Savino Patetta

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Savino Patetta
IN DIFESA DELL’UOMO
La tutela internazionale dei diritti umani
di SAVINO PATETTA
1.
Principio della non ingerenza nella domestic
jurisdiction
1.1
Nozione di domestic jurisdiction
Il principio della non ingerenza nella domestic jurisdiction nasce
nel XIX secolo contro le tendenze espansionistiche delle potenze
europee e si giustifica con la necessità di proteggere la sovranità e la
personalità internazionale degli Stati. Per domestic jurisdiction si
intende una serie di materie che ricade nella esclusiva giurisdizione
dello Stato, una nozione che ebbe una definizione più chiara ad
opera della Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1923:
il dominio riservato comprende le materie nelle quali lo Stato è libero
da obblighi internazionali di qualsiasi genere1: esso ha quindi,
secondo la definizione della Corte, un carattere relativo e storico.
È relativo perché dipende dal numero di obblighi
internazionali che derivano dal diritto consuetudinario e pattizio;
ma dato che le consuetudini sono uguali per tutti gli Stati, la
competenza domestica varia in funzione dei trattati stipulati dal singolo
Stato. A confermare la relatività della competenza domestica, basta
considerare che vi sono materie che tradizionalmente rientravano
in essa e che oggi invece sono oggetto dell’attività delle Nazioni
Unite: si tratta soprattutto del settore relativo ai diritti umani e
all’autodeterminazione dei popoli.
La domestic jurisdiction ha poi carattere storico perché,
dipendendo da consuetudini e trattati, varia come conseguenza
dell’evoluzione del diritto internazionale comune e pattizio. Nel
1
Cfr. B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, CEDAM, Padova 20006.
26
diritto consuetudinario lo Stato non incontra nessun limite alla
propria sovranità per quanto riguarda il rapporto con i propri
cittadini, l’organizzazione di governo e l’uso del territorio. Oggi
però lo Stato, con lo sviluppo della tutela dei diritti dell’uomo nel
diritto internazionale comune, incontra delle limitazioni al suo
potere nei confronti dei cittadini. Per quanto riguarda il diritto
pattizio, mentre un tempo gli Stati erano restii a contrarre obblighi
che ricadevano nella competenza domestica, oggi le norme pattizie
stanno invadendo quasi tutti i settori: possiamo infatti trovare
accordi per collaborazioni economiche, sociali e culturali come
l’Unione Europea, nella quale gli Stati membri affidano alla
organizzazione materie originariamente appartenenti alla
competenza domestica, come nel caso delle tariffe doganali.
1.2
L’art. 2.7 della Carta delle Nazioni Unite
Nello Statuto delle Nazioni Unite l’unico limite ratione
materiae è quello del dominio riservato o competenza interna,
dettato dall’art. 2.7. Tale norma riprende l’art. 15.8 del Patto della
Società delle Nazioni, che definiva la competenza domestica come
quell’insieme di materie che, secondo il diritto internazionale,
apparteneva esclusivamente alla competenza interna dello Stato. L’art.
2.7 viene elevato a principio generale che limita l’attività
dell’organizzazione (con l’unica eccezione dettata dal capitolo VII
riguardante le misure coercitive adottate dal Consiglio di Sicurezza
per la tutela della pace) e tratta delle «questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato»,
differenziandosi dall’art. 15.8 sia per il termine essenzialmente, sia per
avere eliminato il riferimento al diritto internazionale. Il
cambiamento terminologico da esclusivamente a essenzialmente trova la
sua giustificazione nella necessità di aggravare la portata della
nozione di domestic jurisdiction. Come spiegò il delegato americano
Foster Dulles alla Conferenza di San Francisco, i redattori vollero
evitare che materie normalmente rientranti nella sfera di
competenza interna degli Stati, fossero ad esse sottratte perché
oggetto in via eccezionale di convenzioni internazionali. Si è perciò
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voluto sottoporre al limite della competenza domestica tutto ciò
che, in linea di principio, non è regolato da norme internazionali.
La necessità di aggravare la portata della domestic jurisdiction
scaturiva da due preoccupazioni principali. Prima di tutto, si voleva
evitare che le norme della Carta in materia di tutela dei diritti umani
e collaborazione economica e sociale, portassero a un’ingerenza
delle Nazioni Unite negli affari interni degli Stati membri. I
redattori erano preoccupati, in secondo luogo, che il Senato
americano non ratificasse la Carta (come aveva fatto con il Patto
della Società delle Nazioni) nel caso in cui la tutela della
competenza domestica fosse stata debole.
Alcune norme dello Statuto delle Nazioni Unite, tuttavia,
trattano materie non regolate dal diritto internazionale e quindi
appartenenti alla competenza interna, come per esempio nel caso
del principio di autodeterminazione dei popoli (art. 1.2) o in quello
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 1.3, 55, 56).
Per queste materie, appartenenti alla domestic jurisdiction, le Nazioni
Unite possono solo adottare risoluzioni di carattere generale e
astratto, non potendo emanare risoluzioni direttamente nei
confronti degli Stati, per evitare ingerenze sugli stessi.
Nella prassi delle Nazioni Unite, però, l’organizzazione si è
quasi sempre dichiarata competente a deliberare in settori come la
tutela dei diritti umani, non solo attraverso risoluzioni di carattere
generale e astratto, ma controllando che, all’interno di questi Stati, i
diritti umani venissero rispettati. Inizialmente, nonostante la ratifica
del Patto sui diritti civili e politici e di quello sui diritti economici e
sociali delle Nazioni Unite, si riteneva che la violazione dei diritti
umani rientrasse nella sfera della competenza domestica, eccezion
fatta per le gross violations, cioè violazioni gravi come il genocidio,
l’apartheid o la tortura. Oggi assistiamo invece a una vera e propria
erosione del dominio riservato nell’ambito della tutela dei diritti
umani. Ormai l’attività delle Nazioni Unite ha come oggetto
qualsiasi situazione che, in un qualsiasi Stato, sia lesiva della dignità
umana.
28
2.
Aspetti universali della tutela dei diritti
dell’uomo: le Nazioni Unite
2.1
La tutela dei diritti umani
La Carta delle Nazioni Unite inaugura l’intervento del diritto
internazionale nelle materie riguardanti quei diritti considerati
fondamentali, innati e inviolabili della persona. Lo Statuto può
essere considerato una risposta concreta della comunità
internazionale alle due guerre mondiali, ai regimi dittatoriali sorti in
Europa tra le due guerre e infine ai crimini contro l’umanità e la
pace scaturiti da questo clima politico.
L’art. 1 della Carta indica come fini dell’organizzazione il
mantenimento della pace e della sicurezza, lo sviluppo delle
relazioni amichevoli tra gli Stati e il conseguimento della
cooperazione internazionale per tutelare i diritti umani e le libertà
fondamentali. La responsabilità di questa ultima materia viene
affidata dagli artt. 13 e 62 rispettivamente all’Assemblea Generale e
al Consiglio Economico e Sociale, che, a loro volta, hanno dato vita
a vari organi sussidiari, su tutti la Commissione per i diritti umani
istituita nel 1946. Nel corso degli anni, però, la prassi ha dimostrato
che il rispetto per i diritti dell’uomo condiziona anche altri ambiti,
come lo sviluppo economico e sociale o il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale: i diritti umani sono perciò diventati
international concern. Questa trasversalità ha determinato due
conseguenze principali: prima di tutto il coinvolgimento di altri
organi dell’organizzazione nella tutela dei diritti dell’uomo (il
Consiglio di Sicurezza può, per esempio, intervenire nel caso in cui
la violazione dei diritti umani possa determinare la rottura della
pace); in secondo luogo, come già detto in precedenza, ha portato
all’erosione della sfera della domestic jurisdiction degli Stati in questa
materia.
