Savino Patetta
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Savino Patetta
IN DIFESA DELL’UOMO La tutela internazionale dei diritti umani di SAVINO PATETTA 1. Principio della non ingerenza nella domestic jurisdiction 1.1 Nozione di domestic jurisdiction Il principio della non ingerenza nella domestic jurisdiction nasce nel XIX secolo contro le tendenze espansionistiche delle potenze europee e si giustifica con la necessità di proteggere la sovranità e la personalità internazionale degli Stati. Per domestic jurisdiction si intende una serie di materie che ricade nella esclusiva giurisdizione dello Stato, una nozione che ebbe una definizione più chiara ad opera della Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1923: il dominio riservato comprende le materie nelle quali lo Stato è libero da obblighi internazionali di qualsiasi genere1: esso ha quindi, secondo la definizione della Corte, un carattere relativo e storico. È relativo perché dipende dal numero di obblighi internazionali che derivano dal diritto consuetudinario e pattizio; ma dato che le consuetudini sono uguali per tutti gli Stati, la competenza domestica varia in funzione dei trattati stipulati dal singolo Stato. A confermare la relatività della competenza domestica, basta considerare che vi sono materie che tradizionalmente rientravano in essa e che oggi invece sono oggetto dell’attività delle Nazioni Unite: si tratta soprattutto del settore relativo ai diritti umani e all’autodeterminazione dei popoli. La domestic jurisdiction ha poi carattere storico perché, dipendendo da consuetudini e trattati, varia come conseguenza dell’evoluzione del diritto internazionale comune e pattizio. Nel 1 Cfr. B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, CEDAM, Padova 20006. 26 diritto consuetudinario lo Stato non incontra nessun limite alla propria sovranità per quanto riguarda il rapporto con i propri cittadini, l’organizzazione di governo e l’uso del territorio. Oggi però lo Stato, con lo sviluppo della tutela dei diritti dell’uomo nel diritto internazionale comune, incontra delle limitazioni al suo potere nei confronti dei cittadini. Per quanto riguarda il diritto pattizio, mentre un tempo gli Stati erano restii a contrarre obblighi che ricadevano nella competenza domestica, oggi le norme pattizie stanno invadendo quasi tutti i settori: possiamo infatti trovare accordi per collaborazioni economiche, sociali e culturali come l’Unione Europea, nella quale gli Stati membri affidano alla organizzazione materie originariamente appartenenti alla competenza domestica, come nel caso delle tariffe doganali. 1.2 L’art. 2.7 della Carta delle Nazioni Unite Nello Statuto delle Nazioni Unite l’unico limite ratione materiae è quello del dominio riservato o competenza interna, dettato dall’art. 2.7. Tale norma riprende l’art. 15.8 del Patto della Società delle Nazioni, che definiva la competenza domestica come quell’insieme di materie che, secondo il diritto internazionale, apparteneva esclusivamente alla competenza interna dello Stato. L’art. 2.7 viene elevato a principio generale che limita l’attività dell’organizzazione (con l’unica eccezione dettata dal capitolo VII riguardante le misure coercitive adottate dal Consiglio di Sicurezza per la tutela della pace) e tratta delle «questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato», differenziandosi dall’art. 15.8 sia per il termine essenzialmente, sia per avere eliminato il riferimento al diritto internazionale. Il cambiamento terminologico da esclusivamente a essenzialmente trova la sua giustificazione nella necessità di aggravare la portata della nozione di domestic jurisdiction. Come spiegò il delegato americano Foster Dulles alla Conferenza di San Francisco, i redattori vollero evitare che materie normalmente rientranti nella sfera di competenza interna degli Stati, fossero ad esse sottratte perché oggetto in via eccezionale di convenzioni internazionali. Si è perciò 27 voluto sottoporre al limite della competenza domestica tutto ciò che, in linea di principio, non è regolato da norme internazionali. La necessità di aggravare la portata della domestic jurisdiction scaturiva da due preoccupazioni principali. Prima di tutto, si voleva evitare che le norme della Carta in materia di tutela dei diritti umani e collaborazione economica e sociale, portassero a un’ingerenza delle Nazioni Unite negli affari interni degli Stati membri. I redattori erano preoccupati, in secondo luogo, che il Senato americano non ratificasse la Carta (come aveva fatto con il Patto della Società delle Nazioni) nel caso in cui la tutela della competenza domestica fosse stata debole. Alcune norme dello Statuto delle Nazioni Unite, tuttavia, trattano materie non regolate dal diritto internazionale e quindi appartenenti alla competenza interna, come per esempio nel caso del principio di autodeterminazione dei popoli (art. 1.2) o in quello dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 1.3, 55, 56). Per queste materie, appartenenti alla domestic jurisdiction, le Nazioni Unite possono solo adottare risoluzioni di carattere generale e astratto, non potendo emanare risoluzioni direttamente nei confronti degli Stati, per evitare ingerenze sugli stessi. Nella prassi delle Nazioni Unite, però, l’organizzazione si è quasi sempre dichiarata competente a deliberare in settori come la tutela dei diritti umani, non solo attraverso risoluzioni di carattere generale e astratto, ma controllando che, all’interno di questi Stati, i diritti umani venissero rispettati. Inizialmente, nonostante la ratifica del Patto sui diritti civili e politici e di quello sui diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, si riteneva che la violazione dei diritti umani rientrasse nella sfera della competenza domestica, eccezion fatta per le gross violations, cioè violazioni gravi come il genocidio, l’apartheid o la tortura. Oggi assistiamo invece a una vera e propria erosione del dominio riservato nell’ambito della tutela dei diritti umani. Ormai l’attività delle Nazioni Unite ha come oggetto qualsiasi situazione che, in un qualsiasi Stato, sia lesiva della dignità umana. 28 2. Aspetti universali della tutela dei diritti dell’uomo: le Nazioni Unite 2.1 La tutela dei diritti umani La Carta delle Nazioni Unite inaugura l’intervento del diritto internazionale nelle materie riguardanti quei diritti considerati fondamentali, innati e inviolabili della persona. Lo Statuto può essere considerato una risposta concreta della comunità internazionale alle due guerre mondiali, ai regimi dittatoriali sorti in Europa tra le due guerre e infine ai crimini contro l’umanità e la pace scaturiti da questo clima politico. L’art. 1 della Carta indica come fini dell’organizzazione il mantenimento della pace e della sicurezza, lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati e il conseguimento della cooperazione internazionale per tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali. La responsabilità di questa ultima materia viene affidata dagli artt. 13 e 62 rispettivamente all’Assemblea Generale e al Consiglio Economico e Sociale, che, a loro volta, hanno dato vita a vari organi sussidiari, su tutti la Commissione per i diritti umani istituita nel 1946. Nel corso degli anni, però, la prassi ha dimostrato che il rispetto per i diritti dell’uomo condiziona anche altri ambiti, come lo sviluppo economico e sociale o il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: i diritti umani sono perciò diventati international concern. Questa trasversalità ha