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alfabeta2.19
IL MERCATO DEL LAVORO
Christian Laval
Neoliberismo a-democratico
Intervista di Davide Gallo Lassere
Contrariamente all’idea corrente, che vede nel
neoliberismo una progressiva
deregolamentazione in ogni ambito della
società, lei sostiene che si tratti piuttosto di
una creazione di circostanze favorevoli al
funzionamento della concorrenza e del
mercato. In che misura, ormai, lo Stato stesso
si fa promotore di una interpretazione
economicistica dell’uomo e delle istituzioni?
Ciò che designo con «uomo economico», e
che distinguo dall’homo oeconomicus,
espressione latina inventata nel XIX secolo in
un senso ironico e peggiorativo, è un certo
tipo umano di lontana provenienza, frutto di
molteplici elaborazioni avvenute dall’Italia
rinascimentale e cristallizzatesi in questa forma
antropologica tra la fine del XVII e nel XVIII
secolo in Francia, Inghilterra e Scozia. Il
governo moderno, come mostrato da
Foucault, ha per riferimento, bersaglio e
materiale questo uomo economico. Non è
dunque una novità radicale. La novità del
neoliberismo, però, consiste nella
congiunzione di un costruttivismo dichiarato
e di un’antropologia economica generalizzata.
Il neoliberismo è essenzialmente un progetto di
trasformazione della società. Mira a costruire
una società di mercato con strumenti
giuridici, istituzionali e politici determinati.
Lo Stato, in questo dispositivo, non si ritira
affatto, non cede il suo posto al mercato
secondo un movimento di semplice
arretramento, come ripetuto dalla vulgata
anti-neoliberista da venti o trent’anni. Lo
Stato riorganizza attivamente i campi di
attività ed esistenza secondo la logica di
mercato; «costruisce dei mercati», per
riprendere un’espressione della sociologia
economica. Ciò significa che trasforma anche
più direttamente gli individui in «uomini
economici», piazzandoli in situazioni in cui
ciascuno deve far giocare il suo solo interesse
personale in un contesto di rivalità per delle
«risorse rare», secondo la formula dogmatica
degli economisti. Ma lo Stato si riorganizza, si
rifonda e si ridefinisce esso stesso secondo
questa medesima logica di mercato. Non
arretra, ma si piega alla norma della
concorrenza e prende in ogni caso a modello
l’Impresa. Questo è tutto il segreto delle
politiche neoliberiste di «modernizzazione» del
settore pubblico. Più che mai, è importante
comprendere che Stato e mercato non sono
due realtà storicamente indipendenti. La
novità, in altre parole, è che lo Stato cerca di
strutturare la società imponendo un sistema di
norme e di riforme istituzionali direttamente
tratte dal mondo capitalistico.
Nel libro scritto a quattro mani con Pierre
Dardot, per qualificare la nuova forma di
razionalità dominante nel capitalismo
contemporaneo, avete coniato l’aggettivo «ademocratica». Questo tipo di razionalità,
benché si pretenda assiologicamente neutro,
scatena numerosi processi «post-democratici».
In che modo una certa idea della scienza, in
particolare della scienza della natura, ha
confezionato un tipo di ragione impermeabile
alle istanze che scuotono la società civile?
L’attualità più recente in Europa mostra a che
punto la democrazia liberale è in agonia. I
segni di «uscita dalla democrazia» non sono
più soltanto inquietanti, sono terrificanti.
Questa uscita si opera a più livelli, che si
completano e fanno sistema. Xenofobia antiimmigrati, nazionalismo, potere poliziesco,
violenza manageriale, ricatto degli organismi
finanziari: si tratta di una congiunzione di
fattori che fanno fuoriuscire le nostre società
dal letto della democrazia liberale. Ciò non
dominante è essa stessa una forza
antidemocratica che si dispone «naturalmente»
al servizio delle forze economiche e politiche
che intendono liquidare le conquiste
democratiche del XIX e XX secolo. Non
dimentichiamoci però che la storia del
neoliberismo non si riduce a una sorta di
invasione anglo-americana nella nostra bella
Europa continentale. Questa visione è
completamente falsa. Nella Nuovelle raison du
monde, scritto con Pierre Dardot, insistiamo
su momenti e aspetti della costituzione
europea dagli anni Cinquanta conosciuti
ancora troppo male, in particolare
sull’importanza teorica e politica della
corrente della scuola di Friburgo sorta attorno
a Walter Eucken1. Si può dire senza alcuna
esitazione che non si comprende nulla della
crisi attuale che attraversa l’Europa senza avere
chiaro in testa che cos’è l’«ordoliberalismo
tedesco». Questa forma di neoliberismo ha per
principio che l’ordine politico dello Stato di
diritto non può riposare che su un ordine di
mercato in grado di assicurare la «sovranità del
consumatore», un ordine che, a sua volta, non
può essere stabilito che dalla costituzione. Ciò
si traduce quindi nella costituzionalizzazione
della «concorrenza libera e non falsata» e
nell’indipendenza della banca centrale. Non
viviamo certo l’incompiutezza del modello
ordoliberista, come pretendono i dirigenti
europei che ora vorrebbero costituzionalizzare
la politica budgetaria degli Stati membri, ma
le sue contraddizioni.