Gli artt. 14 e 56 indicano le modalità di tutela dei diritti
umani nell’ambito delle Nazioni Unite. L’organizzazione diventa
così il centro per il coordinamento degli Stati, che sono obbligati a
rispettare, sia a titolo individuale che collettivo, tali diritti. L’attività
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svolta dall’organizzazione, può essere ricondotta a tre principali
modalità di intervento:
1. attività normativa e paranormativa che offre agli Stati
degli standard universali per la tutela dei diritti umani
e delle libertà fondamentali;
2. procedure di controllo politico sul compimento di
gravi e diffuse violazioni dei diritti umani;
3. procedure di controllo giuridico sull’esecuzione degli
obblighi internazionali degli Stati in materia.
2.2
La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo
La tutela dei diritti dell’uomo viene esplicitata dagli Stati su
due livelli: quello interno e quello internazionale. A livello interno,
gli Stati si sono dati delle costituzioni che affermano l’esistenza di
diritti individuali fondamentali e affidano la promozione e la tutela
di tali diritti alla sovranità statale. Nella comunità internazionale gli
Stati hanno stipulato trattati che li vincolano reciprocamente al
rispetto dei diritti umani. Possiamo, per esempio, ricordare i due
Patti del 1966 in ambito Nazioni Unite (§ 2.3), e a livello regionale
la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (§ 3.1.1), la Convenzione americana dei
diritti dell’uomo e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei
popoli. A questi strumenti di promozione e tutela, nel corso degli
anni, si sono affiancate risoluzioni e dichiarazioni che, partendo
dall’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
in ambito generale, si sono orientate verso la tutela dei diritti di
specifiche categorie di persone: i bambini, le donne, le minoranze
etniche, religiose e linguistiche.
Nelle Nazioni Unite troviamo tre tipi di risoluzioni e
dichiarazioni. Esistono risoluzioni che indicano agli organi di
governo degli Stati i criteri-guida per la gestione delle proprie
attività, soprattutto in materia di politica criminale. Ci sono poi
risoluzioni che proclamano quei diritti dell’uomo che non sono
accettati in un determinato periodo storico – si pensi ad esempio
all’autodeterminazione dei popoli. A un’ultima categoria
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appartengono le dichiarazioni di principio, che hanno alto valore
morale ed effetti giuridici di tipo raccomandatario, e possono
perciò diventare vincolanti solo sul piano sostanziale. A
quest’ultima categoria appartiene la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo del 1948, la quale, benché non inclusa nello
Statuto delle Nazioni Unite, è comunque ispirata al rispetto dei
diritti dell’uomo.
La dottrina si divise sull’interpretazione delle norme
statuarie in materia di diritti umani. Alcuni pensavano che tali
disposizioni abilitassero gli organi delle Nazioni Unite a
promuovere il rispetto dei diritti umani attraverso atti privi di
obbligatorietà, come raccomandazioni e risoluzioni, che potessero
interferire solo in maniera modesta negli affari interni di uno Stato.
Altri, invece, attribuirono alle norme statuarie un valore
programmatico, un obbligo a cooperare, piuttosto che un obbligo
formale al rispetto dei diritti umani2.
Nel 1945 la Commissione Preparatoria esortò il Consiglio
Economico e Sociale a istituire, secondo i poteri attribuiti dall’art.
Cfr. C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli,
Torino 2002.
2
31
68 della Carta, una commissione con il compito di redigere una
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Con la risoluzione
1/5 del 15 febbraio 1946 il Consiglio istituì così la Commissione
dei Diritti dell’Uomo, la quale decise di elaborare due documenti:
una Dichiarazione più completa e generale e una Convenzione o
Patto, sui punti più idonei a costituire oggetto di obbligazioni
formali3.
La Dichiarazione venne adottata dall’Assemblea Generale
con la risoluzione 217 (III) del 10 gennaio 1948. Il testo parte dal
presupposto che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in
dignità e diritti» e che tutti «sono dotati di ragione e di coscienza»; è
bandita ogni forma di discriminazione di razza, colore, sesso,
lingua, religione, opinione politica. I primi articoli riguardano i
diritti umani primari come la vita, la libertà, l’uguaglianza, l’integrità
fisica e la sicurezza personale (artt. 1-5). A seguire (artt. 6-18)
vengono elencati i diritti della persona nella sua dimensione sociale,
cioè la personalità giuridica e l’uguaglianza di fronte alla legge. Gli
articoli dal 19 al 21 illustrano i diritti di natura giudiziaria come
l’equo processo e la presunzione di innocenza. Con i diritti
economici, sociali e culturali, si considerano poi il diritto al lavoro e
alla libertà sindacale, al riposo e alla sicurezza sociale (artt. 22-27).
Infine il testo si pone come obiettivi la formazione di un ordine
sociale e internazionale che garantisca i diritti fondamentali,
l’obbligo dell’individuo nei confronti della comunità e il divieto di
attività contrarie a tali diritti.
Dal punto di vista normativo, la Dichiarazione non può
essere considerata obbligatoria o vincolante per le parti, come può
esserlo un trattato. Analizzando però la prassi nelle Nazioni Unite,
si può notare come l’Assemblea Generale abbia utilizzato la
Dichiarazione come un codice o modello di condotta. Sulla base di
tali principi, ha rivolto raccomandazioni e inviti in materia di tutela
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Anche la
giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia considera lo
3
Doc. E/CN.4/21 del 1 luglio 1947.
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Statuto e la Dichiarazione parte integrante del diritto
internazionale, affermando inoltre il carattere obbligatorio erga
omnes delle norme sui diritti fondamentali.
In conclusione si può affermare che, pur non essendo la
Dichiarazione Universale un atto vincolante per gli Stati, il suo alto
valore morale, la pratica degli Stati e l’opinio juris hanno reso il testo
obbligatorio nella prassi, rendendolo un vero e proprio codice di
riferimento per gli organi delle Nazioni Unite che si occupano del
rispetto dei diritti umani.
2.3
I Patti internazionali del 1966
Il Consiglio Economico e Sociale e la Commissione dei
Diritti dell’Uomo decisero di elaborare due documenti: una
Dichiarazione più completa e generale (§ 2.2) e una Convenzione o
Patto che avrebbe dovuto avere forza vincolante per gli Stati che
l’avessero ratificato.
Dopo l’elaborazione della Dichiarazione, la Commissione
cominciò a tradurre i principi generali proclamati dal primo testo in
disposizioni pattizie destinate a imporre obblighi giuridici agli Stati.
Durante i lavori, si rese necessario formulare due Patti per
distinguere due categorie di diritti: da un lato quelli civili e politici,
dall’altro quelli economici, sociali e culturali. Tale distinzione venne
resa necessaria dalla diversa natura dei diritti, che si traduce in una
diversità di definizione, applicazione e controllo. I diritti civili e
politici, infatti, sono facilmente definibili e di immediata
applicazione; mentre i diritti economici, sociali e culturali
richiedono l’esplicita attività dello Stato (e i conseguenti
finanziamenti): la loro applicazione, perciò, non è immediata, bensì
subordinata e condizionata dalla situazione economica e sociale. La
diversa natura dei diritti condiziona anche il meccanismo di
controllo: per i diritti civili e politici, infatti, è stato possibile
realizzare un procedimento di controllo quasi giurisdizionale; per i
diritti economici, sociali e culturali si è potuto solo prevedere un
sistema di rapporti periodici.
