombardamento di sollecitazioni. Tante volte noi adulti abbiamo l’abuso della quantità di cose: giocattoli, informazioni, la tv. Il bambino vive spesso il bombardamento eccessivo di cose e di messaggi e anche noi rischiamo forse di imporre tante o troppe cose. Noi dobbiamo avere l’intelligenza educativa di riuscire a far passare l’essenziale, ciò che è fondamentale. In realtà anche per Chiara l’essenziale è l’arte d’amare e lei dà alcuni punti. Anche noi per la pedagogia, forse traducendo questo essenziale, diamo qualche punto. È importante aiutarci ad avere l’intelligenza dell’essenziale e saper dare con giusto dosaggio, saper chiedere con un giusto dosaggio al bambino, alla bambina, quelle piccole cose che sono perle preziose. È importante che noi stessi siamo capaci di discernere tra l’essenziale e la materialità dominante che è meglio accantonare e sapere che molti bambini e molte bambine oggi, come dicono diverse ricerche, hanno una specie di paralisi cognitiva e affettiva perché sono inibiti, bombardarti da una grande molteplicità di cose alle quali non sono in grado di corrispondere, per cui in realtà sono costretti a una passività, a una paralisi. Invece nell’educazione sono essenziali piccole cose, il nutrimento essenziale di cui ciascuno ha bisogno. Forse anche noi a volte abusiamo di questo eccesso, no? I bambini che si mettono in mostra… tutti noi abbiamo il desiderio di essere nel palcoscenico ed è giusto, importantissimo, perché ciascuno è un attore, lo dice anche Chiara: ciascuno deve 45 essere attore e responsabile. I bambini in primo luogo hanno questo diritto. Ciascuno è attore in un contesto a cui dobbiamo educarci, che è uno scenario condiviso, dove c’è la socialità, dove c’è il noi. Il modo più bello per far placare questo io che a volte si onnipotentizza è quello di costruire insieme la dimensione del noi. Rendere ciascuno, piano piano, anche se sono bambini piccoli, responsabile, non del proprio io solo, ma responsabile della conduzione condivisa del gruppo, dando dei piccoli incarichi e facendo capire che ciascuno è importante nel gioco, delle parti in un palcoscenico in cui ciascuno è attore di uno scenario condiviso. Questo rischia di essere una ricetta, invece ci vuole l’intelligenza dell’educatore che ama l’io, ma che sa che l’io autentico è l’iotu, l’io-noi dell’unità e della molteplicità. È importante far leva sul desiderio di esserci dei bambini, di essere accolti per poi, nel cammino dell’educazione, trasformare questo in una dimensione di socialità condivisa. Assistente: Quando abbiamo fatto fare per la prima volta ai bambini l’esperienza di costruire e offrire i Gesù-Bambini, mi sono accorta che quando la gente diceva a loro che non volevano comprarlo, loro andavano giù! Ho pensato, come prepararli per questi momenti? Allora li abbiamo preparati, dicendo che il cestino col Gesù bambino non è troppo importante, ma il vero Gesù che possiamo dare alla gente lo possiamo dare da cuore a cuore. Allora loro avevano un altro atteggiamento. Ma una di loro era ancora un po’ giù. Le ho detto di guardarsi allo specchio, e le ho fatto vedere che il suo sorriso, il suo sguardo è importante, è quello che veramente dà Gesù. Lei ha preso coraggio, se n’è andata ed è tornata gridando: “È vero, è vero! Ho detto a un uomo, se lo voleva comprare e lui ha detto di no. Dopo gli ho detto: questo è per i poveri! E lui si è interessato, mi ha fatto un paio di domande, di come facciamo le statuine e dopo mi ha detto: te lo compro per la tua bella faccetta”. Quindi per lei è stata la risposta! Assistente: Ci sembra anche importante educarli spesse volte al difficile, ad esempio un bambino magari perde al gioco e non gioca più o dice quel gioco non mi piace, non partecipo. Tante volte devi stargli vicino, aiutarlo a superare le difficoltà. Ci dai qualche suggerimento? Giuseppe Milan: Il Tema è la motivazione, motivare vuol dire muovere, “provocare un movimento”. Molti bambini rischiano di fermarsi. Nell’esperienza di Gesù bambino c’è una motivazione 46 bellissima perché, non so se è pertinente quello che dico, come nel sacramento, c’è un segno, però internamente c’è un significato molto più profondo. Anche nella statuetta del bambino Gesù c’è quel segno, c’è quella materia, quella realtà, però il significato profondo è che c’è stato un amore nei bambini nel costruirlo, e che questo può diventare un sorriso che dà senso a quello. La bambina l’ha capito, ha capito la forza di quel sacramento interno e l’ha capito l’adulto. È importante da parte nostra, far cogliere il senso profondo, (ecco la verticalità), anche delle cose che facciamo noi adulti, del lavoro che svolgiamo che tante volte rischia di non essere sacro. È difficile questo: tu hai lottato con lei per farle capire che c’è un dono implicito in queste apparentemente piccole cose, che costruiamo insieme, ed è un dono grande. Io, scusate il termine, ma penso che quello fosse un Sacramento, dove passava qualcosa di grande! Questa è l’arte dell’educazione al difficile, cioè tu educhi al difficile: l’educazione non può che essere educazione al difficile perché non ci accontentiamo e non siamo fatti per ripetere e per conservare. L’educazione è soggetta alla legge del miglioramento, e per migliorare bisogna superarci anche ed aiutarci a superarci. Ogni tanto faccio l’esempio, molto semplice, del saltatore in alto e dell’allenatore, l’assistente in fondo è un allenatore. Noi mettiamo l’asticella ad esempio a un metro e sessanta, penso tu sia capace a saltare centosessanta (sto parlando di un atleta e non di un bambino, è la metafora). E se tu lo salti, io sollevo un po’ l’asticella, perché non mi accontento, so che tu puoi migliorare. Non posso alzarla troppo: molti di noi, i genitori chiedono troppo e allora abituano il figlio o il bambino o il gen4 al fallimento, perché sbaglio e sbaglio, sbaglio una volta dopo l’altra e poi dico di me: non ce la faccio: perdo