33 Apprendimento nelle tappe evolutive del bambino

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33 Apprendimento nelle tappe evolutive del bambino
Apprendimento nelle tappe evolutive
del bambino
‘Come essere canali che aiutano i gen 4’
Giuseppe Milan
Innanzitutto vi saluto tantissimo e riconosco di essere emozionato
per l’incontro con ciascuno di voi in questa ricchezza di presenza
delle diversità. Sono emozionato anche per il bellissimo tema
dell’arte d’amare che abbiamo ascoltato stamattina e che per
noi può diventare l‘arte di educare’. Il sapere educare, come si
diceva prima, non è facile: ci troviamo di fronte a un compito
meraviglioso e bellissimo, perché meraviglioso, bellissimo
e impegnativo è ogni bambina, ogni bambino, ed è la sfida
bellissima alla quale siamo tutti chiamati.
Ho visto il bellissimo messaggio di Emmaus che vi dice di essere
canali che aiutino i gen 4 a diventare l’Ideale a cui ciascuno è
chiamato. Nella loro crescita ideale e umana c’è una strettissima
corrispondenza tra questa dimensione ideale e la dimensione
di umanità alla quale tutti noi siamo chiamati. Come diceva
Emmaus, la vostra è una missione, una chiamata importantissima.
Tutti dovremmo inchinarci di fronte alla grandezza del compito
dell’educazione, una missione grandissima e trasversale.
Io vi parlerò di alcune idee, di alcuni concetti che devono poi
essere trasformati in vita: saper vivere i concetti educativi.
Umilmente dobbiamo dire che cerchiamo di tradurre in parole
scientifiche nel campo della pedagogia il grande messaggio
dell’arte di amare. Io utilizzerò altri termini, altri concetti,
perché dobbiamo arricchirci anche di concetti molteplici che ci
provengono dalle scienze. Però, in fondo in fondo, umilmente,
dobbiamo riconoscere che l’Ideale è un grandissimo dono anche
per il mondo della pedagogia.
Parto dall’immagine di una statua di Bernini, importante, che
mostra Enea, che è l’adulto, che sulle proprie spalle porta il
padre Anchise e porta e trascina il piccolo bambino, il gen 4
suo figlio. Questa immagine è rappresentativa di un dialogo tra
le generazioni in cui si va avanti insieme e ciascuno ha bisogno
dell’altro. L’educatore è proprio questo adulto, capace di farsi
carico e di accompagnare. Ecco l’arte dell’accompagnare, l’arte
di essere via, in greco si diceva metodo. Il metodo è l’educatore.
Il primo passo: noi ci troviamo di fronte ad un bambino, ad
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una bambina. Il bambino, la bambina, l’esser umano, ha vissuto
all’inizio il grande abbandono, la grande separazione. Il parto, la
nascita, è stata l’esperienza cruciale di una separazione. A partire
da questa separazione il compito dell’essere umano è ritrovare
l’unità. Quindi andare dalle separazioni - e uso un termine
che si usa in psicologia - alla ‘base sicura’, alla sicurezza che
proviene, dice il grande psichiatra Erikson, dal dialogo ‘occhio
a occhio’ e quindi dallo sguardo capace di includere in una
relazione. Attraverso questo sguardo l’adulto non è più ‘extra’
(fuori, lontano) ma diventa ‘intra’. Se funziona questo sguardo,
se funziona questo dialogo, questa relazione. E il bambino non
è più solo ma ha dentro di sé la forza dell‘adulto interno’, la
forza del ‘genitore interno’, la forza dell’essere uomo, la vera
energia dell’io. Fin dall’inizio c’è questa dimensione interna, di
qualcuno che è relazione con te, che ti accompagna, e allora tu
puoi affidarti, fidarti.
La ‘fiducia di base’ è questa dimensione, questa energia affettiva,
umana, esistenziale che fa sì che l’essere umano ritrovi se stesso.
Dalla disunità all’unità, e io sono relazione, io sono questo
dialogo. Il bambino, il gen 4, la gen 4, fortunatamente può vivere
questo incontro, perché può avere il genitore interno, la famiglia
interna, ma per fortuna incontra anche un altro, l’educatore, che
diventa, per la forza di questo sguardo, l‘educatore interno’ che
gli dà forza. Allora io poi troverò anche il ‘gruppo interno’, i miei
amici che sono gli altri gen 4, interni.
Ho visto prima, rappresentati e testimoniati la socialità, il vivere
insieme, il costruire insieme: allora io ho anche la forza del
gruppo interno, del ‘noi interno’.
Io mi trovo, essere umano pur piccolo in questa
fase di costruzione, con la ricchezza dell’umanità
che comincio a diventare sempre di più, perché c’è
questa realtà educativa che non è più ‘extra’ ma
che mi diventa ‘intra’ e mi permette questo gioco,
questo dialogo.
In poche parole, questo è il segreto del percorso di cui vi
parlerò ora andando avanti. Per l’educatore è necessario passare
dall’essere base sicura protettiva, i primi tempi, per il bambino
piccolo (ma questo continuerà sempre perché anche noi adulti
abbiamo bisogno di protezione), all’essere base sicura guidante e
orientante. Il compito dell’educatore: guidare e orientare, andare
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‘verso l’oriente’, lanciare. Dal contenere, che è l’abbraccio, al
lanciare, al lanciare fuori. Alcuni dicono che la mamma contiene
e che il papà lancia il bebè, ma
questo è il compito dell’educatore:
contenere e lanciare.
Ma è il compito di ciascuno: le mamme e i papà, contenere (la
protezione e la fiducia) ma poi lanciare: l’autonomia. Perché tu
devi diventare un essere umano aperto al mondo, alla vita, al
dialogo. Quindi Piaget, uno dei padri della psicologia infantile,
diceva: “Allargare lo spazio di libero movimento”1, movimento
fisico ma soprattutto movimento affettivo, emotivo, esistenziale.
Tu sei importante, tu sei OK!
Ecco il messaggio che deve passare a ciascuno,
ciascuno con la sua bellissima differenza.
Prima Luisa diceva: siamo uguali ma siamo ciascuno differente.
L’educazione è dire a ciascuno: Tu sei unico, tu sei OK! Col tuo
nome, il tuo cognome, la tua situazione, il tuo popolo, il tuo
luogo. E attraverso questo aiutare i fattori protettivi che danno
forza che danno protezione, che aiutano a crescere.
In sintesi i fattori protettivi sono:
l’autocontrollo
aiutare ciascuno ad avere padronanza di se stesso, delle proprie
emozioni, dei propri impulsi, della propria aggressività (che è
un’energia anche positiva). I bambini cominciano attraverso il
lavorio dell’educazione a diventare capaci di una padronanza,
piano piano, “io sono padrone di me stesso”, mi controllo. A volte
quelli che chiamiamo i ‘capricci dei bambini’ sono delle richieste
di aiuto per dire: fino a dove posso arrivare? E allora tu adulto,
con la tua regola, lo aiuti.
E’ difficile, ci vuole tanto tempo per giungere a questa padronanza
di sé a cui l’esser umano è chiamato fin da piccolo, a piccoli passi.
Quindi l’autocontrollo. Poi
l’autostima
io sono OK, io sono in gamba, come si dice, perché ho qualcuno
che mi dice: ‘Tu sei importante’; qualcuno che conferma che
1
J. Piaget, La psicologia del bambino, Einaudi, Milano, 2001.
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tu, con tutti i limiti che hai, e che ciascun bambino ha, tu sei
importante: tu in ogni caso. L’altro indice protettivo e di crescita
sono le relazioni interpersonali e sociali di cui abbiamo già parlato:
mi trovo bene con loro, loro si trovano bene con me. Questo lo
imparo fin dai primissimi tempi. Il bambino è già un competente
nell’incontro con l’altro. Ci sono delle ricerche che mettono in
evidenza la socialità del bambino, ad esempio una si intitola “Il
buon samaritano a due anni”, perché il bambino è altruista, il
bambino si fa contagiare dal problema, dalla sofferenza altrui. Ha
questa dimensione, però deve essere abituato a questa socialità.
Aspettative ottimistiche: ce la farò? Progetto (vuol dire gettarsi
avanti). L’educatore deve aiutare il bambino a lanciarsi anche con
questa speranza perché molte volte i bambini si tirano indietro,
come noi adulti che spesso ci ritiriamo, ci chiudiamo, ci inibiamo,
blocchiamo le nostre energie perché forse non abbiamo questo
ok da altri. Allora l’ok deve dare anche aspettative ottimistiche e
la capacità e l’energia di andare oltre, di sconfinarsi e di andare
incontro al mondo. Accennerò ora ad
alcune ‘parole chiave’,
alcune dimensioni necessarie per fare questo accompagnamento,
per aiutarci in questo ‘essere canale’, via per questo percorso
educativo, in ogni ambito: famiglia, scuola, gen 4.
Si tratta di competenze fondamentali dell’educatore: io ho
preparato dieci ‘parole chiave’ che riguardano la relazione
dell’educatore con il bambino, con ciascun bambino, con ciascuna
bambina. Competenze da mettere in atto, forse “l’arte di amare”
detta con altre parole.
1) L’educazione è ‘tensione’ all’Utopia
l’intenzionalità di essere amore
Comincio con la prima: Intenzionalità.
L’educazione è una “tensione a”, è in tensione verso un qualcosa
di grande, io ho messo questa parola, Utopia. Una parola strana
che però non è un sogno irrealizzabile. L’utopia è un’isola che non
c’è ora ma che può e deve esserci, che si può raggiungere. Quindi
l’educazione è anche un andare verso un’utopia. Ogni bambino
ha un’utopia nascosta, il suo dovere essere, le sue potenzialità
che devono venir fuori. Io devo cogliere quell’isola che ancora
non c’è ma che c’è già presente e farla diventare, avendo questo
desiderio (desiderio viene dal Latino: de-sidera, dalle stelle). E’
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qualcosa di grande, qualcosa di alto, quindi bussola: orientare la
nostra azione. Oggi, come si dice, c’è un’emergenza, un problema,
l’assenza di desiderio, spesso l’assenza di volontà. Chiara: lei
ci parla dell’utopia-realtà anche nel suo tema a Washington
sull’educazione. L’utopia è l’unità da costruire anche con il
bambino, anche con i bambini tra di loro perché noi li aiutiamo a
questo e lo si fa vivendo la Volontà di Dio, l’intenzionalità di essere
amore e di costruire, qui ci vuole l’intenzionalità. L’educatore è
uno specialista in intenzionalità, non vive banalmente, vuole,
desidera, ha un’intenzione profonda di educare.