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Il 16 dicembre 1966 l’Assemblea Generale adottava i Patti
internazionali e il Protocollo facoltativo, raccomandando agli Stati
la ratifica dei tre atti, con la risoluzione 2200-XXI. Il Patto sui
diritti economici, sociali e culturali entrò in vigore il 3 gennaio
1976, dopo che si raggiunse il numero sufficiente di ratifiche. Il
Patto sui diritti civili e politici entrò in vigore insieme al Protocollo
aggiuntivo il 23 marzo 1976.
2.3.1 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e
culturali
Il Patto è strutturato in cinque parti e trentuno articoli. Il
testo si apre sancendo il principio secondo il quale «tutti i popoli
hanno diritto all’autodeterminazione» (art. 1) ed elenca i diritti che
devono essere rispettati per il conseguimento di questo fine. Gli
articoli 6 e 7 affermano i diritti relativi al lavoro in condizioni giuste
e favorevoli, equamente retribuito e tutelato dal punto di vista della
sicurezza fisica e sociale, dell’igiene e del tempo di riposo. Vengono
poi sanciti i diritti da garantire, come quello di associarsi
liberamente in organizzazioni sindacali, il diritto allo sciopero, la
protezione e l’assistenza alla famiglia, in particolare alle madri e ai
bambini. Inoltre deve essere tutelata la salute fisica e mentale di
ciascuno e il suo diritto all’istruzione, alla partecipazione alla vita
culturale e al godimento dei benefici del processo scientifico.
La Parte Quarta del Patto descrive il meccanismo di
controllo per la tutela dei diritti elencati nel testo. Secondo l’art. 16,
gli Stati che abbiano ratificato il Patto si impegnano a presentare
periodicamente dei rapporti sulle misure adottate e sui progressi
registrati nella promozione del rispetto di tali diritti. I rapporti sono
inviati al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che li trasmette al
Consiglio economico e sociale. Questo può trasmettere i rapporti
alla Commissione dei diritti dell’uomo per pura informazione
oppure per formulare raccomandazioni di carattere generale (art.
19). Infine, secondo l’art. 22, il Consiglio può sottoporre ad altri
organi e istituzioni specializzate delle Nazioni Unite qualsiasi
questione risultante dai rapporti, affinché si valuti l’opportunità di
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attuare «misure internazionali idonee a contribuire all’efficace
progressiva attuazione del presente Patto».
Come si può notare, la procedura non ha un efficace sistema
di controllo, ma, data la pubblicità che può essere data ai rapporti e
le raccomandazioni sia del Consiglio economico e sociale che delle
istituzioni specializzate, essa assume una funzione politica e
stimolatrice. Fino alla risoluzione n. 1985/17, il Consiglio
economico e sociale era l’unico organo abilitato alla supervisione di
tali rapporti. Con questa risoluzione il Consiglio ha creato il
Comitato per i diritti economici, sociali e culturali, che esamina i
rapporti presentati dagli Stati e ha il compito di formulare
suggerimenti e raccomandazioni di carattere generale. Tale
procedura, però, non ha riscosso risultati soddisfacenti, perché
mancano mezzi di indagine efficaci e gli Stati presentano i loro
rapporti con ritardo. Attualmente esiste un progetto di Protocollo
facoltativo4, che dovrebbe istituire una procedura di controllo su
comunicazioni presentate da individui o gruppi di individui, simile
alla procedura realizzata nel Patto internazionale sui diritti civili e
politici.
2.3.2 Patto internazionale sui diritti civili e politici
Questo patto è costituito da 53 articoli ed è diviso in sei
parti. L’art. 1, relativo al principio di autodeterminazione dei
popoli, richiama il primo articolo del Patto sui diritti economici,
sociali e culturali. Il testo tutela il diritto alla vita (art. 6), pur
ammettendo l’applicazione della pena di morte per i crimini più
gravi. Il Patto riprende dalla Dichiarazione universale sia il divieto
dell’uso della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (art.
7), sia il divieto di privare chiunque della propria libertà in maniera
arbitraria (art. 9); inoltre afferma l’eguaglianza di tutti gli individui
di fronte alla legge (art. 14) e impone la tutela della libertà di
pensiero, di coscienza e di religione (art. 18). Vieta inoltre qualsiasi
propaganda a favore della guerra (art. 20). Riconosce il diritto al
4
Doc. E/CN.4/1997/105.
35
matrimonio (art. 23) e l’uguaglianza tra i coniugi, i quali, insieme
alla società e allo Stato, devono tutelare i minori (art. 24). Ogni
cittadino gode del diritto di voto, di accesso alle cariche elettive e ai
pubblici impieghi nel proprio paese.
La Parte Quarta del Patto descrive gli organi e le procedure
di controllo per la tutela dei diritti elencati nel testo. L’art. 28
istituisce un Comitato dei diritti dell’uomo, composto da 18
membri, eletti a titolo individuale dagli Stati membri del Patto,
tenuto conto di una equa spartizione geografica, della
rappresentanza delle diverse forme di civiltà e dei principali sistemi
giuridici. Il Comitato opera secondo tre procedure: un sistema di
rapporti tra Stati, le comunicazioni interstatali e le comunicazioni
individuali previste dal Protocollo facoltativo.
I rapporti tra Stati. Il Comitato studia i rapporti inviati dagli
Stati sulle misure legislative adottate per rendere effettivi i diritti
riconosciuti nel Patto e sulle problematiche che si sono presentate
nella loro applicazione. Una volta ricevuti e studiati i rapporti, il
Comitato può fare delle osservazioni agli Stati che, a loro volta,
possono commentarle. Secondo l’art. 40, inoltre, il Segretario
Generale, dopo aver interpellato il Comitato, può trasmettere i
rapporti alle agenzie specializzate nel caso in cui alcuni punti dei
rapporti dovessero rientrare nelle loro competenze. Il Comitato,
all’inizio della sua attività, emanò delle linee guida per rendere più
omogenei e meglio comparabili i rapporti degli Stati; inoltre ha la
facoltà, in caso di gravi violazioni dei diritti umani, di informare gli
organi competenti delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di
Sicurezza. Una grande importanza è data alle cosiddette Osservazioni
Generali, che richiamano l’attenzione degli Stati membri e delle
organizzazioni internazionali sulle insufficienze più frequenti e
fungono da stimolo per una maggiore promozione e protezione dei
diritti umani. Tale sistema di indagine ha un’efficacia molto limitata
sia perché sono gli Stati a elaborare i propri rapporti, sia perché al
Comitato manca la possibilità di intraprendere indagini dirette.
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Nonostante la procedura non abbia effetti giuridici, la pubblicità
dei rapporti costituisce un gran mezzo di pressione politica5.
Le comunicazioni interstatali. Il Patto sui diritti civili e politici
presenta una procedura di controllo più incisiva attraverso le
comunicazioni tra Stati, costituenti una forma impropria di ricorsi
che non danno luogo a specifiche procedure giurisdizionali ma
mettono in moto un meccanismo di conciliazione fondato sulla
volontà degli Stati. Ogni Stato, infatti, può riconoscere o meno la
competenza del Comitato a ricevere ed esaminare tali
comunicazioni (art. 41). La procedura si articola in tre fasi.