la mia autostima! Invece io lotto per farti fare qualcosa di difficile, io capisco che tu puoi, ma devo avere quella capacità empatica di comprendere veramente ciò che posso chiederti oggi (né troppo, né troppo poco!) e allora metto l’asticella un po’ più alta, però ti aiuto a superarla. È difficile, però poi c’è l’esperienza per un bambino, per una bambina di fare alcune cose nuove e difficili, e di avere la gratificazione di poter dire: ce l’ho fatta, sono ok! Anche perché tu le dici: che bravo che sei stato! Ce l‘hai fatta!... e anche se non ce la fai, secondo me tu puoi, e rilanci. Dopo ci sono anche dei momenti in cui non si riesce, non c’è 47 sempre un miglioramento progressivo, tutti noi abbiamo dei black-out, degli indietreggiamenti. Allora l’intelligenza è dire: oggi abbasso un po’ l’asticella, metto alla prova, e io sempre devo far passare: tu sei ok, tu ce la fai ! Questa è l’educazione al difficile. Chiara nel suo tema di Washington nomina l’educazione al difficile. In questo modo il bambino viene educato sin da piccolo ad essere responsabile, capace di risposta. Le risposte autentiche non sono mai facili, sono sempre difficili, e la vera educazione è questo aiutarci a superare l’ostacolo e migliorarci perché è la chiamata nostra per tutta la vita. Assistente: Nel nostro gruppo abbiamo messo in comune un’esperienza sulla responsabilità: ci sembrava che responsabilità sia, come abbiamo sentito, non solo aiutare i gen4 ad essere responsabili ma prima di tutto essere responsabili noi. Un’esperienza: al mio lavoro questo mese di dicembre era un mese di tantissimo impegno, avevo la responsabilità di farlo bene e pensavo: “se non lo faccio forse il mio direttore me lo ricorda e forse perdo il mio lavoro”. Ne abbiamo parlato in focolare e ci siamo ricordati che io ho anche la responsabilità verso queste gen 4 che Chiara mi ha affidato. Se manco a questa responsabilità forse non ho un datore che mi mette fuori e allora abbiamo cercato di trovare un equilibrio. Pensando anche alle mamme e ai papà che a volte si svegliano un’ora prima o vanno a letto un’ora dopo per portare avanti ciò che gli è affidato; ho cercato di trovare questo equilibrio, e allora anche se non avevo il tempo di spedire alle gen 4 questo bellissimo poster di natale che il Centro gen4 ha preparato, ho cercato quello che avevo più vicino, un presepe più piccolino ma che ricordava sempre il natale e negli intervalli di lavoro ho cercato di spedirlo almeno a quelle gen4 più vicine. Una di queste gen 4 è venuta a mettere nella nostra posta la sua risposta dicendo che le era piaciuto tantissimo questo presepe e regalandomi una collana che aveva fatto. Ci sembrava che questa responsabilità dovremmo averla anche noi. Giuseppe Milan: Bellissimo, c’è un altro grande psichiatra, qualcuno di voi l’avrà conosciuto, Victor Frankl, viennese, che insiste proprio sulla responsabilità: io sono chiamato ad essere responsabile, la mia salute mentale-esistenziale è proprio in questo essere risposta, indipendentemente dal fatto di avere un datore di lavoro o qualcun altro. Poi c’è un altro, Korzac, che dice: il mio datore di lavoro è il bambino, per cui di fronte a lui o a lei io sono responsabile, sono chiamato ad essere risposta. Abbiamo il fatto che è stato 48 affidato a voi il gruppo dei gen4 o delle gen4, ed è comunque una responsabilità che è stata assegnata e quindi ogni responsabilità è per noi una educazione al difficile. Assistente: Nel nostro gruppo ci siamo concentrati un po’ sul concetto della Sistemicità. Sono venute fuori tante esperienze. Con un’assistente gen4 ci siamo accorte che all’ inizio dell’anno, dopo i primi due incontri gen 4, cominciava a formarsi un gruppetto di mamme, di papà, di persone che non conoscevano quasi niente, però per questo passaparola delle loro figlie, la figlia amica dell’altra o la mamma amica, questo gruppetto di gen4 e di amiche delle gen si portava dietro contemporaneamente un gruppetto di genitori. Allora è nata la domanda: cosa facciamo? Perché magari rimanevano lì ad aspettare che l’incontro finisse e non tornavano a casa. Molti di questi genitori non conoscevano niente dell’Ideale e lasciare le loro figlie con noi era un atto di fiducia. Vedevano che le loro figlie erano contente, oppure conoscevano la mamma che era una brava persona e le mandavano. È stato spontaneo, muoversi a corpo, perché l’assistente gen 4 era tutta presa dall’accogliere le gen4, amarle e quindi faceva l’incontro gen 4, e il suo marito, aveva questa sensibilità anche di proporre: facciamo un incontro in contemporanea per i genitori che vengono. Ha fatto tutto con quella delicatezza dell’amore che sa farsi uno, perciò le accompagnava a fare un passeggiata o prendevano un caffè insieme da una volontaria. Finché, via via, questi genitori si sono aperti e sono venuti fuori anche tanti dolori di famiglia, di separazione e quant’altro. A loro non sembrava quasi vero di trovarsi con qualcuno che, senza neanche conoscerli, si metteva a loro disposizione e li ascoltava. Ultimamente quando c’è stata l’operazione “Hanno Sloggiato Gesù” ho visto che le prime che sono venute e che si sono impegnate tutto il pomeriggio a star lì con le gen4 erano proprio le mamme di queste bambine, contente di dare il loro contributo. Non si sono sentite estranee, che stavano a guardare, ma si sono sentite libere di dare il loro contributo, proprio perché si sentivano accolte, amate. Veniva in luce questa sistemicità di creare e di valorizzare quelle reti che non si possono progettare a tavolino, ma si creano con la sensibilità di mettere in luce e di mettere in comunicazione, di cercare appunto queste sinergie. Giuseppe Milan: Direi che è un’esperienza evidente, che diventa immediatamente invito ad accogliere e a trasferire l’esperienza: 49 la rete, come in questo caso, si costruisce non tanto con una programmazione, ma proprio per l’autenticità di un’esperienza