determinato due conseguenze principali: prima di tutto il coinvolgimento di altri organi dell’organizzazione nella tutela dei diritti dell’uomo (il Consiglio di Sicurezza può, per esempio, intervenire nel caso in cui la violazione dei diritti umani possa determinare la rottura della pace); in secondo luogo, come già detto in precedenza, ha portato all’erosione della sfera della domestic jurisdiction degli Stati in questa materia. Gli artt. 14 e 56 indicano le modalità di tutela dei diritti umani nell’ambito delle Nazioni Unite. L’organizzazione diventa così il centro per il coordinamento degli Stati, che sono obbligati a rispettare, sia a titolo individuale che collettivo, tali diritti. L’attività 29 svolta dall’organizzazione, può essere ricondotta a tre principali modalità di intervento: 1. attività normativa e paranormativa che offre agli Stati degli standard universali per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali; 2. procedure di controllo politico sul compimento di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani; 3. procedure di controllo giuridico sull’esecuzione degli obblighi internazionali degli Stati in materia. 2.2 La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo La tutela dei diritti dell’uomo viene esplicitata dagli Stati su due livelli: quello interno e quello internazionale. A livello interno, gli Stati si sono dati delle costituzioni che affermano l’esistenza di diritti individuali fondamentali e affidano la promozione e la tutela di tali diritti alla sovranità statale. Nella comunità internazionale gli Stati hanno stipulato trattati che li vincolano reciprocamente al rispetto dei diritti umani. Possiamo, per esempio, ricordare i due Patti del 1966 in ambito Nazioni Unite (§ 2.3), e a livello regionale la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (§ 3.1.1), la Convenzione americana dei diritti dell’uomo e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. A questi strumenti di promozione e tutela, nel corso degli anni, si sono affiancate risoluzioni e dichiarazioni che, partendo dall’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in ambito generale, si sono orientate verso la tutela dei diritti di specifiche categorie di persone: i bambini, le donne, le minoranze etniche, religiose e linguistiche. Nelle Nazioni Unite troviamo tre tipi di risoluzioni e dichiarazioni. Esistono risoluzioni che indicano agli organi di governo degli Stati i criteri-guida per la gestione delle proprie attività, soprattutto in materia di politica criminale. Ci sono poi risoluzioni che proclamano quei diritti dell’uomo che non sono accettati in un determinato periodo storico – si pensi ad esempio all’autodeterminazione dei popoli. A un’ultima categoria 30 appartengono le dichiarazioni di principio, che hanno alto valore morale ed effetti giuridici di tipo raccomandatario, e possono perciò diventare vincolanti solo sul piano sostanziale. A quest’ultima categoria appartiene la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, la quale, benché non inclusa nello Statuto delle Nazioni Unite, è comunque ispirata al rispetto dei diritti dell’uomo. La dottrina si divise sull’interpretazione delle norme statuarie in materia di diritti umani. Alcuni pensavano che tali disposizioni abilitassero gli organi delle Nazioni Unite a promuovere il rispetto dei diritti umani attraverso atti privi di obbligatorietà, come raccomandazioni e risoluzioni, che potessero interferire solo in maniera modesta negli affari interni di uno Stato. Altri, invece, attribuirono alle norme statuarie un valore programmatico, un obbligo a cooperare, piuttosto che un obbligo formale al rispetto dei diritti umani2. Nel 1945 la Commissione Preparatoria esortò il Consiglio Economico e Sociale a istituire, secondo i poteri attribuiti dall’art. Cfr. C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino 2002. 2 31 68 della Carta, una commissione con il compito di redigere una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Con la risoluzione 1/5 del 15 febbraio 1946 il Consiglio istituì così la Commissione dei Diritti dell’Uomo, la quale decise di elaborare due documenti: una Dichiarazione più completa e generale e una Convenzione o Patto, sui punti più idonei a costituire oggetto di obbligazioni formali3. La Dichiarazione venne adottata dall’Assemblea Generale con la risoluzione 217 (III) del 10 gennaio 1948. Il testo parte dal presupposto che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti» e che tutti «sono dotati di ragione e di coscienza»; è bandita ogni forma di discriminazione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica. I primi articoli riguardano i diritti umani primari come la vita, la libertà, l’uguaglianza, l’integrità fisica e la sicurezza personale (artt. 1-5). A seguire (artt. 6-18) vengono elencati i diritti della persona nella sua dimensione sociale, cioè la personalità giuridica e l’uguaglianza di fronte alla legge. Gli articoli dal 19 al 21 illustrano i diritti di natura giudiziaria come l’equo processo e la presunzione di innocenza. Con i diritti economici, sociali e culturali, si considerano poi il diritto al lavoro e alla libertà sindacale, al riposo e alla sicurezza sociale (artt. 22-27). Infine il testo si pone come obiettivi la formazione di un ordine sociale e internazionale che garantisca i diritti fondamentali, l’obbligo dell’individuo nei confronti della comunità e il divieto di attività contrarie a tali diritti. Dal punto di vista normativo, la Dichiarazione non può essere considerata obbligatoria o vincolante per le parti, come può esserlo un trattato. Analizzando però la prassi nelle Nazioni Unite, si può notare come l’Assemblea Generale abbia utilizzato la Dichiarazione come un codice o modello di condotta. Sulla base di tali principi, ha rivolto raccomandazioni e inviti in materia di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Anche la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia considera lo 3 Doc. E/CN.4/21 del 1 luglio 1947. 32 Statuto e la Dichiarazione parte integrante del diritto internazionale, affermando inoltre il carattere obbligatorio erga omnes delle norme sui diritti fondamentali. In conclusione si può affermare che, pur non essendo la Dichiarazione Universale un atto vincolante per gli Stati, il suo alto valore morale, la pratica degli Stati e l’opinio juris hanno reso il testo obbligatorio nella prassi, rendendolo un vero e proprio codice di riferimento per gli organi delle Nazioni Unite che si occupano del rispetto dei diritti umani. 2.3 I Patti internazionali del 1966 Il Consiglio Economico e Sociale e la Commissione dei Diritti dell’Uomo decisero di elaborare due documenti: una Dichiarazione più completa e generale (§ 2.2) e una Convenzione o Patto che avrebbe dovuto avere forza vincolante per gli Stati che l’avessero ratificato. Dopo l’elaborazione della Dichiarazione, la Commissione cominciò a tradurre i principi generali proclamati dal primo testo in disposizioni pattizie destinate a imporre obblighi giuridici agli Stati. Durante i lavori, si rese necessario formulare due Patti per distinguere due categorie di diritti: da un lato quelli civili e politici, dall’altro quelli economici, sociali e culturali. Tale distinzione venne resa necessaria dalla diversa natura dei diritti, che si traduce in una diversità di definizione, applicazione e controllo. I diritti civili e politici, infatti, sono facilmente definibili e di immediata applicazione; mentre i diritti economici, sociali e culturali richiedono l’esplicita attività dello Stato (e i conseguenti finanziamenti): la loro applicazione, perciò, non è immediata, bensì subordinata e condizionata dalla situazione economica e sociale. La diversa natura dei diritti condiziona anche il meccanismo di controllo: per i diritti civili e politici, infatti, è stato possibile realizzare un procedimento di controllo quasi giurisdizionale; per i diritti economici, sociali e culturali si è potuto solo prevedere un sistema di rapporti periodici. 