significa che questa forma politica abbia
costituito la quintessenza della libertà e
nemmeno che potesse pretendere di
costituirne l’ultima realizzazione. La
democrazia liberale, come mostra Marx sulla
scia di Rousseau ed Hegel, si definisce come
scissione tra due mondi, il mondo economico
dei bisogni e degli interessi, da un lato, e il
mondo politico, quello delle idealità e
dell’interesse generale, dall’altro. Nello
specifico, l’articolazione tra i due mondi ha
assunto la forma elettorale del suffragio
universale. Regime sicuramente imperfetto,
ma che aveva il merito di fornire
all’emancipazione politica se non altro un
minimo di realtà. Ciò detto, affidare al
«popolo» una sovranità è stato l’oggetto delle
più grandi inquietudini: in che modo delle
decisioni politiche ragionevoli potrebbero
emergere da popolazioni in preda alle passioni
più vive e incontrollabili? Una delle
«soluzioni» avanzate specialmente dagli
economisti è consistita nell’inquadrare le
decisioni politiche in un insieme di saperi
dalle pretese scientifiche che forniscono non
tanto dei consigli o delle «chiarificazioni»
(secondo il modello dell’«aiuto alla decisione»)
quanto delle norme da rispettare
obbligatoriamente da ogni responsabile
politico. Il modello è stato fornito dai
fisiocratici francesi della metà del XVIII
secolo, i quali hanno fatto a loro tempo la
teoria del «dispotismo dell’evidenza» che si
imponeva anche al monarca più assoluto. La
scienza dell’economia e della società, che
aspirava allo stesso grado di verità della scienza
della natura, si è dunque «proposta» agli
uomini politici come la vera scienza del
politico. Ma nella democrazia liberale, questa
scientificità del politico non poteva imporsi
unilateralmente ed esclusivamente per il fatto
stesso dell’esistenza di una sfera politica e di
mobilitazioni sociali che obbedivano ad altre
considerazioni e ad altre logiche.
Per concludere, le domanderei di delineare
brevemente il profilo di un’ipotetica relazione
virtuosa tra saperi e politica; in che modo la
scienza potrebbe porsi al servizio
dell’estensione e intensificazione dell’esercizio
della democrazia?
Tutto ciò che è appena stato detto indica che
la resistenza al neoliberismo suppone un
livello molto alto di conoscenze negli ambiti
più disparati, un lavoro di ricerche molto
lungo e difficile. Sarebbe molto rischioso
pretendere che le lotte di oggi non abbiano
più bisogno di studiosi, che non abbiano più
niente a che fare con la produzione
intellettuale che avviene al di fuori di esse e
che possano generare da sole le «armi delle
critica» di cui avrebbero bisogno. Questo
genere di spontaneismo è molto vecchio ma si
è riproposto grazie all’idea che il salariato
avrebbe conosciuto una tale crescita
d’intellettualità che ormai il lavoro critico
potrebbe realizzarsi integralmente in seno al
movimento sociale. Il rischio di questo genere
di concezioni è di supporre che il
superamento storico della divisione del lavoro
tra «intellettuali» e altri lavoratori sia d’ora in
avanti pienamente compiuto. Il momento in
cui ci troviamo non è ancora questo. Ma è
vero che il ritratto dell’intellettuale «profeta
ispirato» come quello del dotto guida suprema
delle masse sono stati completamente
cancellati dalla storia.
Foucault o Bourdieu hanno entrambi
incarnato in Francia delle figure alternative
dell’intellettuale, che non bisogna confondere.