condivisa che si diffonde. Assistenti: Abbiamo discusso insieme sulla nostra società e sui nostri bambini. Tanti dei nostri bambini vengono da situazioni famigliari dove magari manca il papà o da scuole dove si insegna che va bene avere due mamme o due papà. Sentiamo che manca questa crescita umana e tanti dei bambini hanno mancanze, come tutti noi abbiamo mancanze - nessuno è completo - , importante è accoglierli così. Ma tante volte il nostro sforzo non basta. Per esempio io personalmente tante volte mi sono trovato come figura del papà. Ci sono tanti bambini che non hanno il papà e allora magari la mamma dice: che bello che ci sei tu allora tu puoi venire ogni tanto a casa nostra così il bambino ha una figura paterna. Però diciamo: non è il nostro compito! Assistente: Abbiamo a volte delle difficoltà con gen 4 che hanno dei comportamenti particolari a causa di una situazione difficile in famiglia o handicap fisici o anche psichici. Chiara ci insegna l’Ideale e noi parliamo tanto dell’Ideale, di amare, però parliamo molto poco del come applicare questo amore nel concreto di ogni giorno, soprattutto nelle parte umana. C’è poi un’altra difficoltà: nella nostra società non ci sono risposte fatte, tutto è relativo e noi sentiamo dall’altra parte che c’è un’unica verità che vogliamo trovare in Gesù. Ma siamo una minoranza nella nostra fede ed allora i nostri bambini sentono questo conflitto da una parte. Ci puoi dire qualcosa? Giuseppe Milan: La domanda è molto ricca. Capita spesso di costatare che la realtà presenta molte difficoltà e che molte persone, molti bambini hanno spesso un deserto intorno. È importante, come dicevo prima, che nei primi anni ci siano invece dei contributi. Nello stesso tempo però, questo credo dobbiamo ricordarlo sempre, l’essere umano, bambino bambina o adulto che sia, è redimibile, quindi può avere una resurrezione, può rifarsi, nessuno è condannato a priori, nessuno. Infatti in psicologia si dice che molte volte ci sono delle profezie negative che si realizzano perché non abbiamo la mentalità aperta invece alla speranza. Non possiamo mai disperare, anche quando c’è il deserto: infatti ci sono molte ricerche che dimostrano che una persona, un adulto, un educatore, un assistente, un allenatore di sport positivo, che a volte passa anche velocemente nell’esperienza 50 di un bambino che ha avuto anche disagi gravissimi, può essere come quelle ali che consentono al bambino di volare a volte più in alto di chi ha avuto tutto. Bisogna anche tenere conto di questo, no? La realtà spesso tradisce le aspettative nel senso positivo. Ci aspetteremmo il negativo, invece ci sono bambini, degli esseri umani, che nonostante tutto hanno fatto un salto grandissimo, anzi fanno tesoro del dolore, della sofferenza, per fare salti ancora più in alto. È come il trampolino di lancio, no? A volte più vai giù, se trovi la molla, la motivazione, riesci a fare il salto anche più alto. Quindi è sempre necessario avere la speranza che anche i bambini che vengono ad un incontro e che vediamo soffrire di qualcosa che non riusciamo a comprendere, magari trovano qualcosa, un’altra dimensione, e magari quella dimensione viene interiorizzata e diventa un’energia. Noi dovremmo dare il nutrimento massimo sin dall’inizio e quindi noi auspichiamo che dai genitori ci sia tutto il contributo e che vengano evitate molte forme di disagio. Ma ripeto: non dobbiamo mai disperare, anche un bambino è operaio dell’ultima ora che arriva e che ha il premio. Certo, con le famiglie dobbiamo trovare il linguaggio giusto, dovremmo riuscire a far vedere e a far diventare vita ciò che è spiritualità e trovare le parole, come forse stiamo tentando in pedagogia, le parole per dire alcuni concetti che abbiamo nel nostro linguaggio. Noi viviamo in una strettissima unità tra spiritualità e vita, anzi direi che è la stessa cosa, e dobbiamo trovare quindi la capacità di dire e spiegare. Lo spieghiamo soprattutto con l’esperienza. Le esperienze diventano credibili, per cui le nostre esperienze sono una critica al relativismo. Per noi non è tutto uguale, per noi non è tutto ok. I ragazzi oggi dicono: no problem! No! È problem! Sì, sì, ci sono delle cose più importanti, altre meno importanti, ci sono dei valori. Noi abbiamo una intenzionalità: per noi l’essere umano è Gesù. Il progetto dell’essere umano è diventare ciascuno con la propria natura Gesù, ciascuno e insieme, e quindi abbiamo un progetto. Siamo minoranza, sì, molto spesso siamo minoranza, a volte siamo soli in un contesto con relativismo dilagante. Ma io mi chiedo: il contesto significa “tanti testi”. Il problema è: qual è il testo credibile? Non è un discorso di maggioranza o minoranza. Sì, certo, ci sono tante influenze, ma l’essere umano in fondo, il bambino, dirà: che cosa era o chi è credibile? Magari lo dice e 51 riconosce dopo cinque anni, dopo 10 anni! Ci sono bambini che dicono: che bello che è stato con te quella volta e mi è rimasto dentro…nessuno di noi se lo ricordava. Ci sono alcune cose che diventano credibili, diventano autorevoli, sono autori di qualcosa che resta scritto dentro. Certo che tentiamo di diventare maggioranza. Ma realmente crediamo che anche se siamo uno solo, anche se siamo pochi, l’importante è essere credibili, che significa coerenza tra il dire ed il fare. Allora si diventa più facilmente educatori - ripeto non è una ricetta - e si accompagna. Assistente: Abbiamo fatto tanta comunione e abbiamo riflettuto e ci siamo fermati soprattutto sulla Problematicità. Ed era interessante perché ognuno di noi aveva una diversa prospettiva o esperienza. Eravamo cinque, di cui tre insegnanti. Qualche volta sembra che noi pope o popi insegnanti sappiamo stare con bambini, ma con i gen4 è un’altra cosa. Ci si rende conto dei propri limiti e si dice magari: se avessi avuto una laurea in pedagogia… invece a volte proprio questa laurea può essere un ostacolo. Tu ci hai parlato anche