2) Problematicità: l’educatore è specialista
in ricerca, non ci sono ricette
Passo alla seconda parola. Problematicità: questa è strana, ma
c’è una bellissima - per fortuna - insicurezza dell’educatore. Noi
non abbiamo un sistema di regole belle e fatte, c’è un rischio
dell’educazione ‘ricetta’. Tutto precostituito, tutto bello e fatto, no!
Sbaglieremmo molto, non cercate esperti che vi diano le soluzioni,
cerchiamo invece di essere noi stessi, umilmente (l’umiltà è una
forza dell’educazione) ricerca, perché la situazione di ognuno
è unica, ogni bambino, ogni bambina è unica, le famiglie sono
diverse, i contesti sono diversi. L’educatore, di fronte al bisogno
educativo, deve avere il ventaglio di scelte e guardarle, cercare,
cercarsi, cercare insieme e umilmente trovare una decisione, ma
nasce da questa problematicità: è un problema, bellissimo, che
mi sfida. Non ho le ricette belle e fatte. Allora l’educatore è uno
specialista in ricerca tra di noi. Oggi molto spesso i nostri bambini
e bambine hanno molte risposte belle e fatte e sono poco abituati
ad avere domande e a cercare insieme. Noi stessi dobbiamo essere
domanda, chiedere e abituarci più a chiedere che a dare risposte
belle e fatte. Quindi ho messo quella figurina dell’essere umano
che ha tante vie e deve cercare di capire dove va.
3) Educatore: specialista in responsabilità
Chiara: dà-chiede responsabilità.
Terza parola, e cito il messaggio di Emmaus di ieri bellissimo: la
Responsabilità.
È una parola grande: responsabilità, ‘abilità di risposta’, la parola
stessa. Ogni bambino è un appello, l’educatore deve essere risposta.
Non dare risposte, ma ‘essere risposta’, è diverso! Ma anche dare
risposte. L’esser umano adulto allora è un responsabile. L’adulto
è un responsabile, lo dice un grande filosofo, Paul Ricoeur:
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‘L’uomo è responsabile’: se non vive la responsabilità tradisce,
tradisce la sua essenza. Questo vale per l’educatore soprattutto
con il bambino piccolo, la bambina piccola. Jonas, un importante
pensatore, diceva: “Il bambino è il segno della responsabilità.”2
L’adulto deve esser responsabile perché l’utopia del bambino può
emergere soltanto se c’è qualcuno capace di questo nutrimento
non solo fisico ma affettivo, educativo e allora la vita emerge, la
sua utopia emerge, perché c’è questa abilità di risposta. Jonas
diceva che “però c’è tanta negligenza.” E’ una parola strana che
dal Latino vuol dire: negare, vuol dire, dire no, non ci sono, tu non
ci sei. La responsabilità è: sì ti rispondo, perché tu sei appello.
L’educatore allora è uno specialista in responsabilità. Chiara, lo
sappiamo, dà responsabilità, chiede responsabilità. Noi abbiamo
il compito di essere risposta a questa missione.
4) Emergenza ‘dialogo’
Chiara: Maestra del dialogo
Un’altra parola uscita anche prima dal tema di Chiara è Reciprocità.
In realtà dal latino: recus- procus, vuol dire avanti e indietro. Quindi
reciprocità è l’andata e il ritorno della relazione educativa con il
bambino, con la bambina. Quindi si parla di asimmetria, è una
parola difficile. Non c’è un’uguaglianza all’inizio, c’è qualcuno che
deve partire per primo ad essere proposta, guida, però chiedendo
immediatamente il feed-back, la risposta, dando parola, dando
potere, dando iniziativa, dando progetti. Ecco allora che si entra
nella reciprocità, quando si assegna un compito importante,
e si educa lui o lei a vivere comunque pure la reciprocità. In
educazione ci sono stati dei grandi pedagogisti, cito don Milani in
Italia e Paulo Freire in Brasile, che hanno criticato l’educazione a
‘imbuto’ (l’imbuto è quello strumento attraverso il quale si versa
dall’alto una materia in un contenitore che deve essere vuoto).
L’educazione non deve essere imbuto, l’educazione deve essere
dialogo, reciprocità e Chiara è maestra del dialogo, maestra di
reciprocità, di ascolto, di parola e di responsabilizzazione. Questa
è la reciprocità: Dostoevskij, il grande scrittore russo, diceva: “I
figli diventeranno padri dei loro padri.” Perché l’adulto se dà
questo potere, questa abilità fa sì che lui, lei, a partire dall’inizio
diventino adulti, capaci di diventare padri e madri perfino dei
loro genitori perché poi l’asimmetria si capovolge.
2
H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Milano 2009.
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5) Creatività.
No alle progettazioni-gabbia
…emergenza relazione creativa
L’educazione non ha la legge della ripetizione, della ripetitività,
quello è un tradire l’educazione. Invece c’è la legge della creatività,
lo spazio dell’imprevisto. Il bambino, la bambina, soprattutto
in questi anni è creatività, spontaneità, fantasia: il bambino è
creatività, questa è un’equazione. Se noi non valorizziamo questa
creatività facendo in modo che siano loro, con le loro mani ad
essere creativi, realizzando un contesto che faciliti la creatività, se
non facciamo questo tradiamo il bambino, la bambina. Potremmo
avere tante parole, tanti progetti ma sono spesso progetti che io
chiamo ‘gabbia’, che chiudono e magari impediscono la creatività.
Allora saper amare, saper educare, saper fare che il bambino
sia quella creatività a cui Dio l’ha chiamato. Dio ha fatto l’essere
umano a propria immagine e somiglianza, il bambino è la più
grande rappresentazione di questa creatività che è la somiglianza
a Dio che crea e costruisce dal nulla.
Quindi l’emergenza è una relazione creativa. Chiediamoci:
aiutiamo la creatività dei bambini? Chiara, lo sappiamo, maestra
di creatività nelle relazioni, ci ha aiutato ad essere creativi nelle
relazioni, persino nella relazione educativa; da Chiara noi, che
siamo educatori, abbiamo avuto il segreto di essere creativi in
questa nostra missione.
6) Temporalità
Ciò che succede, anche tra di noi, anche nei nostri incontri con i
gen 4 e le gen 4, lascia un segno, tutto lascia un segno. In Psicologia
pragmatica si dice: tutto comunica, non si può non comunicare,
tutto lascia un segno, lascia una traccia: non è come l’aereo che
passa in cielo, c’è una traccia che poi si cancella immediatamente,
no! Nell’educazione tutto lascia un segno. Quindi è necessario dare
importanza al tempo, che è il luogo, lo spazio in cui noi lasciamo
delle tracce. Quindi dare importanza al tempo dell’educazione,
anche questo è arte d’amare. Traduciamo Chiara: vivere l’attimo
presente, è un segreto dell’educazione, vivere l’attimo presente
perché è importante, perché comunica al bambino, alla bambina
attraverso quello sguardo e quel fare ‘tu sei importante’, oppure
comunica il contrario, quando non lo si vive bene si comunica
il contrario. Valorizzare il passato, la propria storia, il proprio
percorso, le proprie esperienze. È già passato, ricordare (dare
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continuamente al cuore), aiutare i bambini a mettere in cuore
ciò che si è vissuto: il cuore si arricchisce. Il tuo genitore, la tua
famiglia, il tuo gruppo, la storia dell’Ideale, rimettere in cuore
perché altrimenti siamo sradicati e l’esser umano ha bisogno di
essere anche radicato nella sua storia che insegna, che dice tante
cose. Il futuro, ecco il tempo. Progettare, amare il futuro, essendo
progetto, buttandoci oltre. Guardiamo al futuro che non deve
essere il luogo della paura, come spesso oggi succede, ma della
speranza (la speranza è una virtù del tempo).
Quindi nell’educazione è importante, l’educatore è uno che
organizza il futuro, pianifica il tempo e fa passare questo ai
bambini piccoli, che hanno soprattutto il presente. Li fa entrare
anche nel campo dell’impegno per costruire, seppur piccolo,
qualcosa insieme. Si entra nel progetto del futuro. L’esser
umano è uno che ama anche il futuro, altrimenti perde tanto di
importante.
L’arte dell’educatore, in rapporto al tempo, è anche la Continuità.
E’ uno dei grandi problemi dell’educazione oggi. Ci sono a
volte fasi educative, come dire, a strappi. Bisogna riuscire a
dare continuità. La frequenza, la presenza, ripetere, ritrovarsi,
ricordare, e questo con la dimensione della continuità che è il
tempo. E anche saper attendere.
Un’altra virtù con i bambini è la pazienza. Oggi molto spesso
per la nostra vita si è impazienti, si ha una frenesia che però
nega il tempo del bambino e della bambina che ha bisogno di
pazienza. Un grande della storia della pedagogia, Rousseau,
diceva: “Perdere tempo, in realtà per guadagnarlo”, perché allora
si aiuta il bambino, per esempio, ad essere creativo.
Senza forzare in maniera artificiosa: molti bambini sono iper
forzati, e alla fine, forse, avranno dei problemi, saranno adulti
prima e avranno perso l’infanzia. Adulti senza infanzia sono
molto spesso adulti infelici o adulti a volte patologici, quindi è
una questione importante. Bauman, questo grande pensatore
contemporaneo che forse conoscete, dice: “Oggi noi, tra di
noi, anche nel mondo educativo, rischiamo di essere coloro che
pattinano sul ghiaccio sottile, perché non abbiamo a volte, i valori
di fondo” 3, di fondamento. C’è un terreno fragile, per stare a galla
dobbiamo correre, abbiamo l’incapacità di sostare, di fermarci.
Quindi c’è un’emergenza di fedeltà, vuol dire stare in un patto.
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone,
Laterza, Roma-Bari, 2001.
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L’educazione è un patto con questo bambino, con questa bambina,
capacità di stare e di fermarsi nell’incontro con lei o lui, che ha
bisogno di questa profondità e di questo tempo vissuto in questo
modo.