Nella concezione di Foucault, nata nel corso
delle sue esperienze politiche degli anni
Settanta, l’intellettuale specifico che prende la
parola per denunciare le condizioni subite
dagli operai, dai carcerati, dai malati, dagli
alunni, è un lavoratore molto qualificato (un
medico, un ingegnere, uno psichiatra, un
professore ecc.) che interviene in quanto
appartenente al mondo che critica e a partire
dalla conoscenza intima dei meccanismi di
potere che vigono in esso. È proprio in quanto
Potrebbe focalizzare ora l’attenzione sulla
centralità che un simile «interventismo»
politico-scientifico ha assunto nella
costituzione ideale ed effettiva dell’Unione
Europea? L’economia sembra essersi elevata a
scienza »ancella del potere», favorendo
un’ingegneria sociale via via più normativa.
L’equilibrio della democrazia liberale, legato
alla pluralità delle sfere o all’autonomia dei
campi, ha cominciato a essere spezzato dalla
«rivoluzione neoliberista». Il discorso
economico contemporaneo, nella versione
cosiddetta «neoclassica», costituisce da
trent’anni una forza molto attiva che,
attraverso le scuole del potere e dell’alta
amministrazione pubblica, ha contribuito a
trasformare l’economia e la società piegandole
agli schemi dominanti: universalizzazione
della concorrenza, primato dell’interesse
individuale, libertà delle imprese, espansione
della finanza di mercato, eccetera.
Il problema non è soltanto che questi
economisti dominanti non hanno previsto la
crisi attuale, ma sta nel fatto che l’hanno
provocata in quanto nuovi Dottori della fede.
Uno dei tratti che spiegano il loro successo
dipende dal fatto che hanno saputo dotare di
un aspetto matematicamente sofisticato dei
precetti pratici risultanti dal funzionamento
del capitalismo stesso. Ampia tautologia, la
cosiddetta economia scientifica è anche una
grande arte della formalizzazione astratta dei
processi economici. Questa formalizzazione ha
un’efficacia simbolica che fa di ogni riforma
liberista non una politica tra le altre ma una
necessità assoluta. La scienza economica
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la sua pratica lo confronta a dei rapporti di
potere insopportabili che prende la parola,
come nel caso del GIP (Gruppo Informazione
Prigioni).
L’intellettuale bourdieusiano è molto
differente. Per certi versi, nel suo statuto e
nelle sue funzioni, questo intellettuale rimane
molto classico. È innanzitutto un ricercatore
professionista che produce dei lavori
«impegnati», nel senso che opera uno
«svelamento» delle forme d’oppressione. Ma le
ricerche di questo studioso devono farsi in un
campo scientifico «autonomo» rispetto ai
poteri, affinché esse abbiano un’efficacia
simbolica e politica. I due progressi di
Bourdieu negli anni Novanta consistono nel
richiamarsi a un «intellettuale collettivo», ossia
a un collettivo di intellettuali che riuniscano le
loro forze per condurre questo lavoro critico.
È l’esempio dell’associazione Raisons d’agir. Il
secondo progresso, più audace, consiste nella
volontà di creare dei dispositivi permanenti
d’alleanza e di lavoro comune tra militanti e
ricercatori.
Si capisce meglio, quando si ricordino queste
due concezioni, quali possono essere le grandi
forme della loro congiunzione oggi.
Quest’ultima si realizza in tutte le iniziative
che integrano gli «intellettuali specifici» à la
Foucault con «intellettuali collettivi» à la
Bourdieu. È ciò che potremmo chiamare
«l’apertura di campo scientifico» ai mondi
professionali che fa sì che questi ultimi
partecipino alla produzione di conoscenze.
Un’altra forma di congiunzione si traduce, in
un altro senso, tramite l’intervento via via più
frequente di ricercatori nelle associazioni
militanti, nei sindacati, nei movimenti sociali.
Christian Laval è sociologo a Nanterre presso il
laboratorio Sophiapol, membro del consiglio
scientifico di Attac e ricercatore all’istituto della
Fédération syndicale unitaire; in qualità di specialista
di Jeremy Bentham, ha dedicato negli ultimi anni
diversi studi alla ricostruzione critica del pensiero e
delle politiche liberali e neoliberiste. L’homme
économique, Gallimard, Paris 2007; La nouvelle raison
du monde, avec P. Dardot, La Découverte, Paris 2009;
La nouvelle école capitaliste, avec P. Clément, G.
Dreux, F. Vergne, La Découverte, Paris 2011; nel mese
di marzo è appena apparso presso Gallimard, sempre
con P. Dardot, Marx, prénom: Karl.
1. Walter Eucken (1891-1950) è stato il fondatore
della scuola economica ordoliberale di Friburgo,
variante tedesca del neoliberismo. Eucken pose il
problema dell’intervento attivo dello Stato nella vita
economica in termini qualitativi, mostrando tutta
l’importanza della creazione di basi giuridiche adatte al
pieno sviluppo concorrenziale della società di mercato.