Inizialmente il rapporto si svolge tra i due Stati. Se uno Stato ritiene
che un altro abbia disapplicato una disposizione del Patto, può
richiamare sulla questione l’attenzione di quest’ultimo. Il ricevente
della comunicazione inoltra all’altra parte tutte le osservazioni e le
notizie idonee a chiarire la questione. Se entro sei mesi dalla
ricezione della comunicazione dello Stato destinatario la questione
non è risolta, interviene il Comitato, che, dopo aver accertato la
ricevibilità della comunicazione in base al principio del previo
esaurimento delle vie di ricorso interne, si pone come intermediario
tra le parti e può chiedere qualsiasi informazione agli Stati per
risolvere la questione. Entro dodici mesi dalla data di notifica della
comunicazione il Comitato deve concludere la procedura e
presentare un rapporto che viene poi comunicato agli Stati. Se non
è stato ancora possibile risolvere la questione, viene formata con il
consenso delle parti una Commissione di conciliazione ad hoc,
composta da cinque membri nominati dal Comitato e dagli Stati
interessati. La Commissione svolge le stesse attività del Comitato
nella fase precedente. Entro dodici mesi dalla notifica della
comunicazione l’organo deve concludere la procedura con un
nuovo rapporto comunicato poi alle parti, le quali hanno tre mesi
di tempo per trasmettere l’accettazione o meno dei termini della
5 Cfr. § 2.3 riguardante il Patto sui diritti economici, sociali e culturali. Entrambi
i Patti hanno lo stesso sistema di rapporti tra Stati, con gli stessi effetti sia sul
piano giuridico sia su quello politico.
37
composizione proposta dalla Commissione. Il Patto non prevede
alcun seguito nel caso in cui gli Stati rifiutino la proposta della
Commissione oppure nel caso in cui quest’ultima non riesca a
elaborare alcuna soluzione.
Le comunicazioni individuali previste dal Protocollo facoltativo. Solo
per gli Stati parte del Protocollo facoltativo, il Comitato è
competente a ricevere ed esaminare le comunicazioni di individui
che si ritengono vittime di violazioni dei diritti riconosciuti dal
Patto e dal Protocollo. Secondo l’art. 4, dopo aver ricevuto la
comunicazione, il Comitato deve portarla all’attenzione dello Stato
interessato, che ha 6 mesi di tempo per chiarire la questione. Il
Comitato non può considerare le comunicazioni che riguardano
questioni già in esame secondo una diversa procedura di
investigazione o conciliazione internazionale. Il processo di esame
della comunicazione deve avvenire durante le sedute a porte chiuse
del Comitato (art. 5). Le comunicazioni devono essere inoltrate al
Segretario Generale, che può chiedere integrazioni del contenuto
prima di trasmetterle al Comitato, che a sua volta, prima di
inoltrare la comunicazione allo Stato interessato, può informarlo
delle misure provvisorie giudicate opportune per proteggere la
vittima della presunta violazione. Dopo aver registrato in Segreteria
la comunicazione, viene esaminata la sua ricevibilità. Il Comitato,
per facilitare tale procedura, ha creato un Gruppo di lavoro e ha
nominato un Relatore speciale, che può raccomandare
l’irricevibilità ratione materiae, personae, loci o temporis. L’art. 90 del
Regolamento indica le condizioni di ricevibilità della
comunicazione: essa non deve essere anonima e deve provenire da
un individuo o gruppo di individui (ratione personae) soggetti alla
giurisdizione di uno Stato che faccia parte del Protocollo
facoltativo (ratione loci); l’individuo deve rivendicare, in modo
sufficientemente provato (manifesta infondatezza) che è vittima di una
violazione di uno qualsiasi dei diritti riconosciuti dal Patto (ratione
materiae) e che questa violazione sia avvenuta in seguito all’entrata
in vigore del Patto (ratione temporis). La comunicazione non deve
costituire un abuso del diritto di presentazione e non deve essere
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incompatibile con le disposizioni del Patto. La questione non deve
essere all’esame di altri procedimenti internazionali e infine
l’individuo deve aver esaurito le vie di ricorso interne disponibili.
Quando il Comitato o gli altri organi sussidiari ricevono la
comunicazione, devono richiedere allo Stato, parte interessata, di
presentare una replica scritta. Lo Stato, entro sei mesi, deve
presentare al Comitato spiegazioni o dichiarazioni scritte,
riguardanti la ricevibilità, il merito della comunicazione e i rimedi
che sono stati adottati per
rimediare alla violazione.
Se il Gruppo di lavoro
non
raggiunge
un
accordo, la questione è
delegata al Comitato, che
resta l’unico responsabile
della dichiarazione di
irricevibilità e che non è
in ogni caso vincolato
dalle raccomandazioni del
Gruppo o del Relatore. Il
Protocollo non precisa le
modalità con le quali si svolge la procedura, affermando
semplicemente che si svolge a porte chiuse e che il Comitato è
obbligato a inoltrare i suoi pareri finali sia allo Stato che
all’individuo. I pareri del Comitato non sono vincolanti, infatti il
Protocollo non prevede alcun meccanismo costrittivo o
sanzionatorio: quando si accertano violazioni di diritti, il Comitato
specifica le misure appropriate per rimediare al torto subito dalla
vittima, ma, a differenza della Corte Europea, non ha il potere di
pronunciarsi per un’equa riparazione della violazione subita. Uno
dei vari problemi che bisogna menzionare è il ritardo delle
procedure, dovuto al fatto che il Comitato si riunisce solo tre volte
l’anno e deve dare all’autore della comunicazione e allo Stato il
tempo sufficiente per preparare le proprie osservazioni. Una delle
proposte per risolvere questo problema è la “procedura accelerata”,
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già adottata nel caso Stella Costa vs Uruguay6, nella quale il
Comitato ritenne che i fatti del caso erano già abbastanza chiari da
permettere una valutazione senza ulteriori chiarimenti, a patto che
le parti fossero d’accordo. Altre proposte, invece, prevedono la
delega di molte delle funzioni istruttorie al Relatore speciale e la
creazione di nuovi Gruppi di lavoro con la facoltà di dichiarare
irricevibili le comunicazioni.
2.4
La Commissione per i Diritti dell’Uomo
La Commissione dei Diritti dell’Uomo fu istituita dal
Consiglio economico e sociale con la risoluzione n. 5 del 16
febbraio 1946. Essa si dedicò innanzitutto alla stesura della
Dichiarazione, dei due Patti e di altre convenzioni, ma non aveva
alcuna possibilità di azione di fronte alle violazioni dei diritti
dell’uomo che le sarebbero state denunciate. Nonostante questa
carenza di poteri, pervennero alle Nazioni Unite numerose
denunce di violazioni dei diritti umani. La Commissione adottò
allora una procedura consistente nella redazione e nella
distribuzione delle comunicazioni ricevute, divise in due liste: una
prima, non confidenziale, relativa agli aspetti e alle problematiche
sorte nello sviluppo della protezione dei diritti dell’uomo; una
seconda, confidenziale, contenente brevi indicazioni sulle violazioni
dei diritti. Dopo molte critiche, il Consiglio economico e sociale –
con la risoluzione del 4 marzo 1966, n. 1102 (XL) – invitava la
Commissione a esaminare le violazioni dei diritti dell’uomo,
soprattutto in merito alla politica di discriminazione razziale,
segregazione e apartheid, e a presentare raccomandazioni contenenti
misure idonee a far cessare tali violazioni.
Le risoluzioni n. 1102 del 1966, n. 1235 (XLII) del 6 giugno
1967 e n. 1503 (XLVIII) del 27 maggio 1970, costituiscono la base
normativa dei procedimenti extraconvenzionali che sono di due
G.A.O.R. 42nd Session, Supplement n.40 (A/42/40), Report of the Human Rights
Committee, p. 70.
