WORKSHOP PROTEGGERE E DIFFONDERE L`INNOVAZIONE

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WORKSHOP PROTEGGERE E DIFFONDERE L`INNOVAZIONE
WORKSHOP
PROTEGGERE E DIFFONDERE L’INNOVAZIONE PROBLEMI E OPPORTUNITA’
Unioncamere Lombardia
Milano, Via Ercole Oldofredi 23
28 febbraio 2006 - ore 14.45
Francesco BETTONI - Presidente Unioncamere Lombardia
Inizio questo nostro workshop ringraziando tutti per la vostra cortesia e
importante presenza. Ringrazio i relatori, che hanno voluto essere con noi per
questo che riteniamo un importante e significativo momento di confronto. E li
presento immediatamente: alla mia estrema sinistra, ovviamente non in senso
politico e né partitico, il dottor Enrico Zanoli, consulente in Proprietà Industriale
dello Studio Zanoli & Giavarini; alla mia sinistra Massimo Sordi, vice
Presidente della Camera di Commercio di Milano, ma oggi è qui più che altro
come Presidente della LPE e della GMM, due aziende importanti che hanno
sempre fatto dell’innovazione tecnologica il loro business. Alla mia destra il
dottor Luca De Biase, Il Sole 24 Ore, moderatore dell’incontro ed ideatore di
quello splendido inserto Nova 24 de Il sole 24 Ore.
E poi il colpevole di questo delitto, vale a dire Andrea Granelli, della
Fondazione COTEC, l’autore dello splendido volume, dal quale noi abbiamo
tratto l’iniziativa di questo incontro, che introdurrà il tema di oggi pomeriggio.
Alla destra l’ingegner Riccardo Pietrabissa, Professore Ordinario della Facoltà
di Ingegneria e dei Sistemi, Politecnico di Milano, e poi il Professor Andrea
Bonaccorsi, Ordinario della Facoltà di Ingegneria alla Università di Pisa. Un
parterre eccezionale, di grandi personalità, di ricercatori preparatissimi, che
assieme a noi e con noi oggi affronteranno questo tema “Proteggere e diffondere
l’innovazione - problemi ed opportunità”. Nelle intenzioni di Unioncamere
Lombardia questo appuntamento vuole essere la sperimentazione innanzitutto di
un pomeriggio di lavoro possibilmente intenso tra coloro che in Lombardia
hanno la responsabilità di sviluppare politiche per la competitività delle imprese,
per la ricerca, l’innovazione e ovviamente estremamente collegato a questo del
trasferimento tecnologico. Il nostro obiettivo è sviluppare una riflessione
congiunta sul binomio innovazione - competizione, per arrivare ad individuare
nuovi modi per coniugare, nella nostra lombarda, politiche ed azioni efficaci per
sostenere le nostre imprese. Il nostro obiettivo è il riposizionamento del sistema
economico lombardo fatto specialmente di piccole e medie imprese in termini di
competitività. Siamo infatti ormai tutti consapevoli che le aziende che sanno
innovare colgono per prime le opportunità che i mercati offrono, ma soprattutto
sono in grado di riposizionarsi o addirittura di ripensarsi o, come qualcuno ha
detto, di reinventarsi, quando muta la struttura stessa del mercato. Ma come
portare a ciò l’insieme del tessuto produttivo lombardo, quindi alla stragrande
maggioranza di imprese piccole e piccolissime? Probabilmente la maggio parte
di voi seduti da quella parte sa bene cosa significa il tessuto lombardo in termini
di imprese: 800.000 imprese presenti in Lombardia, registrate alle Camere di
Commercio, 4 milioni di addetti, 21% del Prodotto Interno Lordo nazionale e
soprattutto 29% del totale delle esportazioni.
Quattro numeri in croce, se volete, ma utili per indicare cosa rappresenta oggi il
tessuto lombardo, un tessuto fortemente radicato sul territorio. La crisi
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strutturale, che pure è stata ed è ancora profonda, non ha tuttavia minato
profondamente il tessuto stesso che è ancora forte, composto da poche e grandi
imprese, ma anche da piccole e medie imprese, da un artigianato
straordinariamente importante, da un commercio che vuole mantenere le
posizioni, da un settore agricolo e agro-alimentare sicuramente tra i primi in
Europa. Quindi un contesto fatto di servizi, fatto da cooperazione, fatto di
sistema bancario e assicurativo, che certamente è in grado, a nostro modo di
vedere e di percepire, è in grado di competere. Però alcune scelte vanno
sicuramente fatte. È su questi temi che vogliamo aprire il confronto.
L’appuntamento odierno è stato pensato come workshop, sulla base di inviti
mirati, perché? Perché non ci interessa prioritariamente un momento di
sensibilizzazione e divulgazione presso il grande pubblico, ma ci interessa un
incontro riservato di addetti ai lavori e coloro che sono portatori di conoscenze,
esperienze, responsabilità e che anche hanno la possibilità e un ruolo per
decidere, avere una governance insieme a noi che affrontiamo questi temi.
Un ringraziamento particolare ai direttori generali, i loro collaboratori della
Regione Lombardia, che si occupano di imprese e politiche di innovazione,
presenti, alle associazioni delle imprese, alle associazioni di categoria dei diversi
settori produttivi, a quello del terziario, ai rappresentanti dei centri di ricerca di
trasferimento tecnologico, alle università presenti. La vostra numerosa presenza
porta a pensare che probabilmente abbiamo individuato è un percorso che può
essere ulteriormente seguito e approfondito: abbiamo intercettato un’esigenza
che è abbastanza latente, cioè quella della possibilità di incontro e di confronto
operativo tra l’insieme dei portatori di interessi e dei policy maker, al di fuori
dagli ambiti istituzionali predefiniti e preordinati. Come Camere di commercio
vogliamo impegnarci direttamente in questa sfida della promozione, della
diffusione e dell’innovazione tecnologica. Del resto nel nostro piano economico
finanziario del 2006, come negli anni a venire, abbiamo posto come focus, parte
centrale e sottolineatura particolare quello della promozione e della diffusione
dell’innovazione tecnologica. Del resto voi sapete che abbiamo attivato la rete
degli sportelli Innovation Point, delle Camere di commercio lombarde, che sono
punti di presidio interno e di contatto esterno in grado di aiutare le piccole e
medie imprese a entrare nel mercato dell’internazionalizzazione individuando
temi, ponendo riflessioni, fornendo anche un ambito di confronto. La riflessione
specifica che vi proponiamo oggi è sì relativa ai brevetti, ma non soltanto. Il
tema interessa direttamente le Camere di commercio, per le competenze
amministrative che hanno in materia, le pubbliche amministrazione lombarde,
che da tempo sono impegnate a sostenere il sistema lombardo nel recuperare un
divario forse qualitativo, ma sicuramente quantitativo nel numero dei brevetti
rispetto ai vari concorrenti. Interessa le stesse imprese che sono sollecitate da
più parti a investire nella creazione e impiego della conoscenza. Soprattutto il
quesito centrale - in quanto, a fronte degli sforzi economici, operativi e
intellettuali, permane comunque una grande valenza e insieme un’area di
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criticità - è questo: il brevetto serve effettivamente? Denota la prepotenza delle
multinazionali o tutela le piccole aziende innovative? Vale, in quanto tale, o
richiede investimenti ad hoc per essere profittevoli? E soprattutto deve essere
segreto, deve essere nascosto, come quando si mettevano i soldi sotto le
mattonelle, oppure va comunicato e diffuso? Queste sono provocazioni che
indirizzo immediatamente al dottor Andrea Granelli ringraziando i relatori e
soprattutto voi per la vostra qualificata presenza. Mi auguro vivamente che
l’incontro di oggi possa essere fecondo e possa essere quindi utile per tutti noi e
per tutti voi. Grazie per l’attenzione.