della rete e per me la rete principale è l’unità con gli assistenti per portare avanti le gen4. Abbiamo parlato tanto e a volte mi domando: le pope che non sono insegnanti si renderanno conto delle difficoltà che io ho come insegnante per essere in un rapporto reciproco con i gen4? Giuseppe Milan: Ho citato Rousseau, che è considerato a livello teorico uno dei più grandi della storia tra i pedagogisti, forse il più grande. Purtroppo ha avuto due figli che immediatamente ha destinato a un istituto per bambini abbandonati, mandandoli a Venezia. Ci sono grandissimi conoscitori delle enciclopedie delle scienze psicopedagogiche e io ne conosco molti, anche docenti universitari molto noti, che sanno moltissimo e che poi nella pratica fanno degli errori pazzeschi. È vero che certamente conoscere le teorie ecc. sono contributi importanti, ma io davanti al bambino che, come dice Eriksson, è una meraviglia, un mistero, sono di fronte a una meraviglia e a un mistero unico, da soli o insieme. Di fronte a questo, come dice Husserl, come dice Chiara, io devo fare tabula rasa e metter tra parentesi il mio bagaglio enorme di esperienze che potrebbero essere spesso un ostacolo, spostare, fare il vuoto e ascoltare questo bambino, con il suo nome e cognome, ascoltare veramente. Una volta che io mi sono fatto, diciamo, povero per questo dialogo, per questa unità, forse avrò 52 l’intuizione (che vuol dire andare al tu) tale da trovare il dialogo e la risposta più adeguata, ok? Molti di quelli che hanno studiato molto non fanno questo. Quindi noi tutti, e soprattutto quelli che magari hanno studiato, abbiamo questo grande compito di spostare. Molte volte succede - come voi sapete - che le persone più povere, più semplici però capaci di questo sguardo, sanno cogliere più di altri. Quindi siamo tutti chiamati alla stessa difficile arte di essere “capaci”. Il segreto poi dei sapienti è quello di diventar semplici come bambini per far sì che la sapienza non sia mera erudizione ma che sia reale sapienza. Nel nostro caso, come ci insegna il Vangelo e come ci insegna Chiara, abbiamo bisogno della sapienza dei semplici che sanno arrivare al cuore, è un’arte difficile questa. Cristiana: Prima, nell’intervallo mi hai detto che Chiara ci ha dato la chiave per vivere tutta quest’arte dell’educazione. Giuseppe Milan: Sì, lo sappiamo ma bisogna ricordarcelo spesso. Ho parlato prima di Rousseau e della dicotomia tra parola, cioè teoria, e fatti. Molti di noi hanno una grandissima esperienza però quest’esperienza ha bisogno di essere illuminata da quella teoria, da quel sapere. La grandezza, una delle tante, di Chiara è che Parola e Vita, esperienza e dono sono state immediatamente in dialogo, per cui la specificità della pedagogia di Chiara, se potessi dire così, è che ciò che è teorizzabile o teorizzato, già è vissuto, fa parte della vita e non la vita ristretta di pochi intimi ma a misura universale, aperta a tutti. Questo è il segreto grandissimo - secondo me - di questa forza: aver avuto il dono grande di questo accesso alla Parola, che poi è quella a cui possiamo accedere anche noi, la parola di vita, la parola del Vangelo. Subito diventa esperienza vissuta ed ecco allora la credibilità di un progetto pedagogico che ha la sua unitarietà: parola-vita, teoria-pratica. In fondo ciascuno di noi ha questa pratica. Alcuni di noi anche la studiano, però non potrei studiare, non potrei io, in parole povere, essere un professore universitario, se non avessi vissuto prima l’Ideale che mi ha aiutato a capire molte cose e a dirle. Molti di voi hanno magari l’esperienza vissuta quotidianamente: sappiate che sotto sotto c’è una teoria educativa con delle parole forti che vi fanno sperare ulteriormente, che meritano conferme continue. Verrà fuori anche questa teoria, proprio perché Chiara ci ha insegnato questa unità teoria-prassi. 53 Il gioco nella formazione gen 4 Matthias Bolkart e Cristiana Heinsdorff Il gioco è studiato da numerose discipline, per esempio pedagogia, antropologia, sociologia, psicologia, filosofia, e ultimamente anche economia. In generale si può distinguere tra giochi senza e con, uno scopo specifico, per esempio quando servono per imparare qualche cosa. Inoltre bisogna nominare anche i giochi sportivi che hanno un ruolo proprio. Chiara dice varie volte che con i bambini bisogna giocare. Già nel ’661 parla dell’importanza del gioco per i bambini che nasce dal suo modo di farsi uno con loro: “Bisogna farsi uno con loro nel senso divino, cioè partecipare con loro della loro vita. Ora non si tratta di farsi uno con loro e quindi mettersi a giocare soltanto, ma di capire il loro gioco, cioè il gioco dei bambini è il lavoro dei grandi (…) la loro vita, e così Dio ha voluto, sia per la maggior parte gioco (…) se non impostiamo le nostre lezioni fatte ai bambini sul gioco, in maggior parte sul gioco, noi non abbiamo capito niente dei bambini”. 1) Chiara nomina anche le trappole, nelle quali possiamo cadere, come ad esempio quando il gioco viene strumentalizzato. Dice: “Non è che noi giochiamo con i bambini per poi riuscire ad amicarseli e far loro dopo la moraletta e dire: adesso vi racconto qualche cosa del catechismo o della spiritualità. Noi dobbiamo giocare con loro perché li amiamo e amandoli dobbiamo giocare con loro…”. 2 Perché il gioco è molto importante per i bambini? Perché nel gioco sviluppano varie facoltà, quelle manuali, quelle fisiche perché possono correre, saltare, quelle mentali come la fantasia, la capacità nel campo sociale, ecc. Loro già vivono in un mondo fantastico, di gioco; sta a noi, entrarci. Una volta Chiara ha visto una bambina piccola con una bambola, le stava dando del latte. E raccontandoci il fatto ci ha chiesto: sapete cosa vuol dire farsi uno con questa bambina? Vuol dire chiedere a lei: ma hai già messo lo zucchero nella bottiglia? Questo è giocare con lei. 1 2 Chiara Lubich ai focolarini di Loppiano, 19 agosto 1966. Ibidem. 