Perciò l’educatore (sto parlando degli assistenti e delle assistenti
gen 4) è specialista nell’uso ideale del tempo. Chiara è una
maestra nel vivere intensamente, pensate in poco tempo cosa è
successo a Trento e cosa è successo nel mondo in poco tempo
e cosa sta succedendo adesso perché, nel nostro caso Chiara e i
suoi compagni e le sue compagne hanno saputo vivere il tempo
con questa intensità di amore che lascia il segno che educa. Per
cui il momento, come si diceva nel tema di Chiara, è una grande
esperienza educativa.
7) Socialità
L’essere uomo, è chiamato ad essere noi a sentirsi noi. L’unità
nella diversità. Un bellissimo proverbio africano, nigeriano,
dice: “Per far crescere un bambino ci vuole un villaggio”. Per far
crescere una gen 3, un gen 4, ciascuno di noi, abbiamo bisogno
del villaggio, della polis, della città, del noi, della comunità.
Quindi l’educatore che sollecita la vita di gruppo è un esperto
del ‘noi’, perché lo vive in primo luogo lui evidentemente. Tutto
passa attraverso l’esempio e quindi gli amici coetanei, il gruppo
interno, i gen 4 interni. Il bambino vive, la bambina vive di questa
energia fin dall’inizio. Molti però tra bambini e bambine, lo
sappiamo, oggi sono soli, dimenticati, abbandonati. L’educazione
alla socialità non la si costruisce con la bacchetta magica, ma ha
bisogno di tempo, di esperienze e di luoghi di spazi e di persone
che aiutano. Questa esperienza molti la perdono; poi diventerà
comunità, intercultura (butto delle parole grandi ma si parte da lì,
si parte dalla’educatore interno, non si improvvisa) a quell’età lì,
l’educazione interculturale tra bambini diversi, come siamo tutti,
anche di origini culturali diverse abitua alla molteplicità nel gioco
bellissimo dell’unità.
Si tratta perciò di costruire solidarietà: vuol dire relazioni solide;
Bauman diceva ”fragilità oggi”. 4 La rivoluzione è invece: costruire
relazioni solide fin dall’inizio con la forza dell’incontro, del
dialogo. Il problema è l’individualismo a tanti livelli.
4
Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004.
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8) Sistemicità
Un’altra parola un po’ difficile però che diventa, secondo me,
facilissima, perché stiamo parlando di rete. Il sistema sono le
reti delle diversità che creano alleanze. Una grande studiosa
francese, Francoise Dolto diceva: “Il bambino nella sua crescita,
poi l’adolescente, l’essere umano, è spesso un ‘acrobata senza
rete’ ”.5 Pensate ai trapezisti che al circo fanno i loro virtuosismi.
La sicurezza proviene dalla rete sottostante. È la metafora del
nostro lavoro per creare legami con la famiglia, con il territorio,
con altri soggetti presenti e costruire il tessuto. Il tessuto è una
rete, tessuto comunitario, tessuto educativo, quindi l’educatore,
l’assistente è un costruttore di rete. Promuovere rete, alleanze
educative, linking-agent, è un termine che si usa anche in scienze
pedagogiche e della psicologia. Linking-agent, vuol dire essere
agenti di rete, di alleanze educative.
Il rischio oggi è la frammentazione ‘senza reti’. Anche i nostri
gruppi possono essere bellissimi, ma se viviamo solo la
dimensione “intra”, senza la rete con altri, poi perdiamo tutto.
L’educazione è anche un costruire rete, tessuto. Chiara, maestra
di socialità, di sistematicità, pensate al dialogo tra le generazioni,
pensate all’ecumenismo, ha costruito sempre reti. Il giornale
Città Nuova all’inizio si chiamava ‘La Rete’, ed essere maestri di
rete è importantissimo, non è estranea al dialogo con il bambino.
Il compito dell’educatore è costruire quel tessuto che fa in modo
che, i bambini siano poi in un sistema di relazioni a tessuto, che
creano lo sfondo comunitario che poi diventa educativo.
9) Verticalità
Nei libri di pedagogia non trovo quasi mai questa parola. L’ho
inserita anche nei miei testi per i miei studenti perché credo che
nell’educazione siano importanti la dimensione dell’altezza e
della profondità. La verticalità è la dimensione che va in altezza
(pensate alla spiritualità, ai valori più alti di noi) e in profondità:
l’interiorità. Molto spesso oggi viviamo un ‘terra-terra’, una
superficialità, oppure giustamente valorizziamo i ponti, le
relazioni, ma a volte si dimentica l’altra dimensione. Allora io uso,
se possibile, la ‘metafora del ponte’ importantissima, ma anche
la ‘metafora della scala’: educatore specialista in spiritualità ed
interiorità. Le cose alte: i bambini, (voi li conoscete meglio di
me) hanno il senso della magia, delle altezze e delle profondità
5
F. Dolto, Adolescenza, Mondadori, Milano, 2001.
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e hanno bisogno non di banalizzare la loro giornata con cose
piccole e banali ma hanno bisogno di qualcuno che si riferisca
sempre a qualcosa di alto e di profondo. Si innesta nel percorso
esistenziale di ciascuno il senso che io non sono solo questa
figura chiusa, ma io sono ‘oltrepassamento’ in altezza, questo
termine lo usava Nietzsche, e ‘oltrepassamento’ in profondità,
aprendo sempre squarci nuovi di umanità in me.
Chiara maestra di verticalità, lo possiamo tutti testimoniare.
Ultima parola, perché ho usato una specie di decalogo (10 parole
pedagogiche):
10) Testimonianza
Cosa vuol dire testimonianza? La parola è italiana, ma penso che
l’abbiate anche in altre lingue. A volte si può tradurre ‘portatore
di testo’. Il testimone porta un testo, un testo che ha dentro le
parole belle, il discorso bello è (torno a quello che si diceva prima
dell’esperienza) però un testo che viene vissuto, un testo che
viene confermato dalla vita: ecco il testimone, colui che diventa
credibile. L’educatore, l’assistente è credibile perché ha un
discorso e parla e a volte non parla, però passano lo stesso delle
parole forti perché la vita, è il portatore, l’agire con coerenza.
Platone diceva, e faccio un riferimento antichissimo: l’educatore
è colui che “sa scrivere nell’anima” sul bello, sul vero e sul bene.
Ma lui diceva, sa scrivere perché ha un discorso, un testo. Poi
diceva ai suoi “ma l’avete voi un testo”? E metteva in crisi perché
il testo e le parole - diceva Platone - sono “come figli” cioè non
nascono facilmente. Le parole non sono facili, le parole autentiche
passano attraverso il parto della vita, del vivere, allora lasciano
un segno cioè insegnano.
Quindi l’educazione è questa bellissima ‘lotta’, passi questa
parola, in cui si lasciano delle ferite bellissime che sono i segni
dell’incontro.
Per me un’immagine bellissima di questo incontro, per tutte le
età ma in particolare per i bambini, è l’incontro-lotta di Giacobbe,
narrato nella Bibbia: di notte, nell’oscurità, nell’insicurezza
(Giacobbe era un ‘senza nome’, un senza identità, chiedeva
l’identità anche per il suo popolo). Di notte c’è una lotta,
meravigliosa e inquietante, con un angelo. Però l’angelo era Dio e
alla fine di questa lotta, che dura tutta la notte, all’alba, Dio, che
è il più grande (come l’educatore) si fa vincere e dà a Giacobbe la
parola, il nome Israele. Gli ha dato un nome che poi è diventato
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il nome del popolo. E ha avuto questa eredità, il più grande si
è fatto vincere, ma in realtà è stato un atto d’amore vincente.
Giacobbe però si è ritrovato con una ferita, un segno: zoppicava.
Il segno che si porta tutta la vita in ricordo di un incontro che c’è
stato, di un incontro autorevole, (l’autorevolezza) perché l’altro è
stato ‘autore’ di qualcosa che ha lasciato un segno.
Questa è l’educazione, ma questo lo si fa ‘essendo testimoni’,
portatori di un testo credibile che lascia dei segni.
Chiara è maestra di testimonianza, lo sappiamo. L’ha mostrato
con la parola, con parole sempre confermate dalla vita già vissuta
prima. Quindi la testimonianza che diventa di per sé stessa
educativa.
In psicologia - dicono gli studiosi dell’apprendimento dell’infanzia
- l’apprendimento fondamentale avviene perché si vede qualcosa
che qualcuno vive. Allora c’è 1) una memoria pragmatica, dicono
gli studiosi, 2) una memoria episodica di ciò che vedo vissuto,
molto più importante della 3) memoria semantica o della memoria
delle parole sentite. Questo insegna di più. Ecco la testimonianza.
Ho dato alcune parole così in punta di piedi perché sono
parole importantissime che vanno vissute, possono essere la
strumentazione fondamentale del nostro essere educatori. Sono
tradotte in parole povere, forse, in parole pedagogiche: l’arte di
amare di Chiara detta in parole povere in ambito pedagogico, in
ambito educativo.
* Giuseppe Milan è Professore ordinario di Pedagogia interculturale e
sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione e del Centro
Interdipartimentale di Pedagogia dell’Infanzia dell’Università di Padova.
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Giuseppe Milan: dialogo con i/le
assistenti
Assistente: Abbiamo tanto materiale per gli incontri gen 4 e mi
veniva la paura di cadere in quell’educazione a imbuto, per cui
vorresti mettere dentro in un incontro gen 4 tutte le ultime novità.
La domanda che si collega a questo tentativo nostro di adattare
invece il programma alle loro necessità è: come distinguere
il loro voler “mettersi in mostra”, da un programma che nasce
e si evolve con Gesù in mezzo? Come fermarle quando la loro
proposta diventa un loro capriccio?
Giuseppe Milan: innanzi tutto sbaglierei se pretendessi di dare
delle ricette. Riflettiamo insieme: è vero che oggi nel nostro
contesto c’è spesso un bombardamento di sollecitazioni. Tante
volte noi adulti abbiamo l’abuso della quantità di cose: giocattoli,
informazioni, la tv. Il bambino vive spesso il bombardamento
eccessivo di cose e di messaggi e anche noi rischiamo forse di
imporre tante o troppe cose.
Noi dobbiamo avere l’intelligenza educativa di
riuscire a far passare l’essenziale,
ciò che è fondamentale.