Andrea GRANELLI - Fondazione COTEC
Ringrazio innanzitutto Unioncamere Lombardia, in particolare il Presidente
Francesco Bettoni, che ha voluto che questo seminario venisse fatto, e Gisella
Introzzi, che lo ha reso possibile, cosa non banale, soprattutto in questo
momento di grande tensione economica e politica. Il nostro obiettivo, come
diceva prima il Presidente, è provare ad intavolare oggi una discussione su una
materia complessa che non può essere raccontata in maniera “cattedratica”,
poiché quello dei brevetti e della comunicazione è un tema di grande rilevanza
che può decretare il successo, come a volte l’insuccesso di un’azienda. Di libri
scritti e pubblicati sull’argomento ce ne sono, in realtà, due: “Comunicare
l’innovazione”, scritto per la Fondazione COTEC, era un punto di partenza, da
me personalmente curato, e “Brevettare?”, scritto assieme a due professori
rinomati (che sono ora di fianco a me, e rispetto ai quali io sono il meno
esperto). Abbiamo deciso di scrivere questo libro perché ci siamo resi conto che
quello dei brevetti è oggi un problema fondamentale ma molto complicato e con
un rischio molto concreto che venga ideologizzato – che si riduca ad una
dialettica banalizzante del tipo “zero brevetti, solo libertà” oppure “bisogna
brevettare tutto”. Siamo di fronte ad un mercato che sta cambiando: due aspetti
in particolare, da una parte il tasso continuo di innovazione tecnologica, e in
particolare la diffusione delle tecnologie digitali, e dall’altra il fatto che si va
verso una società della conoscenza, stanno gradualmente sollevando alcune
perplessità sul sistema della protezione intellettuale. E’ un mondo che cambia e
dove, per una sempre maggiore esigenza di tutela, aumenta il numero dei
brevetti, ovvero si tende a brevettare tutto, forse fin troppo, non più solo
prodotti, ma anche processi e comportamenti utente, non solo molecole, ma
anche organismi e idee. Avrete letto una notizia che oggi era su tutti i giornali:
lo scontro – del valore di centinaia di milioni di euro – che sta nascendo sul best
seller di Dan Brown, per il quale due autori di una casa editrice inglese, la
Random House, si sono accusati a vicenda di aver copiato l’idea l’uno all’altro:
da una parte un saggio sul tema di Gesù che sposa Maria Maddalena, dall’altra
un libro di grande successo, un romanzo. Questa onnipresenza del brevetto è
anche nelle statistiche di competitività: continua infatti ad essere molto utilizzato
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come misura della capacità competitiva di un Paese: si dice l’Italia va male
anche (e per molti soprattutto) perché registra pochi brevetti. Esiste quindi
un’esigenza sempre più forte di brevettare, ma contemporaneamente sta
sorgendo – con la stessa forza –l’esigenza di comunicare sempre di più e in
maniera più efficace. I prodotti da soli non sono più comprensibili, non si
“spiegano da soli”: l’utente è sempre più esposto ad una grande complessità,
tecnica, funzionale, informativa. Sappiamo che l’invenzione è un fatto tecnico,
mentre l’innovazione è un fatto culturale ed economico; pertanto un’invenzione
diventa innovazione solo quando è accettata dall’utente, è “compresa”, è
utilizzata, e tutto ciò richiede una comunicazione chiara e convincente delle
proprietà dell’invenzione. Ma è il mondo scientifico stesso che richiede con
forza una condivisione della conoscenza, altrimenti non c’è crescita. Inoltre
aumenta l’esigenza di comunicare in maniera non strutturata, non codificata,
perché sta aumentando la cosiddetta “conoscenza tacita”, quella non
codificabile, quella che non entra nei computer. Oltre a ciò le aziende quotate in
Borsa (o in procinto di quotarsi) devono raccontare ai propri mercati di
riferimento, ai propri azionisti i loro piani di sviluppo e la loro capacità di
cogliere le future opportunità dei mercati. Pertanto è importante essere
convincenti nel comunicare la propria capacità di innovare; infatti il valore di
un’azienda, soprattutto di una azienda quotata in Borsa, non è tanto legato a
quanto cash, a quanto profitto genera nell’anno, ma alle attese, agli impegni di
crescita che essa si assume e che deve sapere onorare. Oggi il valore di molte
aziende è sostanzialmente legato alla loro capacità di raccontare ai propri
azionisti che cresceranno molto; devono quindi – in qualche modo – illustrare
ciò che faranno, la loro capacità appunto di innovare. Ma qui ritorna il possibile
conflitto con i brevetti. La regola diffusa recita : “io non comunico fintanto che
non brevetto”. Ciò è legato ad una regola del mondo accademico che dice
“publish or perish” (nel momento in cui ho reso pubblica – spesso pubblicandola
su una rivista – un’informazione scientifica, questa non è più proteggibile,
perché diventa dominio pubblico). Per questo motivo, poiché la comunicazione
è un elemento fondamentale oggi, per aiutare il consumatore a capire i prodotti
tecnici e per aiutare l’azionista a valutare il potenziale che ha un’azienda di
crescita, il sistema brevettale in qualche modo può ostacolare. La frenesia di
brevettare sta raggiungendo livelli folli – al limite del ridicolo: ad esempio
Microsoft che brevetta il doppio clic. Questo brevetto tenta oltretutto di
brevettare qualche cosa che è diventato consuetudine (anzi Microsoft ha
interesse a brevettarlo in quanto è diventato consuetudine). È palese la dicotomia
d’intenti tra l’inventore con la provetta – figura un po’ romantica, che passa i
suoi mesi e le sue notti ad inventare una formula – ed è doveroso tutelarlo,
rispetto ad una società che vuole brevettare il doppio clic, oppure Amazon che
brevetta l’one clic. Per cui la riflessione che vorrei fare – e a questo punto darei
la parola ai professori – è che ci troviamo di fronte a un problema che va riaffrontato nel senso più ampio del termine, poiché il tasso e l’ampiezza
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dell’innovazione tecnologica sta mettendo un grande punto interrogativo
sull’intero sistema brevettuale. Il sistema, come dire, “tiene” sempre di meno: il
peer-to-peer, il tema del copyright, il software che unisce insieme brevetto e
diritti d’autore. Non possiamo limitarci a dire “i brevetti vanno eliminati perché
non funzionano e sono solo un danno”. Ciò è pericolosissimo! Ma è egualmente
pericoloso riposare sulla convinzione: “meno male che ci sono i brevetti”. In
America, per esempio, sta aumentando il numero di multinazionali che usano i
brevetti per ridurre la competizione. Si consorziano in veri e propri cartelli per
impedire al piccolo imprenditore che ha un’idea, di proteggerla. Se ci prova
(presentando una richiesta di brevetto), gli arriva una lettera da parte dell’ufficio
legale di una azienda multinazionale (quel tipo di lettere la cui carta intestata ha
un elenco spaventoso di avvocati) in cui gli viene comunicato che l’azienda è
stata danneggiata per molti miliardi poiché il brevetto presentato
inconsapevolmente utilizzava dei precedenti brevetti dell’azienda. A questo
punto il piccolo imprenditore ha due scelte: o paga almeno 2-300 mila euro per
assoldare uno studio di avvocati di grido in grado di contrastare la
multinazionale (rischiando per questo esborso di fallire) oppure “regala” il
brevetto alla multinazionale. Questi fatti si stanno verificando in maniera sempre
più frequente e quindi anche questa idea, un po’ romantica, che il brevetto è la
grande tutela del piccolo imprenditore, non è poi così realistica e veritiera. Nel
mondo dei software (e l’Europa non ha neanche un data-base sistematico sul
software che consente ad un inventore di capire se la sua idea l’ha già avuta
qualcun’altro) è tutto ancora più complicato. Questo è dunque il punto di
partenza, la riflessione per cui potremmo dire che non è tanto importante
proteggere, quanto valorizzare. L’obiettivo è valorizzare le invenzioni e
probabilmente la protezione è uno strumento, un mezzo, ma non
necessariamente il fine. A volte il brevetto si trasforma in fine, soprattutto nel
caso del diritto d’autore. Un esempio per tutti: è ormai tipico che le produzioni
cinematografiche e televisive vengano finanziate direttamente dai broadcaster
che in questo modo diventano proprietari del contenuto televisivo e possono poi
decidere anche di non diffonderlo. In questo caso, colui che ha avuto l’idea si
può addirittura trovare nelle condizioni di non poter veicolare il proprio
contenuto. Secondo noi bisogna avere il coraggio di affrontare il problema e di
farsi qualche domanda per provare a vedere se c’è una soluzione più integrata.
Ora lasciamo la parola a Luca De Biase, che farà da moderatore a questo
dibattito. Ci piacerebbe molto che voi interagiste facendo domande, perché
l’obiettivo è provare a condividere un po’ di esperienze e dare a questo
seminario una forma volutamente aperta, per confrontarci con voi. Grazie.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Grazie, Andrea. Come gentilmente mi ha fatto dire prima il Presidente mi
occupo di Nova 24, il supplemento del giovedì, che si occupa per l’appunto di
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innovazione. In realtà l’ambizione sarebbe proprio quella di rappresentare tutti
coloro che avvertono un urgente bisogno di innovare. Il supplemento è a Il Sole
24 del giovedì; in realtà il giovedì voi pagate un euro per comprare Nova e vi
regaliamo Il Sole 24 Ore. De Bortoli è entusiasta di questa cosa. Ho chiesto
comunque ai nostri avvocati se questa formula la potevo adottare, mi hanno
detto “non in pubblico”, quindi tra noi la posso… Se c’è una cosa che è
importante è chiaramente l’innovazione, poi quello che noi ci domandiamo in
questo pomeriggio è: quali sono i sistemi che la incentivano? La valorizzano,
come diceva Andrea Granelli, trovano la strada migliore perché emerga, abbia
successo, funzioni, sia compresa dai consumatori. Quindi tutte queste
strumentazioni, il brevetto, la comunicazione in sé e per sé, il segreto industriale,
sono tutte soluzioni diverse con le quali valorizzare l’innovazione. Niente va
considerato ideologicamente: tutto quello che ci interessa è capire qual è il
sistema incentivante e migliore per le aziende che vi interessano, ci interessano,
interessano il sistema Italia. Questo significa molte cose, e la mia prima curiosità
sarebbe quella di sapere chi siete voi, che cosa fate, giusto per avere un inizio di
conoscenza reciproca. Questo dibattito non sarà altro che una chiacchierata,
speriamo, come diceva Andrea, che anche voi abbiate modo e voglia di
contribuire. Quindi se posso vi chiederei: quanti tra voi sono imprenditori?
Quanti si occupano di cose della Camera di Commercio? E quanti di ricerca?
All’università o alle imprese? Quanti sono quelli che si occupano di
comunicazione? Cioè i miei fratelli? Una persona. Sono figlio unico. Questo è
anche un fatto anagrafico. Di brevetti chi si occupa? Quindi siamo appassionati
di innovazione, questa forse è la cosa che prima di tutto ci riunisce.
Francesco BETTONI - Presidente Unioncamere Lombardia
La governance delle associazioni di categoria e delle Regioni.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
La governance delle associazioni di categoria e delle Regioni, che imparerò che
cosa significa esattamente nel corso di questa…
Francesco BETTONI - Presidente Unioncamere Lombardia
In buona sostanza sono quelli che comandano nelle associazioni di categoria.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Benissimo. Faccio lo spiritoso, perché se non lo fa il giornalista: qui ci sono tanti
professori che invece ci raccontano esattamente come stanno le cose. Per
esempio, giusto per aggiungere un dato, … il Presidente ci ha detto che la
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Lombardia produce il 29% dello export italiano cosa che trovo
straordinariamente importante, perché se ce la caveremo è con l’export perché i
non ci possiamo aspettare che i consumi diventino traino della crescita del PIL
italiano; devono essere le esportazioni che significa inventare nuovi prodotti, e
inventare nuovi prodotti significa innovare, fare ricerca, brevettare, non
brevettare, fare quello che si vuole, però è fondamentalmente trovare nuovi
mercati con nuovi prodotti. Questo 29% di export è importante, è importante che
sia anche superiore la quota del PIL, perché evidentemente 21% di PIL conta ma
è composto da una quota di export particolarmente significativa. Ma quanti sono
i brevetti lombardi sul totale dell’Italia?
Massimo SORDI - Vice Presidente Camera di Commercio di Milano e
Presidente LPE S.p.A. e GMM S.p.A.
Sono 19.950 in Lombardia, 1 su 3 di quelli presentati in Italia, che sono in totale
58.800. Un dato curioso è che la sola Siemens presenta lo stesso numero di
brevetti in un anno. Quindi l’Italia presenta brevetti tanti quanti la sola Siemens
presenta nello stesso anno.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Bella notizia. Ma …l’Italia fattura di più. Quali sono i motivi per cui ci troviamo
in questa situazione? Il numero di brevetti conta veramente per un’azienda, è un
indicatore della sua capacità di innovare?
