Alla fine dei giorni: la mente dell`uomo di fronte al dolore e alla

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Alla fine dei giorni: la mente dell`uomo di fronte al dolore e alla
ALLA FINE DEI GIORNI
La mente dell’uomo
di fronte al dolore e alla speranza
di Pierluigi Moressa
“Nessun uomo mortale puoi reputare felice
fino a che non aspetti l’ultimo giorno
della sua vita…”
(Sofocle, Edipo re)
La buona morte
La sentenza con cui Sofocle chiude l’Edipo re e apre le Trachinie, offre scenari di
grande respiro. Desunta dalle Storie1 di Erodoto, accomuna il destino dell’essere
umano a quello delle città-stato e alle variazioni impreviste nella condizione dei
viventi. Secondo lo scrittore greco, “nessun giorno porta all’uomo cose simili al
giorno seguente; e dunque l’uomo non è che il suo destino”2. Il momento terminale
dell’esistenza si inserisce entro lo spazio della vita; così, anche l’ultimo dei giorni
finisce per appartenere alla sequenza di quelli vissuti e riconduce la morte entro la
vicenda terrena. Appare chiaro come il pensiero della morte debba essere richiamato
alla mente, perché questa tende a escluderlo, sottoponendo l’idea dell’umana
finitezza al meccanismo costante della rimozione.
Sotto la spinta di simili motivi, culture diverse hanno accompagnato il sostantivo
“morte” ad aggettivi distinti, come per riuscire a inquadrare l’istante della fine,
definendolo con precisione, tanto da renderlo meno misterioso e infine quasi
controllabile3. Nella tradizione cristiana, si parla di “buona” morte. Con questa
locuzione, viene indicato il transito dell’uomo giusto, avvenuto in grazia di Dio. Su
un tema così delicato, il pensiero religioso ha potuto realmente “contemplare” la
morte, espandendo la tradizione cara agli asceti, abituati ogni giorno a compiere
meditazioni dinanzi a un teschio o ad altri simulacri della vita trascorsa. La stessa
iconografia4 sacra non ha mancato di indicare il momento del transito come spazio
edificante per la preparazione alla vita eterna. Ciò che viene presentato è il momento
1
Erodoto (V secolo a. C.) nel I libro delle Storie, propone un incontro (forse solo immaginario) fra Solone e Creso, re di
Lidia. Il legislatore ateniese si ostina a non dichiarare felice il sovrano, pur di fronte alle sue ricchezze e a un potere
ampio e consolidato; per questo giudizio, occorrerà, egli sostiene, attendere la sua morte.
2
Citato in Luciano Canfora (2001), Storia della letteratura greca, Bari, 2013, pag. 283.
3
Alcune locuzioni prevedono, ad esempio, la “bella” morte per gli audaci, la morte “ingiusta” per gli innocenti, la
morte “infame” per i traditori, la morte “santa” per i martiri, la morte “gloriosa” per gli eroi, la morte “tragica” per le
vittime di eventi calamitosi, la morte “pietosa” o “liberatrice” al termine di una dolorosa malattia.
4
Valgano come esempio due pale d’altare eseguite da Antonio Fanzaresi (1700-1772): La morte di San Giuseppe
(Forlì, Suffragio) e La morte di Sant’Anna (Forlì, chiesa di Sant’Antonio Abate in Ravaldino).
1
dell’agonia. Ma, se l’etimo greco indica la “lotta”, il dibattersi tra opposte forze, la
buona morte offre scene più pacate, in cui il giusto, confortato da presenze angeliche
e circondato dal cordoglio dei suoi cari, vede aprirsi le porte del cielo. A patrono
della buona morte fu invocato San Giuseppe, colui che ebbe presenti al proprio
transito Gesù Cristo e Maria Vergine, i più preziosi accompagnatori verso l’eternità.