In realtà anche per Chiara l’essenziale è l’arte d’amare e lei dà
alcuni punti. Anche noi per la pedagogia, forse traducendo questo
essenziale, diamo qualche punto. È importante aiutarci ad avere
l’intelligenza dell’essenziale e saper dare con giusto dosaggio,
saper chiedere con un giusto dosaggio al bambino, alla bambina,
quelle piccole cose che sono perle preziose. È importante che noi
stessi siamo capaci di discernere tra l’essenziale e la materialità
dominante che è meglio accantonare e sapere che molti bambini
e molte bambine oggi, come dicono diverse ricerche, hanno
una specie di paralisi cognitiva e affettiva perché sono inibiti,
bombardarti da una grande molteplicità di cose alle quali non
sono in grado di corrispondere, per cui in realtà sono costretti a
una passività, a una paralisi.
Invece nell’educazione sono essenziali piccole cose, il nutrimento
essenziale di cui ciascuno ha bisogno. Forse anche noi a volte
abusiamo di questo eccesso, no?
I bambini che si mettono in mostra… tutti noi abbiamo il
desiderio di essere nel palcoscenico ed è giusto, importantissimo,
perché ciascuno è un attore, lo dice anche Chiara: ciascuno deve
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essere attore e responsabile. I bambini in primo luogo hanno
questo diritto. Ciascuno è attore in un contesto a cui dobbiamo
educarci, che è uno scenario condiviso, dove c’è la socialità, dove
c’è il noi. Il modo più bello per far placare questo io che a volte
si onnipotentizza è quello di costruire insieme la dimensione del
noi.
Rendere ciascuno, piano piano, anche se sono bambini piccoli,
responsabile, non del proprio io solo, ma responsabile della
conduzione condivisa del gruppo, dando dei piccoli incarichi e
facendo capire che ciascuno è importante nel gioco, delle parti in
un palcoscenico in cui ciascuno è attore di uno scenario condiviso.
Questo rischia di essere una ricetta, invece ci vuole l’intelligenza
dell’educatore che ama l’io, ma che sa che l’io autentico è l’iotu, l’io-noi dell’unità e della molteplicità. È importante far leva
sul desiderio di esserci dei bambini, di essere accolti per poi, nel
cammino dell’educazione, trasformare questo in una dimensione
di socialità condivisa.
Assistente: Quando abbiamo fatto fare per la prima volta ai
bambini l’esperienza di costruire e offrire i Gesù-Bambini, mi
sono accorta che quando la gente diceva a loro che non volevano
comprarlo, loro andavano giù! Ho pensato, come prepararli per
questi momenti? Allora li abbiamo preparati, dicendo che il
cestino col Gesù bambino non è troppo importante, ma il vero
Gesù che possiamo dare alla gente lo possiamo dare da cuore a
cuore. Allora loro avevano un altro atteggiamento. Ma una di loro
era ancora un po’ giù. Le ho detto di guardarsi allo specchio, e le
ho fatto vedere che il suo sorriso, il suo sguardo è importante, è
quello che veramente dà Gesù. Lei ha preso coraggio, se n’è andata
ed è tornata gridando: “È vero, è vero! Ho detto a un uomo, se lo
voleva comprare e lui ha detto di no. Dopo gli ho detto: questo è
per i poveri! E lui si è interessato, mi ha fatto un paio di domande,
di come facciamo le statuine e dopo mi ha detto: te lo compro
per la tua bella faccetta”. Quindi per lei è stata la risposta!
Assistente: Ci sembra anche importante educarli spesse volte al
difficile, ad esempio un bambino magari perde al gioco e non
gioca più o dice quel gioco non mi piace, non partecipo. Tante
volte devi stargli vicino, aiutarlo a superare le difficoltà. Ci dai
qualche suggerimento?
Giuseppe Milan: Il Tema è la motivazione, motivare vuol dire
muovere, “provocare un movimento”. Molti bambini rischiano di
fermarsi. Nell’esperienza di Gesù bambino c’è una motivazione
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bellissima perché, non so se è pertinente quello che dico, come
nel sacramento, c’è un segno, però internamente c’è un significato
molto più profondo. Anche nella statuetta del bambino Gesù c’è
quel segno, c’è quella materia, quella realtà, però il significato
profondo è che c’è stato un amore nei bambini nel costruirlo, e
che questo può diventare un sorriso che dà senso a quello. La
bambina l’ha capito, ha capito la forza di quel sacramento interno
e l’ha capito l’adulto.
È importante da parte nostra, far cogliere il senso profondo,
(ecco la verticalità), anche delle cose che facciamo noi adulti, del
lavoro che svolgiamo che tante volte rischia di non essere sacro.
È difficile questo: tu hai lottato con lei per farle capire che c’è
un dono implicito in queste apparentemente piccole cose, che
costruiamo insieme, ed è un dono grande.
Io, scusate il termine, ma penso che quello fosse un Sacramento,
dove passava qualcosa di grande! Questa è l’arte dell’educazione
al difficile, cioè tu educhi al difficile: l’educazione non può che
essere educazione al difficile perché non ci accontentiamo e non
siamo fatti per ripetere e per conservare. L’educazione è soggetta
alla legge del miglioramento, e per migliorare bisogna superarci
anche ed aiutarci a superarci.
Ogni tanto faccio l’esempio, molto semplice, del saltatore in
alto e dell’allenatore, l’assistente in fondo è un allenatore. Noi
mettiamo l’asticella ad esempio a un metro e sessanta, penso tu
sia capace a saltare centosessanta (sto parlando di un atleta e non
di un bambino, è la metafora). E se tu lo salti, io sollevo un po’
l’asticella, perché non mi accontento, so che tu puoi migliorare.
Non posso alzarla troppo: molti di noi, i genitori chiedono troppo
e allora abituano il figlio o il bambino o il gen4 al fallimento,
perché sbaglio e sbaglio, sbaglio una volta dopo l’altra e poi dico
di me: non ce la faccio: perdo la mia autostima! Invece io lotto
per farti fare qualcosa di difficile, io capisco che tu puoi, ma devo
avere quella capacità empatica di comprendere veramente ciò che
posso chiederti oggi (né troppo, né troppo poco!) e allora metto
l’asticella un po’ più alta, però ti aiuto a superarla. È difficile,
però poi c’è l’esperienza per un bambino, per una bambina di fare
alcune cose nuove e difficili, e di avere la gratificazione di poter
dire: ce l’ho fatta, sono ok! Anche perché tu le dici: che bravo che
sei stato! Ce l‘hai fatta!... e anche se non ce la fai, secondo me tu
puoi, e rilanci.
Dopo ci sono anche dei momenti in cui non si riesce, non c’è
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sempre un miglioramento progressivo, tutti noi abbiamo dei
black-out, degli indietreggiamenti. Allora l’intelligenza è dire:
oggi abbasso un po’ l’asticella, metto alla prova, e io sempre
devo far passare: tu sei ok, tu ce la fai ! Questa è l’educazione al
difficile. Chiara nel suo tema di Washington nomina l’educazione
al difficile. In questo modo il bambino viene educato sin da
piccolo ad essere responsabile, capace di risposta. Le risposte
autentiche non sono mai facili, sono sempre difficili, e la vera
educazione è questo aiutarci a superare l’ostacolo e migliorarci
perché è la chiamata nostra per tutta la vita.
Assistente: Nel nostro gruppo abbiamo messo in comune
un’esperienza sulla responsabilità: ci sembrava che responsabilità
sia, come abbiamo sentito, non solo aiutare i gen4 ad essere
responsabili ma prima di tutto essere responsabili noi.
Un’esperienza: al mio lavoro questo mese di dicembre era un
mese di tantissimo impegno, avevo la responsabilità di farlo bene
e pensavo: “se non lo faccio forse il mio direttore me lo ricorda
e forse perdo il mio lavoro”. Ne abbiamo parlato in focolare e ci
siamo ricordati che io ho anche la responsabilità verso queste
gen 4 che Chiara mi ha affidato. Se manco a questa responsabilità
forse non ho un datore che mi mette fuori e allora abbiamo cercato
di trovare un equilibrio. Pensando anche alle mamme e ai papà
che a volte si svegliano un’ora prima o vanno a letto un’ora dopo
per portare avanti ciò che gli è affidato; ho cercato di trovare
questo equilibrio, e allora anche se non avevo il tempo di spedire
alle gen 4 questo bellissimo poster di natale che il Centro gen4
ha preparato, ho cercato quello che avevo più vicino, un presepe
più piccolino ma che ricordava sempre il natale e negli intervalli
di lavoro ho cercato di spedirlo almeno a quelle gen4 più vicine.
Una di queste gen 4 è venuta a mettere nella nostra posta la sua
risposta dicendo che le era piaciuto tantissimo questo presepe e
regalandomi una collana che aveva fatto. Ci sembrava che questa
responsabilità dovremmo averla anche noi.
Giuseppe Milan: Bellissimo, c’è un altro grande psichiatra,
qualcuno di voi l’avrà conosciuto, Victor Frankl, viennese, che
insiste proprio sulla responsabilità: io sono chiamato ad essere
responsabile, la mia salute mentale-esistenziale è proprio in
questo essere risposta, indipendentemente dal fatto di avere un
datore di lavoro o qualcun altro.
Poi c’è un altro, Korzac, che dice: il mio datore di lavoro è il
bambino, per cui di fronte a lui o a lei io sono responsabile,
sono chiamato ad essere risposta. Abbiamo il fatto che è stato
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affidato a voi il gruppo dei gen4 o delle gen4, ed è comunque una
responsabilità che è stata assegnata e quindi ogni responsabilità
è per noi una educazione al difficile.
Assistente: Nel nostro gruppo ci siamo concentrati un po’ sul
concetto della Sistemicità. Sono venute fuori tante esperienze.
Con un’assistente gen4 ci siamo accorte che all’ inizio dell’anno,
dopo i primi due incontri gen 4, cominciava a formarsi un
gruppetto di mamme, di papà, di persone che non conoscevano
quasi niente, però per questo passaparola delle loro figlie, la figlia
amica dell’altra o la mamma amica, questo gruppetto di gen4 e
di amiche delle gen si portava dietro contemporaneamente un
gruppetto di genitori.