Massimo SORDI - Vice Presidente Camera di Commercio Milano e
Presidente LPE S.p.A. e GMM S.p.A.
Il numero di brevetti è la risultante della sensibilità e della voglia di innovare e
soprattutto della mentalità, che l’Italia non ha, di andare a coprire la proprietà
intellettuale. Ricordiamoci che in Paesi come quelli anglosassoni - e c’è anche
da domandarsi Cina ed India su che strada sono, ma sono sulla strada degli
anglosassoni - prima ancora di aver sviluppato il prodotto è bloccato; si tratta di
è un vero sbarramento, una vera opposizione allo sviluppo della cultura, del
brevetto, e della ricerca soprattutto, che disabitua gli orsi ad andare a prendersi il
cibo da soli perché trovano la pizza, il famoso “pizza bears”. E’ più facile
comperare un brevetto nel farmaceutico, avere una co-licenza, una licenza da
parte di una multinazionale, che sviluppare un prodotto, spendere miliardate,
milioni di euro, per andare a sviluppare prodotti innovativi. Questa attitudine
toglie ad alcuni Paesi la capacità di essere attiva sulla scena mondiale.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
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Per un’impresa come la sua che cos’è il tema dell’innovazione, che cos’è il tema
del brevetto?
Massimo SORDI - Vice Presidente Camera di Commercio Milano e
Presidente LPE S.p.A. e GMM S.p.A.
Visto che mi interpella mi chiama a nozze. Vengo dal farmaceutico: nel 1964
iniziai nella farmaceutica, in Italia, ho venduto la mia azienda nell’84, perché,
prima ragione, per una piccola media azienda non c’erano più le risorse
necessarie e quindi le decine di miliardi in quella epoca (1984) per sviluppare
ricerca altamente innovativa; la seconda è che non c’era nessun rispetto per la
proprietà intellettuale. Basti ricordare che fui attore, nel ’78, insieme a una serie
di amici che si occupavano di brevetti (cito Dragotti perché all’epoca era lui
dello studio Zanardo Dragotti) di una vera e propria guerra per ottenere da un
magistrato intelligente, tale Floridia, l’applicazione del brevetto ai farmaci.
Infatti pur esistendo la Legge del 1934, in epoca ancora fascista, si era capito
che era un gap troppo importante, troppo grande quello che l’Italia doveva
andare a coprire, visto che di ricerca se ne faceva e ancora se ne a pochissima,
quindi “lasciamo liberi gli italiani di copiare”. Si finì al 1978, con qualche
differenza rispetto al 1937, ad avere finalmente applicato anche al farmaco,
anche alle molecole, la proprietà intellettuale. Questo vuol dire che fino al 1978
solo pochissime aziende in Italia facevano ricerca perché tutti potevano copiarla.
E il disdegno dell’internazionale è che vedeva copiati in Italia i propri prodotti,
limitati alla frontiera, quindi un altro caso dell’orso disabituato ad andare a
procurarsi il cibo da sé, e quindi una totale “incultura”. Nel 1980 - 1982, il
brevetto fu applicato anche ai farmaci ed a quel punto fu limitata la possibilità
di fare ricerca, visto che non c’era attitudine, non c’era formazione. L’università
dopo il 1968 è finita un po’ in un disastro, la scienza delle costruzioni in Italia a
all’epoca era un punto di riferimento al Politecnico di Milano per tutti che
volessero innovare anche nei settori delle costruzioni. Fu smantellato un certo
regime di baronia - bene o male, non sto a discuterlo - ma comunque si
disabituarono le imprese ad rivolgersi ai centri di eccellenza delle università, per
sviluppare prodotti. Abbiamo visto con grande gioia rinascere grandi cose come il Cefriel e non solo - dove finalmente ricercatori pensano di proteggere le
proprie idee e hanno già avviato i processi o progetti di ricerca con le imprese.
Più che dignitose, le università italiane sono una grossa realtà, fatta di
intelligenze e speriamo che questo favorisca il rientro dall’estero di qualche
ricercatore che è andato là. Si è ricominciato, pochissimi anni fa, ad avere una
forte collaborazione ed interazione impresa - università. Proprio una delle mie
aziende è andata al Politecnico, al Cefriel, dove si è presa un brevetto che
speriamo che abbia successo e che ci posiziona. nell’elettronica questa volta, in
avanti sul mercato mondiale perché è innovativo. Insomma, la storia dei brevetti
internazionali presentati pretestuosamente in qualche misura ostacola e
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comunque crea un circolo vizioso dove un’altra volta sono milioni di euro,
centinaia di migliaia nella migliore delle ipotesi, che tu devi spendere qualora ti
metti nella logica della protezione del depositare dei brevetti. Devi essere pronto
anche a difenderli, devi essere pronto a perderli, devi avere un’altra cultura.
Abbiamo fatto grossi passi in avanti: se la Lombardia esporta è anche perché è
una delle più sveglie ed attente nel proteggere la propria intelligenza, la propria
proprietà intellettuale.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Il caso della farmaceutica è probabilmente un laboratorio di questo sistema
incentivante dei brevetti, perché prima, in assenza di adesione al sistema dei
brevetti, per quanto riguarda l’Italia nella farmaceutica, era incentivato chi
copiava, ovviamente. Se ci spostiamo nel mondo dei brevetti, il sistema è
incentivante a favore di chi fa ricerca e costruisce, pur recando in sé tante
conseguenze. Evidentemente, il contesto di un Paese che esce dalla guerra, si
ricostruisce, può essere quello giusto nel quale strutturare un sistema di imprese
che copiano da tutti e dal tutto il mondo. L’India ad esempio in questo momento
è nelle stesse condizioni, sta vivendo una fase di sviluppo straordinaria e nel
farmaceutico copia alla grande: sta costruendo una vera industria. A quel livello
è chiaro che è interessante anche quel sistema. Quello che interessa noi, che non
siamo l’India, ma siamo un paese molto ricco che vuole mantenere standard di
stipendi e di qualità della vita non è più compatibili con un mondo del tipo
“dopo guerra” e quindi dobbiamo produrre cose a valore aggiunto. Zanoli, che
cosa consiglia a chi si rivolge al suo studio per convincerlo a intraprendere la
complessa attività di fare dei brevetti?
Enrico ZANOLI - Consulente in Proprietà Industriale Studio Zanoli &
Giavarini
La domanda è stimolante e rispondo a riallacciandomi e toccando alcuni dei
punti che sono stati sollevati dai relatori che hanno parlato prima di me. Sono
venuti degli stimoli anche dal dottor Granelli e dal Presidente Bettoni, sui quali
vorrei tornare. Il dato di base è che senza una protezione brevettuale non c’è una
protezione per le innovazioni, per i risultati della ricerca. Ci sono poi certe aree
cui ha accennato il professor Granelli, che sono un po’ borderline, sono aree
effettivamente ancora problematiche per quanto riguarda la protezione
brevettuale, come il software, le tecnologie cui lei faceva riferimento dell’one
clic patent, il double clic patent, sono situazioni che vengono definite nel campo
della proprietà intellettuale come business methods. Queste sono tutte aree da
sviluppare, almeno in Europa dive non c’è una posizione perfettamente
armonizzata riguardo a quanto si può brevettare e a quanto non si può brevettare
in tutto il mondo. Esiste una differenza abbastanza importante tra Stati Uniti ed
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Unione Europea. Negli Stati Uniti questo tipo di tecnologie, il software, il
business methods, normalmente sono essere oggetto di brevetto, in Europa
invece tendenzialmente non lo sono. Con Europa mi riferisco soprattutto al
sistema del brevetto europeo, perché è lì dove è stata un po’ codificata e
organizzata la giurisprudenza, le guidances, alle quali penso sia opportuno fare
riferimento. Quindi rispetto alle nuove frontiere di quello che potrebbe essere
brevettabile, in Europa siamo un po’ più conservativi e non ancora perfettamente
inclini a concedere la protezione brevettuale a questo tipo di tecnologie. Però per
quanto riguarda il resto e per tornare alla sua domanda: a un’azienda che ha
realizzato un’innovazione, qualsiasi sia il campo, la meccanica, la farmaceutica
o quello che è, io devo dire che senza lo strumento del brevetto sostanzialmente
non esiste una efficace protezione, una efficace tutela di questa innovazione.
Quindi credo che vi sia una funzione importante, sociale ed economica
nell’istituto del brevetto che consente quel certo periodo di esclusiva di
sfruttamento dell’innovazione, limitato nel tempo di vent’anni, e che è visto,
come una remunerazione. Questo periodo di esclusiva è una remunerazione che
viene data all’inventore, all’innovatore per gli sforzi, gli investimenti e la ricerca
che lui ha fatto per poter pervenire a quella innovazione. Quindi questo è ancora
in sostanza lo strumento principe. Una delle altre problematiche cui accennava il
dottor Granelli è “publish or perish”, e qui ci sono due aspetti che vorrei
cogliere. Il riferimento è stato fatto, credo, per dire che se uno prima pubblica e
poi pensa di depositare ed ottenere un brevetto sbaglia, perché quella
pubblicazione antecedente alla data di deposito del brevetto non gli consente poi
di ottenere un brevetto. Sarebbe incorso nella cosiddetta auto-anticipazione. Una
delle regole per ottenere un valido brevetto è che al momento del deposito della
domanda l’invenzione non deve essere ancora stata divulgata. Quindi in questo
senso è vero che occorre una certa segretezza ante-deposito, dopo, invece, e a
parte un periodo limitato di 18 mesi, in cui la domanda di brevetto rimane
segreta, il brevetto diventa sinonimo di pubblicazione, di pubblicità, in inglese il
brevetto si dice “patent”, deriva dalle lettere “patentesi”, in latino, lettere aperte,
perché? Perché la mia domanda di brevetto viene pubblicata, viene resa
accessibile dal punto di vista conoscitivo al pubblico. Ancora qual è la teoria,
giuridica che sta alla base? A me, che ho fatto l’invenzione, è riconosciuta
un’esclusiva di sfruttamento temporaneo, in contropartita, devo comunicare ciò
che ho realizzato: quando il mio monopolio scadrà, al ventesimo anno di durata
del brevetto, tutti, la comunità sarà potrà adottare liberamente la mia
innovazione. Io sono stato remunerato dal quel periodo di segretezza, ho
contribuito allo sviluppo tecnico scientifico divulgando la mia invenzione. Allo
scadere del brevetto tutti lo potranno fare, come ben sa chi produce farmaci che
poi diventano generici, creando più concorrenza e normalmente il prezzo scende
Lei, dottor De Biase, accennava anche al segreto industriale. Questa è una delle
altre grandi scelte, cioè a un innovatore sostanzialmente si pongono due strade
principali: la brevettazione o il segreto industriale, il cosiddetto “trade secret”.