33 Il 16 dicembre 1966 l’Assemblea Generale adottava i Patti internazionali e il Protocollo facoltativo, raccomandando agli Stati la ratifica dei tre atti, con la risoluzione 2200-XXI. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali entrò in vigore il 3 gennaio 1976, dopo che si raggiunse il numero sufficiente di ratifiche. Il Patto sui diritti civili e politici entrò in vigore insieme al Protocollo aggiuntivo il 23 marzo 1976. 2.3.1 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali Il Patto è strutturato in cinque parti e trentuno articoli. Il testo si apre sancendo il principio secondo il quale «tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione» (art. 1) ed elenca i diritti che devono essere rispettati per il conseguimento di questo fine. Gli articoli 6 e 7 affermano i diritti relativi al lavoro in condizioni giuste e favorevoli, equamente retribuito e tutelato dal punto di vista della sicurezza fisica e sociale, dell’igiene e del tempo di riposo. Vengono poi sanciti i diritti da garantire, come quello di associarsi liberamente in organizzazioni sindacali, il diritto allo sciopero, la protezione e l’assistenza alla famiglia, in particolare alle madri e ai bambini. Inoltre deve essere tutelata la salute fisica e mentale di ciascuno e il suo diritto all’istruzione, alla partecipazione alla vita culturale e al godimento dei benefici del processo scientifico. La Parte Quarta del Patto descrive il meccanismo di controllo per la tutela dei diritti elencati nel testo. Secondo l’art. 16, gli Stati che abbiano ratificato il Patto si impegnano a presentare periodicamente dei rapporti sulle misure adottate e sui progressi registrati nella promozione del rispetto di tali diritti. I rapporti sono inviati al Segretario Generale delle Nazioni Unite, che li trasmette al Consiglio economico e sociale. Questo può trasmettere i rapporti alla Commissione dei diritti dell’uomo per pura informazione oppure per formulare raccomandazioni di carattere generale (art. 19). Infine, secondo l’art. 22, il Consiglio può sottoporre ad altri organi e istituzioni specializzate delle Nazioni Unite qualsiasi questione risultante dai rapporti, affinché si valuti l’opportunità di 34 attuare «misure internazionali idonee a contribuire all’efficace progressiva attuazione del presente Patto». Come si può notare, la procedura non ha un efficace sistema di controllo, ma, data la pubblicità che può essere data ai rapporti e le raccomandazioni sia del Consiglio economico e sociale che delle istituzioni specializzate, essa assume una funzione politica e stimolatrice. Fino alla risoluzione n. 1985/17, il Consiglio economico e sociale era l’unico organo abilitato alla supervisione di tali rapporti. Con questa risoluzione il Consiglio ha creato il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali, che esamina i rapporti presentati dagli Stati e ha il compito di formulare suggerimenti e raccomandazioni di carattere generale. Tale procedura, però, non ha riscosso risultati soddisfacenti, perché mancano mezzi di indagine efficaci e gli Stati presentano i loro rapporti con ritardo. Attualmente esiste un progetto di Protocollo facoltativo4, che dovrebbe istituire una procedura di controllo su comunicazioni presentate da individui o gruppi di individui, simile alla procedura realizzata nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. 2.3.2 Patto internazionale sui diritti civili e politici Questo patto è costituito da 53 articoli ed è diviso in sei parti. L’art. 1, relativo al principio di autodeterminazione dei popoli, richiama il primo articolo del Patto sui diritti economici, sociali e culturali. Il testo tutela il diritto alla vita (art. 6), pur ammettendo l’applicazione della pena di morte per i crimini più gravi. Il Patto riprende dalla Dichiarazione universale sia il divieto dell’uso della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (art. 7), sia il divieto di privare chiunque della propria libertà in maniera arbitraria (art. 9); inoltre afferma l’eguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge (art. 14) e impone la tutela della libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 18). Vieta inoltre qualsiasi propaganda a favore della guerra (art. 20). Riconosce il diritto al 4 Doc. E/CN.4/1997/105. 35 matrimonio (art. 23) e l’uguaglianza tra i coniugi, i quali, insieme alla società e allo Stato, devono tutelare i minori (art. 24). Ogni cittadino gode del diritto di voto, di accesso alle cariche elettive e ai pubblici impieghi nel proprio paese. La Parte Quarta del Patto descrive gli organi e le procedure di controllo per la tutela dei diritti elencati nel testo. L’art. 28 istituisce un Comitato dei diritti dell’uomo, composto da 18 membri, eletti a titolo individuale dagli Stati membri del Patto, tenuto conto di una equa spartizione geografica, della rappresentanza delle diverse forme di civiltà e dei principali sistemi giuridici. Il Comitato opera secondo tre procedure: un sistema di rapporti tra Stati, le comunicazioni interstatali e le comunicazioni individuali previste dal Protocollo facoltativo. I rapporti tra Stati. Il Comitato studia i rapporti inviati dagli Stati sulle misure legislative adottate per rendere effettivi i diritti riconosciuti nel Patto e sulle problematiche che si sono presentate nella loro applicazione. Una volta ricevuti e studiati i rapporti, il Comitato può fare delle osservazioni agli Stati che, a loro volta, possono commentarle. Secondo l’art. 40, inoltre, il Segretario Generale, dopo aver interpellato il Comitato, può trasmettere i rapporti alle agenzie specializzate nel caso in cui alcuni punti dei rapporti dovessero rientrare nelle loro competenze. Il Comitato, all’inizio della sua attività, emanò delle linee guida per rendere più omogenei e meglio comparabili i rapporti degli Stati; inoltre ha la facoltà, in caso di gravi violazioni dei diritti umani, di informare gli organi competenti delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza. Una grande importanza è data alle cosiddette Osservazioni Generali, che richiamano l’attenzione degli Stati membri e delle organizzazioni internazionali sulle insufficienze più frequenti e fungono da stimolo per una maggiore promozione e protezione dei diritti umani. Tale sistema di indagine ha un’efficacia molto limitata sia perché sono gli Stati a elaborare i propri rapporti, sia perché al Comitato manca la possibilità di intraprendere indagini dirette. 