Allora è nata la domanda: cosa facciamo? Perché magari
rimanevano lì ad aspettare che l’incontro finisse e non tornavano
a casa. Molti di questi genitori non conoscevano niente dell’Ideale
e lasciare le loro figlie con noi era un atto di fiducia. Vedevano
che le loro figlie erano contente, oppure conoscevano la mamma
che era una brava persona e le mandavano. È stato spontaneo,
muoversi a corpo, perché l’assistente gen 4 era tutta presa
dall’accogliere le gen4, amarle e quindi faceva l’incontro gen 4, e il
suo marito, aveva questa sensibilità anche di proporre: facciamo
un incontro in contemporanea per i genitori che vengono. Ha
fatto tutto con quella delicatezza dell’amore che sa farsi uno,
perciò le accompagnava a fare un passeggiata o prendevano un
caffè insieme da una volontaria. Finché, via via, questi genitori
si sono aperti e sono venuti fuori anche tanti dolori di famiglia,
di separazione e quant’altro. A loro non sembrava quasi vero di
trovarsi con qualcuno che, senza neanche conoscerli, si metteva
a loro disposizione e li ascoltava.
Ultimamente quando c’è stata l’operazione “Hanno Sloggiato
Gesù” ho visto che le prime che sono venute e che si sono
impegnate tutto il pomeriggio a star lì con le gen4 erano proprio
le mamme di queste bambine, contente di dare il loro contributo.
Non si sono sentite estranee, che stavano a guardare, ma si
sono sentite libere di dare il loro contributo, proprio perché si
sentivano accolte, amate. Veniva in luce questa sistemicità di
creare e di valorizzare quelle reti che non si possono progettare
a tavolino, ma si creano con la sensibilità di mettere in luce e di
mettere in comunicazione, di cercare appunto queste sinergie.
Giuseppe Milan: Direi che è un’esperienza evidente, che diventa
immediatamente invito ad accogliere e a trasferire l’esperienza:
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la rete, come in questo caso, si costruisce non tanto con una
programmazione, ma proprio per l’autenticità di un’esperienza
condivisa che si diffonde.
Assistenti: Abbiamo discusso insieme sulla nostra società e sui
nostri bambini. Tanti dei nostri bambini vengono da situazioni
famigliari dove magari manca il papà o da scuole dove si insegna
che va bene avere due mamme o due papà. Sentiamo che manca
questa crescita umana e tanti dei bambini hanno mancanze, come
tutti noi abbiamo mancanze - nessuno è completo - , importante è
accoglierli così. Ma tante volte il nostro sforzo non basta.
Per esempio io personalmente tante volte mi sono trovato come
figura del papà. Ci sono tanti bambini che non hanno il papà e
allora magari la mamma dice: che bello che ci sei tu allora tu puoi
venire ogni tanto a casa nostra così il bambino ha una figura
paterna. Però diciamo: non è il nostro compito!
Assistente: Abbiamo a volte delle difficoltà con gen 4 che hanno
dei comportamenti particolari a causa di una situazione difficile
in famiglia o handicap fisici o anche psichici. Chiara ci insegna
l’Ideale e noi parliamo tanto dell’Ideale, di amare, però parliamo
molto poco del come applicare questo amore nel concreto di ogni
giorno, soprattutto nelle parte umana. C’è poi un’altra difficoltà:
nella nostra società non ci sono risposte fatte, tutto è relativo e
noi sentiamo dall’altra parte che c’è un’unica verità che vogliamo
trovare in Gesù. Ma siamo una minoranza nella nostra fede ed
allora i nostri bambini sentono questo conflitto da una parte. Ci
puoi dire qualcosa?
Giuseppe Milan: La domanda è molto ricca. Capita spesso di
costatare che la realtà presenta molte difficoltà e che molte
persone, molti bambini hanno spesso un deserto intorno. È
importante, come dicevo prima, che nei primi anni ci siano
invece dei contributi. Nello stesso tempo però, questo credo
dobbiamo ricordarlo sempre, l’essere umano, bambino bambina
o adulto che sia, è redimibile, quindi può avere una resurrezione,
può rifarsi, nessuno è condannato a priori, nessuno. Infatti in
psicologia si dice che molte volte ci sono delle profezie negative
che si realizzano perché non abbiamo la mentalità aperta invece
alla speranza.
Non possiamo mai disperare, anche quando c’è il deserto:
infatti ci sono molte ricerche che dimostrano che una persona,
un adulto, un educatore, un assistente, un allenatore di sport
positivo, che a volte passa anche velocemente nell’esperienza
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di un bambino che ha avuto anche disagi gravissimi, può essere
come quelle ali che consentono al bambino di volare a volte più in
alto di chi ha avuto tutto. Bisogna anche tenere conto di questo,
no? La realtà spesso tradisce le aspettative nel senso positivo. Ci
aspetteremmo il negativo, invece ci sono bambini, degli esseri
umani, che nonostante tutto hanno fatto un salto grandissimo,
anzi fanno tesoro del dolore, della sofferenza, per fare salti
ancora più in alto. È come il trampolino di lancio, no? A volte
più vai giù, se trovi la molla, la motivazione, riesci a fare il salto
anche più alto.
Quindi è sempre necessario avere la speranza che anche i bambini
che vengono ad un incontro e che vediamo soffrire di qualcosa che
non riusciamo a comprendere, magari trovano qualcosa, un’altra
dimensione, e magari quella dimensione viene interiorizzata e
diventa un’energia.
Noi dovremmo dare il nutrimento massimo sin dall’inizio e quindi
noi auspichiamo che dai genitori ci sia tutto il contributo e che
vengano evitate molte forme di disagio. Ma ripeto: non dobbiamo
mai disperare, anche un bambino è operaio dell’ultima ora che
arriva e che ha il premio.
Certo, con le famiglie dobbiamo trovare il linguaggio giusto,
dovremmo riuscire a far vedere e a far diventare vita ciò che è
spiritualità e trovare le parole, come forse stiamo tentando in
pedagogia, le parole per dire alcuni concetti che abbiamo nel
nostro linguaggio. Noi viviamo in una strettissima unità tra
spiritualità e vita, anzi direi che è la stessa cosa, e dobbiamo
trovare quindi la capacità di dire e spiegare. Lo spieghiamo
soprattutto con l’esperienza. Le esperienze diventano credibili,
per cui le nostre esperienze sono una critica al relativismo.
Per noi non è tutto uguale, per noi non è tutto ok. I ragazzi oggi
dicono: no problem! No! È problem! Sì, sì, ci sono delle cose più
importanti, altre meno importanti, ci sono dei valori.
Noi abbiamo una intenzionalità: per noi l’essere umano è Gesù. Il
progetto dell’essere umano è diventare ciascuno con la propria
natura Gesù, ciascuno e insieme, e quindi abbiamo un progetto.
Siamo minoranza, sì, molto spesso siamo minoranza, a volte
siamo soli in un contesto con relativismo dilagante. Ma io mi
chiedo: il contesto significa “tanti testi”. Il problema è: qual è il
testo credibile? Non è un discorso di maggioranza o minoranza.
Sì, certo, ci sono tante influenze, ma l’essere umano in fondo,
il bambino, dirà: che cosa era o chi è credibile? Magari lo dice e
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riconosce dopo cinque anni, dopo 10 anni! Ci sono bambini che
dicono: che bello che è stato con te quella volta e mi è rimasto
dentro…nessuno di noi se lo ricordava. Ci sono alcune cose
che diventano credibili, diventano autorevoli, sono autori di
qualcosa che resta scritto dentro. Certo che tentiamo di diventare
maggioranza. Ma realmente crediamo che anche se siamo uno
solo, anche se siamo pochi, l’importante è essere credibili, che
significa coerenza tra il dire ed il fare. Allora si diventa più
facilmente educatori - ripeto non è una ricetta - e si accompagna.
Assistente: Abbiamo fatto tanta comunione e abbiamo riflettuto
e ci siamo fermati soprattutto sulla Problematicità. Ed era
interessante perché ognuno di noi aveva una diversa prospettiva
o esperienza. Eravamo cinque, di cui tre insegnanti. Qualche
volta sembra che noi pope o popi insegnanti sappiamo stare
con bambini, ma con i gen4 è un’altra cosa. Ci si rende conto
dei propri limiti e si dice magari: se avessi avuto una laurea in
pedagogia… invece a volte proprio questa laurea può essere un
ostacolo.
Tu ci hai parlato anche della rete e per me la rete principale è
l’unità con gli assistenti per portare avanti le gen4. Abbiamo
parlato tanto e a volte mi domando: le pope che non sono
insegnanti si renderanno conto delle difficoltà che io ho come
insegnante per essere in un rapporto reciproco con i gen4?
Giuseppe Milan: Ho citato Rousseau, che è considerato a livello
teorico uno dei più grandi della storia tra i pedagogisti, forse il
più grande. Purtroppo ha avuto due figli che immediatamente ha
destinato a un istituto per bambini abbandonati, mandandoli a
Venezia.
Ci sono grandissimi conoscitori delle enciclopedie delle scienze
psicopedagogiche e io ne conosco molti, anche docenti universitari
molto noti, che sanno moltissimo e che poi nella pratica fanno
degli errori pazzeschi. È vero che certamente conoscere le teorie
ecc. sono contributi importanti, ma io davanti al bambino che,
come dice Eriksson, è una meraviglia, un mistero, sono di fronte
a una meraviglia e a un mistero unico, da soli o insieme.
Di fronte a questo, come dice Husserl, come dice Chiara, io devo
fare tabula rasa e metter tra parentesi il mio bagaglio enorme di
esperienze che potrebbero essere spesso un ostacolo, spostare,
fare il vuoto e ascoltare questo bambino, con il suo nome e
cognome, ascoltare veramente. Una volta che io mi sono fatto,
diciamo, povero per questo dialogo, per questa unità, forse avrò
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l’intuizione (che vuol dire andare al tu) tale da trovare il dialogo e
la risposta più adeguata, ok?
Molti di quelli che hanno studiato molto non fanno questo. Quindi
noi tutti, e soprattutto quelli che magari hanno studiato, abbiamo
questo grande compito di spostare. Molte volte succede - come
voi sapete - che le persone più povere, più semplici però capaci
di questo sguardo, sanno cogliere più di altri. Quindi siamo tutti
chiamati alla stessa difficile arte di essere “capaci”.