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La brevettazione comporta una serie di problematiche: intanto costa, devo
scrivere il brevetto, devo pagare le tasse, devo pagare il consulente brevettuale o
altrimenti se agisco da solo devo dedicargli tempo, devo proteggere la mia
invenzione all’estero se ho un mercato all’estero, devo pagare le tasse di
mantenimento in vita, eccetera, eccetera. Tutto ciò costa. Il segreto industriale
non costa niente: non faccio niente, non divulgo niente, non dico niente; il
brevetto scade dopo vent’anni, il segreto industriale dura finché lo riesco a
mantenere. Il problema del segreto industriale è che è possibile mantenere il
segreto su un’innovazione per un ragionevole periodo di tempo in una società
moderna? Intanto se l’innovazione riguarda un prodotto che va sul mercato,
questo per definizione è impossibile, perché il prodotto, che sia una macchina o
un prodotto chimico, una volta che va sul mercato può essere “decomposto”,
analizzato, si procede con il “RvS engineering”, si vede com’è fatto e po lo si
riproduce.. Quello che potrebbe essere oggetto del trade secret sono i metodi di
produzione, nella misura sono realizzati nell’ambito della mia azienda, dentro le
quattro mura del mio stabilimento e nessuno vede. Allora quel determinato
metodo che magari può comportare dei vantaggi, di resa, di efficienza, può
essere in teoria tenuto segreto. In realtà il trade secret è problematico, qualcosa
che ha fatto parte della cultura dell’800 che non della società moderna.
All’industria moderna rimane la strada della brevettazione.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
A parte il caso della Coca Cola - ci stavamo domandando se è ancora il famoso
segreto industriale è ancora segreto o sia stato risolto in qualche modo,
analizzandolo - c’è un grandissimo esempio di segreto industriale che è il codice
sorgente dei prodotti della Microsoft.
Enrico ZANOLI - Consulente in Proprietà Industriale Studio Zanoli &
Giavarini
Sì, in effetti il discorso che ho fatto si applica bene alle tecnologie più
tradizionali. Il software in effetti è, come dicevo prima, un campo in cui non c’è
ancora, almeno in Europa, una piena possibilità di brevettazione, e sicuramente
il segreto e anche il ricorso al copyright sono possibili o forse sono necessari.
C’è poi tutta un’area in cui invece il segreto industriale è importante ed è di fatto
utilizzato: il cosiddetto know-how: Esiste tutta un’area di innovazioni che dal
punto di vista concettuale è più modesta, non assurge al livello di essere un
brevetto, di poter essere definito come un’invenzione. Tutto questo tipo di
tecnologie o di know-how sarebbe difficilmente brevettabile, in quanto per
ottenere un valido brevetto io devo anche avere il requisito di un certo grado di
originalità dell’invenzione. Si deve distaccare in modo significativo dalla tecnica
antecedente. Il know-how, inteso proprio come “formulazioni”, piccole
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formulazioni, modalità operative di un impianto eccetera può essere
difficilmente qualificato come invenzione e ottenere un brevetto. Nello stesso
tempo però si tratta di conoscenze che possono avere un grande valore
commerciale, un grande valore economico e tutto questo normalmente è oggetto
del segreto, è mantenuto segreto. Quindi non vedo in opposizione, il segreto e la
brevettazione. Piuttosto sono opzioni, sono strade che sono praticabili in settori
diversi e spesso complementari, tutto va a contribuire, a formare la proprietà
intellettuale di un’azienda.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Grazie, Zanoli. Bonaccorsi, ciò che abbiamo detto fino adesso chiama in causa
le strategie delle piccole imprese. In realtà che la Siemens produca una quantità
di brevetti gigantesca oppure piccola (visto si dice che in Italia si fanno pochi
brevetti, anche la Siemens ne fa pochi) è un grande gruppo che fa brevetti per
proteggersi, per contrastare gli altri, per andare a prepararsi nelle battaglie legali
che potrebbe dover affrontare. La piccola impresa, che deve sostenere costi,
deve conoscere la strada per brevettare e che,deve fare delle valutazioni
complesse, che incentivo ha nell’andare nella direzione della brevettazione? Fa
bene o fa male?
Andrea BONACCORSI - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria Università di Pisa
L’incentivo della piccola impresa è a oggi piuttosto contenuto, e uno dei
problemi anche di policy che abbiamo di fronte è come fare ad avvicinare di più
il mondo della piccola impresa all’attività di brevettazione. La ragione
economica è abbastanza chiara . Se la brevettazione ha costi fissi, cioè
indipendenti dal fatturato dell’impresa, che evidentemente rappresentano un
costo a fronte di un rendimento dell’innovazione, un valore atteso, futuro,
dell’innovazione, che è tanto più significativo quanto più piccola è l’impresa.
Questo è un problema che in Europa è più severo che in altri sistemi, quali ad
esempio negli Stati Uniti. E’ un problema noto il fatto che l’Europa mantenga un
sistema di brevettazione, in cui la parte significativa dei costi è dovuta ai diritti
di traduzione. Il sistema del brevetto europeo, che non è un brevetto
comunitario, ma è derivante da un accordo tra i governi nato con la Convenzione
di Monaco e gestito da Paesi che hanno imposto un regime linguistico, non ha
mai trovato ancora, a livello europeo, una via d’uscita per una semplificazione.
Oggi quando si brevetta a livello europeo si deve garantire un certo numero di
traduzioni nelle lingue in cui poi si vuole ottenere la protezione, e in ogni caso
nelle lingue ufficiali. Questo è un disincentivo forte per una piccola impresa
italiana che,tipicamente, può avere remore ad accettare un costo nell’ordine,
certamente di molte migliaia di euro, se deve proteggerlo sui mercati europei. Ci
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auguriamo che se la commissione riesca, nei prossimi anni, ma speriamo mesi, a
rimettere in moto la consultazione con i governi sul tema del brevetto europeo,
avendo fallito l’anno scorso nel tentativo di dare una svolta a questo tema. La
commissione sta riaprendo il dossier con l’obiettivo di ì avere un sistema molto
più rapido, in termini di tempo di approvazione, molto meno costoso soprattutto
per le imprese medie e piccole. La mia opinione è molto drastica, ma è
un’opinione di minoranza. Sostengo che il tema della lingua vada risolto in un
modo solo, cioè adottando l’inglese, come lingua universale dei brevetti, e poi la
lingua nazionale del Paese, l’ucraino piuttosto che il danese, della piccola
impresa che deposita il brevetto. C’è però un altro problema. Le piccole imprese
italiane hanno strutturalmente una minore offerta di invenzioni brevettabili per
due ragioni: la prima è che in gran parte sono concentrate in settori tradizionali,
nei quali gli economisti vedono opportunità tecnologiche sono più contenute.
Ad esempio nel settore delle calzature, quei pochi brevetti, che Polegato porta in
giro per l’Italia e su cui ha costruito un impero mondiale, rappresentano
un’eccezione rispetto a una situazione in cui nella media i produttori di calzature
difficilmente riescono a brevettare qualcosa, perché anche se sono bravissimi nel
know-how tecnico produttivo, non hanno l’originalità che consente di depositare
un brevetto. Quindi una risposta va in questo senso .Un’altra risposta va nel
senso di tutta l’industria meccanica, fortissima nel nostro Paese, che spesso si
trova di fronte al problema “brevettare o tenere il segreto”. Molta meccanica
strumentale è di livello innovativo molto forte, ma non brevetta perché piuttosto
che dare ai concorrenti l’informazione sulla sua soluzione, la tiene riservata,
sapendo che si tratta comunque di innovazioni incrementali che saranno
modificate nei successivi sei mesi, nei successivi anni, e che sono derivanti
dall’interazione stretta tra il produttore meccanico e il suo cliente, tra chi fa le
macchine per la seta e il produttore di seta, tra chi fa le macchine per il legno e i
brianzoli che fanno i mobili. Da questo punto di vista quindi qual è il problema?
Il problema è che le piccole imprese sempre più nei prossimi anni si
confronteranno con imprese più grandi. Questo è un punto di svolta, nel senso
che di fatto, nei mercati mondiali, già ora si confrontano con imprese che hanno
una dimensione molto più ampia e spesso con imprese più grandi che hanno
anche basi tecnologiche diverse. Già ora le nostre imprese meccaniche di fatto si
confrontano con imprese più grandi, tedesche o giapponesi, ma che hanno
iniziato a inserire nelle tecnologie meccaniche moltissima elettronica, più
difendibile con brevetti. Quindi oggi per le piccole imprese avvicinarsi al
brevetto è importante per due ragioni: il primo è che le obbliga a codificare di
più la conoscenza, cioè in un certo senso a provare a dare una forma più esplicita
a ciò che possa essere riconosciuto originale dalla legislazione; l’altro è però
prepararsi in qualche modo alla trattativa, prepararsi ad avere potere contrattuale
in ipotesi di fusione, di acquisizione, di alleanze internazionali in mercati
globali, in cui non si confrontano più solo con i propri vicini di casa e nei
distretti industriali, ma si confronteranno sempre di più con imprese più grandi,
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ed allora una maggiore capacità di protezione potrebbe aiutarle ad aumentare il
loro potere negoziale.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Giusto un dettaglio: se sono una piccola impresa nel settore meccanico e ho un
segreto industriale che mantengo tale, e una concorrente giapponese, per i fatti
suoi, scopre la stessa cosa e la brevetta, che succede?
Andrea BONACCORSI - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria Università di Pisa
Amen. Sono nei guai.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Quindi questo è un ulteriore punto di riflessione.