Le Confraternite della Buona morte o della Misericordia ricevettero il compito di
portare sostegno religioso e morale ai malati terminali e assunsero lo scopo di rendere
meno angosciosa la loro agonia. Alla funzione di assistenza privata si affiancò quella
pubblica, che prevedeva la presenza al patibolo accanto ai condannati. In questo caso,
la Confraternita favoriva una serie di operazioni dotate anche di significato
antropologico. Il condannato, mentre era scortato al supplizio, veniva invitato a
pentirsi delle proprie colpe (rito di espiazione), durante una processione a cui il
popolo assisteva e dalla quale i cittadini traevano edificazione morale. Dopo il
distacco dalla società civile, il reo era sollecitato a perdonare il proprio carnefice (rito
di transizione). Seguivano gli ultimi conforti religiosi e l’esecuzione della condanna
capitale (rito di aggregazione al regno dei morti). Si riteneva molto importante che il
condannato perdonasse il boia, atto che rappresentava l’impegno esplicito a non
perseguitarlo dopo il supplizio e a non tornare come una presenza fantasmatica
capace di portare turbamento alla comunità dei viventi.
Il perturbante
E’ questo un elemento psichico che appartiene alle categorie dello spaventoso, di ciò
che genera angoscia e orrore. In tedesco, il termine “unheimlich” esprime con
efficacia, attraverso il suo significato di “non familiare”, il senso di estraneità del
fenomeno perturbativo. Nel saggio Il perturbante5, Sigmund Freud approfondisce il
significato di questa esperienza. Esistono alcuni elementi di particolare rilevanza
capaci di generare angoscia; ogni affetto connesso a emozioni di qualunque tipo può
essere trasformato in un sentimento angoscioso, quando sia soggetto alla rimozione.
Il perturbante è il rimosso che ritorna. Di fatto, a quasi tutti finisce per apparire “non
familiare” in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte, con i cadaveri e con il
ritorno dei morti in forma di spiriti o di spettri, con la morte apparente e con alcune
convinzioni animistiche6. Accade che spesso “ci troviamo esposti a un effetto
perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare
realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato
fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò
che è simboleggiato”7. Viene qui descritta una regressione della mente ai meccanismi
del pensiero infantile, in cui si ha un allentamento della funzione simbolica e un
Sigmund Freud (1919), Il perturbante, in “Opere di Sigmund Freud”, vol. 9, pagg. 81-114, Torino, 1989.
Ricordiamo le anime degli insepolti costrette a vagare, senza poter attraversare il fiume Lete, dunque destinate a
un’attesa che impediva il distacco dalla vita trascorsa e apriva la possibilità di richieste indirizzate ai vivi.
7
S. Freud (1919), cit., pag. 105.
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2
temporaneo difetto dell’esame di realtà; questo apre il dubbio che alcune convinzioni
superate (fonte di angoscia nell’infanzia) si rivelino rispondenti al vero. Favorisce il
perturbamento ciò che spesso appare legato a dimensioni come la solitudine e il
silenzio, l’oscurità e l’abbandono. Nel caso delle rappresentazioni connesse con la
morte, l’angoscia deriva dal fatto che al nostro inconscio è estranea l’idea della
conclusione della vita. Il timore suscitato dai morti si legherebbe, dunque, da un lato,
al pericolo di vedere raffigurata la propria morte; dall’altro, esprimerebbe l’antico
significato secondo cui il morto è divenuto nemico dei viventi e mira a prenderli con
sé nella sua condizione8. L’atteggiamento verso il morto, carico di ambivalenti
significati, ha conosciuto, attraverso le interpretazioni fornite dalle diverse culture,
una pacificazione ottenuta grazie al culto per i defunti, alle operazioni di pietas9 e di
cura per i luoghi dell’inumazione o della cremazione10.
Anche se coscientemente l’uomo dichiara di essere pronto ad accettare la morte
come un evento naturale della vita, come una conclusione cui si giunge
necessariamente o un atto dovuto alla divinità suprema11, nell’inconscio, “ognuno di
noi è convinto della propria immortalità”12. Per l’effetto di un atteggiamento che
rimuove le forme pregresse di ostilità o di ambivalenza, dei morti si deve parlare solo
bene13, finendo per accentuarne la reale inconsistenza, l’assoluta povertà14.
I confini della vita
L’ingresso in questo mondo e l’uscita dall’esistenza segnano il confine dei giorni15.