36 Nonostante la procedura non abbia effetti giuridici, la pubblicità dei rapporti costituisce un gran mezzo di pressione politica5. Le comunicazioni interstatali. Il Patto sui diritti civili e politici presenta una procedura di controllo più incisiva attraverso le comunicazioni tra Stati, costituenti una forma impropria di ricorsi che non danno luogo a specifiche procedure giurisdizionali ma mettono in moto un meccanismo di conciliazione fondato sulla volontà degli Stati. Ogni Stato, infatti, può riconoscere o meno la competenza del Comitato a ricevere ed esaminare tali comunicazioni (art. 41). La procedura si articola in tre fasi. Inizialmente il rapporto si svolge tra i due Stati. Se uno Stato ritiene che un altro abbia disapplicato una disposizione del Patto, può richiamare sulla questione l’attenzione di quest’ultimo. Il ricevente della comunicazione inoltra all’altra parte tutte le osservazioni e le notizie idonee a chiarire la questione. Se entro sei mesi dalla ricezione della comunicazione dello Stato destinatario la questione non è risolta, interviene il Comitato, che, dopo aver accertato la ricevibilità della comunicazione in base al principio del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, si pone come intermediario tra le parti e può chiedere qualsiasi informazione agli Stati per risolvere la questione. Entro dodici mesi dalla data di notifica della comunicazione il Comitato deve concludere la procedura e presentare un rapporto che viene poi comunicato agli Stati. Se non è stato ancora possibile risolvere la questione, viene formata con il consenso delle parti una Commissione di conciliazione ad hoc, composta da cinque membri nominati dal Comitato e dagli Stati interessati. La Commissione svolge le stesse attività del Comitato nella fase precedente. Entro dodici mesi dalla notifica della comunicazione l’organo deve concludere la procedura con un nuovo rapporto comunicato poi alle parti, le quali hanno tre mesi di tempo per trasmettere l’accettazione o meno dei termini della 5 Cfr. § 2.3 riguardante il Patto sui diritti economici, sociali e culturali. Entrambi i Patti hanno lo stesso sistema di rapporti tra Stati, con gli stessi effetti sia sul piano giuridico sia su quello politico. 37 composizione proposta dalla Commissione. Il Patto non prevede alcun seguito nel caso in cui gli Stati rifiutino la proposta della Commissione oppure nel caso in cui quest’ultima non riesca a elaborare alcuna soluzione. Le comunicazioni individuali previste dal Protocollo facoltativo. Solo per gli Stati parte del Protocollo facoltativo, il Comitato è competente a ricevere ed esaminare le comunicazioni di individui che si ritengono vittime di violazioni dei diritti riconosciuti dal Patto e dal Protocollo. Secondo l’art. 4, dopo aver ricevuto la comunicazione, il Comitato deve portarla all’attenzione dello Stato interessato, che ha 6 mesi di tempo per chiarire la questione. Il Comitato non può considerare le comunicazioni che riguardano questioni già in esame secondo una diversa procedura di investigazione o conciliazione internazionale. Il processo di esame della comunicazione deve avvenire durante le sedute a porte chiuse del Comitato (art. 5). Le comunicazioni devono essere inoltrate al Segretario Generale, che può chiedere integrazioni del contenuto prima di trasmetterle al Comitato, che a sua volta, prima di inoltrare la comunicazione allo Stato interessato, può informarlo delle misure provvisorie giudicate opportune per proteggere la vittima della presunta violazione. Dopo aver registrato in Segreteria la comunicazione, viene esaminata la sua ricevibilità. Il Comitato, per facilitare tale procedura, ha creato un Gruppo di lavoro e ha nominato un Relatore speciale, che può raccomandare l’irricevibilità ratione materiae, personae, loci o temporis. L’art. 90 del Regolamento indica le condizioni di ricevibilità della comunicazione: essa non deve essere anonima e deve provenire da un individuo o gruppo di individui (ratione personae) soggetti alla giurisdizione di uno Stato che faccia parte del Protocollo facoltativo (ratione loci); l’individuo deve rivendicare, in modo sufficientemente provato (manifesta infondatezza) che è vittima di una violazione di uno qualsiasi dei diritti riconosciuti dal Patto (ratione materiae) e che questa violazione sia avvenuta in seguito all’entrata in vigore del Patto (ratione temporis). La comunicazione non deve costituire un abuso del diritto di presentazione e non deve essere 38 incompatibile con le disposizioni del Patto. La questione non deve essere all’esame di altri procedimenti internazionali e infine l’individuo deve aver esaurito le vie di ricorso interne disponibili. Quando il Comitato o gli altri organi sussidiari ricevono la comunicazione, devono richiedere allo Stato, parte interessata, di presentare una replica scritta. Lo Stato, entro sei mesi, deve presentare al Comitato spiegazioni o dichiarazioni scritte, riguardanti la ricevibilità, il merito della comunicazione e i rimedi che sono stati adottati per rimediare alla violazione. Se il Gruppo di lavoro non raggiunge un accordo, la questione è delegata al Comitato, che resta l’unico responsabile della dichiarazione di irricevibilità e che non è in ogni caso vincolato dalle raccomandazioni del Gruppo o del Relatore. Il Protocollo non precisa le modalità con le quali si svolge la procedura, affermando semplicemente che si svolge a porte chiuse e che il Comitato è obbligato a inoltrare i suoi pareri finali sia allo Stato che all’individuo. I pareri del Comitato non sono vincolanti, infatti il Protocollo non prevede alcun meccanismo costrittivo o sanzionatorio: quando si accertano violazioni di diritti, il Comitato specifica le misure appropriate per rimediare al torto subito dalla vittima, ma, a differenza della Corte Europea, non ha il potere di pronunciarsi per un’equa riparazione della violazione subita. Uno dei vari problemi che bisogna menzionare è il ritardo delle procedure, dovuto al fatto che il Comitato si riunisce solo tre volte l’anno e deve dare all’autore della comunicazione e allo Stato il tempo sufficiente per preparare le proprie osservazioni. Una delle proposte per risolvere questo problema è la “procedura accelerata”, 39 già adottata nel caso Stella Costa vs Uruguay6, nella quale il Comitato ritenne che i fatti del caso erano già abbastanza chiari da permettere una valutazione senza ulteriori chiarimenti, a patto che le parti fossero d’accordo. Altre proposte, invece, prevedono la delega di molte delle funzioni istruttorie al Relatore speciale e la creazione di nuovi Gruppi di lavoro con la facoltà di dichiarare irricevibili le comunicazioni. 2.4 La Commissione per i Diritti dell’Uomo La Commissione dei Diritti dell’Uomo fu istituita dal Consiglio economico e sociale con la risoluzione n. 5 del 16 febbraio 1946. Essa si dedicò innanzitutto alla stesura della Dichiarazione, dei due Patti e di altre convenzioni, ma non aveva alcuna possibilità di azione di fronte alle violazioni dei diritti dell’uomo che le sarebbero state denunciate. Nonostante questa carenza di poteri, pervennero alle Nazioni Unite numerose denunce di violazioni dei diritti umani. La Commissione adottò allora una procedura consistente nella redazione e nella distribuzione delle comunicazioni ricevute, divise in due liste: una prima, non confidenziale, relativa agli aspetti e alle problematiche sorte nello sviluppo della protezione dei diritti dell’uomo; una seconda, confidenziale, contenente brevi indicazioni sulle violazioni dei diritti. Dopo molte critiche, il Consiglio economico e sociale – con la risoluzione del 4 marzo 1966, n. 1102 (XL) – invitava la Commissione a esaminare le violazioni dei diritti dell’uomo, soprattutto in merito alla politica di discriminazione razziale, segregazione e apartheid, e a presentare raccomandazioni contenenti misure idonee a far cessare tali violazioni. Le risoluzioni n. 1102 del 1966, n. 1235 (XLII) del 6 giugno 1967 e n. 1503 (XLVIII) del 27 maggio 1970, costituiscono la base normativa dei procedimenti extraconvenzionali che sono di due G.A.O.R. 42nd Session, Supplement n.40 (A/42/40), Report of the Human Rights Committee, p. 70. 