Andrea BONACCORSI – Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria –
Università di Pisa
Nella misura in cui riesco a tenere il trade secret interno ai confini aziendali
allora può essere una scelta condivisibile. In Italia l’esempio più classico non è
Coca Cola ma è Ferrero. Ci siamo chiesti a volte perché nessuno fa i Ferrero
Rocher, cioè i cioccolatini con la cialda ed il cioccolato dentro…
Francesco BETTONI – Presidente Unioncamere Lombardia
Era Ferrero , perché oggi in Cina ci sono.
Andrea BONACCORSI - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria Università di Pisa
Fino a qualche anno fa però era l’unico che aveva questo tipo di prodotto. Come
il cioccolatino con il caffè dentro, come il Pocket Coffee. Mi direte, fino a
qualche anno fa quella era la tecnologia protetta dal segreto perché si poteva in
qualche modo blindarla nei confini aziendali, ma nel momento in cui esce si è
senza protezione.
Francesco BETTONI - Presidente Unioncamere Lombardia
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Vorrei precisare, perché in realtà la sua è una domanda molto importante. Uno
dei grossi svantaggi della scelta del segreto (faccio questa invenzione e decido
di mantenerla segreta) è che può succedere che in un domani, fra uno o due anni,
un concorrente arrivi sostanzialmente alla stessa soluzione tecnologica, decida di
brevettarla e ottenga un brevetto. Allora cosa succede? Io ho detto subito: sono
fregato. Sì, sono fregato. Però segnalo che in alcuni Paesi potrei avere il diritto
di continuare a fare quello che stavo facendo, perché è riconosciuto il cosiddetto
diritto di pre-uso. Se io riesco a dimostrare che già stavo utilizzando, nell’ambito
della mia azienda, quella determinata soluzione, posso continuare a farlo
nell’ambito del pre-uso. Questa è una fattispecie abbastanza complicata perché
potrebbe anche essere interpretata nel senso restrittivo: se tu oggi di quel
prodotto fai ad esempio mille pezzi, vuol dire che devi continuare a farne mille
anche se avresti la possibilità di produrne 2000. L’altro, invece, ha il monopolio
altrove e quindi questo è un bel problema.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Non solo, se poi lui mi fa causa, ed è la Siemens - famosa ormai in questo
dibattito - ed io sono un’azienda da 20 dipendenti, probabilmente la mia capacità
di contrasto legale è più bassa. E questo peraltro ci pone nelle condizioni di
vedere qual è la situazione per le piccole imprese, per gli imprenditori che
possono guardarsi intorno e cercare di definire una strategia, perlomeno, nei
confronti dei brevetti, magari non adottando questa strada, ma essendo
consapevoli della scelta. Il pubblico e anche i relatori sappiamo che hanno
un’ora ancora per porre le domande, quindi prepariamoci. Nel frattempo c’è un
altro argomento da affrontare e cioè quello del rapporto tra impresa e università,
tra ricerca di base, ricerca “ applicativa” e il sistema dei brevetti. Un altro
discorso che noi siamo soliti sentire è quello che c’è poco rapporto tra impresa e
università, eccetera, eccetera, non ve lo ricordo perché lo sappiamo a memoria.
Mi domando e lo domando a Pietrabissa se una maggiore consapevolezza delle
opportunità offerte dal sistema dei brevetti ci potrebbe portare a una soluzione o
a un approccio, alla soluzione di questa dicotomia: impresa - università o
comunque ricerca e impresa.
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
La ringrazio. Focalizzo la risposta sulla parola che lei ha usato: la
“consapevolezza”, perché credo che sia un po’ il cuore di tutto il problema, cioè
capire esattamente perché, in modo consapevole, potremo utilizzare la proprietà
intellettuale per favorire l’innovazione, il rapporto tra gli attori sul mercato, nel
sistema dell’innovazione della competitività, utilizzando il brevetto. E’ uno
strumento per fare questo? E se sì, lo sappiamo usare? Dico questo perché
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ovviamente ascoltando gli interventi che mi hanno preceduto mi venivano in
mente un sacco di cose. Se fossi stato tra il pubblico avrei avuto una lunga lista
di domande. Una di queste - è un mio vizio personale - è quello di essere
fortemente contrario a contare i brevetti. Cioè quanti brevetti abbiamo? Quanti
ne hai? Perché in fondo voglio capire. Allora sapete in Italia chi brevetta di più?
Sicuramente la cosa è nota, il maggior numero di depositi e brevetti in Italia è di
un sacerdote della provincia di Macerata, che deposita circa due domande alla
settimana dal 1980, spendendo, in questo modo, immagino le offerte dei fedeli,
perché non capisco come altro possa depositare domande di brevetto. Ha oltre
1500 domande ed è il più prolifico inventore italiano. Allora la domanda è:
questo signore brevetta, deposita, anche se non gli vengono concessi i brevetti
per ragioni tecniche. Ma questo è un problema irrilevante, perché anche se gli
venissero concessi non ci farebbe nulla. Allora la vera questione è: a cosa serve
fare un brevetto? Ovvero se uno vuole depositare un brevetto, che obiettivo ha?
Questa è la questione importante. Si dice che nella massa totale di brevetti il
numero di quelli realmente utilizzati - e anche qui mi piacerebbe capire cosa
vuol dire utilizzati - è inferiore al 10%.
Enrico ZANOLI - Consulente in proprietà Industriale Studio Zanoli &
Giavarini
Al 5%.
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Inferiore al 5%, benissimo. Quindi vuol dire che un brevetto costa 20 volte i
costi sostenuti. Perché per averne un brevetto che funziona se ne depositano 20
mediamente. E’ un calcolo rozzo, se vuole, però supponiamo che sia così. Allora
è chiaro che c’è una questione di fondo: a cosa serve il brevetto ovvero come li
contiamo? Dico questo perché mi è capitata una vicenda assolutamente infelice,
Dovete sapere che in questo momento ho un ruolo di coordinamento delle
università che hanno uffici di brevetti, chiamiamoli così, quindi ogni tanto mi
capita che qualcuno mi telefoni, mi chieda informazioni. Un giorno mi chiama
un giornalista de Il Corriere della Sera, cronaca, di Roma, mi dice: “Sto facendo
un articolo su La Sapienza. La più grossa università italiana”. Dice: “Loro hanno
ho sacco di brevetti, ne hanno 160 e mi hanno detto di chiedere a lei un parere.
Anzi, mi dica quanti sono i brevetti delle diverse università italiane”. Dico:
“Guardi, non glielo dico. Perché non sto a dire che quello che ha 300, quello 20,
sembra che voglia fare la classifica. Il vero problema è: cosa ci fanno? Perché se
uno ha 100 brevetti vuol dire che aveva parecchi soldi da spendere, ma se non ci
fa nulla ritengo abbia buttato via dei soldi pubblici.” Così gli ho messo la pulce
nell’orecchio e lui è andato a chiedere quanti ne avevano utilizzati e in effetti
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erano un po’ pochini, e quindi ha scritto: la Sapienza ha più brevetti di tutti, ma
Pietrabissa dice che non li sanno usare. Chiaramente l’Università mi ha
chiamato il giorno dopo commentando come potete immaginare: non è stata
proprio una grandissima uscita. Però siccome credo in ciò che ho dichiarato, vi
ripropongo la domanda: a cosa serve un brevetto? Sicuramente è stato detto che
serve a contarli per dire: ho 10.000 brevetti. Se uno ha 10.000 brevetti è in una
situazione interessante, perché è difficile andare a leggerli tutti e sapere cosa sta
proteggendo, si protegge perché ne ha tanti, ho l’esercito, e questo può essere un
valore, però bisogna averne tanti davvero. Io sono contrario a questo approccio.
Non è giuridicamente rilevante, direi, non ha senso. Serve o perlomeno si dice
che si depositano per essere venduti. Ci sono cluster di brevetti che vengono
venduti, ci sono broker brevettuali, che acquistano pacchi di brevetti, perché
fanno protezione per averne 20 o 30 in quel determinato settore. Questo
mercato esiste. Come Politecnico avevamo brevetti che non ci servivano più, in
scadenza, e così li abbiamo venduto a pacchetti.
Luca De BIASE - Il Sole 24 Ore
Scaduti…?
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Non proprio scaduti. Diciamo è un meccanismo interessante. Se lei ha un
brevetto che non usa in nessun modo e decide che non pagherà più le tasse,
perché cosa lo tiene vivo a fare, e ne ha un certo numero, ma ci vuole qualcuno
che è interessato a dire “li acquisto”, e al momento, numericamente, pacchetti di
brevetti che sono in qualche modo veicolati nel mercato perché fanno asset
industriale. Ci sono diversi motivi. Costano poco perché ormai non hanno molto
interesse. Quindi esistono meccanismi di questo genere. Anche questo ritengo
che sia un uso totalmente improprio, cioè non fa innovazione, in quel senso che
dicevate voi. Non fa innovazione. C’è chi brevetta per sbaglio, ce ne sono molti,
lo sappiamo, perché un brevetto va saputo difendere. Posso brevettare quello che
voglio, ma se uno mi copia, il contraffattore, devo essere in grado di difendermi,
e fare un brevetto difendibile - e lui lo sa molto bene - non è come fare un
brevetto, è qualcosa di più, bisogna conoscere bene lo stato dell’arte, sapere chi
sono i possibili contraffattori, qual è la competizione sui mercati, cioè non è un
problema banale. E poi ci sono quelli che brevettano per usarli. E questo è
quello che ci piace, quello che brevetta, perché ha interesse a fare del brevetto
l’uso proprio. Qual è l’uso proprio? Escludere altri dal copiarmi. Usarlo vuole
dire sapere che qualcuno mi copia, non vuole dire avere un prodotto sul mercato,
perché io posso avere un brevetto, ma se nessuno mi copia, che mi importa di
avere il brevetto. Oppure, se non so che nessuno mi copia, non ci faccio nulla,
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oppure se mi copia uno talmente grande che non posso farci nulla lo stesso. Noi
del Politecnico di Milano abbiamo attualmente un portafoglio piccolo, di circa
150 brevetti, abbiamo dei contraffattori, lo so perché faccio indagini su questo,
cerchiamo di difenderci, ma non riusciamo a difenderci in maniera adeguata.
Cioè contro un contraffattore americano io non sono in grado di fare, come
Politecnico di Milano, una causa di difesa di un brevetto negli Stati Uniti.