Esistono metafore che accomunano la nascita e la morte, mostrandone i punti di
contatto16. Il turbamento emotivo dell’uomo di fronte alla perdita, ha cercato di
presentarla come una possibile rinascita, come l’inizio di una nuova vita. Dalla
ricerca di una soluzione al conflitto emotivo tra la presenza in vita e l’assenza in
8
Secondo alcune tradizioni popolari, occorreva lasciare apparecchiata la tavola di notte, nel giorno di commemorazione
dei defunti così da permettere loro di sfamarsi, allontanandone l’ostilità. Si veda, a questo proposito, Giovanni Pascoli,
La tovaglia: “Bada, che vengono i morti!/ i tristi, i pallidi morti!”, in “Canti di Castelvecchio”, 1903.
9
Cfr. l’invocazione allo Spirito Santo espressa da Alessandro Manzoni come pacificazione della distruttività mortifera:
“Scendi bufera ai tumidi/ pensier del violento/ vi spira uno sgomento/ che insegni la pietà” da La Pentecoste in “Inni
sacri”.
10
“Deorum manium jura sancta sunto” [“Siano sacri i diritti degli dèi Mani”] è un principio contenuto nelle Dodici
Tavole della legislazione a Roma antica (V secolo a. C.).
11
Cfr. William Shakespeare: “Tu a Dio sei debitore della morte” da Enrico IV, parte I, atto 5, scena 1.
12
S. Freud (1915) Il nostro modo di considerare la morte da Considerazioni attuali sulla guerra e la morte in “Opere”
cit., vol. 8, pag. 137.
13
Celebre è il motto: “De mortuis nihil nisi bene” [“Dei morti si parli soltanto bene”].
14
Talvolta il defunto è definito “povero”, perché deprivato di ogni bene, anche della vita.
15
E’ nota la presenza di una grande intimità emotiva e di un’empatia “viscerale” fra i nonni e i piccoli nipoti, nello stato
che li accomuna come persone vicine agli opposti confini del “non esistere”. E’ verosimile che questo tipo di relazione
psicologica sia stata al fondamento di una ricorrente costruzione degli asili per l’infanzia in stretta vicinanza con le case
di riposo per gli anziani.
16
Cfr. Giacomo Leopardi “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morte il nascimento” in Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia. Consideriamo qui anche la metafora della “reinfetazione”, secondo cui si dice che il defunto viene
sepolto “nel grembo” della terra.
3
morte, “è nata la psicologia”17. La perdita di una persona cara produce dolore
all’uomo, che non riesce facilmente ad accettarla. Questa gravosa perdita lo obbliga,
infatti, a pensare tanto al vuoto che si propaga entro la sua vita quanto alla
raffigurazione della propria morte. Da questa posizione sorge la necessità per l’essere
umano di rappresentarsi mentalmente non già la fine, che è di per sé condizione
impossibile a pensarsi, ma il proseguimento della vita in un’altra forma18. La perdita
delle persone care ha fatto sì che l’uomo giungesse a definire l’esistenza di un’anima
distinta dal corpo e per questo immortale; allo stesso tempo, egli poté immaginare la
teoria della trasmigrazione delle anime e della reincarnazione, fondandosi sul
desiderio di estendere la vita all’infinito, oltre il tempo presente e quello futuro.
Per quanto mi è stato possibile osservare, il timore della morte si manifesta nella
mente umana sia come un’angoscia che sorge dinanzi al vuoto misterioso connesso al
non esistere, sia come lo spavento per le sofferenze corporee destinate ad annunciarsi
entro il processo agonico, anch’esse indicative di una diminuzione dello stato
narcisistico individuale. La malattia e la morte producono una frattura entro l’unità
narcisistica della persona. Col termine “narcisismo”19 intendiamo un buon assetto
psicologico interiore, che favorisce il contatto con sé stessi e allo stesso tempo
prepara il soggetto a una equilibrata disposizione verso la relazione con gli altri,
mantenendolo in uno stato di autosufficienza e in un adeguato equilibrio psico-fisico.