Il segreto poi dei sapienti è quello di diventar semplici come
bambini per far sì che la sapienza non sia mera erudizione ma
che sia reale sapienza. Nel nostro caso, come ci insegna il Vangelo
e come ci insegna Chiara, abbiamo bisogno della sapienza dei
semplici che sanno arrivare al cuore, è un’arte difficile questa.
Cristiana: Prima, nell’intervallo mi hai detto che Chiara ci ha
dato la chiave per vivere tutta quest’arte dell’educazione.
Giuseppe Milan: Sì, lo sappiamo ma bisogna ricordarcelo spesso.
Ho parlato prima di Rousseau e della dicotomia tra parola, cioè
teoria, e fatti.
Molti di noi hanno una grandissima esperienza però
quest’esperienza ha bisogno di essere illuminata da quella teoria,
da quel sapere. La grandezza, una delle tante, di Chiara è che
Parola e Vita, esperienza e dono sono state immediatamente in
dialogo, per cui la specificità della pedagogia di Chiara, se potessi
dire così, è che ciò che è teorizzabile o teorizzato, già è vissuto, fa
parte della vita e non la vita ristretta di pochi intimi ma a misura
universale, aperta a tutti.
Questo è il segreto grandissimo - secondo me - di questa forza:
aver avuto il dono grande di questo accesso alla Parola, che poi
è quella a cui possiamo accedere anche noi, la parola di vita, la
parola del Vangelo. Subito diventa esperienza vissuta ed ecco
allora la credibilità di un progetto pedagogico che ha la sua
unitarietà: parola-vita, teoria-pratica. In fondo ciascuno di noi ha
questa pratica. Alcuni di noi anche la studiano, però non potrei
studiare, non potrei io, in parole povere, essere un professore
universitario, se non avessi vissuto prima l’Ideale che mi ha
aiutato a capire molte cose e a dirle.
Molti di voi hanno magari l’esperienza vissuta quotidianamente:
sappiate che sotto sotto c’è una teoria educativa con delle parole
forti che vi fanno sperare ulteriormente, che meritano conferme
continue. Verrà fuori anche questa teoria, proprio perché Chiara
ci ha insegnato questa unità teoria-prassi.
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Il gioco nella formazione gen 4
Matthias Bolkart e Cristiana Heinsdorff
Il gioco è studiato da numerose discipline, per esempio pedagogia,
antropologia, sociologia, psicologia, filosofia, e ultimamente
anche economia.
In generale si può distinguere tra giochi senza e con, uno scopo
specifico, per esempio quando servono per imparare qualche
cosa. Inoltre bisogna nominare anche i giochi sportivi che hanno
un ruolo proprio.
Chiara dice varie volte che con i bambini bisogna giocare.
Già nel ’661 parla dell’importanza del gioco per i bambini che
nasce dal suo modo di farsi uno con loro:
“Bisogna farsi uno con loro nel senso divino, cioè partecipare con
loro della loro vita. Ora non si tratta di farsi uno con loro e quindi
mettersi a giocare soltanto, ma di capire il loro gioco, cioè il gioco
dei bambini è il lavoro dei grandi (…) la loro vita, e così Dio ha
voluto, sia per la maggior parte gioco (…) se non impostiamo le
nostre lezioni fatte ai bambini sul gioco, in maggior parte sul
gioco, noi non abbiamo capito niente dei bambini”. 1)
Chiara nomina anche le trappole, nelle quali possiamo cadere,
come ad esempio quando il gioco viene strumentalizzato. Dice:
“Non è che noi giochiamo con i bambini per poi riuscire ad
amicarseli e far loro dopo la moraletta e dire: adesso vi racconto
qualche cosa del catechismo o della spiritualità. Noi dobbiamo
giocare con loro perché li amiamo e amandoli dobbiamo giocare
con loro…”. 2
Perché il gioco è molto importante per i bambini? Perché nel
gioco sviluppano varie facoltà, quelle manuali, quelle fisiche
perché possono correre, saltare, quelle mentali come la fantasia,
la capacità nel campo sociale, ecc. Loro già vivono in un mondo
fantastico, di gioco; sta a noi, entrarci. Una volta Chiara ha visto
una bambina piccola con una bambola, le stava dando del latte.
E raccontandoci il fatto ci ha chiesto: sapete cosa vuol dire farsi
uno con questa bambina? Vuol dire chiedere a lei: ma hai già
messo lo zucchero nella bottiglia? Questo è giocare con lei.
1
2
Chiara Lubich ai focolarini di Loppiano, 19 agosto 1966.
Ibidem.
54
Il gioco ha una grande potenzialità; già Einstein diceva che il
gioco è: “La più alta forma di ricerca”. Più avanti il fratello di
Karl Rhaner dirà: “Il gioco è un anticipo del cielo, l’anticipazione
di quell’armonia tra corpo e anima verso Dio che noi chiamiamo
cielo”. Nel gioco lasciamo a Dio lo spazio per mostrarci qualcosa
di nuovo e per rinnovarci.
Da tanti scienziati il gioco viene visto alla radice di ogni cultura;
in analogia, tra gli animali possiamo costatare innumerevoli
forme di gioco che hanno molteplici funzioni come per esempio
il conoscere, l’acquisto di competenze, il socializzare.
Ma è la psicologia che più di ogni altra disciplina ha visto nel
gioco il protagonista dello sviluppo psichico e soprattutto della
personalità del bambino. Il primo ad occuparsene fu Sigmund
Freud, che tra l’altro sottolinea che il gioco è in grado di aiutare
i bambini a superare le loro paure, perché consente loro di
trasferire l’oggetto del timore su un altro oggetto, familiare e
quindi non pericoloso.
Jean Piaget, riconosce al gioco una funzione centrale nello
sviluppo di una sfera cognitiva personale e della personalità.
Un ulteriore affinamento dell’interpretazione dell’attività ludica
viene dallo psicologo russo Lev Vygotskij, che considera il gioco
anche come forza attiva per l’evoluzione affettiva ed umana del
ragazzo, non solo cognitiva come Piaget pensava.
L’importanza del gioco in particolare
nella vita dei gen 4
1. Il gioco serve per sviluppare le loro forze fisiche,
per scaricarsi; giocando possono imparare ad aiutarsi insieme nel
gruppo, a non scoraggiarsi quando perdono, a vincersi, quando
non vogliono rispettare le regole. Spesso le bambine sanno tanti
giochi di gruppo, i ragazzi preferiscono prevalentemente il calcio.
Ci sono dei giochi più movimentati e altri più calmi. Un punto
importante è che l’assistente giochi insieme a loro, per far sentire
l’amore e far vivere nel gioco le regole ideali.
2. Giochi che fanno rivivere una storia,
possiamo chiamarli giochi didattici, in genere si svolgono a tappe.
Sono giochi tipici dei congressi; abbiamo per esempio il gioco a
tappe della vita di Gesù, della vita di Chiara, del mondo unito.
A volte coincidono con giochi di ruolo, in cui i gen 4 possono
entrare nei ruoli di personaggi della vita Ideale.
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3. Giochi in cui i gen 4 sviluppano la manualità,
la creatività,
e la volontà di riuscire a superare gli ostacoli, sono i giochi delle
‘aziendine gen 4’, in cui possono produrre, lavorare, come gli
adulti. Questi giochi sono per loro più interessanti se hanno
uno scopo reale, una motivazione. Un gen 4 che stava facendo le
collane per i poveri ha risposto al papà che gli ha detto: «Che bel
gioco», «no, papà, non è un gioco, è una cosa seria, lavoriamo per
i poveri!».
In conclusione possiamo dire che tante esperienze delle e degli
assistenti gen 4 dimostrano che proprio il gioco è il campo
prediletto per conoscerci, sperimentare l’amore reciproco e
sviluppare tanti talenti. È davvero un segno dei tempi dove
possiamo dare visibilità all’Ideale vissuto e alla fratellanza
universale.
Addirittura possiamo costatare che il gioco aiuta a ricostruire la
personalità dei bambini, spesso frantumata attraverso le tante
piaghe di Gesù Abbandonato che troviamo nelle nostre società,
per esempio bambini che crescono con un solo genitore, o come
figlio unico, o “gestiti” con videogame e con la televisione.
Oggi, da una parte possiamo notare uno sviluppo enorme e
continuativo, che in buona parte mostra degli effetti positivi sia
sui bambini che imparano la vita giocando, sia come elemento
importante che unisce le varie generazioni; dall’altra parte le
offerte hanno spesso come scopo il profitto. Tanti giochi sono
costruiti in modo da poter avere con poco sforzo un effetto
massimo, per avere poco dopo la voglia di un altro stimolo.
Perciò purtroppo costatiamo che tanti bambini non hanno avuto
occasione d’imparare a giocare in gruppo, perché passano gran
parte della vita davanti alla TV, e di conseguenza non sono
abituati a seguire delle regole. Vediamo anche che proprio nel
contatto con la vita gen 4 ci sono tante possibilità di recuperare e
di sviluppare queste capacità.
Alcune idee ed esperienze riguardo al gioco:
1. Abbiamo sperimentato che a loro piace tanto ripetere dei giochi,
che permettano di sviluppare le loro capacità di rapportarsi, le
tante abilità e provare il successo sia personale, sia del gruppo.
2. Piace superare qualche ostacolo, perché devono fare un piccolo
sforzo e quando l’hanno superato dicono: “Ce l’abbiamo fatta!”
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3. Altrettanto piace scoprire qualcosa che non sanno, per esempio
cercare le cose che tu hai nascosto!
4. Per le persone più grandi, nel gioco è importante soprattutto la
competizione, invece i piccolini piangono se non hanno vinto, non
si può non vincere, bisogna farli vincere tutti. Quando tu giochi
con i gen 4, non sempre loro sanno giocare tra di loro, aiutarsi
non è scontato. Infatti Chiara nel 1966 dice: “A volte tornano, dopo
un gioco, più giù di prima”, perché non è che il gioco di per sé li
aiuta, è come si gioca. Il nostro ruolo è aiutarli, per esempio tu
vedi un bambino o una bambina che è debole, che non riesce mai
a vincere, allora aiuta lei, che a un certo punto vinca lei! Creare
questa giustizia che facciamo noi, che non ci sia sempre una che
rimane indietro, che non ci sia sempre la stessa che viene in luce,
perché anche qualcuno può diventare aggressivo nel gioco.
Vi ricordate il decalogo del gioco che Chiara ha dato ai gen 3?