Scordiamocelo. Del resto non ho nessun prodotto da difendere sul mercato, mi
interessa anche poco, per certi versi. Questo però è un uso importante, è l’uso
proprio. L’ultimo uso - e l’ho lasciato per ultimo perché ritengo che sia una
particolarità - e qui introduco il ruolo dell’università, perché in fondo la
domanda era questa, ci ho girato un po’ intorno, ma insomma…
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
No, ha fatto bene.
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Allora, l’uso proprio, ma che è un po’ particolare, è l’uso per trasferire
innovazione. Perché è un uso un po’ particolare? Perché è un uso che fa
riferimento al tema del Workshop, cioè proteggere e diffondere. Qui la difficoltà
qual è? E’ avere la presunzione che un’invenzione serva a qualcun altro, perché
io che sono un industriale, faccio un’innovazione, so che mi serve, so qual è il
mio mercato, la brevetto come mi pare per tutelarmi, e questo teoricamente
funziona. Ma io, ricercatore universitario, che ho sviluppato un’invenzione,
devo avere in qualche modo la presunzione di ritenere che ci sia qualcuno che
abbia quel mercato a cui serva e che è scritto, il brevetto, in quel modo, serva a
qualcosa, non è semplicissimo. Dopodiché l’ho brevettato, ho speso dei soldi e
devo trovare qualcuno, che è quel qualcuno di cui avevo la presunzione di
ritenere l’esistenza in vita, e cioè che fosse interessato a questo mercato, e devo
essere in grado di trasferirglielo. Ora, per trasferirglielo devo informarlo, quindi
io genero potenzialmente un contraffattore ed è quello a cui interessa, cioè il
mercato, gli faccio vedere l’innovazione, gli dico che ho un brevetto, gli dico
che ho difficoltà a difendermi, mi copia. Questo è normale. Cioè sappiate che
l’università è in queste condizioni. Cioè io faccio un brevetto, lo faccio vedere?
Quello dice: bellissimo. Non mi interessa. Mi copia. Perché è così. Questo è
normale. Ora, è chiaro che c’è chi si sa difendere, chi non si sa difendere, ci
sono modi e modi per difendersi eccetera. Qual è, forse, se volete, un po’ un
punto caldo su questa capacità di difendersi? È che l’università raramente
brevetta diciamo un’innovazione marginale, molto spesso brevetta qualcosa che
ha a che fare con dei risultati della ricerca scientifica, allora il brevetto vale
perché c’è un know-how dietro, e quindi uno in qualche modo è interessato a
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scambiare con me il know-how. Qui è la risposta alla sua domanda: il brevetto
come momento di stimolo alla collaborazione; dimostro che trasferisco già la
proprietà della ricerca che ho sviluppato e però a questo punto dobbiamo per
forza fare ricerca insieme.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Bello. Beh, insomma, fossero tutti così quelli che rispondono girando intorno
alla domanda sarebbe una gran cosa. Tra l’altro “alza la palla” sulla seconda
parte di questa nostra conversazione, cioè la comunicazione, perché qui stiamo
parlando di brevetti, ma stiamo parlando anche della comunicazione e
dell’innovazione. Un asse portante del libro COTEC che qui stiamo presentando
insieme a quello dei brevetti parla proprio di questo ed è fondato su questa idea:
se faccio un’innovazione ma nessuno lo sa oppure chi ne viene a conoscenza
non la capisce, non la inserisce nei suoi processi a) di consumo, b) di produzione
eccetera, quell’innovazione rimane lettera morta, non serve a niente. Ed è
bellissimo pensare al brevetto come a un sistema per far credere che sono capace
di innovare e dunque costringere o indurre altri partner a lavorare con me per le
prossime innovazioni, in un certo senso tirandoli un po’ per la giacchetta.
Questo potrebbe essere, addirittura, il vero motivo per fare brevetti: acquisire
una credibilità nel sistema, nell’ecosistema delle innovazioni per poter essere
partner di altri e partecipare a ulteriori progetti. Questo sicuramente per le
università ha particolarmente senso, probabilmente per le imprese non
necessariamente; insomma bisogna esaminare le situazioni che sono certamente
diverse. Andrea Granelli, come vedi questo legame dunque, tra la
comunicazione dell’innovazione, che è indipendente da come è protetta
l’innovazione, quella comunicazione dell’impresa innovativa, che serve a far
capire che quello che tu proponi come innovazione è credibile e può funzionare,
e il mondo che abbiamo appena finito di discutere, al quale hai accennato
all’inizio, cioè quello dell’incentivazione dura e pura dell’innovazione
attraverso, per esempio, il sistema dei brevetti? Conta più di far credere, far
sapere o puntare sullo strumento duro, legale, del brevetto?
Andrea GRANELLI - Fondazione COTEC
La domanda è complicata, pertanto non mi sento in grado di formulare una
risposta compiuta, ma posso fornire qualche spunto; riprendendo le ultime
considerazioni di Riccardo Pietrabissa, oggi c’è effettivamente questo problema
di condividere il sapere in maniera finalizzata. Fare le cose per il gusto di farle
non serve veramente a nessuno. L’obiettivo è finalizzare, proteggere o trasferire
la conoscenza, ovvero individuare le modalità più efficaci per trasferire la
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conoscenza a target specifici, che possono essere i consumatori ma anche le
aziende che comprano la tecnologia, che devono capirla per poi utilizzarla, in
maniera che sia tutelante e valorizzante soprattutto per colui che ha concepito
l’idea. Il tema esiste e la formula “valore attuale” potrebbe essere, in alcuni
contesti, lo strumento giusto, ma devo fare due distinguo. Prima dicevamo che il
brevetto può essere un processo rigoroso per codificare in maniera intelligente e
precisa l’informazione da parte delle aziende. E questo è certamente un tema
importante. Faccio però una prima riflessione sulla base della mia esperienza,
perché ognuno di noi deduce le regole dalle esperienze che ha vissuto. Io ho
vissuto il tema dei brevetti, all’interno della Telecom, quando ero il capo della
ricerca ed è arrivata la Pirelli – una realtà industriale con una forte cultura
brevettale, identificata in Giannesi, grande esperto della materia che proveniva
dalla 3M. La complessità è stata importare questa cultura in Telecom Italia –
azienda di servizi (e come sapete i servizi si brevettano con difficoltà, per la loro
importante dimensione immateriale). Quello che ho imparato da questa
esperienza è che certamente l’introduzione della cultura brevettale porta rigore e
“forza” una codifica della conoscenza. Ma anche ciò ha un prezzo (anche se
“nascosto” poiché non rilevato dai sistemi contabili). Questo può essere un
grande costo nascosto, che non è solo il costo del filing, delle procedure di
brevettazione, di traduzione in inglese, ma è il costo interno: ad esempio la
riduzione delle informazioni che circolano internamente, in quanto le procedure
interne in ottica brevettale creano un processo mostruoso di registrazione; ogni
appunto deve essere codificato, archiviato in un certo modo per poter poi
ricostruire anche la storia della generazione dell’idea. Un altro “costo nascosto”
è una maggiore difficoltà a partecipare ai progetti comunitari di ricerca: la
Telecom voleva partecipare a questi progetti co-finanziati, ma voleva essere il
proprietario di ciò che lei sviluppava. È quindi chiaro che il sistema brevettale
introduce rigore e forza la codifica della conoscenza, ma i costi possono essere
elevati e spesso si corre il rischio di ridurre la velocità di progettazione, il timeto-market, mettendo in moto dei meccanismi complessi – per non dire
“burocratici” – di over-head, legati alla registrazione ed all’archiviazione del
processo ideativo. Un punto di riflessione che propongo è il seguente: è giusto
proteggere il settore industriale e i brevetti possono essere un buono strumento
(anche se non più sufficiente). Ma che facciamo con i servizi, che oramai
valgono quasi il 70% del PIL? Primo punto: come si protegge l’innovazione in
questo settore? È chiaro che per la farmaceutica è facile, come pure per la
meccanica. Secondo punto: una parte rilevante dell’innovazione di processo
oggi non è più meccanica ma è informatica e organizzativa, i business metods
sono nati per cercare di risolvere questo aspetto. Allora, come la codifichiamo? I
prodotti sono sempre più complessi, ogni prodotto è la sommatoria e
l’integrazione dei prodotti precedenti. Personalmente non contesto né metto in
dubbio il fatto che le formule chimiche o alcuni sistemi meccanici debbano
essere brevettati: la tutela è importante, ma il mondo futuro, quello sempre più
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rilevante e in crescita dei servizi, sta andando in un’altra direzione, e lì come lo
affrontiamo questo problema? Terzo punto è il discorso della creatività. Oggi
tutti dicono che il processo creativo è un processo di assimilazione; la musica,
ad esempio, come viene assimilata dai giovani, dai nostri figli? Prendono pezzi,
li analizzano, li digeriscono e li ri-buttano fuori “diversi”. Sta ritornando, in
effetti, la cultura creativa artistica anche nei prodotti più propriamente
commerciali, come nel caso che citavo all’inizio, del Codice di Leonardo da
Vinci di Dan Brown: un prodotto grazie al quale l’autore ha incassato centinaia
di milioni di euro, minacciato di plagio. Ma lui ha tratto ispirazione da un
saggio, non ha scopiazzato un romanzo; la discussione è quindi: il saggio aveva
già enunciato l’idea usata da Dan Brown, su Gesù che sposa Maria Maddalena
(storia che peraltro viene da un Vangelo apocrifo); però quello è un saggio e non
un romanzo, e quindi… Stiamo entrando in un mondo talmente imponderabile
per cui ritengo che si debba avere il coraggio non tanto di dire che è importante
brevettare nel mondo della farmaceutica (dove credo siamo tutti d’accordo), ma
riflettere su come valorizzare le opere di ingegno nel mondo dei servizi, che è
destinato ad essere il futuro del nostro paese, perché noi sopravviveremo
economicamente solo se punteremo pesantemente su di esso. Quindi il tema è:
come proteggo un servizio, come condivido l’informazione, come finanzio quei
servizi? Molte di queste riflessioni valgono anche per il settore del software,
dove tra l’altro esiste questo connubio molto “strano” tra brevetto e diritto
d’autore, per cui il programmatore di software è un po’ inventore e un po’
autore. La protezione deve essere una protezione intelligente, altrimenti
rischiamo di mettere in atto dei meccanismi costosissimi, molto burocratici, che
alla fine risultano anche inefficaci.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Come vedete alla vostra destra sono molto favorevoli, senza naturalmente
concetti politici, a considerare il brevetto come un asse portante
dell’innovazione; alla vostra sinistra invece: attenzione, prudenza, scetticismo,
mettiamo i puntini sulle i e, anzi, in fondo: puntiamo soprattutto sulla
comunicazione, sullo scambio culturale, sulla reciproca fecondazione attraverso
le idee per stimolare la creatività, che è, in fondo, anche questa un elemento
essenziale del valore aggiunto che viene generato in una società come la nostra,
nella quale il servizio è così grande nella produzione del valore aggiunto ed in
fondo vive di cose che sono difficilmente brevettabili. Quindi abbiamo due
posizioni che ci preparano ad una ulteriore fase del dibattito. Voi siete
naturalmente sempre sollecitati ad alzare la mano per fare una domanda. Per la
prima si era prenotato Bettoni che vuole farla a Zanoli.