54 Il gioco ha una grande potenzialità; già Einstein diceva che il gioco è: “La più alta forma di ricerca”. Più avanti il fratello di Karl Rhaner dirà: “Il gioco è un anticipo del cielo, l’anticipazione di quell’armonia tra corpo e anima verso Dio che noi chiamiamo cielo”. Nel gioco lasciamo a Dio lo spazio per mostrarci qualcosa di nuovo e per rinnovarci. Da tanti scienziati il gioco viene visto alla radice di ogni cultura; in analogia, tra gli animali possiamo costatare innumerevoli forme di gioco che hanno molteplici funzioni come per esempio il conoscere, l’acquisto di competenze, il socializzare. Ma è la psicologia che più di ogni altra disciplina ha visto nel gioco il protagonista dello sviluppo psichico e soprattutto della personalità del bambino. Il primo ad occuparsene fu Sigmund Freud, che tra l’altro sottolinea che il gioco è in grado di aiutare i bambini a superare le loro paure, perché consente loro di trasferire l’oggetto del timore su un altro oggetto, familiare e quindi non pericoloso. Jean Piaget, riconosce al gioco una funzione centrale nello sviluppo di una sfera cognitiva personale e della personalità. Un ulteriore affinamento dell’interpretazione dell’attività ludica viene dallo psicologo russo Lev Vygotskij, che considera il gioco anche come forza attiva per l’evoluzione affettiva ed umana del ragazzo, non solo cognitiva come Piaget pensava. L’importanza del gioco in particolare nella vita dei gen 4 1. Il gioco serve per sviluppare le loro forze fisiche, per scaricarsi; giocando possono imparare ad aiutarsi insieme nel gruppo, a non scoraggiarsi quando perdono, a vincersi, quando non vogliono rispettare le regole. Spesso le bambine sanno tanti giochi di gruppo, i ragazzi preferiscono prevalentemente il calcio. Ci sono dei giochi più movimentati e altri più calmi. Un punto importante è che l’assistente giochi insieme a loro, per far sentire l’amore e far vivere nel gioco le regole ideali. 2. Giochi che fanno rivivere una storia, possiamo chiamarli giochi didattici, in genere si svolgono a tappe. Sono giochi tipici dei congressi; abbiamo per esempio il gioco a tappe della vita di Gesù, della vita di Chiara, del mondo unito. A volte coincidono con giochi di ruolo, in cui i gen 4 possono entrare nei ruoli di personaggi della vita Ideale. 55 3. Giochi in cui i gen 4 sviluppano la manualità, la creatività, e la volontà di riuscire a superare gli ostacoli, sono i giochi delle ‘aziendine gen 4’, in cui possono produrre, lavorare, come gli adulti. Questi giochi sono per loro più interessanti se hanno uno scopo reale, una motivazione. Un gen 4 che stava facendo le collane per i poveri ha risposto al papà che gli ha detto: «Che bel gioco», «no, papà, non è un gioco, è una cosa seria, lavoriamo per i poveri!». In conclusione possiamo dire che tante esperienze delle e degli assistenti gen 4 dimostrano che proprio il gioco è il campo prediletto per conoscerci, sperimentare l’amore reciproco e sviluppare tanti talenti. È davvero un segno dei tempi dove possiamo dare visibilità all’Ideale vissuto e alla fratellanza universale. Addirittura possiamo costatare che il gioco aiuta a ricostruire la personalità dei bambini, spesso frantumata attraverso le tante piaghe di Gesù Abbandonato che troviamo nelle nostre società, per esempio bambini che crescono con un solo genitore, o come figlio unico, o “gestiti” con videogame e con la televisione. Oggi, da una parte possiamo notare uno sviluppo enorme e continuativo, che in buona parte mostra degli effetti positivi sia sui bambini che imparano la vita giocando, sia come elemento importante che unisce le varie generazioni; dall’altra parte le offerte hanno spesso come scopo il profitto. Tanti giochi sono costruiti in modo da poter avere con poco sforzo un effetto massimo, per avere poco dopo la voglia di un altro stimolo. Perciò purtroppo costatiamo che tanti bambini non hanno avuto occasione d’imparare a giocare in gruppo, perché passano gran parte della vita davanti alla TV, e di conseguenza non sono abituati a seguire delle regole. Vediamo anche che proprio nel contatto con la vita gen 4 ci sono tante possibilità di recuperare e di sviluppare queste capacità. Alcune idee ed esperienze riguardo al gioco: 1. Abbiamo sperimentato che a loro piace tanto ripetere dei giochi, che permettano di sviluppare le loro capacità di rapportarsi, le tante abilità e provare il successo sia personale, sia del gruppo. 2. Piace superare qualche ostacolo, perché devono fare un piccolo sforzo e quando l’hanno superato dicono: “Ce l’abbiamo fatta!” 56 3. Altrettanto piace scoprire qualcosa che non sanno, per esempio cercare le cose che tu hai nascosto! 4. Per le persone più grandi, nel gioco è importante soprattutto la competizione, invece i piccolini piangono se non hanno vinto, non si può non vincere, bisogna farli vincere tutti. Quando tu giochi con i gen 4, non sempre loro sanno giocare tra di loro, aiutarsi non è scontato. Infatti Chiara nel 1966 dice: “A volte tornano, dopo un gioco, più giù di prima”, perché non è che il gioco di per sé li aiuta, è come si gioca. Il nostro ruolo è aiutarli, per esempio tu vedi un bambino o una bambina che è debole, che non riesce mai a vincere, allora aiuta lei, che a un certo punto vinca lei! Creare questa giustizia che facciamo noi, che non ci sia sempre una che rimane indietro, che non ci sia sempre la stessa che viene in luce, perché anche qualcuno può diventare aggressivo nel gioco. Vi ricordate il decalogo del gioco che Chiara ha dato ai gen 3? Però ai gen 3 si può dire prima del gioco e loro lo assimilano. Ai gen 4 tu puoi dire qualcosa, ma è così forte il gioco che giocando si dimenticano e non ci pensano più. Allora gli assistenti sono quelli che essendo nell’amore, creano l’atmosfera di Gesù in mezzo anche nel gioco. Per esempio, all’inizio dell’incontro a volte è difficile raccoglierli, allora qualcuno mi ha raccontato che era proprio triste perché quando è arrivato, tutti i gen 4 sono corsi via. Lui si è trovato da solo e non c’erano più. Bisogna capire i motivi: questo era un invito da parte dei gen 4 ad andare a cercarli, a giocare con loro! Alcuni consigli: 1. La spiegazione del gioco non deve essere troppo lunga, se no loro si stancano subito. 