6 40 tipi: a) procedimenti confidenziali o ex 1503; b) procedimenti pubblici o ex 1235. Procedimento confidenziale o ex 1503. In tale procedimento sono coinvolti sia la Sottocommissione per la protezione delle minoranze sia la Commissione per i Diritti Umani. Le comunicazioni possono essere presentate da singoli individui, gruppi o organizzazioni non governative che sono venute a conoscenza di violazioni; per essere accettate, devono definire una situazione manifesta di violazione sistematica dei diritti umani. La Commissione può attuare diverse misure: 1) dichiarare concluso il procedimento quando non è stato possibile identificare una situazione o la stessa non si è più prodotta; 2) mantenere pendente il caso in attesa di ulteriori informazioni che possono chiarire la situazione; 3) istituire, previo consenso dello Stato, comitati speciali di controllo; 4) dichiarare concluso il procedimento ex 1503 e avviare il procedimento pubblico speciale per il Paese. Negli ultimi anni, quest’ultimo provvedimento è stato sempre meno usato, sia perché gli Stati tendevano a sfruttarlo pur di evitare procedimenti pubblici, sia perché manca un’efficace protezione per l’individuo. Procedimento pubblico o ex 1235. Questo procedimento venne istituito nel 1968 per il controllo dei diritti umani nell’Africa meridionale. Esso è definito pubblico perché non richiede il consenso dello Stato soggetto a controllo. Come l’ex 1503 può essere avviato soltanto quando esiste una situazione manifesta di violazioni sistematiche dei diritti umani. Si può avere un procedimento specifico per un Paese quando la violazione si verifica in un determinato territorio, mentre si avvia un procedimento tematico quando il problema si verifica su scala mondiale rispetto a un determinato diritto. L’investigazione sulla situazione viene attuata da un organo d’informazione istituito ad hoc, che ha lo scopo di valutare i fatti in base a tutti i dati disponibili; ultimata l’indagine, l’organo d’informazione elabora un rapporto sulla situazione esaminata e trasmette delle raccomandazioni alla Commissione dei Diritti dell’Uomo, che si occuperà dell’attività di controllo. Questo procedimento non è 41 giudiziario, ma negli anni si è sviluppato il metodo dell’azione urgente che realizza una forma di protezione indiretta dell’individuo: gli organi di controllo possono indurre uno Stato ad adottare delle misure cautelari di natura urgente nei confronti di un individuo che rischia di vedere violati i suoi diritti o si trova in imminente pericolo di violazione. L’azione urgente è comunque un metodo eccezionale: la Commissione, infatti, continua a operare specialmente attraverso raccomandazioni di natura generale. Anche in questo caso l’efficacia del sistema poggia sulla pressione che può esercitare la pubblicità di tale procedimento nei confronti di uno Stato. 2.5 Alto Commissario per i diritti umani L’Alto Commissario per i diritti umani è stato istituito nel dicembre 1993 con la risoluzione n. 48/141 e ha il compito di promuovere e coordinare l’azione delle Nazioni Unite e delle istituzioni specializzate del Centro per i diritti umani di Ginevra. Il Commissario traccia le linee-guida della politica dell’organizzazione in materia di diritti umani e il suo lavoro viene esercitato sotto la direzione del Segretario Generale, dell’Assemblea e della Commissione per i Diritti dell’Uomo. Egli promuove la protezione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali; garantisce un’assistenza di natura consultiva, tecnica e finanziaria agli Stati in materie di sua competenza; coordina l’azione dei programmi educativi e d’informazione creati dagli Istituti specializzati; imposta un dialogo con i governi e i membri della comunità internazionale per la promozione, la protezione ed il rispetto dei diritti umani; attraverso il Consiglio economico e sociale, presenta ogni anno all’Assemblea ed alla Commissione per i Diritti dell’Uomo un rapporto sulle attività realizzate. 42 3 La protezione dei continente europeo 3.1 Il Consiglio d’Europa diritti umani nel Nel Maggio 1948, il Congresso del Movimento europeo, esprimeva la volontà di elaborare una Carta dei Diritti dell’Uomo che garantisse la libertà di pensiero, riunione ed espressione, e di formare una Corte di giustizia che potesse applicare le sanzioni necessarie per farla rispettare. Venne istituita una sezione giuridica del Movimento per elaborare un progetto di Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed un progetto di Statuto della Corte europea. Il 5 maggio 1949 venne firmato lo Statuto del Consiglio d’Europa, in cui tra i compiti principali figurano la tutela e lo sviluppo dei diritti umani e delle libertà fondamentali, secondo cui il riconoscimento della preminenza del diritto ed in particolar modo dei diritti umani è una condizione fondamentale per l’attribuzione della qualità di membro, per cui una violazione grave di questi diritti porterebbe lo Stato ad una sospensione o espulsione dal Consiglio d’Europa. In seguito il Comitato di Ministri istituì un Comitato di alti funzionari incaricato di redigere un progetto di Convenzione che venne poi firmato a Roma il 4 novembre 1950 ed entrato in vigore il 3 settembre 1953. Oltre a essa, sono Stati elaborati dei Protocolli aggiuntivi ed un Accordo europeo concernente le persone che partecipano alla procedura di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo firmato a Strasburgo il 5 marzo 1996 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1999. 3.1.1 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, del 1950 ha due novità: l’obbligatorietà dell’atto e l’esistenza di un meccanismo di controllo ad hoc. Il testo è un atto vincolante per gli Stati che l’hanno firmato e ratificato. Essi sono obbligati a rispettare le norme contenute nella Convenzione nei riguardi degli individui 43 sottoposti alla loro giurisdizione, senza la possibilità di apporre riserve. La seconda novità è costituita da un meccanismo di controllo della condotta degli Stati, nel caso di denunce di violazioni della Convenzione. Il testo è diviso in tre parti. Nel Titolo I sono enunciati i diritti individuali che lo Stato si impegna a rispettare: il diritto alla vita (art. 2); il divieto dell’uso di trattamenti disumani e degradanti (art. 4); il diritto alla libertà ed alla sicurezza personale (art. 5); il diritto ad un equo processo (art. 6); libertà di pensiero, coscienza, religione, espressione, riunione ed associazione (artt. 9, 10 e 11). Molti altri diritti e libertà, sono stati aggiunti con lo sviluppo della realtà sociale e sono stati inseriti nella Convenzione attraverso dei Protocolli aggiuntivi. La Convenzione ha il merito di aver posto degli standard internazionali di protezione a cui si rifanno gli Stati. Nella seconda parte del testo, al Titolo II, viene descritto il meccanismo di tutela stabilito dalla Convenzione. Altra novità è il diritto dato agli Stati ed agli individui, di attivare una istanza internazionale al fine di giudicare la condotta di uno Stato7. Tale istanza, però, è basata sulla volontà degli Stati, in quanto essi devono aver sottoscritto la Convenzione per attivare il meccanismo di tutela. Il vecchio meccanismo è stato sostituito nel 1998 da uno nuovo. In precedenza, la Commissione europea per i diritti umani, era composta da un numero di membri uguale a quello degli Stati contraenti, ed aveva funzioni istruttorie e di conciliazione, sui ricorsi che riguardavano violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato contraente. La Commissione, una volta giudicata l’ammissibilità dei ricorsi, tentava un componimento pacifico tra le parti: se questo componimento dava risultati positivi, il caso era da ritenersi chiuso; in caso contrario la Commissione redigeva un rapporto e lo trasmetteva alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale si pronunciava con una vera e propria sentenza. Godevano del diritto di ricorso sia il singolo Stato contraente, sia l’individuo o gruppo di individui vittime della violazione. Con il Protocollo n. 11 7 Cfr. M. PATRONO, I diritti dell’uomo nel paese d’Europa, CEDAM, Padova 2000. 