Però ai gen 3 si può dire prima del gioco e loro lo assimilano. Ai
gen 4 tu puoi dire qualcosa, ma è così forte il gioco che giocando
si dimenticano e non ci pensano più. Allora gli assistenti sono
quelli che essendo nell’amore, creano l’atmosfera di Gesù in
mezzo anche nel gioco.
Per esempio, all’inizio dell’incontro a volte è difficile raccoglierli,
allora qualcuno mi ha raccontato che era proprio triste perché
quando è arrivato, tutti i gen 4 sono corsi via. Lui si è trovato
da solo e non c’erano più. Bisogna capire i motivi: questo era un
invito da parte dei gen 4 ad andare a cercarli, a giocare con loro!
Alcuni consigli:
1. La spiegazione del gioco non deve essere troppo lunga, se no
loro si stancano subito.
2. Stiamo attenti che loro non si scatenino troppo, perché perdono
il controllo. Aiutiamo, dal di fuori, chi corre troppo a calmarsi e
a riprendersi.
3. Occorre essere sensibile e capire quando le regole o le condizioni
non vanno bene, per esempio nel caso in cui il campo è troppo
grande e loro non arriveranno mai fino alla fine. Allora aggiusti,
oppure cambi le regole, secondo le loro necessità. A volte le regole
le fanno anche da soli! Comunque una delle cose più importanti è
che loro trovino in noi assistenti persone tranquille, sicure, punto
di riferimento, perciò anche se c’è un’insicurezza, basta spiegare
con tranquillità e ricominciare.
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4. Ci sono giochi che non piacciono a tutti, come il calcio; può
capitare anche che i piccoli perdano la voglia di giocare perché i
grandi sono sempre più veloci. In questi casi possiamo alternare
i giochi o fare due gruppi con giochi diversi, o responsabilizzare
i grandi per i più piccoli.
5. In vari incontri e congressi abbiamo coinvolto dei gen 3 come
“capo-stazione” e con sorpresa abbiamo scoperto che già nel
preparare i giochi ci davano degli ottimi consigli, erano bravissimi
a spiegare un gioco e riuscivano a gestirlo molto bene.
Assistente:
A un certo punto mi sono trovato con tanti gen 4 che s’impongono
e vogliono sempre giocare a calcio. Ho detto: «Come facciamo?»
Qualcuno va anche giù, dobbiamo trovare un modo… Insieme a
Guido che mi aiuta abbiamo parlato all’inizio ai gen 4 di Gesù in
mezzo, stare insieme, fare un corpo. Poi ci siamo messi d’accordo:
giochiamo così. Ci siamo divisi in due squadre: loro, che erano
otto o nove gen 4 e noi due adulti più un gen 4 piccolino. Abbiamo
detto: «Voi siete tutti di una squadra, noi siamo pochi, vediamo
chi vince». Allora uno di noi adulti si è messo davanti, uno si è
messo dietro abbiamo preso la palla e sai come sono i gen 4 si
buttano tutti sulla palla, e non c’è organizzazione, e noi avanti.
Gol! Uno a zero, due a zero, tre a zero. E litigavano tra di loro, sù
chi aveva la colpa.
A un certo punto abbiamo fermato il gioco e ho detto: «Venite
un attimo qua, vi ricordate quello che abbiamo detto prima, che
dobbiamo essere un corpo? Che dobbiamo avere Gesù fra di
noi? Vuol dire che dobbiamo ordinarci»; gli ho fatto proprio la
spiegazione, dicendo: «voi avete visto cosa avete fatto? Ognuno
ha pensato a sé, ma dovete guardare l’altro no, dovete mettervi
d’accordo! Allora provate a fare così, sennò avete visto, noi senza
correre vi vinciamo». Hanno detto: «Ah!» Logicamente noi ci
siamo ritirati un po’, e loro hanno cominciato a giocare così, a
volersi bene, e li abbiamo fatti pareggiare. Allora erano contenti e
hanno detto: «Sì è vero, è proprio vero.»
Assistente:
Una volta avevamo un weekend gen 4 e nel momento del gioco
io non avevo preparato niente. Ho chiesto alle gen 4 di portarsi
un gioco e se avevano bisogno di materiale di portarselo. Allora
c’era un’ora di gioco e c’erano tutti i loro nomi su dei bigliettini.
58
Abbiamo scelto un nome e quella gen 4 doveva spiegare il suo
gioco e giocare insieme. Questo era molto bello. La sera, abbiamo
fatto il gioco di un’altra gen 4 che era “l’assassino”. Ma con noi
c’era una gen 4 che non vede tanto bene e non poteva giocare.
Allora vediamo insieme come fare e una dice: «Questo non è un
problema perché io prendo le sue mani e quando guarderanno
lei, io le stringo la mano e lei muore».
Così hanno risolto loro stessi il problema e giocavano per far
felice l’altro.
10 qualità del gioco
Alois Hechenberger
1. IL GIOCO ACCADE QUI ED ORA:
A ciascuno è richiesto di essere coinvolto nella situazione presente
del gioco, con le sue regole, i suoi giocatori, ecc.; il passato ed il
futuro risultano secondari.
2. PROVARE DIVERTIMENTO E GIOIA NEL GIOCO:
Vivere la gioia nel gioco e comunicarla è più importante per lo
sviluppo della personalità che non la sconfitta o la vittoria nel
gioco.
3. IL GIOCO MOSTRA LA LIBERTÀ E LA VOLONTARIETÀ:
Non obbligare nessuno a giocare con la forza; un adeguato
sostegno può promuovere la disponibilità al gioco e la motivazione
dei partecipanti.
4. IL PROCESSO È PIÙ IMPORTANTE DEL PRODOTTO:
Non il risultato è importante, ma il processo per ottenerlo, così
come sono importanti la gioia e le difficoltà sperimentate per
ottenerlo.
5. IL GIOCO COME SECONDA VERITÀ “PENSATA”:
Le conseguenze dell’agire nel gioco non accadono veramente;
in questo modo possiamo testare nel gioco diverse situazioni
umane.
6. LA COMUNIONE E L’INCONTRO SI REALIZZANO:
59
Il contatto con gli altri giocatori crea relazioni; piuttosto che
un’azione individuale, si favorisce un agire collettivo.
7. TUTTA LA PERSONA È COINVOLTA:
Tutti i sensi dell’uomo (sentimento, agire, ragionamento, ecc.)
possono essere coinvolti e contribuire ad una qualità di vita più
alta.
8. SI REALIZZANO APPRENDIMENTI COGNITIVI E DEL VIVERE
SOCIALE:
Nel gioco vengono messi alla prova comportamenti positivi e
proposti alla vita quotidiana: assumersi responsabilità, risolvere
conflitti, comunicare e cooperare, incoraggiare, ascoltare per
imparare ecc.
9. PROMUOVERE IL BAMBINO “INTERIORE”:
Spesso tornano alla luce competenze possedute nell’infanzia
ed andate perdute, come la spontaneità, l’immaginazione, la
curiosità, la spensieratezza.
10. VALORIZZAZIONE DELLA VITA QUOTIDIANA:
Giocare insieme significa vivere insieme; condividere le “regole
del gioco” può produrre positive linee di vita.1
Giocando con gruppi di diverse età:
Giocando con diversi gruppi conviene rispettare le loro esigenze
e le capacità secondo l’età. Così i giochi arrivano, piacciono e
si realizza lo scopo previsto. Occorre conoscere bene il mondo
dei bambini, i loro interessi, il loro linguaggio, ecc. Nel seguente
schema, alcuni aiuti generali, che dipendono sempre dalla
situazione e gruppo.
Bambini: 5-7 anni
Esigenze: bisogno di muoversi; hanno un’attenzione molto breve;
bisogno di sicurezza e sostegno.
Utile per i giochi:
- Spiegare le regole in modo breve e semplice;
- trovare un aggancio fra i bambini e il materiale (per esempio
giochi per due, fare un cerchio con le mani, agganciarsi alla
corda o al paracadute, mettere i piedi su una linea ecc.);
U. Baer / J. Schilling, “Cos’è il gioco?”, in Gruppi e gioco, Nr. 4, 1990, p.
13.
1
60
- una serie di giochi: con un tema, una storia (lo zoo, il circo,
fare una gita);
- tante storielle, disegni ecc.
Bambini: 7-10 anni
Esigenze:Sviluppare le loro capacità e talenti; fare esperienze di
gruppo;risolvere diversi compiti.
Utile per i giochi:
- giochi di teatro, sketch ecc.;
- attività nella natura: caccia al tesoro, giochi di avventura;
- usare materiali belli: palloncini, palle colorate, giochi da circo.
Il ruolo del moderatore nel gioco:
Per spiegare bene i giochi ai diversi gruppi servono diversi punti.
- passione: trasmettere una gioia per il gioco;
- competenza: conoscere giochi di diversi tipi;
- trovare il gioco giusto per il momento: conoscere le esigenze,
interessi del gruppo e dare a loro una sfida adatta;
prepararsi bene: avere giochi di riserva per cambiare se è il caso;
stare attento alla sicurezza: psicologicamente/fisicamente;
creare una bella storiella: invece di spiegare tecnicamente le
regole;
avere il linguaggio adatto: per esempio con una voce giusta per
bambini, non usare la parola “gioco” con teenager;
mostrare chiarezza e sicurezza: all’inizio avere in mano tutto
molto chiaro e stretto, pian piano coinvolgere le persone, prendere
dentro le loro idee, dare la possibilità di scegliere.
Quattro passi per spiegare bene un gioco
1. Dire le regole brevemente e chiaramente;
2. fare una dimostrazione: “Un’immagine dice più di 1000 parole”;
3. giocare;
4. cambiare le regole, se è necessario (per esempio: la grandezza
del campo di gioco, il modo di muoversi, cambiare le squadre).
* Dr. Alois Hechenberger / Innsbruck, Austria / www.teamtime.net, oppure: www.sports4peace.net
61
29 dicembre
I gen 4 in famiglia
L’evangelizzazione dei figli
(Chiara Lubich: Vaticano 2000, introduzione di
Annamaria e Danilo Zanzucchi)
Autostima e resilienza, educazione al difficile e
rispetto delle regole, la religiosità del bambino
ed il significato del simbolo
(Ezio Aceti)
Dialogo
(Ezio Aceti con gli assistenti)
Sinergie educative tra l’assistente
gen 4 e la famiglia
(Anna e Alberto Friso)
Testimonianze di famiglie
(Gabriella e Alberto Lo Presti,
Katarina e Cyril Jancisin)
62
L’evangelizzazione dei figli
Anna Maria e Danilo Zanzucchi
Anna Maria: Ecco, siamo contenti di essere qui perché se c’era
una preferenza in Chiara, era proprio per i gen 4, perché vedeva
il futuro.