2. Stiamo attenti che loro non si scatenino troppo, perché perdono il controllo. Aiutiamo, dal di fuori, chi corre troppo a calmarsi e a riprendersi. 3. Occorre essere sensibile e capire quando le regole o le condizioni non vanno bene, per esempio nel caso in cui il campo è troppo grande e loro non arriveranno mai fino alla fine. Allora aggiusti, oppure cambi le regole, secondo le loro necessità. A volte le regole le fanno anche da soli! Comunque una delle cose più importanti è che loro trovino in noi assistenti persone tranquille, sicure, punto di riferimento, perciò anche se c’è un’insicurezza, basta spiegare con tranquillità e ricominciare. 57 4. Ci sono giochi che non piacciono a tutti, come il calcio; può capitare anche che i piccoli perdano la voglia di giocare perché i grandi sono sempre più veloci. In questi casi possiamo alternare i giochi o fare due gruppi con giochi diversi, o responsabilizzare i grandi per i più piccoli. 5. In vari incontri e congressi abbiamo coinvolto dei gen 3 come “capo-stazione” e con sorpresa abbiamo scoperto che già nel preparare i giochi ci davano degli ottimi consigli, erano bravissimi a spiegare un gioco e riuscivano a gestirlo molto bene. Assistente: A un certo punto mi sono trovato con tanti gen 4 che s’impongono e vogliono sempre giocare a calcio. Ho detto: «Come facciamo?» Qualcuno va anche giù, dobbiamo trovare un modo… Insieme a Guido che mi aiuta abbiamo parlato all’inizio ai gen 4 di Gesù in mezzo, stare insieme, fare un corpo. Poi ci siamo messi d’accordo: giochiamo così. Ci siamo divisi in due squadre: loro, che erano otto o nove gen 4 e noi due adulti più un gen 4 piccolino. Abbiamo detto: «Voi siete tutti di una squadra, noi siamo pochi, vediamo chi vince». Allora uno di noi adulti si è messo davanti, uno si è messo dietro abbiamo preso la palla e sai come sono i gen 4 si buttano tutti sulla palla, e non c’è organizzazione, e noi avanti. Gol! Uno a zero, due a zero, tre a zero. E litigavano tra di loro, sù chi aveva la colpa. A un certo punto abbiamo fermato il gioco e ho detto: «Venite un attimo qua, vi ricordate quello che abbiamo detto prima, che dobbiamo essere un corpo? Che dobbiamo avere Gesù fra di noi? Vuol dire che dobbiamo ordinarci»; gli ho fatto proprio la spiegazione, dicendo: «voi avete visto cosa avete fatto? Ognuno ha pensato a sé, ma dovete guardare l’altro no, dovete mettervi d’accordo! Allora provate a fare così, sennò avete visto, noi senza correre vi vinciamo». Hanno detto: «Ah!» Logicamente noi ci siamo ritirati un po’, e loro hanno cominciato a giocare così, a volersi bene, e li abbiamo fatti pareggiare. Allora erano contenti e hanno detto: «Sì è vero, è proprio vero.» Assistente: Una volta avevamo un weekend gen 4 e nel momento del gioco io non avevo preparato niente. Ho chiesto alle gen 4 di portarsi un gioco e se avevano bisogno di materiale di portarselo. Allora c’era un’ora di gioco e c’erano tutti i loro nomi su dei bigliettini. 58 Abbiamo scelto un nome e quella gen 4 doveva spiegare il suo gioco e giocare insieme. Questo era molto bello. La sera, abbiamo fatto il gioco di un’altra gen 4 che era “l’assassino”. Ma con noi c’era una gen 4 che non vede tanto bene e non poteva giocare. Allora vediamo insieme come fare e una dice: «Questo non è un problema perché io prendo le sue mani e quando guarderanno lei, io le stringo la mano e lei muore». Così hanno risolto loro stessi il problema e giocavano per far felice l’altro. 10 qualità del gioco Alois Hechenberger 1. IL GIOCO ACCADE QUI ED ORA: A ciascuno è richiesto di essere coinvolto nella situazione presente del gioco, con le sue regole, i suoi giocatori, ecc.; il passato ed il futuro risultano secondari. 2. PROVARE DIVERTIMENTO E GIOIA NEL GIOCO: Vivere la gioia nel gioco e comunicarla è più importante per lo sviluppo della personalità che non la sconfitta o la vittoria nel gioco. 3. IL GIOCO MOSTRA LA LIBERTÀ E LA VOLONTARIETÀ: Non obbligare nessuno a giocare con la forza; un adeguato sostegno può promuovere la disponibilità al gioco e la motivazione dei partecipanti. 4. IL PROCESSO È PIÙ IMPORTANTE DEL PRODOTTO: Non il risultato è importante, ma il processo per ottenerlo, così come sono importanti la gioia e le difficoltà sperimentate per ottenerlo. 5. IL GIOCO COME SECONDA VERITÀ “PENSATA”: Le conseguenze dell’agire nel gioco non accadono veramente; in questo modo possiamo testare nel gioco diverse situazioni umane. 6. LA COMUNIONE E L’INCONTRO SI REALIZZANO: 59 Il contatto con gli altri giocatori crea relazioni; piuttosto che un’azione individuale, si favorisce un agire collettivo. 7. TUTTA LA PERSONA È COINVOLTA: Tutti i sensi dell’uomo (sentimento, agire, ragionamento, ecc.) possono essere coinvolti e contribuire ad una qualità di vita più alta. 8. SI REALIZZANO APPRENDIMENTI COGNITIVI E DEL VIVERE SOCIALE: Nel gioco vengono messi alla prova comportamenti positivi e proposti alla vita quotidiana: assumersi responsabilità, risolvere conflitti, comunicare e cooperare, incoraggiare, ascoltare per imparare ecc. 9. PROMUOVERE IL BAMBINO “INTERIORE”: Spesso tornano alla luce competenze possedute nell’infanzia ed andate perdute, come la spontaneità, l’immaginazione, la curiosità, la spensieratezza. 