44 nel 1998, il meccanismo ha subito una vera e propria rivoluzione: al fine di ridurre i tempi dei processi, la Corte europea dei diritti umani si è sostituita alle tre precedenti strutture: la Commissione, la Corte ed il Comitato dei ministri. Al suo interno la Corte è formata da: i Comitati formati da 3 giudici che si pronunciano riguardo la ricevibilità dei reclami individuali; le Camere, composte da 7 giudici con funzione di filtro per i reclami statali e di giudizio per entrambi i tipi di reclami; la Grande Camera costituita da 17 giudici, che può essere adita in sede di appello e si pronuncia su questioni che riguardano i principi fondamentali della Convenzione; il Plenum della Corte alla quale è affidata la soluzione di problemi organizzativi. La Corte può giudicare le violazioni della Convenzione e dei suoi protocolli (competenza ratione materiae); quelle compiute nel territorio di uno Stato membro da un organo dello Stato (competenza ratione loci); quelle compiute dallo Stato dopo l’adesione al Consiglio d’Europa e dopo la ratifica della Convenzione (competenza ratione temporis); ed infine quelle compiute da Stati membri, persone fisiche o giuridiche, gruppi di privati ed organizzazioni non governative. La Corte ammette i ricorsi solo nei casi in cui: vengano presentati entro 6 mesi dalla notifica al ricorrente della sentenza definitiva; dopo che siano stati esauriti tutti i ricorsi interni; sia stato richiesto il parere della Corte su casi concreti e non astratti; il ricorrente sia vittima o vittima potenziale della violazione; il ricorso non sia né anonimo, né identico ad uno già presentato presso altre corti od organismi, né manifestamente infondato o abusivo. La Corte esamina la ricevibilità del ricorso ed in seguito passerà a produrre una valutazione in merito, quindi ci sarà il contraddittorio tra il ricorrente e lo Stato convenuto. Il suo compito principale è quello di mettersi a disposizione delle parti per raggiungere un regolamento amichevole della controversia che si fondi sul rispetto dei diritti dell’uomo quali riconosciuti dalla Convenzione. In caso di componimento pacifico, la Corte cancella il ricorso mediante una decisione che si limita ad una breve esposizione dei fatti e della soluzione adottata, in caso contrario essa si pronuncerà con una sentenza definitiva. L’udienza della 45 Corte è pubblica, così come i documenti depositati, a meno che non si decida diversamente a causa di circostanze eccezionali. La sentenza ha carattere definitivo e dichiarativo. Generalmente la Corte si riunisce in Camere per deliberare. Entro tre mesi dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte della controversia può, in situazioni eccezionali, chiedere che il caso sia rinviato davanti alla Grande Camera. Questa, come già detto, ammette il ricorso solo nel caso in cui la questione sollevi gravi problemi di interpretazione o applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli; se lo ammette, si pronuncerà con una sentenza (art. 43). Ai sensi dell’art. 41, se la Corte dichiara la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, oppure l’ordinamento interno dello Stato non permette di rimuovere totalmente le conseguenze di tali violazione, la Corte accorda un’equa soddisfazione alla parte lesa. In questo caso, stabilirà anche il termine entro il quale lo Stato dovrà provvedere all’equa soddisfazione, superato tale termine lo Stato sarà chiamato a pagare anche gli interessi moratori. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte circa le controversie cui prendono parte. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione, e che può chiedere il riesame del caso davanti ai tribunali interni, quando non è possibile un’equa soddisfazione. Con la risoluzione 1226, l’Assemblea parlamentare ha chiarito le modalità di svolgimento del meccanismo di controllo: apertura della procedura sui seguiti oppure ricorso alle sanzioni previste all’art. 8 dello Statuto (sospensione del diritto di rappresentanza o allontanamento dal Consiglio d’Europa). L’Assemblea parlamentare può controllare 46 anche attraverso delle delegazioni parlamentari affinché queste facciano leva sui governi che rappresentano. 3.2 L’Unione Europea I Trattati istitutivi della Comunità europea non contenevano alcun riferimento ai diritti umani. Con l’affermarsi dell’applicazione diretta del diritto comunitario in quello interno, gli Stati membri sentirono la necessità di tutelare dalle interferenze comunitarie i diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento interno. La Corte di giustizia, nelle sue prime sentenze in materia8, affermò che i diritti fondamentali costituivano parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, specificando che, nel garantire tali principi, doveva ispirarsi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla Carta sociale europea ed ai Patti delle Nazioni Unite. Questa esigenza di tutelare i diritti umani ha portato, attraverso uno sviluppo normativo nei vari trattati, alla redazione della Carta europea dei diritti fondamentali. La crescente attenzione in ambito comunitario alle problematiche inerenti alla tutela dei diritti umani ha trovato un primo riconoscimento a livello normativo, a partire dall’Atto Unico Europeo, entrato in vigore il 1 luglio 1987. Nel preambolo è enunciata tra le finalità primarie dell’Europa comunitaria la promozione di una democrazia, fondata «sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni e dalle leggi degli Stati membri, nonché dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta sociale europea, e precisamente la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale». In tale settore è intervenuta anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee, che ha inserito i diritti fondamentali nell’ambito dei principi generali di diritto comunitario, estrapolandoli sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e sia dalle costituzioni degli Stati membri. Con il Trattato di Maastricht, la garanzia dei diritti fondamentali viene Corte di Giustizia, Sentenza Stauder, causa 29/69 del 12 Novembre 1969; sentenza Nold del 14 Maggio 1974. 