Infatti i nostri figli sono nati tutti nei primi anni che noi
conoscevamo l’Ideale. Danilo l’ha conosciuto prima che ci
sposassimo, e subito dopo l’ho conosciuto anch’io, poi siamo
venuti subito a Roma, per cui Chiara ha seguito la nascita dei
bambini. Allora non si chiamavano gen 4, ma i popetti e le popette.
I nostri ricordi vanno alle Mariapoli1 di Fiera di Primiero. Sono
state speciali! La macchina di Chiara era sempre piena di bambini
piccoli, proprio di gen 4! A volte li portava a casa sua, nel giardino.
Li ha amati molto, lei sapeva farsi uno con loro in maniera
naturale, non si vedeva nessuno sforzo. Era una cosa bella, loro
stavano bene con Chiara e tutti volevano andare con lei.
Chiara faceva anche dei colloqui con loro. Una volta una delle
nostre figlie le ha chiesto un colloquio, ma poi non si ricordava
neanche più perché, aveva quattro anni e mezzo, ma invece
Chiara se lo ricordava. Allora l’ha chiamata. Questa bambina si
è seduta con le gambette che non arrivavano neanche a terra e
Chiara le ha detto: «Dimmi Chiaretta, cosa vuoi dire» e Chiaretta
«Dimmi tu Chiara», cioè aveva solo voglia di parlare con Chiara,
di stare con Chiara e si è trovata il suo modo.
È stata una cosa molto bella per i bambini, gioiosa ma anche
impegnativa. Quando hanno incominciato a trovarsi con i popetti
e le popette è stata una cosa impegnativa perché Chiara li
prendeva sul serio subito.
La nostra vita allora, non era come adesso, eravamo così
concentrati in quest’Ideale che era nuovo, tutto nuovo che, anche
se vivevamo nel mondo con la nostra famiglia, con la professione
di Danilo e tante cose, eravamo molto concentrati in Chiara, in
quello che lei sentiva. Pensate che il telefono costava moltissimo
e perciò venivano gli aggiornamenti con il treno che passava dalla
nostra città. Noi andavamo nella stazione a prenderli. Si viveva
1
I primi convegni estivi dei Focolari, che poi vennero chiamati Mariapoli
(città di Maria), si svolsero sulle Dolomiti e duravano tutta l’estate. Nel
1959 raggiunsero il numero di diecimila.
63
una vita, come posso dire, attraente, e adesso, c’è bisogno che
riusciamo a vivere ugualmente, perché Dio è attraente, dobbiamo
proprio renderlo attraente per i nostri bambini, per i nostri
figli. Noi abbiamo 12 nipoti, alcuni sono grandi, ma alcuni sono
ancora piccoletti dell’età gen 4. E vedo che è sempre così, non
cambia, vedo che dobbiamo essere attraenti, non nella gioia
come dire, posticcia, ma nella gioia vera, quella che viene da Gesù
Abbandonato.
Voi siete davanti ai gen 4, e alcuni di loro hanno i genitori che
vivono l’Ideale2, alcuni no, perciò le situazioni sono diverse,
e i bambini vanno amati uno per uno. Certo sarebbe una cosa
importante che i genitori conoscessero pure l’Ideale, ma non è
sempre possibile.
Abbiamo fatto l’esperienza di quanto Chiara ha amato i nostri
figli fin da piccoletti. Chiara aveva tanto il senso del compito che
Dio le ha dato rispetto a tutti, quindi cominciando dai bambini.
Contemporaneamente lasciava libere le persone. In modo che
loro stessi sentissero di fare i passi. Lei aiutava dall’esterno, ma
non imponeva, mai. Questo non imporre, ma proporre è stato uno
degli atteggiamenti di Chiara che ha conquistato tutti, soprattutto
i bambini. Erano attiratissimi da Chiara per questo modo suo di
proporre e non imporre.
Poi Chiara aveva una cosa: sapeva farsi uno in un modo unico,
credo. Tutti noi abbiamo imparato un po’ a farci uno, a entrare
nell’altro, però in Chiara questo era molto evidente. Era evidente
perché lei viveva di Dio, quindi era vuota di se stessa, e di fronte
alle persone era, come dire, aperta a quello che Dio voleva e
quindi attirava tutti. Io qua avrei tanti esempi. Mi ricordo che
ai primi incontri dei popetti e delle popette Chiara ha chiamato
i nostri figli, per cominciare quello che sarebbe stato il primo
nucleo dei centri gen 3, gen 4, ma non si chiamavano ancora così.
Erano pochi, erano tre i primi, i figli delle nostre famiglie e li ha
messi insieme. Lei era presente nel primo momento e dopo li ha
affidati a un popo, a una popa. Però li ha guardati e li ha amati.
Aveva preparato il tavolo con le matite, con le cose che potevano
piacere a loro, perche erano piccoletti. E loro erano affascinati.
Michele per esempio aveva sei o sette anni e l’accompagnavamo
a Grottaferrata tutte le domeniche, perché lui sentiva di far parte
del centro gen, per dire che fin da piccoli sono stati affascinati.
Non so cosa è stato, penso che è perché non sono stati mai
2
La parola ‘Ideale’ è riferita a questa nuova luce da cui è nata la spiritualità di comunione.
64
obbligati, erano liberi.
Danilo: Adesso vediamo il discorso che Chiara ha fatto il 12
ottobre del 2000. Prima io vi dico i punti, parla della sensibilità
dei bambini per il soprannaturale. Noi adulti non ci crediamo, ma
è così, è la verità.
Io mi ricordo la prima volta che Chiaretta mi ha accompagnato alla
messa, aveva cinque anni, a un certo momento mi ha interrogato:
«Babbo, sai qual è l’Ideale? Ci sono dei bambini che credono
che l’Ideale siano delle caramelle e cioccolatini, invece sai cos’è
l’Ideale? » -Che cosa è?-, le ho chiesto, «l’Ideale è Dio», e l’ ha detto
con la convinzione che era vero quello che diceva. Quindi c’è una
particolare sensibilità nei bambini.
Ci sono varie agenzie educative che si interessano dei bambini,
la famiglia, la scuola ecc., e Chiara ha messo sempre al centro la
famiglia, perché Gesù è nato in una famiglia. Dio ci ha chiamati ad
essere genitori, dobbiamo guardare quindi ai nostri figli come figli
di Dio. Ogni nostro figliolo ha in sé un progetto di immortalità,
pensate che responsabilità! I genitori non ci pensano, ma questa
è la realtà. Insieme al dono della vita, Dio prepara nella famiglia
l’ambiente dove crescere ogni figlio, è un ambiente unico, non
ce n’è un altro. Si vedono oggi infatti questi asili di bambini
abbandonati... che dolore, a loro manca quel calore che nasce
dall’amore dei due genitori.
Viene da chiedersi allora, che cosa deve fare il genitore? Sono
domande che Chiara si fa nel video.
1. I genitori devono fare sì che il bambino
incontri Gesù!
Pensate quanti genitori pensano questa cosa. Ecco i nostri impegni
di genitori: vivere noi genitori per primi quella parola di Gesù
“dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo ad
essi”. Questa è la base dell’educazione, e questo è fondamentale
perché anche i bambini avvertono la presenza di Gesù in famiglia.
L’avvertono senza tante parole, ma se c’è accordo, amore, rispetto
tra il papà e la mamma, si crea l’ambiente nel quale il bambino
può crescere bene.
2. Alcune risposte dei bambini che Chiara cita ci fanno capire che
ci può essere anche una loro unione con Dio, con
Gesù.
Quella risposta di Chiaretta che io ho citato prima fa pensare,
65
perché i bambini hanno un rapporto immediato con Dio, se
trovano la strada aperta.
3. A questo punto del suo discorso Chiara spiega
l’arte d’amare
che tutti voi conoscete.
4. Un altro passo di questo discorso di Chiara:
Chiara invita i genitori a far partecipi i figli del
vivere il Vangelo.
Questo l’abbiamo fatto anche noi, quando i bambini erano
piccoli.
Ci si trovava la sera e commentavamo la parola da vivere, - allora
si viveva ogni giorno una parola del Vangelo - in maniera che
loro potevano capire, quindi con parole che possano capire e
nella certezza che Gesù parla direttamente al loro cuore. Se c’è
l’atmosfera serena, tranquilla, di amore, è Gesù che parla a loro, e
questo convince i bambini. Che vedano poi che i genitori vivono il
Vangelo. Per esempio ci si raccontava alla sera le esperienze della
parola di vita, e loro ragionavano: “Ma allora il Vangelo è vero, si
può vivere”. I bambini sono portati a fare anche loro, tra di loro
queste esperienze e questa è una cosa estremamente formativa.
Poi arriva l’età dell’adolescenza, qui cambia il panorama e occorre
tanto coraggio nei genitori, farsi uno, mai perdere la speranza che
Dio può agire nei loro figlioli. Qui è importante che vedano che
la famiglia non è isolata, ma che è innestata in una società più
vasta. Vedono i focolarini, le focolarine, le persone che vengono a
casa che vivono l’Ideale e allora trovano un ambiente nel quale è
naturale che in loro maturi la loro vocazione. A noi è andata così,
Chiara ci ha detto di fare così e vediamo che è la strada giusta,
e che vale per tutte le nazioni. Ho visto che la vivono in Africa:
mi ricordo una volta a Nairobi una focolarina giovane ci diceva
che quando aveva cinque anni il suo papà e la sua mamma si
scambiavano le esperienze della parola di vita. Lei è entrata poi
in focolare. Così in America Latina, così abbiamo visto a Mosca e
in Cina.
Quindi, capite che riconoscenza abbiamo verso Chiara, che ha
avuto da Dio l’idea per avviare il movimento gen 4.
* Anna Maria e Danilo Zanzucchi hanno dato vita con Chiara al Movimen-
to Famiglie Nuove e ne sono stati i responsabili mondiali fino al 2008.
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