6
40
tipi: a) procedimenti confidenziali o ex 1503; b) procedimenti
pubblici o ex 1235.
Procedimento confidenziale o ex 1503. In tale procedimento sono
coinvolti sia la Sottocommissione per la protezione delle
minoranze sia la Commissione per i Diritti Umani. Le
comunicazioni possono essere presentate da singoli individui,
gruppi o organizzazioni non governative che sono venute a
conoscenza di violazioni; per essere accettate, devono definire una
situazione manifesta di violazione sistematica dei diritti umani. La
Commissione può attuare diverse misure: 1) dichiarare concluso il
procedimento quando non è stato possibile identificare una
situazione o la stessa non si è più prodotta; 2) mantenere pendente
il caso in attesa di ulteriori informazioni che possono chiarire la
situazione; 3) istituire, previo consenso dello Stato, comitati speciali
di controllo; 4) dichiarare concluso il procedimento ex 1503 e
avviare il procedimento pubblico speciale per il Paese. Negli ultimi
anni, quest’ultimo provvedimento è stato sempre meno usato, sia
perché gli Stati tendevano a sfruttarlo pur di evitare procedimenti
pubblici, sia perché manca un’efficace protezione per l’individuo.
Procedimento pubblico o ex 1235. Questo procedimento venne
istituito nel 1968 per il controllo dei diritti umani nell’Africa
meridionale. Esso è definito pubblico perché non richiede il
consenso dello Stato soggetto a controllo. Come l’ex 1503 può
essere avviato soltanto quando esiste una situazione manifesta di
violazioni sistematiche dei diritti umani. Si può avere un
procedimento specifico per un Paese quando la violazione si
verifica in un determinato territorio, mentre si avvia un
procedimento tematico quando il problema si verifica su scala
mondiale rispetto a un determinato diritto. L’investigazione sulla
situazione viene attuata da un organo d’informazione istituito ad
hoc, che ha lo scopo di valutare i fatti in base a tutti i dati
disponibili; ultimata l’indagine, l’organo d’informazione elabora un
rapporto sulla situazione esaminata e trasmette delle
raccomandazioni alla Commissione dei Diritti dell’Uomo, che si
occuperà dell’attività di controllo. Questo procedimento non è
41
giudiziario, ma negli anni si è sviluppato il metodo dell’azione urgente
che realizza una forma di protezione indiretta dell’individuo: gli
organi di controllo possono indurre uno Stato ad adottare delle
misure cautelari di natura urgente nei confronti di un individuo che
rischia di vedere violati i suoi diritti o si trova in imminente
pericolo di violazione. L’azione urgente è comunque un metodo
eccezionale: la Commissione, infatti, continua a operare
specialmente attraverso raccomandazioni di natura generale. Anche
in questo caso l’efficacia del sistema poggia sulla pressione che può
esercitare la pubblicità di tale procedimento nei confronti di uno
Stato.
2.5
Alto Commissario per i diritti umani
L’Alto Commissario per i diritti umani è stato istituito nel
dicembre 1993 con la risoluzione n. 48/141 e ha il compito di
promuovere e coordinare l’azione delle Nazioni Unite e delle
istituzioni specializzate del Centro per i diritti umani di Ginevra. Il
Commissario traccia le linee-guida della politica dell’organizzazione
in materia di diritti umani e il suo lavoro viene esercitato sotto la
direzione del Segretario Generale, dell’Assemblea e della
Commissione per i Diritti dell’Uomo. Egli promuove la protezione
dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali; garantisce
un’assistenza di natura consultiva, tecnica e finanziaria agli Stati in
materie di sua competenza; coordina l’azione dei programmi
educativi e d’informazione creati dagli Istituti specializzati; imposta
un dialogo con i governi e i membri della comunità internazionale
per la promozione, la protezione ed il rispetto dei diritti umani;
attraverso il Consiglio economico e sociale, presenta ogni anno
all’Assemblea ed alla Commissione per i Diritti dell’Uomo un
rapporto sulle attività realizzate.
42
3
La protezione dei
continente europeo
3.1
Il Consiglio d’Europa
diritti
umani
nel
Nel Maggio 1948, il Congresso del Movimento europeo,
esprimeva la volontà di elaborare una Carta dei Diritti dell’Uomo
che garantisse la libertà di pensiero, riunione ed espressione, e di
formare una Corte di giustizia che potesse applicare le sanzioni
necessarie per farla rispettare. Venne istituita una sezione giuridica
del Movimento per elaborare un progetto di Convenzione europea
dei diritti dell’uomo ed un progetto di Statuto della Corte europea.
Il 5 maggio 1949 venne firmato lo Statuto del Consiglio d’Europa,
in cui tra i compiti principali figurano la tutela e lo sviluppo dei
diritti umani e delle libertà fondamentali, secondo cui il
riconoscimento della preminenza del diritto ed in particolar modo
dei diritti umani è una condizione fondamentale per l’attribuzione
della qualità di membro, per cui una violazione grave di questi
diritti porterebbe lo Stato ad una sospensione o espulsione dal
Consiglio d’Europa. In seguito il Comitato di Ministri istituì un
Comitato di alti funzionari incaricato di redigere un progetto di
Convenzione che venne poi firmato a Roma il 4 novembre 1950 ed
entrato in vigore il 3 settembre 1953. Oltre a essa, sono Stati
elaborati dei Protocolli aggiuntivi ed un Accordo europeo
concernente le persone che partecipano alla procedura di fronte alla
Corte europea dei diritti dell’uomo firmato a Strasburgo il 5 marzo
1996 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1999.
3.1.1 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, del 1950 ha
due novità: l’obbligatorietà dell’atto e l’esistenza di un meccanismo
di controllo ad hoc. Il testo è un atto vincolante per gli Stati che
l’hanno firmato e ratificato. Essi sono obbligati a rispettare le
norme contenute nella Convenzione nei riguardi degli individui
43
sottoposti alla loro giurisdizione, senza la possibilità di apporre
riserve. La seconda novità è costituita da un meccanismo di
controllo della condotta degli Stati, nel caso di denunce di
violazioni della Convenzione. Il testo è diviso in tre parti. Nel
Titolo I sono enunciati i diritti individuali che lo Stato si impegna a
rispettare: il diritto alla vita (art. 2); il divieto dell’uso di trattamenti
disumani e degradanti (art. 4); il diritto alla libertà ed alla sicurezza
personale (art. 5); il diritto ad un equo processo (art. 6); libertà di
pensiero, coscienza, religione, espressione, riunione ed associazione
(artt. 9, 10 e 11). Molti altri diritti e libertà, sono stati aggiunti con
lo sviluppo della realtà sociale e sono stati inseriti nella
Convenzione attraverso dei Protocolli aggiuntivi. La Convenzione
ha il merito di aver posto degli standard internazionali di
protezione a cui si rifanno gli Stati.