8 47 sancita e riconosciuta attraverso la disposizione in base alla quale, secondo l’art. 6.2 del Trattato sull’Unione Europea, «L’Unione Europea rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario». Anche nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali vengono espressamente inseriti tra gli obiettivi della PESC (art. 1 TUE). Il Trattato di Amsterdam introduce, in materia di diritti fondamentali, innovazioni di rilievo. All’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, si descrive una procedura sanzionatoria attraverso la quale il Consiglio, riunito nella composizione dei Capi di Stato o di Governo può accertare, su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previo parere del Parlamento europeo, «l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro» dei principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, assumendo all’unanimità apposita deliberazione che conclude la prima fase della constatazione della violazione. In tale meccanismo procedurale, gli organi comunitari interessati sono solo quelli di natura politica: il Parlamento, che interviene in funzione consultiva, la Commissione a cui spetta l’adozione degli atti di iniziativa (ossia la proposta) e il Consiglio che assume l’atto decisionale. La gravità e la persistenza della violazione dei diritti umani, che attivano la procedura, ed il principio dell’unanimità dei consensi per l’adozione della delibera “di constatazione” sembrano delimitare l’ambito applicativo della procedura a casi eccezionali. Nella seconda fase dell’iter procedurale, il Consiglio può decidere di adottare misure sanzionatorie di un certo rilievo, consistenti nella sospensione di uno stato membro da alcuni diritti spettanti allo stesso in virtù del Trattato (ad esempio, il diritto di voto in seno alle istituzioni comunitarie), pur rimanendo vincolato agli obblighi derivanti dal proprio status di membro. Se la situazione di violazione migliora o 48 viene annullata, il Consiglio può in un qualsiasi momento ridurre od annullare le misure sanzionatorie; in caso di peggioramento esso può appesantire le sanzioni, con la sospensione di altri diritti. Nel 1999 il Consiglio europeo di Tampere, ha accolto le richieste del Presidente del Parlamento, riguardo la costituzione di un organo preposto alla elaborazione di un progetto di Carta dei diritti fondamentali. Questo doveva essere formato da un rappresentante per ogni governo dei 15 Stati membri, 16 membri del Parlamento europeo e 30 membri dei Parlamenti nazionali. Nel 2000 la Convention (nome dato a quest’organo) ha adottato per consenso un progetto, poi presentato al Parlamento, alla Commissione ed al Consiglio che l’hanno firmato il 7 dicembre 2000 al Consiglio europeo di Nizza con il nome di Carta europea dei diritti fondamentali. La Carta è inquadrabile nella categoria degli “atti atipici” in quanto non è una convenzione perché non è soggetta a firma e ratifica e, di conseguenza, non comporta vincoli giuridici a carico degli Stati membri dell’Unione. Il Consiglio europeo di Nizza del 2000, ha proclamato la Carta europea dei diritti fondamentali, non integrandola nei Trattati, malgrado numerose richieste da parte della Commissione, del Parlamento europeo e di alcuni Stati che avevano espresso la volontà di rendere la sua efficacia vincolante per i membri dell’Unione. Se nella prassi la Carta ricevesse una concreta applicazione, sarebbe un passo iniziale verso la formulazione di una Costituzione europea. In caso contrario, la Carta resterebbe una dichiarazione di principio che elenca una serie di diritti, già riconosciuti da altre dichiarazioni e carte. La Carta può essere considerata solo un atto che impegna moralmente le istituzioni che l’hanno firmata9. 3.2.1 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea Il progetto di Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si sviluppa in un Preambolo e 54 articoli, divisi in sette 9 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, cit., p. 248. 49 capi, che enunciano diritti politici, sociali, civili ed economici garantiti dall’Unione Europea ai suoi cittadini. Tali diritti sono suddivisi secondo: la dignità della persona, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza, principi che sono enunciati nel Preambolo «l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà». L’ultimo capitolo contiene disposizioni di portata generale che riguardano l’ambito di applicazione e la portata dei diritti garantiti dalla Carta. Nel Preambolo si richiama lo spirito al quale l’Unione Europea ispira la propria azione. Accanto ai principi universali già enunciati, si affermano i principi della democrazia e dello Stato di diritto. Si afferma inoltre che l’Unione Europea «pone al centro della sua azione la persona istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Si garantisce il rispetto del principio di sussidiarietà e dei diritti riconosciuti dal Trattato sull’Unione Europea e dai trattati comunitari, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il Capo I enuncia il principio del rispetto della dignità di ogni individuo: si compone di cinque articoli, il primo dei quali afferma l’inviolabilità della dignità umana. Ne deriva il diritto alla vita, la condanna della pena di morte, il diritto all’integrità della persona, con la conseguente introduzione dei nuovi diritti della genetica, che impedisce la clonazione e ogni esperimento sugli esseri umani (ai quali garantisce integrità fisica, genetica e psichica) e che rispetta il consenso libero e informato del paziente. Si sancisce il divieto di fare del corpo umano una fonte di lucro. Gli articoli 4 e 5 sanciscono la proibizione dell’uso della tortura e di pene disumane degradanti, della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani. Il Capo II si compone di quattordici articoli dedicati alle libertà: accanto ai diritti classici (quali alla libertà personale, al rispetto della vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, coscienza o religione, di stampa e di opinione, di riunione e di associazione, della scienza e delle arti), si affiancano nuovi diritti, 50 detti di seconda generazione, come il diritto all’obiezione di coscienza, la protezione dei dati personali o l’estensione del diritto di proprietà alle opere intellettuali. Si prevede il riconoscimento del diritto a sposarsi e del diritto di costituire una famiglia. L’articolo 14, relativo al diritto all’istruzione, introduce il diritto alla formazione professionale, la gratuità dell’istruzione obbligatoria, e il diritto di creare istituti di insegnamento e, per le famiglie, di scegliere il tipo di istruzione da impartire ai loro figli, garantiti dalle leggi nazionali. I due articoli successivi disciplinano la libertà professionale e il diritto per ogni cittadino di circolare, risiedere liberamente e lavorare in tutto il territorio dell’Unione. Questo diritto si applica anche ai cittadini di paesi terzi che siano autorizzati a lavorare negli Stati membri. Seguono il riconoscimento della libertà d’impresa, del diritto di proprietà, del diritto d’asilo e il principio dell’articolo 19, che proibisce le espulsioni collettive, nonché l’estradizione di persone verso Paesi in cui esista il rischio di tortura o pena di morte. L’uguaglianza è il principio che ispira il Capo III della Carta, composto di sette articoli: dal diritto fondamentale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge deriva il divieto di ogni forma di discriminazione di sesso, razza, estrazione sociale o origine etnica, religione o convinzioni, handicap, età o orientamento sessuale. Di contro, si afferma il rispetto di ogni diversità culturale, religiosa e linguistica e il diritto per tutti ad un pari trattamento e a pari opportunità in ogni settore della vita e del lavoro, indipendentemente dal sesso. Una parte rilevante è dedicata ai diritti dei bambini (articolo 24): oltre al riconoscimento del diritto fondamentale alla protezione e alla cura, si afferma il diritto dei bambini a «esprimere liberamente le proprie opinioni» e a intrattenere regolarmente relazioni con entrambi i genitori. Il Capo si conclude con due articoli dedicati ai diritti degli anziani e dei disabili, per promuoverne l’inserimento sociale e la partecipazione alla vita della comunità. Il Capo IV si compone di dodici articoli, riguardanti la solidarietà, che accanto al lavoro si qualifica come oggetto di