Il Foglio 23-9-2015

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Il Foglio 23-9-2015
ANNO XX NUMERO 225 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 23 SETTEMBRE 2015
el centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante
svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un
piccolo cimitero dedicato agli alpinisti.
Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi
non ce l’ha, viene ricordato con una lapide
dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là
c’è una targa che ricorda il gemellaggio di
Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché
protetto da cinque vette, il luogo di ritiro
invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi.
Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte
non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14
luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta
dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli
inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter
Taugwalder figlio. Ma durante la discesa,
ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e
Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello
di Lord Francis Douglas riposa ancora sul
parato, nel 1953 pubblicò il famoso libro
“Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che
non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che
da noi erano considerati né più né meno
che degli sport.
E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller
sul “magico potere del riordino. Il metodo
giapponese che trasforma i vostri spazi e la
vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità
ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che
produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che
scoperta. Ogni volta che sento parlare di
lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La
sua preparazione è un rito. E il nemico,
l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale,
perché non esiste cosa che non abbia un
peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi
conosce la montagna conosce il peso di
ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa
che viene portata fino in cima. Per ore si
cammina in silenzio, perché ogni respiro è
dedicato all’unico scopo di salire. Come
nelle discipline orientali, la respirazione è
il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo
Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto:
“Negli speciali riguardi delle ascese alpine
Ogni volta che una spedizione
falliva, si avvalorava l’idea che il
Cervino fosse inaccessibile. Poi
ci riuscì l’inglese Whymper
La montagna è un simbolo
naturale “direttamente offerto ai
sensi”, scrive Evola, presente
nella tradizione di tutte le civiltà
Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a
fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista
nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si
salvarono erano due guide alpine.
“Adesso, che sono ormai quasi vecchio
e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma
ben assicurato alla corda di una paziente
guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei
sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di
non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a
uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai
capicordata, alle guide, e soprattutto agli
accademici e a quelli che, senza avere la
formale laurea, appartengono tuttavia alla
loro intrepida famiglia, ora capisco come
unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a
seguire lo stato di avanzamento dei lavori
per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è
pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del
Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione
d’amore” che ebbe inizio quando aveva
quindici anni con la vetta della Croda da
Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da
Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione
c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista
che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione
organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2”
– che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta.
Fu un’ammissione sincera, dopo anni di
menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche
e di tritacarne mediatici, di arditismo, di
bugie che finiscono per sbattere contro con
la nuda verità della roccia. Quella stessa
roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili
(“La gente che si accontenta di guardare le
montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla
Lettura nel 1933).
(s’intende: là dove non si tratta di salti, di
pareti da scalata – là dove l’ascensione, per
quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo
che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere
sul fisico è sufficientemente noto, perché
qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di
affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che
oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in
azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non
si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di
un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta
perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di
energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin
da subito le energie normali, ed entrare
nello stato di ritmo e di “instancabilità”,
mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi,
ogni sforzo effettuato per raggiungere la
vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa
succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”. Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in
tutte le culture antiche, sia occidentali sia
orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive
Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il
record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di
Evola. E non è un caso se Messner è uno di
quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le
montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci
sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di
mezzo secolo fa – non stette uno sportman,
ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa
idea, le grandi ascensioni dovevano essere
esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un
impulso alla liberazione e alla vita ‘in un
più spirabil aere’”.
di Giulia Pompili
N
Nicholas Roerich, “Milarepa”, tempera su tela (1925-’26) Nicholas Roerich Museum, New York
LO ZEN DELLE VETTE
La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione
interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota
Poco prima di morire, il 28 gennaio del
1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della
legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di
difficoltà, nel suo scalare, eppure parla
delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi,
“La gente che si accontenta di
guardare le montagne dal basso
non li conosce, gli strapiombi, e
non sa neppure bene cosa siano”
quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I
fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da
Mondadori – che lo aiutarono a scalare.
Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla
senza di loro. La montagna è anche questo,
spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti.
Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.
Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Ma-
rio aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una
famiglia di operai romani il 7 maggio del
1938, Luigi Mario è stato il primo romano a
diventare guida alpina. A dire la verità,
Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen
giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi
inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo
dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene
insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la
meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro
Engaku a raccontare la sua storia nel libro
“Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni
Monte Rosa. Anche lui, come succede ai
grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato
da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como,
mentre la spedizione italiana scalava il K2.
Frequentavo il secondo anno della scuola
professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni
successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Face-
vamo il giro del lago e nel vedere tutte
quelle rocce, così importanti poi per la mia
crescita alpinistica, pensai ad alta voce che
sarebbe stato bello montarci sopra. […]
L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche
giorno dopo volle raggiungere in bicicletta
il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli
alpini. Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto
mica ce sta er buro. Una frase che Luigi
Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel
corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini
sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le
scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli
Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a
Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli
esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta
che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema,
questo punto supremo al quale si sacrifica
tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate
più difficili davano certo sensazioni più
forti delle altre ma rimanevano sul piano
della sensazione, richiedendone altre più
forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora
l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso
come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una
scrittura schietta, decisa. Come quando un
maestro giapponese insegna le do (le vie di
ascesi, di cui fanno parte anche le arti mar-
Luigi Mario è stato la prima
guida alpina di Roma, il primo
italiano a essere ordinato monaco
in un monastero zen giapponese
ziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a
se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è
ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle
do giapponesi il maestro è il depositario
dell’arte che si vuole apprendere e in lui
si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la
trasmissione dell’arte e al suo maestro ha
promesso di trasmetterla con sincera fede
ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il
Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante
il suo quinquennio d’insegnamento in
Giappone. Basandosi su ciò che aveva im-