Francesco BETTONI - Presidente Unioncamere Lombardia
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Molto semplicemente: da qualche ricercatore abbiamo sentito, nelle settimane
scorse, che “nella conta dei brevetti” per Paesi in Europa, comprendendo la
Svizzera in Europa, la Svizzera è uno dei Paesi che brevetta di più. Qualche
maligno ha detto che sono molti imprenditori italiani, imprese italiane che
brevettano in Svizzera. È vero e se è vero secondo lei quali sono le
motivazioni?
Enrico ZANOLI - Consulente in Proprietà Industriale Studio Zanoli &
Giavarini
So di qualche imprenditore italiano che preferisce andare a depositare, fare
almeno il primo deposito del brevetto o del marchio in Svizzera, però questo
l’ho sentito nella zona dell’alta Lombardia, forse per una contiguità logistica,
oppure qui dietro possono esserci una serie di considerazioni anche molto
banali, tipo la nota efficienza del sistema postale svizzero mentre in Italia…. Ho
sentito considerazioni di questo tipo, ma non credo. Effettivamente le statistiche
dicono che prendiamo i brevetti europei ed andiamo a vedere chi sono le aziende
ed i Paesi che depositano i brevetti europei e facciamo dei confronti statistici.
Non ho questi dati e già ho fatto una figuraccia quando lei mi ha chiesto quanti
sono i brevetti…
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
La figura migliore è quando si dice “non lo so”, perché è la verità.
Enrico ZANOLI - Consulente in Proprietà Industriale Studio Zanoli &
Giavarini
Non lo so. Però so che se si rapporta il numero di abitanti della Svizzera, cioè le
dimensioni della Svizzera rispetto al numero di brevetti europei che vengono
depositati da società svizzere, loro balzano in alto nella graduatoria rispetto a un
Paese come l’Italia, con le dimensioni dell’economia italiana. Se invece si vanno
a vedere i brevetti europei originati da società italiane, si tratta di una piccola
frazione, effettivamente una piccola frazione. Mi viene voglia di riagganciarmi
anche a quanto diceva il dottor Granelli all’inizio. In Italia si brevetta poco. Sì, è
vero però bisogna capire perchè. Secondo me in Italia si brevetta poco perché si
fa poca ricerca, perché il brevetto, a parte il caso tutto sommato estemporaneo di
Polegato che ha avuto l’idea di praticare fori nelle suole delle scarpe creando un
prodotto molto originale che ha brevettato. Oggi adesso la Geox ha 27 brevetti
europei, mentre la Philips olandese ad esempio ha 27.0043 brevetti europei. Ora,
è vero che il numero dei brevetti non è tutto, conta la qualità del brevetto, la
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qualità dell’innovazione, però è anche vero che gli innovatori di professione,
diciamo gli inventori una volta tanto, cioè coloro che fanno la ricerca scientifica,
industriale, accademica o organizzata, finalizzata a ottenere risultati, nuovi
prodotti, nuove tecnologie sono quelli che hanno il maggior numero di brevetti,
inevitabilmente. Dopodiché bisogna sempre “prendere i numeri con le molle” e
la qualità non è necessariamente sinonimo di innovazione breakthrough, di
grande innovazione di prodotto, però a lungo andare le due cose viaggiano
insieme,
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Grazie.
Domande dalla sala.
Grazia CERINI - Direttore Generale CENTROCOT
Mi scuso in anticipo se colgo l’occasione di questo consesso per fare una
domanda non direttamente sui brevetti, ma sul ruolo dei centri di ricerca
nell’ambito dei brevetti. Sono Grazia Cerini, direttore generale del Centro
Tessile Cotoniera Abbigliamento, noto come CENTROCOT, centro di ricerca e
prova nel settore del tessile, quindi di tutta la filiera del tessile. Poiché i soci del
centro sono soci istituzionali, le Camere di commercio, Unioncamere, le
associazioni, quindi non le imprese, desidero confrontarmi con voi sul ruolo dei
centri di ricerca nell’ambito dei brevetti; era mia personale convinzione, almeno
fin ad oggi, che i centri di ricerca non dovessero brevettare per conto proprio.
Vale a dire: noi fino ad oggi abbiamo lavorato in questa logica. Aiutiamo le
imprese a svolgere attività di ricerca, sia in progetti finanziati sia in progetti,
pagati direttamente dalle imprese. Ma essendo noi un centro a supporto delle
imprese non ci siamo - passatemi il termine - permessi di andare a sostituirci alle
imprese, a brevettare qualsiasi ricerca; per noi la ricerca è dell’impresa ed il
brevetto è dell’impresa. Volevo capire se è anacronistica oggi questa posizione,
perché ovviamente tutto si può cambiare. Noi abbiamo sempre lavorato così: è
l’impresa il fulcro della ricerca e del brevetto, noi stiamo dietro le quinte. Però
sento che l’università brevetta e forse c’è qualcosa da cambiare anche da parte
dei centri di ricerca. Grazie.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Grazie, molto interessante. Pietrabissa che dice?
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Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Mi sembra questo un caso un po’ particolare, perché è un centro di ricerca, però
mi sembra a servizio, in qualche modo, di un gruppo di imprese, quindi non è un
centro di ricerca con…
Grazie CERINI - Direttore Generale CENTROCOT
Di associazione.
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Ad ogni modo, voglio dire, è un centro di servizio, che fa ricerca come servizio,
diverso, evidentemente, è il centro di ricerca pubblico che fa della ricerca nuova
conoscenza. La finalità è diversa, non è di servizio. Nel caso nostro credo che
sia un ruolo rilevante quello di essere attori nella definizione, nell’acquisizione
di proprietà industriale per il suo trasferimento. Per quanto riguarda invece i
cosiddetti centri di servizio di ricerca, credo che il vero problema non sia
l’acquisizione della proprietà industriale come strumento di difesa o di
negoziazione, perché non è questo il fine. Però la protezione dell’innovazione è
una cultura; non averla, non farla è molto spesso una penalizzazione anche nella
capacità di trasferimento. Devo avere la consapevolezza di cosa sia invenzione,
di cosa sia brevettabile, e non è banale questa conoscenza. Allora brevettare,
ancorché non finalizzato all’esclusiva, ma al trasferimento, è un valore
fondamentale di chi fa ricerca. Lavoro all’università e il problema del professore
universitario, che non ha questa tradizione nel suo DNA, è un problema
esclusivamente di cultura. Non sostengo occorra avere il brevetto a tutti i costi e
sfruttarlo. Non è questo il punto, ma finché non lo fai e non fa parte del tuo
mestiere quotidiano, ti manca un pezzo che non ti aiuta a trasferire la
conoscenza.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Ci sono altre domande?
Marco CELÈ - Confindustria
Più che una domanda, urge una considerazione che butto lì per accrescere la
“confusione”. Abbiamo visto, e condivido ampiamente l’analisi fatta, che
esistono due schieramenti: da questo lato chi parla della validità del brevetto,
che riguarda quindi sostanzialmente il settore manifatturiero, quello che in
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qualche modo indegnamente rappresento; da quest’altra parte abbiamo invece
un orientamento, il discorso sui servizi, ed è messo in discussione il ruolo del
brevetto, perché in questi servizi, la comunicazione, il software eccetera è
problematico vedere un ruolo preciso del brevetto. Allora la considerazione che
un po’ crea imbarazzo, è questa: perché il nostro Paese e la Lombardia, forse,
con qualche sfumatura migliore rispetto allo stato generale dell’Italia per i
valori, il 29% di export, il 21% del PIL, è in una situazione così distanziata in
merito alle medie europee? I 50.000 brevetti sono Siemens, ma noi siamo in un
contesto industriale fatto da 3M e simili; il 90% e oltre che ha un modo di
innovazione, e lo fa, ma non è in condizione di affrontare il discorso progettuale.
La stragrande maggioranza è composta da aziende di processo che intervengono
quindi sul processo produttivo, per cui semmai è centrale il discorso del segreto
industriale. D’altro canto, abbiamo analizzato in maniera del tutto sommato
grossolana l’aspetto manifatturiero e tradizionale. E aggiungo una cosa: in
prevalenza il nostro settore industriale è a scarso valore aggiunto; ecco quindi un
altro motivo per cui non si brevetta, per cui non si seguono queste strade. Un
altro settore, quello dei settore servizi, sta diventando sempre più importante.
Infatti ormai, perlomeno in Lombardia oltre il 60% è fatto da aziende di servizi.