diritto 51 fondamentale dell’Unione: si riconosce il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, il diritto di negoziare e ricorrere ad azioni collettive, compreso lo sciopero, il diritto alla protezione contro il licenziamento arbitrario, a un’efficace tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, alla regolamentazione degli orari di lavoro e a godere di adeguati periodi di riposo e di ferie. Si proibisce il lavoro minorile, precisando che si fa riferimento a minori in età di obbligo scolastico. Si riconosce il diritto alla protezione giuridica, sociale ed economica per le famiglie e la tutela della maternità, con la protezione dal licenziamento in caso di maternità e la garanzia di poter usufruire di congedi per la nascita o l’adozione di un figlio. Si stabilisce il diritto all’assistenza sociale e sanitaria e la tutela sociale e l’assistenza abitativa per tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, in accordo con quanto previsto dalle legislazioni nazionali e dal diritto comunitario (art. 34). Si garantisce il diritto alla sanità pubblica, alla quale si richiede un livello elevato di protezione della salute umana. Il consumatore ha altresì diritto ad accedere a servizi di interesse economico generale e a godere di un’elevata protezione e qualità dell’ambiente. Gli otto articoli del Capo V riguardano la cittadinanza: la cittadinanza europea comporta la partecipazione effettiva, diretta e indiretta, attraverso le istituzioni europee rappresentative; si stabilisce pertanto il diritto di voto e di eleggibilità al Parlamento europeo e alle elezioni comunali negli Stati membri. Si riconoscono anche il diritto alla trasparenza dei processi decisionali e alla libertà d’informazione, il diritto per ognuno di accesso agli atti amministrativi e agli altri dati che lo riguardino, il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo, la libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio dell’Unione e il diritto di ricorrere al Mediatore dell’Unione per casi di cattiva amministrazione. Il Capo VI, che si compone di quattro articoli, concerne la giustizia: tutti hanno diritto a ricorrere dinanzi a un giudice in caso di violazione dei propri diritti, all’assistenza legale e a una difesa 52 gratuita, nel caso in cui non si disponga di mezzi sufficienti. È sancita inoltre la presunzione di innocenza. Di gran valore anche gli articoli sulle condanne penali (artt. 49 e 50), che sanciscono il divieto di pene sproporzionate rispetto al reato e il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato. I quattro articoli del Capo VII definiscono in primo luogo l’ambito di applicazione, precisando che le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Per quanto concerne la portata dei diritti riconosciuti dalla Carta, l’articolo 52 prevede la possibilità di limitazione dei diritti e delle libertà riconosciute solo per legge, nel rispetto, comunque, del loro contenuto essenziale. Eventuali limitazioni possono essere apportate solo se necessarie o rispondenti a finalità di interesse generale o allo scopo di proteggere diritti e libertà altrui. Si inserisce infine una clausola in base alla quale nessuna disposizione adottata nella Carta può essere interpretata in senso limitativo dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciute dalle Costituzioni degli Stati membri e dalle convenzioni internazionali stipulate dall’Unione. L’ultimo articolo sancisce il divieto dell’abuso di diritto, al fine di evitare che 53 le disposizioni della Carta possano essere interpretate nel senso di consentire attività che comportino la distruzione o limitazione di diritti riconosciuti dalla Carta stessa. Conclusioni A partire dal secondo dopoguerra, gli Stati hanno sentito il dovere di includere nelle proprie carte costituzionali cataloghi di diritti fondamentali e di istituire nel proprio ordinamento procedure per tutelare tali diritti, conservando sempre il primato per la loro giurisdizione. Anche la Comunità internazionale ha sentito lo stesso bisogno: in quegli anni, come afferma Zanghì10, i diritti dell’uomo vengono «internazionalizzati» e acquistano una rilevanza sempre più ampia due diritti pressoché ignorati nei secoli precedenti: quello dell’uguaglianza e quello tutelato dal divieto di discriminazione. Sebbene la protezione dei diritti fondamentali sia sempre rientrata nella competenza domestica dello Stato nazionale, in questi anni assistiamo a una erosione del principio di non ingerenza della domestic jurisdiction. La Comunità internazionale, infatti, entra nella gestione dei diritti dell’uomo, intervenendo per garantire la loro tutela talvolta anche con le armi. Allo stesso tempo lo Stato nazionale tende ad affidare sempre più materie ad organizzazioni, leghe e unioni. Abbiamo cercato di focalizzare il problema della protezione dei diritti umani prima a un livello universale, analizzando l’attività delle Nazioni Unite, la sua Dichiarazione universale e i due Patti del 1966. Si è poi esaminato, a livello regionale, il caso del continente europeo, in particolar modo l’attività del Consiglio d’Europa attraverso la CEDU e dell’Unione Europea con la Carta dei diritti fondamentali. In generale possiamo concludere che i cataloghi dei diritti fondamentali sono tra loro simili, anche se è differente la loro classificazione: sono distinti i diritti civili e politici da quelli economici, sociali e culturali, come i diritti individuali da quelli 10 Ibid., p. 16. 54 collettivi; negli ultimi anni sono emersi i cosiddetti “nuovi diritti” come quelli riferiti all’ambiente, all’uso delle nuove tecniche biotecnologiche etc. Per quanto riguarda gli strumenti di controllo, è degno di nota il fatto che nessuna procedura sia vincolante, giacché le Nazioni Unite possono emanare solo raccomandazioni di carattere generale. La maggior parte degli organi preposti a dirimere le controversie o valutare gli Stati sulle violazioni, inoltre, devono essere riconosciuti competenti in materia proprio da questi ultimi. Anche l’Unione Europea limita la procedura di controllo a casi del tutto eccezionali, in quanto lega la violazione dei diritti ai principi di gravità e persistenza e l’azione della constatazione al principio dell’unanimità. Inoltre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea rientra nella categoria degli atti atipici dell’Unione e non comporta, di conseguenza, vincoli giuridici per gli Stati membri: di fatto, essa costituisce per i membri dell’Unione quasi solo un “impegno morale”. Tra i procedimenti di controllo delle violazioni dei diritti dell’uomo si evidenzia in maniera positiva il Consiglio d’Europa e la CEDU: quest’ultima, infatti, è un atto vincolante che non ammette riserve e prevede organi di controllo ad hoc per le violazioni della Convenzione. Agli individui è data la possibilità di attivare un’istanza internazionale per giudicare la condotta degli Stati; la CEDU stabilisce inoltre il pagamento di un’equa soddisfazione in caso di violazione, prevedendo il calcolo degli interessi moratori. Un organo di controllo esegue poi le sentenze della Corte. Anche se ricco di problemi, il settore della tutela dei diritti umani si sta evolvendo in forme sempre più sofisticate e sempre più sicure per gli individui, soprattutto se gli Stati conserveranno sempre meno materie sotto la propria giurisdizione e si proseguirà nella tendenza, delineatasi negli ultimi anni, di affidare agli individui la possibilità di adire direttamente le corti internazionali per la denuncia della violazione dei diritti dell’uomo. 55