10. VALORIZZAZIONE DELLA VITA QUOTIDIANA: Giocare insieme significa vivere insieme; condividere le “regole del gioco” può produrre positive linee di vita.1 Giocando con gruppi di diverse età: Giocando con diversi gruppi conviene rispettare le loro esigenze e le capacità secondo l’età. Così i giochi arrivano, piacciono e si realizza lo scopo previsto. Occorre conoscere bene il mondo dei bambini, i loro interessi, il loro linguaggio, ecc. Nel seguente schema, alcuni aiuti generali, che dipendono sempre dalla situazione e gruppo. Bambini: 5-7 anni Esigenze: bisogno di muoversi; hanno un’attenzione molto breve; bisogno di sicurezza e sostegno. Utile per i giochi: - Spiegare le regole in modo breve e semplice; - trovare un aggancio fra i bambini e il materiale (per esempio giochi per due, fare un cerchio con le mani, agganciarsi alla corda o al paracadute, mettere i piedi su una linea ecc.); U. Baer / J. Schilling, “Cos’è il gioco?”, in Gruppi e gioco, Nr. 4, 1990, p. 13. 1 60 - una serie di giochi: con un tema, una storia (lo zoo, il circo, fare una gita); - tante storielle, disegni ecc. Bambini: 7-10 anni Esigenze:Sviluppare le loro capacità e talenti; fare esperienze di gruppo;risolvere diversi compiti. Utile per i giochi: - giochi di teatro, sketch ecc.; - attività nella natura: caccia al tesoro, giochi di avventura; - usare materiali belli: palloncini, palle colorate, giochi da circo. Il ruolo del moderatore nel gioco: Per spiegare bene i giochi ai diversi gruppi servono diversi punti. - passione: trasmettere una gioia per il gioco; - competenza: conoscere giochi di diversi tipi; - trovare il gioco giusto per il momento: conoscere le esigenze, interessi del gruppo e dare a loro una sfida adatta; prepararsi bene: avere giochi di riserva per cambiare se è il caso; stare attento alla sicurezza: psicologicamente/fisicamente; creare una bella storiella: invece di spiegare tecnicamente le regole; avere il linguaggio adatto: per esempio con una voce giusta per bambini, non usare la parola “gioco” con teenager; mostrare chiarezza e sicurezza: all’inizio avere in mano tutto molto chiaro e stretto, pian piano coinvolgere le persone, prendere dentro le loro idee, dare la possibilità di scegliere. Quattro passi per spiegare bene un gioco 1. Dire le regole brevemente e chiaramente; 2. fare una dimostrazione: “Un’immagine dice più di 1000 parole”; 3. giocare; 4. cambiare le regole, se è necessario (per esempio: la grandezza del campo di gioco, il modo di muoversi, cambiare le squadre). * Dr. Alois Hechenberger / Innsbruck, Austria / www.teamtime.net, oppure: www.sports4peace.net 61 29 dicembre I gen 4 in famiglia L’evangelizzazione dei figli (Chiara Lubich: Vaticano 2000, introduzione di Annamaria e Danilo Zanzucchi) Autostima e resilienza, educazione al difficile e rispetto delle regole, la religiosità del bambino ed il significato del simbolo (Ezio Aceti) Dialogo (Ezio Aceti con gli assistenti) Sinergie educative tra l’assistente gen 4 e la famiglia (Anna e Alberto Friso) Testimonianze di famiglie (Gabriella e Alberto Lo Presti, Katarina e Cyril Jancisin) 62 L’evangelizzazione dei figli Anna Maria e Danilo Zanzucchi Anna Maria: Ecco, siamo contenti di essere qui perché se c’era una preferenza in Chiara, era proprio per i gen 4, perché vedeva il futuro. Infatti i nostri figli sono nati tutti nei primi anni che noi conoscevamo l’Ideale. Danilo l’ha conosciuto prima che ci sposassimo, e subito dopo l’ho conosciuto anch’io, poi siamo venuti subito a Roma, per cui Chiara ha seguito la nascita dei bambini. Allora non si chiamavano gen 4, ma i popetti e le popette. I nostri ricordi vanno alle Mariapoli1 di Fiera di Primiero. Sono state speciali! La macchina di Chiara era sempre piena di bambini piccoli, proprio di gen 4! A volte li portava a casa sua, nel giardino. Li ha amati molto, lei sapeva farsi uno con loro in maniera naturale, non si vedeva nessuno sforzo. Era una cosa bella, loro stavano bene con Chiara e tutti volevano andare con lei. Chiara faceva anche dei colloqui con loro. Una volta una delle nostre figlie le ha chiesto un colloquio, ma poi non si ricordava neanche più perché, aveva quattro anni e mezzo, ma invece Chiara se lo ricordava. Allora l’ha chiamata. Questa bambina si è seduta con le gambette che non arrivavano neanche a terra e Chiara le ha detto: «Dimmi Chiaretta, cosa vuoi dire» e Chiaretta «Dimmi tu Chiara», cioè aveva solo voglia di parlare con Chiara, di stare con Chiara e si è trovata il suo modo. È stata una cosa molto bella per i bambini, gioiosa ma anche impegnativa. Quando hanno incominciato a trovarsi con i popetti e le popette è stata una cosa impegnativa perché Chiara li prendeva sul serio subito. La nostra vita allora, non era come adesso, eravamo così concentrati in quest’Ideale che era nuovo, tutto nuovo che, anche se vivevamo nel mondo con la nostra famiglia, con la professione di Danilo e tante cose, eravamo molto concentrati in Chiara, in quello che lei sentiva. Pensate che il telefono costava moltissimo e perciò venivano gli aggiornamenti con il treno che passava dalla nostra città. Noi andavamo nella stazione a prenderli. Si viveva 1 I primi convegni estivi dei Focolari, che poi vennero chiamati Mariapoli (città di Maria), si svolsero sulle Dolomiti e duravano tutta l’estate. Nel 1959 raggiunsero il numero di diecimila. 63 una vita, come posso dire, attraente, e adesso, c’è bisogno che riusciamo a vivere ugualmente, perché Dio è attraente, dobbiamo proprio renderlo attraente per i nostri bambini, per i nostri figli. Noi abbiamo 12 nipoti, alcuni sono grandi, ma alcuni sono ancora piccoletti dell’età gen 4. E vedo che è sempre così, non cambia, vedo che dobbiamo essere attraenti, non nella gioia come dire, posticcia, ma nella gioia vera, quella che viene da Gesù Abbandonato. Voi siete davanti ai gen 4, e alcuni di loro hanno i genitori che vivono l’Ideale2, alcuni no, perciò le situazioni sono diverse, e i bambini vanno amati uno per uno. Certo sarebbe una cosa importante che i genitori conoscessero pure l’Ideale, ma non è sempre possibile. Abbiamo fatto l’esperienza di quanto Chiara ha amato i nostri figli fin da piccoletti. Chiara aveva tanto il senso del compito che Dio le ha dato rispetto a tutti, quindi cominciando dai bambini. Contemporaneamente