Il dolore somatico rende incombente l’idea della finitezza umana e la accentua
attraverso la rappresentazione della malattia. Questa condizione porta in evidenza il
vissuto dell’inguaribilità e il presentimento della morte, stati che, nella vita comune e
nel pensiero quotidiano, hanno subìto da tempo il destino della rimozione 20. Ma, se
ciò che viene rimosso finisce per tornare col peso di una forza dotata di potenza
perturbatrice, il fantasma della morte incombe sulla vita quotidiana con temi di
portata universale (inquinamento, mutamenti climatici, tossicità, rischio di cataclismi)
che si trasformano in “angoscia di estinzione” per il genere umano. Di fatto, la
negazione del dolore e la rimozione della morte hanno lasciato spazio all’illusione,
più o meno consapevole, di uno stato di onnipotenza e di immortalità riservato
all’uomo. L’esame della nostra condizione reale ci ricorda, invece, che esiste un
confine al termine dei giorni. La percezione della finitezza nei viventi si lega anche
alla coscienza della malattia, spesso dolorosa, a volte inguaribile. Un atteggiamento
che non eviti il dolore consente di accogliere anche la verità della morte, restituisce
senso alla vita. “Sopportare la vita: questo è pur sempre il primo dovere di ogni
vivente […] Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad
accettare la morte”21.
17
S. Freud (1915), cit., pag. 141.
Ciò accade tanto nella proposizione di fede: “Credo nella vita eterna” quanto nell’affermazione laica che il defunto
continuerà a vivere entro il pensiero di chi lo ricorda o per le opere compiute. Così Orazio: “Non omnis moriar …/…
usque ego postera/ crescam laude recens…” [“Non morirò del tutto… finché io di nuovo crescerò per la lode dei
posteri…] in Carmina liber III, 30 e anche Ugo Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti/ poca gioia ha dell’urna”,
in Ode dei Sepolcri.
19
Questo assetto narcisistico di base va tenuto distinto dal narcisismo patologico e dal Disturbo narcisistico di
personalità.
20
Cfr. S. Freud (1915) cit., pag. 143.
21
Ibidem pag. 148.
18
4
Il lutto e la caducità
La perdita di una persona amata e il declino di significative qualità individuali
espongono l’essere vivente al doloroso sentimento del lutto22. E’ questa una
condizione fisiologica di ripiegamento su sé stessi, indispensabile per esprimere il
dolore e viverlo in termini psichicamente rappresentabili. Il lutto è anche lo stato
psicologico che favorisce il recupero delle energie libidiche necessarie a nuovi
investimenti affettivi; questi potranno manifestarsi dopo un tempo adeguato. Di fatto,
il percorso del lutto è vincolato ai movimenti dell’investimento libidico. E’ la
“libido”23 un’energia psichica, che può essere indicata come “capacità di amare”.
All’inizio della vita, essa è indirizzata solo su noi stessi; poi prende la via della
“relazione d’oggetto24”, in cui l’altro è investito di significati affettivi e accolto, in
qualche modo, dentro di noi. L’instaurarsi di un rapporto profondo comporta
l’esistenza del “vincolo libidico”, che si rende manifesto con una certa persona25. La
perdita dell’oggetto d’amore produce, invece, un ripiegamento della libido su noi
stessi. A questo punto, il mondo esterno perde di significato, si riducono i contatti e le
relazioni. Al completamento del “lavoro del lutto”, il rispetto della realtà riesce di
solito a prendere di nuovo il sopravvento; l’Io diviene ancora libero e in grado di
impiegare la propria energia libidica recuperata verso nuove mete.
Si può affermare che l’elaborazione del lutto è simbolicamente in grado di annullare
la morte. Esistono, tuttavia, varie situazioni psichiche in cui il soggetto non riesce a
elaborare il lutto; queste mantengono in primo piano il conflitto relativo alla perdita.
Il paziente mostra, infatti, di nutrire sentimenti dotati di intensità variabile: si ritiene
colpevole della morte della persona amata, la nega, si sente influenzato da essa, teme
di venire colpito dalla stessa malattia che ha prodotto la sua morte, si accusa di non
avere fatto abbastanza per evitarne la perdita, sente inadeguatezza per non essere
restato più a lungo in sua presenza. Nelle forme più gravi, il lutto non elaborato esita
nella malinconia e in gravi stati depressivi. Questo comporta un’identificazione
dell’Io con l’oggetto perduto: “l’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in
avanti poté essere giudicato… come… l’oggetto abbandonato”26.