Nella seconda parte del testo, al Titolo II, viene descritto il
meccanismo di tutela stabilito dalla Convenzione. Altra novità è il
diritto dato agli Stati ed agli individui, di attivare una istanza
internazionale al fine di giudicare la condotta di uno Stato7. Tale
istanza, però, è basata sulla volontà degli Stati, in quanto essi
devono aver sottoscritto la Convenzione per attivare il meccanismo
di tutela. Il vecchio meccanismo è stato sostituito nel 1998 da uno
nuovo. In precedenza, la Commissione europea per i diritti umani,
era composta da un numero di membri uguale a quello degli Stati
contraenti, ed aveva funzioni istruttorie e di conciliazione, sui
ricorsi che riguardavano violazioni dei diritti umani da parte di uno
Stato contraente. La Commissione, una volta giudicata
l’ammissibilità dei ricorsi, tentava un componimento pacifico tra le
parti: se questo componimento dava risultati positivi, il caso era da
ritenersi chiuso; in caso contrario la Commissione redigeva un
rapporto e lo trasmetteva alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la
quale si pronunciava con una vera e propria sentenza. Godevano
del diritto di ricorso sia il singolo Stato contraente, sia l’individuo o
gruppo di individui vittime della violazione. Con il Protocollo n. 11
7
Cfr. M. PATRONO, I diritti dell’uomo nel paese d’Europa, CEDAM, Padova 2000.
44
nel 1998, il meccanismo ha subito una vera e propria rivoluzione: al
fine di ridurre i tempi dei processi, la Corte europea dei diritti
umani si è sostituita alle tre precedenti strutture: la Commissione, la
Corte ed il Comitato dei ministri. Al suo interno la Corte è formata
da: i Comitati formati da 3 giudici che si pronunciano riguardo la
ricevibilità dei reclami individuali; le Camere, composte da 7 giudici
con funzione di filtro per i reclami statali e di giudizio per entrambi
i tipi di reclami; la Grande Camera costituita da 17 giudici, che può
essere adita in sede di appello e si pronuncia su questioni che
riguardano i principi fondamentali della Convenzione; il Plenum
della Corte alla quale è affidata la soluzione di problemi
organizzativi. La Corte può giudicare le violazioni della
Convenzione e dei suoi protocolli (competenza ratione materiae); quelle
compiute nel territorio di uno Stato membro da un organo dello
Stato (competenza ratione loci); quelle compiute dallo Stato dopo
l’adesione al Consiglio d’Europa e dopo la ratifica della
Convenzione (competenza ratione temporis); ed infine quelle compiute
da Stati membri, persone fisiche o giuridiche, gruppi di privati ed
organizzazioni non governative. La Corte ammette i ricorsi solo nei
casi in cui: vengano presentati entro 6 mesi dalla notifica al
ricorrente della sentenza definitiva; dopo che siano stati esauriti
tutti i ricorsi interni; sia stato richiesto il parere della Corte su casi
concreti e non astratti; il ricorrente sia vittima o vittima potenziale
della violazione; il ricorso non sia né anonimo, né identico ad uno
già presentato presso altre corti od organismi, né manifestamente
infondato o abusivo. La Corte esamina la ricevibilità del ricorso ed
in seguito passerà a produrre una valutazione in merito, quindi ci
sarà il contraddittorio tra il ricorrente e lo Stato convenuto. Il suo
compito principale è quello di mettersi a disposizione delle parti
per raggiungere un regolamento amichevole della controversia che
si fondi sul rispetto dei diritti dell’uomo quali riconosciuti dalla
Convenzione. In caso di componimento pacifico, la Corte cancella
il ricorso mediante una decisione che si limita ad una breve
esposizione dei fatti e della soluzione adottata, in caso contrario
essa si pronuncerà con una sentenza definitiva. L’udienza della
45
Corte è pubblica, così come i documenti depositati, a meno che
non si decida diversamente a causa di circostanze eccezionali. La
sentenza ha carattere definitivo e dichiarativo. Generalmente la
Corte si riunisce in Camere per deliberare. Entro tre mesi dalla data
della sentenza di una Camera, ogni parte della controversia può, in
situazioni eccezionali, chiedere che il
caso sia rinviato davanti alla Grande
Camera. Questa, come già detto,
ammette il ricorso solo nel caso in cui
la questione sollevi gravi problemi di
interpretazione o applicazione della
Convenzione o dei suoi Protocolli; se
lo ammette, si pronuncerà con una
sentenza (art. 43). Ai sensi dell’art. 41,
se la Corte dichiara la violazione della
Convenzione o dei suoi Protocolli,
oppure l’ordinamento interno dello
Stato non permette di rimuovere
totalmente le conseguenze di tali
violazione, la Corte accorda un’equa
soddisfazione alla parte lesa. In questo caso, stabilirà anche il
termine entro il quale lo Stato dovrà provvedere all’equa
soddisfazione, superato tale termine lo Stato sarà chiamato a pagare
anche gli interessi moratori. Le Alte Parti contraenti si impegnano a
conformarsi alle sentenze definitive della Corte circa le
controversie cui prendono parte. La sentenza definitiva della Corte
è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione, e
che può chiedere il riesame del caso davanti ai tribunali interni,
quando non è possibile un’equa soddisfazione. Con la risoluzione
1226, l’Assemblea parlamentare ha chiarito le modalità di
svolgimento del meccanismo di controllo: apertura della procedura
sui seguiti oppure ricorso alle sanzioni previste all’art. 8 dello
Statuto (sospensione del diritto di rappresentanza o allontanamento
dal Consiglio d’Europa). L’Assemblea parlamentare può controllare
46
anche attraverso delle delegazioni parlamentari affinché queste
facciano leva sui governi che rappresentano.
3.2
L’Unione Europea
I Trattati istitutivi della Comunità europea non contenevano
alcun riferimento ai diritti umani. Con l’affermarsi dell’applicazione
diretta del diritto comunitario in quello interno, gli Stati membri
sentirono la necessità di tutelare dalle interferenze comunitarie i
diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento interno. La Corte
di giustizia, nelle sue prime sentenze in materia8, affermò che i
diritti fondamentali costituivano parte integrante dei principi
generali del diritto comunitario, specificando che, nel garantire tali
principi, doveva ispirarsi alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, alla Carta sociale europea ed ai Patti delle Nazioni
Unite. Questa esigenza di tutelare i diritti umani ha portato,
attraverso uno sviluppo normativo nei vari trattati, alla redazione
della Carta europea dei diritti fondamentali. La crescente attenzione
in ambito comunitario alle problematiche inerenti alla tutela dei
diritti umani ha trovato un primo riconoscimento a livello
normativo, a partire dall’Atto Unico Europeo, entrato in vigore il 1
luglio 1987. Nel preambolo è enunciata tra le finalità primarie
dell’Europa comunitaria la promozione di una democrazia, fondata
«sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni e dalle leggi
degli Stati membri, nonché dalla Convenzione europea di
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla
Carta sociale europea, e precisamente la libertà, l’uguaglianza e la
giustizia sociale». In tale settore è intervenuta anche la Corte di
Giustizia delle Comunità europee, che ha inserito i diritti
fondamentali nell’ambito dei principi generali di diritto
comunitario, estrapolandoli sia dalla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e sia dalle costituzioni degli Stati membri. Con il
Trattato di Maastricht, la garanzia dei diritti fondamentali viene
Corte di Giustizia, Sentenza Stauder, causa 29/69 del 12 Novembre 1969;
sentenza Nold del 14 Maggio 1974.
8
47
sancita e riconosciuta attraverso la disposizione in base alla quale,
secondo l’art. 6.2 del Trattato sull’Unione Europea, «L’Unione
Europea rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e
quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri, in quanto principi generali del diritto comunitario». Anche
nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, i diritti
dell’uomo e le libertà fondamentali vengono espressamente inseriti
tra gli obiettivi della PESC (art. 1 TUE). Il Trattato di Amsterdam
introduce, in materia di diritti fondamentali, innovazioni di rilievo.