lasciava libere le persone. In modo che loro stessi sentissero di fare i passi. Lei aiutava dall’esterno, ma non imponeva, mai. Questo non imporre, ma proporre è stato uno degli atteggiamenti di Chiara che ha conquistato tutti, soprattutto i bambini. Erano attiratissimi da Chiara per questo modo suo di proporre e non imporre. Poi Chiara aveva una cosa: sapeva farsi uno in un modo unico, credo. Tutti noi abbiamo imparato un po’ a farci uno, a entrare nell’altro, però in Chiara questo era molto evidente. Era evidente perché lei viveva di Dio, quindi era vuota di se stessa, e di fronte alle persone era, come dire, aperta a quello che Dio voleva e quindi attirava tutti. Io qua avrei tanti esempi. Mi ricordo che ai primi incontri dei popetti e delle popette Chiara ha chiamato i nostri figli, per cominciare quello che sarebbe stato il primo nucleo dei centri gen 3, gen 4, ma non si chiamavano ancora così. Erano pochi, erano tre i primi, i figli delle nostre famiglie e li ha messi insieme. Lei era presente nel primo momento e dopo li ha affidati a un popo, a una popa. Però li ha guardati e li ha amati. Aveva preparato il tavolo con le matite, con le cose che potevano piacere a loro, perche erano piccoletti. E loro erano affascinati. Michele per esempio aveva sei o sette anni e l’accompagnavamo a Grottaferrata tutte le domeniche, perché lui sentiva di far parte del centro gen, per dire che fin da piccoli sono stati affascinati. Non so cosa è stato, penso che è perché non sono stati mai 2 La parola ‘Ideale’ è riferita a questa nuova luce da cui è nata la spiritualità di comunione. 64 obbligati, erano liberi. Danilo: Adesso vediamo il discorso che Chiara ha fatto il 12 ottobre del 2000. Prima io vi dico i punti, parla della sensibilità dei bambini per il soprannaturale. Noi adulti non ci crediamo, ma è così, è la verità. Io mi ricordo la prima volta che Chiaretta mi ha accompagnato alla messa, aveva cinque anni, a un certo momento mi ha interrogato: «Babbo, sai qual è l’Ideale? Ci sono dei bambini che credono che l’Ideale siano delle caramelle e cioccolatini, invece sai cos’è l’Ideale? » -Che cosa è?-, le ho chiesto, «l’Ideale è Dio», e l’ ha detto con la convinzione che era vero quello che diceva. Quindi c’è una particolare sensibilità nei bambini. Ci sono varie agenzie educative che si interessano dei bambini, la famiglia, la scuola ecc., e Chiara ha messo sempre al centro la famiglia, perché Gesù è nato in una famiglia. Dio ci ha chiamati ad essere genitori, dobbiamo guardare quindi ai nostri figli come figli di Dio. Ogni nostro figliolo ha in sé un progetto di immortalità, pensate che responsabilità! I genitori non ci pensano, ma questa è la realtà. Insieme al dono della vita, Dio prepara nella famiglia l’ambiente dove crescere ogni figlio, è un ambiente unico, non ce n’è un altro. Si vedono oggi infatti questi asili di bambini abbandonati... che dolore, a loro manca quel calore che nasce dall’amore dei due genitori. Viene da chiedersi allora, che cosa deve fare il genitore? Sono domande che Chiara si fa nel video. 1. I genitori devono fare sì che il bambino incontri Gesù! Pensate quanti genitori pensano questa cosa. Ecco i nostri impegni di genitori: vivere noi genitori per primi quella parola di Gesù “dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo ad essi”. Questa è la base dell’educazione, e questo è fondamentale perché anche i bambini avvertono la presenza di Gesù in famiglia. L’avvertono senza tante parole, ma se c’è accordo, amore, rispetto tra il papà e la mamma, si crea l’ambiente nel quale il bambino può crescere bene. 2. Alcune risposte dei bambini che Chiara cita ci fanno capire che ci può essere anche una loro unione con Dio, con Gesù. Quella risposta di Chiaretta che io ho citato prima fa pensare, 65 perché i bambini hanno un rapporto immediato con Dio, se trovano la strada aperta. 3. A questo punto del suo discorso Chiara spiega l’arte d’amare che tutti voi conoscete. 4. Un altro passo di questo discorso di Chiara: Chiara invita i genitori a far partecipi i figli del vivere il Vangelo. Questo l’abbiamo fatto anche noi, quando i bambini erano piccoli. Ci si trovava la sera e commentavamo la parola da vivere, - allora si viveva ogni giorno una parola del Vangelo - in maniera che loro potevano capire, quindi con parole che possano capire e nella certezza che Gesù parla direttamente al loro cuore. Se c’è l’atmosfera serena, tranquilla, di amore, è Gesù che parla a loro, e questo convince i bambini. Che vedano poi che i genitori vivono il Vangelo. Per esempio ci si raccontava alla sera le esperienze della parola di vita, e loro ragionavano: “Ma allora il Vangelo è vero, si può vivere”. I bambini sono portati a fare anche loro, tra di loro queste esperienze e questa è una cosa estremamente formativa. Poi arriva l’età dell’adolescenza, qui cambia il panorama e occorre tanto coraggio nei genitori, farsi uno, mai perdere la speranza che Dio può agire nei loro figlioli. Qui è importante che vedano che la famiglia non è isolata, ma che è innestata in una società più vasta. Vedono i focolarini, le focolarine, le persone che vengono a casa che vivono l’Ideale e allora trovano un ambiente nel quale è naturale che in loro maturi la loro vocazione. A noi è andata così, Chiara ci ha detto di fare così e vediamo che è la strada giusta, e che vale per tutte le nazioni. Ho visto che la vivono in Africa: mi ricordo una volta a Nairobi una focolarina giovane ci diceva che quando aveva cinque anni il suo papà e la sua mamma si scambiavano le esperienze della parola di vita. Lei è entrata poi in focolare. Così in America Latina, così abbiamo visto a Mosca e in Cina. Quindi, capite che riconoscenza abbiamo verso Chiara, che ha avuto da Dio l’idea per avviare il movimento gen 4. * Anna Maria e Danilo Zanzucchi hanno dato vita con Chiara al Movimen- to Famiglie Nuove e ne sono stati i responsabili mondiali fino al 2008. 66