Di fatto, il presagio della perdita, che è insito nella vicenda umana, accresce il
nostro sentimento di transitorietà. Questo vuoto, a volte improvviso, certamente
doloroso, viene accentuato dallo sfiorire di tutto ciò che nella realtà esterna risulta
bello e perfetto. Possiamo assumere il significato della caducità come “un valore di
rarità nel tempo”27. Più breve è il periodo in cui una realtà materiale può essere
goduta, maggiore è il pregio che riceve. Così, nel corso dell’esistenza, molte sono le
Se ne ricorda l’etimologia dal latino lugeo, lugere: piangere.
La traduzione più consona dal latino è “desiderio”.
24
Col termine “oggetto” si designa l’altro, il distinto da sé. L’oggetto è meta della pulsione e della relazione.
25
Cfr. S. Freud (1917), Lutto e melanconia da Metapsicologia in “Opere”, cit., vol. 8, pagg. 102-118.
26
Ivi pag. 108.
27
S. Freud (1915), Caducità in “Opere”, vol. 8, cit., pag. 174.
22
23
5
cose destinate a sfiorire. A esse conviene dare il valore dell’incanto, stato che proprio
dalla transitorietà viene accentuato; in questa disposizione ad accogliere la bellezza e
a viverla, entro i limiti temporali che sono consentiti, risiede l’umana capacità di
provare godimento e di aprire la mente a quegli stati di ulteriore soddisfazione che
dalla vita sono proposti.
Il dolore e la speranza
La vicenda di Benedetta Bianchi Porro (1936-1964) ci permette di entrare in
contatto con una figura di elevata intensità spirituale che ha mostrato un percorso
intriso di dolore e di speranza verso la fine dei propri giorni28.
La condizione umana e psicologica di colui che si trovi a ricevere una diagnosi di
malattia grave, talvolta inguaribile, di solito attraversa stadi distinti.
- Il primo stadio è di smarrimento. Il soggetto prova sconcerto di fronte
all’inattesa condizione di essere malato, alla necessità di dover sottoporsi a
cure impegnative, al pauroso mutamento che percepisce nella propria esistenza.
La malattia grave si presenta come l’irruzione di un malessere pervasivo che
ancora non ha interiormente ricevuto né il nome né la definizione. Frequenti
sono le sofferenze destinate a presentarsi entro lo spazio psichico: accessi di
panico, stati di ansia disorganizzata, idee minacciose di una imminente fine.
L’insorgere della malattia e lo svelamento della diagnosi generano nella
persona la percezione di una considerevole diminuzione della propria integrità
psico-fisica, che interiormente viene vissuta come una rapida discesa verso la
morte.
- Il secondo stadio è quello della rabbia. “Perché proprio a me?” si chiede il
malato, in un crescendo di reazioni rancorose contro il “destino”, legate al
sentimento di ingiustizia e alla frustrazione di vedere diminuita la propria
integrità corporea. Frequente è il confronto con chi è sano; costante è
l’evocazione delle consuetudini perse dopo che è insorta la malattia. Talvolta,
il paziente sviluppa atteggiamenti infantili, con opposizione e rifiuto verso le
cure; a questo si associa un forte vissuto di inutilità, contrastato da sporadiche
fantasie di annullamento magico della infermità e di una sua improvvisa
risoluzione29.
- Nell’ultimo stadio si manifestano il dolore e la speranza. La malattia
acquisisce una dimensione di “pensabilità”; su essa il soggetto può riflettere,
scoprendo che la propria vita contiene comunque spazi liberi dalla sofferenza,
aree che possono essere ancora investite nel piacere, negli affetti, nelle attività
quotidiane. Il dispiacere per la propria condizione di malattia configura uno
28
Benedetta presentava una neurofibromatosi diffusa (malattia di von Recklinghausen), che le produsse sordità, cecità,
abolizione della sensorialità, paralisi e un progressivo declino somatico.
29
In questa fase, può verificarsi il ricorso a pratiche sanitarie “alternative”.