All’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, si descrive una
procedura sanzionatoria attraverso la quale il Consiglio, riunito
nella composizione dei Capi di Stato o di Governo può accertare,
su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e
previo parere del Parlamento europeo, «l’esistenza di una
violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro» dei
principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle
libertà fondamentali e dello stato di diritto, assumendo
all’unanimità apposita deliberazione che conclude la prima fase
della constatazione della violazione. In tale meccanismo procedurale,
gli organi comunitari interessati sono solo quelli di natura politica: il
Parlamento, che interviene in funzione consultiva, la Commissione
a cui spetta l’adozione degli atti di iniziativa (ossia la proposta) e il
Consiglio che assume l’atto decisionale. La gravità e la persistenza
della violazione dei diritti umani, che attivano la procedura, ed il
principio dell’unanimità dei consensi per l’adozione della delibera “di
constatazione” sembrano delimitare l’ambito applicativo della
procedura a casi eccezionali. Nella seconda fase dell’iter
procedurale, il Consiglio può decidere di adottare misure
sanzionatorie di un certo rilievo, consistenti nella sospensione di uno
stato membro da alcuni diritti spettanti allo stesso in virtù del
Trattato (ad esempio, il diritto di voto in seno alle istituzioni
comunitarie), pur rimanendo vincolato agli obblighi derivanti dal
proprio status di membro. Se la situazione di violazione migliora o
48
viene annullata, il Consiglio può in un qualsiasi momento ridurre
od annullare le misure sanzionatorie; in caso di peggioramento esso
può appesantire le sanzioni, con la sospensione di altri diritti. Nel
1999 il Consiglio europeo di Tampere, ha accolto le richieste del
Presidente del Parlamento, riguardo la costituzione di un organo
preposto alla elaborazione di un progetto di Carta dei diritti
fondamentali. Questo doveva essere formato da un rappresentante
per ogni governo dei 15 Stati membri, 16 membri del Parlamento
europeo e 30 membri dei Parlamenti nazionali. Nel 2000 la
Convention (nome dato a quest’organo) ha adottato per consenso un
progetto, poi presentato al Parlamento, alla Commissione ed al
Consiglio che l’hanno firmato il 7 dicembre 2000 al Consiglio
europeo di Nizza con il nome di Carta europea dei diritti
fondamentali. La Carta è inquadrabile nella categoria degli “atti
atipici” in quanto non è una convenzione perché non è soggetta a
firma e ratifica e, di conseguenza, non comporta vincoli giuridici a
carico degli Stati membri dell’Unione. Il Consiglio europeo di
Nizza del 2000, ha proclamato la Carta europea dei diritti
fondamentali, non integrandola nei Trattati, malgrado numerose
richieste da parte della Commissione, del Parlamento europeo e di
alcuni Stati che avevano espresso la volontà di rendere la sua
efficacia vincolante per i membri dell’Unione. Se nella prassi la
Carta ricevesse una concreta applicazione, sarebbe un passo iniziale
verso la formulazione di una Costituzione europea. In caso
contrario, la Carta resterebbe una dichiarazione di principio che
elenca una serie di diritti, già riconosciuti da altre dichiarazioni e
carte. La Carta può essere considerata solo un atto che impegna
moralmente le istituzioni che l’hanno firmata9.
3.2.1 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Il progetto di Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea si sviluppa in un Preambolo e 54 articoli, divisi in sette
9
C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, cit., p. 248.
49
capi, che enunciano diritti politici, sociali, civili ed economici
garantiti dall’Unione Europea ai suoi cittadini.
Tali diritti sono suddivisi secondo: la dignità della persona, la
libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza, principi che sono
enunciati nel Preambolo «l’Unione si fonda sui valori indivisibili e
universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà».
L’ultimo capitolo contiene disposizioni di portata generale che
riguardano l’ambito di applicazione e la portata dei diritti garantiti
dalla Carta.
Nel Preambolo si richiama lo spirito al quale l’Unione
Europea ispira la propria azione. Accanto ai principi universali già
enunciati, si affermano i principi della democrazia e dello Stato di
diritto. Si afferma inoltre che l’Unione Europea «pone al centro
della sua azione la persona istituendo la cittadinanza dell’Unione e
creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Si garantisce il
rispetto del principio di sussidiarietà e dei diritti riconosciuti dal
Trattato sull’Unione Europea e dai trattati comunitari, dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da
quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il Capo I enuncia il principio del rispetto della dignità di ogni
individuo: si compone di cinque articoli, il primo dei quali afferma
l’inviolabilità della dignità umana. Ne deriva il diritto alla vita, la
condanna della pena di morte, il diritto all’integrità della persona,
con la conseguente introduzione dei nuovi diritti della genetica, che
impedisce la clonazione e ogni esperimento sugli esseri umani (ai
quali garantisce integrità fisica, genetica e psichica) e che rispetta il
consenso libero e informato del paziente. Si sancisce il divieto di fare del
corpo umano una fonte di lucro. Gli articoli 4 e 5 sanciscono la
proibizione dell’uso della tortura e di pene disumane degradanti,
della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani.
Il Capo II si compone di quattordici articoli dedicati alle
libertà: accanto ai diritti classici (quali alla libertà personale, al
rispetto della vita privata e familiare, alla libertà di pensiero,
coscienza o religione, di stampa e di opinione, di riunione e di
associazione, della scienza e delle arti), si affiancano nuovi diritti,
50
detti di seconda generazione, come il diritto all’obiezione di
coscienza, la protezione dei dati personali o l’estensione del diritto
di proprietà alle opere intellettuali. Si prevede il riconoscimento del
diritto a sposarsi e del diritto di costituire una famiglia. L’articolo
14, relativo al diritto all’istruzione, introduce il diritto alla
formazione professionale, la gratuità dell’istruzione obbligatoria, e
il diritto di creare istituti di insegnamento e, per le famiglie, di
scegliere il tipo di istruzione da impartire ai loro figli, garantiti dalle
leggi nazionali. I due articoli successivi disciplinano la libertà
professionale e il diritto per ogni cittadino di circolare, risiedere
liberamente e lavorare in tutto il territorio dell’Unione. Questo
diritto si applica anche ai cittadini di paesi terzi che siano
autorizzati a lavorare negli Stati membri. Seguono il
riconoscimento della libertà d’impresa, del diritto di proprietà, del
diritto d’asilo e il principio dell’articolo 19, che proibisce le
espulsioni collettive, nonché l’estradizione di persone verso Paesi in
cui esista il rischio di tortura o pena di morte.
L’uguaglianza è il principio che ispira il Capo III della Carta,
composto di sette articoli: dal diritto fondamentale dell’uguaglianza
di tutti i cittadini di fronte alla legge deriva il divieto di ogni forma
di discriminazione di sesso, razza, estrazione sociale o origine
etnica, religione o convinzioni, handicap, età o orientamento
sessuale. Di contro, si afferma il rispetto di ogni diversità culturale,
religiosa e linguistica e il diritto per tutti ad un pari trattamento e a
pari opportunità in ogni settore della vita e del lavoro,
indipendentemente dal sesso. Una parte rilevante è dedicata ai
diritti dei bambini (articolo 24): oltre al riconoscimento del diritto
fondamentale alla protezione e alla cura, si afferma il diritto dei
bambini a «esprimere liberamente le proprie opinioni» e a
intrattenere regolarmente relazioni con entrambi i genitori. Il Capo
si conclude con due articoli dedicati ai diritti degli anziani e dei
disabili, per promuoverne l’inserimento sociale e la partecipazione
alla vita della comunità.