6
stato doloroso, che è comunque circoscritto e può coesistere con altri
sentimenti. La speranza si manifesta soprattutto come un elemento costruttivo
nel pensiero. Di fatto, anche se non è sempre strettamente legata all’idea della
guarigione, essa mantiene la persona in contatto con la realtà, tanto da
consentirle il ritorno a una maggiore apertura alla relazione con l’altro e allo
scambio interpersonale. Funzioni dello psicoterapeuta, quando venga
consultato, sono, tra le altre, quelle di fornire sostegno psicologico al paziente
per accogliere il dolore e favorire la speranza. Questo processo si ottiene non
certo minimizzando la condizione di gravità o illudendo il malato della sua
guarigione, ma condividendo con lui emozioni e paure sulla malattia; in tal
modo, esse vengono rese pensabili e, di conseguenza, circoscrivibili. Quando
l’angoscia si rende meno invasiva, può subentrare la consapevolezza del
dolore, la tollerabilità della sofferenza. A questo punto, le energie dell’Io sono
più libere di trasformare sia il vissuto depressivo sia l’impotenza che la
malattia ha suscitato. Accade talvolta che lo spazio della seduta di psicoterapia
sia vissuto dal paziente come il ricettacolo entro cui collocare tutte le paure, un
luogo sicuro ove poter parlare liberamente di ogni cosa, lo spazio che non pone
limiti al pensiero. Allo stesso modo, il setting terapeutico può essere
agevolmente avvertito nei termini di una dimensione distinta dalla realtà
minacciosa degli elementi che compongono lo stato clinico; questo deve
comunque essere preso in considerazione realisticamente, affinché la persona
possa riuscire a rapportarsi in modo utile con le concrete necessità di cura e di
assistenza.
Aprire il pensiero alla speranza significa offrire spazio agli affetti, che continuano a
far parte della persona anche di fronte alle devastazioni della malattia inguaribile. La
realizzazione di un pensiero sul male e sul dolore riduce l’invadenza angosciosa di
entrambi, così da rendere la morte una presenza meno incombente. La fine viene
collocata nella sua naturale dimensione di sfondo per i pensieri quotidiani, di linea
che circoscrive l’esistenza dell’uomo. In questo passaggio, il giorno della morte si
rivelerà per tutti come una parte della vita; a esso potremo arrivare impegnandoci ad
accogliere gli inevitabili malesseri, continuando a desiderare e ad amare, a sognare e
a sperare.
Colpisce il fatto che la “nascita” e la “morte” siano sostantivi di genere femminile,
come se la natura avesse inteso porre al confine dei giorni che iniziano e di quelli che
finiscono un elemento materno, comune anche all’amore maturo, presenza capace di
rendere accettabile il primo giorno, sereno l’ultimo della vita.
“Si potrebbe affermare che ciò che è qui raffigurato sono le tre relazioni
inevitabili dell’uomo nei confronti della donna: verso colei che lo genera, verso
colei che gli è compagna, e verso colei che lo annienta; o anche le tre forme nelle
quali variamente si atteggia per l’uomo, nel corso della vita, l’immagine materna:
la madre vera, la donna amata che egli sceglie secondo l’immagine della madre e,
infine, la madre-terra che lo riprende nel suo seno. Ma quando un uomo è ormai
vecchio, il suo anelito all’amore di una donna, a quell’amore che a suo tempo
7
aveva ottenuto dalla madre, è vano. Solo la terza delle creature fatali, la
silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia”30.
Bibliografia
Luciano Canfora (2001), Storia della letteratura greca, Laterza, Bari, 2013.
Sigmund Freud (1915), Caducità in “Opere di Sigmund Freud”, vol. 8, Bollati
Boringhieri, Torino, 1989.
Sigmund Freud (1913), Il motivo della scelta degli scrigni in “Opere di Sigmund
Freud”, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Sigmund Freud (1915), Il nostro modo di considerare la morte da Considerazioni
attuali sulla guerra e la morte in “Opere di Sigmund Freud”, vol. 8, Bollati
Boringhieri, Torino, 1989.
Sigmund Freud (1919), Il perturbante in “Opere di Sigmund Freud”, vol. 9,
Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Sigmund Freud (1917), Lutto e melanconia da Metapsicologia in “Opere di
Sigmund Freud”, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
30
S. Freud (1913) Il motivo della scelta degli scrigni, in “Opere”, cit., vol. 7, pag. 218.
8