Il Capo IV si compone di dodici articoli, riguardanti la
solidarietà, che accanto al lavoro si qualifica come oggetto di diritto
51
fondamentale dell’Unione: si riconosce il diritto dei lavoratori
all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, il
diritto di negoziare e ricorrere ad azioni collettive, compreso lo
sciopero, il diritto alla protezione contro il licenziamento arbitrario,
a un’efficace tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, alla
regolamentazione degli orari di lavoro e a godere di adeguati
periodi di riposo e di ferie. Si proibisce il lavoro minorile,
precisando che si fa riferimento a minori in età di obbligo
scolastico. Si riconosce il diritto alla protezione giuridica, sociale ed
economica per le famiglie e la tutela della maternità, con la
protezione dal licenziamento in caso di maternità e la garanzia di
poter usufruire di congedi per la nascita o l’adozione di un figlio. Si
stabilisce il diritto all’assistenza sociale e sanitaria e la tutela sociale
e l’assistenza abitativa per tutti coloro che non dispongano di
risorse sufficienti, in accordo con quanto previsto dalle legislazioni
nazionali e dal diritto comunitario (art. 34). Si garantisce il diritto
alla sanità pubblica, alla quale si richiede un livello elevato di
protezione della salute umana. Il consumatore ha altresì diritto ad
accedere a servizi di interesse economico generale e a godere di
un’elevata protezione e qualità dell’ambiente.
Gli otto articoli del Capo V riguardano la cittadinanza: la
cittadinanza europea comporta la partecipazione effettiva, diretta e
indiretta, attraverso le istituzioni europee rappresentative; si
stabilisce pertanto il diritto di voto e di eleggibilità al Parlamento
europeo e alle elezioni comunali negli Stati membri. Si riconoscono
anche il diritto alla trasparenza dei processi decisionali e alla libertà
d’informazione, il diritto per ognuno di accesso agli atti
amministrativi e agli altri dati che lo riguardino, il diritto di
presentare una petizione al Parlamento europeo, la libertà di
circolazione e di soggiorno nel territorio dell’Unione e il diritto di
ricorrere al Mediatore dell’Unione per casi di cattiva
amministrazione.
Il Capo VI, che si compone di quattro articoli, concerne la
giustizia: tutti hanno diritto a ricorrere dinanzi a un giudice in caso
di violazione dei propri diritti, all’assistenza legale e a una difesa
52
gratuita, nel caso in cui non si disponga di mezzi sufficienti. È
sancita inoltre la presunzione di innocenza. Di gran valore anche gli
articoli sulle condanne penali (artt. 49 e 50), che sanciscono il
divieto di pene sproporzionate rispetto al reato e il diritto di non
essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato.
I quattro articoli del Capo VII definiscono in primo luogo
l’ambito di applicazione, precisando che le disposizioni della Carta
si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarietà e agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione. Per quanto concerne la
portata dei diritti riconosciuti dalla Carta, l’articolo 52 prevede la
possibilità di limitazione dei diritti e delle libertà riconosciute solo
per legge, nel rispetto, comunque, del loro contenuto essenziale.
Eventuali limitazioni possono essere apportate solo se necessarie o
rispondenti a finalità di interesse generale o allo scopo di
proteggere diritti e libertà altrui. Si inserisce infine una clausola in
base alla quale nessuna disposizione adottata nella Carta può essere
interpretata in senso limitativo dei diritti e delle libertà
fondamentali riconosciute dalle Costituzioni degli Stati membri e
dalle convenzioni internazionali stipulate dall’Unione. L’ultimo
articolo sancisce il divieto dell’abuso di diritto, al fine di evitare che
53
le disposizioni della Carta possano essere interpretate nel senso di
consentire attività che comportino la distruzione o limitazione di
diritti riconosciuti dalla Carta stessa.
Conclusioni
A partire dal secondo dopoguerra, gli Stati hanno sentito il
dovere di includere nelle proprie carte costituzionali cataloghi di
diritti fondamentali e di istituire nel proprio ordinamento
procedure per tutelare tali diritti, conservando sempre il primato
per la loro giurisdizione. Anche la Comunità internazionale ha
sentito lo stesso bisogno: in quegli anni, come afferma Zanghì10, i
diritti dell’uomo vengono «internazionalizzati» e acquistano una
rilevanza sempre più ampia due diritti pressoché ignorati nei secoli
precedenti: quello dell’uguaglianza e quello tutelato dal divieto di
discriminazione. Sebbene la protezione dei diritti fondamentali sia
sempre rientrata nella competenza domestica dello Stato nazionale,
in questi anni assistiamo a una erosione del principio di non
ingerenza della domestic jurisdiction. La Comunità internazionale,
infatti, entra nella gestione dei diritti dell’uomo, intervenendo per
garantire la loro tutela talvolta anche con le armi. Allo stesso tempo
lo Stato nazionale tende ad affidare sempre più materie ad
organizzazioni, leghe e unioni.
Abbiamo cercato di focalizzare il problema della protezione
dei diritti umani prima a un livello universale, analizzando l’attività
delle Nazioni Unite, la sua Dichiarazione universale e i due Patti del
1966. Si è poi esaminato, a livello regionale, il caso del continente
europeo, in particolar modo l’attività del Consiglio d’Europa
attraverso la CEDU e dell’Unione Europea con la Carta dei diritti
fondamentali.
In generale possiamo concludere che i cataloghi dei diritti
fondamentali sono tra loro simili, anche se è differente la loro
classificazione: sono distinti i diritti civili e politici da quelli
economici, sociali e culturali, come i diritti individuali da quelli
10
Ibid., p. 16.
54
collettivi; negli ultimi anni sono emersi i cosiddetti “nuovi diritti”
come quelli riferiti all’ambiente, all’uso delle nuove tecniche
biotecnologiche etc.
Per quanto riguarda gli strumenti di controllo, è degno di
nota il fatto che nessuna procedura sia vincolante, giacché le
Nazioni Unite possono emanare solo raccomandazioni di carattere
generale. La maggior parte degli organi preposti a dirimere le
controversie o valutare gli Stati sulle violazioni, inoltre, devono
essere riconosciuti competenti in materia proprio da questi ultimi.
Anche l’Unione Europea limita la procedura di controllo a casi del
tutto eccezionali, in quanto lega la violazione dei diritti ai principi di
gravità e persistenza e l’azione della constatazione al principio
dell’unanimità. Inoltre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea rientra nella categoria degli atti atipici dell’Unione e non
comporta, di conseguenza, vincoli giuridici per gli Stati membri: di
fatto, essa costituisce per i membri dell’Unione quasi solo un
“impegno morale”. Tra i procedimenti di controllo delle violazioni
dei diritti dell’uomo si evidenzia in maniera positiva il Consiglio
d’Europa e la CEDU: quest’ultima, infatti, è un atto vincolante che
non ammette riserve e prevede organi di controllo ad hoc per le
violazioni della Convenzione. Agli individui è data la possibilità di
attivare un’istanza internazionale per giudicare la condotta degli
Stati; la CEDU stabilisce inoltre il pagamento di un’equa
soddisfazione in caso di violazione, prevedendo il calcolo degli
interessi moratori. Un organo di controllo esegue poi le sentenze
della Corte.
Anche se ricco di problemi, il settore della tutela dei diritti
umani si sta evolvendo in forme sempre più sofisticate e sempre
più sicure per gli individui, soprattutto se gli Stati conserveranno
sempre meno materie sotto la propria giurisdizione e si proseguirà
nella tendenza, delineatasi negli ultimi anni, di affidare agli individui
la possibilità di adire direttamente le corti internazionali per la
denuncia della violazione dei diritti dell’uomo.
55