Il discorso brevettuale è quindi messo in discussione. Tentando di fare una
sintesi, affermo che siamo in una situazione più che mai di empasse, nel senso
che l’industria manifatturiera, così com’è, ha e dimostra grandi difficoltà a
seguire la strada del brevetto. L’industria dei servizi è sempre fatta da unità
molto piccole di ditte individuali, piccole società, eccetera e quindi noi siamo un
po’ spiazzati totalmente da questo punto di vista. Allora la riflessione - e
concludo l’intervento - credo che ciò che si debba fare, che si ponga come
imperativo categorico, per tutti noi, per tutto il sistema, le istituzioni e chi ha
potere - potere politico piuttosto che economico eccetera - è quello far sì che si
facciano interventi di politica industriale affinché le piccole aziende possano
diventare perlomeno un po’ più grandi. Mi riferisco quindi al discorso della
patrimonializzazione, della crescita dimensionale, delle aggregazioni, a creare le
condizioni e il contorno perché si possa andare verso settori a valore aggiunto
sempre più elevato e incentivare i servizi innovativi. Ecco, “la sintesi della
sintesi”: di fronte al discorso dei brevetti sono sinceramente come attore di
questo gioco abbastanza in difficoltà a proporre soluzioni o indirizzi. Credo che
si debba agire proprio un po’ alla base: creiamo le condizioni, tutti insieme,
affinché anche il nostro sistema industriale, intendo in generale delle imprese e
non so da quelle manifatturiere, di Confindustria, si possa crescere ed avere
quella struttura che permetta di affrontare il discorso brevettuale,
internazionalizzazione, innovazione per poter competere. Un’ultimissima
annotazione, credo che restando nel campo specifico brevettuale, ciò che oggi
dovremmo - voglio sottolineare - curare e far sì che cresca è quella nicchia - a
cui faceva riferimento il professor Pietrabissa - del trasferimento di queste
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soluzioni innovative affinché anche la piccola azienda possa essere guidata e
portata a fare quel passo in avanti. Grazie.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Dopo il rappresentante del mio editore, che ringrazio, torna la parola a Sordi,
che voleva intervenire su quanto detto prima.
Massimo SORDI Vice Presidente Camera di Commercio di Milano e
Presidente LPE S.p.A. e GMM S.p.A.
Sì, su quanto detto prima dall’ala destra, in questo caso e da quanto riecheggiato
adesso. E’ vero, c’è una serie di brevetti inutili; è vero, molti si avvicinano al
brevetto senza sapere che cosa fanno, ma noi dobbiamo aiutarli. È vero che
quanto si sta facendo oggi in alcune imprese è reggere, sulla scena mondiale,
vendendo i nostri prodotti in Giappone, nonché negli Stati Uniti, o altrove,
proprio perché il contenuto tecnologico protetto è assolutamente importante e
vitale. Senza quello saremo disarmati, ma con il rebound per avere affrontato un
mercato capace di cacciarci fuori a pedate dopo aver sostenuto l’investimento.
Nelle imprese americane, squadre di avvocati, pagati apposta per fare cause - e
quando loro fanno una causa che può costare qualche centinaio di migliaia di
dollari - sa che comunque il premio alla fine è alto. Ho assisto a cause andate
perse nel nostro campo dell’elettronica avanzata, con danni di qualche decina di
milioni di dollari. Quindi continuerò a dire ai miei di continuare a fare ricerca,
come prima cosa; e come seconda di continuare i contatti con le università e i
poli di eccellenza, non sono italiani, ma sulla scena mondiale; e terza, a coprire
con brevetti. Uno dei prodotti che abbiamo preso proprio da Cefriel, è coperto
da brevetto, e proprio ieri mi dicevano che un brevetto americano del ’92
antecede i nostri perché …brevettavano anche l’acqua calda. Ma qual è il
metodo di valutazione? Noi ci troviamo negli Stati Uniti con una certa mentalità
di qualche lustro fa, ed oggi è cambiata. Ci troviamo in Europa, dove c’è una
certa uniformità di approccio, ma quando ci si trova alla Corte Europea a
litigare, cosa che ci è successa recentemente, nel caso di un’impresa scandinava
che era attrezzata con Avvocati inglesi, bravissimi nel proteggere la proprietà
intellettuale. Questi avvocati sono stati abilissimi nella lobby; uno di loro aveva
addirittura il pass che gli consentiva di entrare e uscire dalla Corte Europea,
senza nessun problema. Mentre noi ci siamo presentati con un ottimo Avvocato
italiano; parlavamo inglese, tutti quanti alla perfezione, ma abbiamo perso sei a
zero a causa della preparazione lobbistica dell’avvocato scandinavo che era
fortissima. Adesso andremmo in Appello e probabilmente vinceremo noi sei a
zero, o sei a tre: stavolta ci siamo “armati”. C’è una tale disparità di approccio
alla concessione del brevetto, alla valutazione dei contendenti, per cui
effettivamente è una materia sulla quale se dovessi dirvi se ho speso bene le
26
centinaia di migliaia di euro, forse di più, per la copertura dei nostri prodotti,
direi: nel 10% dei casi sono contento, nell’altro 90% no e devo armarmi meglio.
Però insisto continuate a brevettare, così dirò ai miei fino alla fine. Vorrei
mettere un altro cappello e parlare della Camera di commercio di Milano, ma
molto rapidamente. Tutti voi sapete che abbiamo avviato il progetto del Palazzo
dell’Innovazione che è il più grande dopo la via della Borsa promossa decenni
fa dalla Camera di commercio. Molti ci chiedono: che cosa ci metterete nel
Palazzo dell’Innovazione? Sono questi due rapidi flash. Avete toccato molto
spesso il discorso del trasferimento delle tecnologie; è vitale che la piccola
industria abbia, o andando ad un appuntamento o trovandosele in Internet o in
altro modo un punto di contatto con chi fa la ricerca ed è armato anche a valle
sulla copertura. Siete sicuramente più armati voi, Politecnico, nel proteggere un
prodotto, nonché probabilmente dovrete decidere se andate avanti anche alla
copertura successiva, sennò veramente i disonesti vi fregheranno tutti i prodotti.
Ma qualora la piccola industria non fosse la vecchietta che non ha voglia di
attraversare la strada e che tutti le vorrebbero far attraversare, ma fosse una
vecchietta che sta e che avrebbe piacere di attraversare la strada, deve trovare
quello che è onesto e non le porta via la borsa, ma l’accompagna dall’altra parte.
Noi ci auguriamo di essere la vecchietta che incontra il traghettatore serio.
Parlando di trasferimento tecnologico siamo perfettamente d’accordo con le
cose sentite, ma erano già in parte scritte: l’edit, i check-up tecnologici, lo
scouting, la Borsa dell’innovazione, il report su domande e offerte di
innovazione, technology push, market pull, pubblicizzazione di proposte di
cooperazione selezionata. Gli attori: ne abbiamo qui un mucchio. Tra l’altro
sono sorti e sorti bene, dobbiamo portare anche la parte proponente a svilupparsi
e orientarci verso gli interlocutori seri, come Cefriel, di marketing e tecnologia,
della Fondazione Politecnico, Innovation Relay, l’UNIMIT. Centri tecnologici
avanzati. Occorre avvicinare l’impresa agli strumenti della proprietà intellettuale
e supportarla nell’affrontare le problematiche di natura amministrativa, giuridica
ed economica. Non vogliamo fare il mestiere dei tanti uffici serissimi che
operano assistendo le imprese per i brevetti, ma un centro di assistenza alla
brevettabilità di marchi, quantomeno per dare l’infarinatura culturale. Affinché
si rivolgano a centri di ricerca ci deve essere, informazione e formazione,
assistenza di tipo giuridico legale e non dimenticatevi che noi abbiamo le
camere arbitrali che possono essere utili all’arbitrato in materia di proprietà
intellettuale. Banche dati per la ricerca, supporto nella compilazione
modulistica, e naturalmente questo fatto in collaborazione con l’Ufficio Italiano
Brevetti, l’EPO, il WPO, gli studi brevettuali e le scuole di formazione. Quindi
questo è quanto per il capitolo innovazione metteremmo nel Palazzo
dell’Innovazione. Non è facile realizzarlo, deve essere una rete, deve consentire
che le eccellenze che oggi state creando si aggreghino, si sviluppino e
comunichino. Dall’altra parte noi imprese dobbiamo far sì che non ci sia
soltanto qualcuno che si agita in quanto opera in campi avanzati, pur essendo
27
piccolo o medio piccolo, ma che la cultura si diffonda. Diversamente altrimenti,
già siamo poveri, già non abbiamo trazioni all’estero perché all’estero le imprese
seguono l’onda di gente come la Siemens che in Cina produce treni a
lievitazione magnetica. Quindi deve essere veramente una rete. Credo che gli
imprenditori debbano essere consapevoli di questo o comunque impararlo,
anche se una buona parte è probabile che finisca comunque fuori gioco.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Si era prenotato Andrea Bonaccorsi per un intervento e una domanda subito
dopo. Prego la domanda.
Giuseppe VIVACE - Vice Segretario Regionale CNA
Intanto devo fare un grande apprezzamento sul taglio che avete dato, che
Unioncamere ha dato a questo forum, innovativo anche come metodologia di
discussione. E parlando di innovazione ciò mi sembra che sia interessante.
Credo inoltre che abbia focalizzato un tema, quello dei brevetti, su cui anche noi
non navighiamo in grandissime reti di conoscenza. È un tema che fatichiamo a
masticare. Quindi credo che sia stato importante, che sia importante questo
livello di approfondimento, questa varietà di opinioni che nascono intorno al
tema dei brevetti. E questo è un punto forte. Il secondo punto che tendo a
sottolineare è che, a mio modesto avviso, questa tavola rotonda ha aperto una
finestra importantissima su un tema, che soprattutto la “parte sinistra” alla nostra
sinistra dei relatori sta sottolineando, che è: su quale modello produttivo si cala
oggi l’innovazione? E questo è uno dei punti su cui dobbiamo riflettere noi
operatori delle associazioni, noi che abbiamo in qualche modo il compito,
portato avanti con umiltà, di seguire la nostra impresa. Qual è il modello
produttivo su cui pensare l’innovazione oggi in questo Paese, in questa regione?
Ci tengo a buttare lì questa domanda, e mi rendo conto che non è una domanda
forse di questa tavola rotonda, però per noi è essenziale. A noi sembra che si sia
un po’ smarrito questo filo di riflessione. Bettoni diceva: qual è il
posizionamento oggi dell’innovazione, su che cosa posizioniamo le imprese?
Perché, insomma, è chiaro che è scomparsa in Italia l’idea della fabbrica
fordista,; la grande impresa è scomparsa, perdendo pezzi, portandosi dietro
anche pezzi di piccola impresa, di microimpresa, grande perdita. Oggi pezzi di
microimpresa sono sostituiti dai cinesi, si fanno in altre parti del mondo. Noi
abbiamo perso questa dimensione. Non abbiamo neanche, credo, la possibilità di
pensare allo hi-tech, perché servono grandi investimenti, pubblici e privati e non
a caso chi lo fa investe molti quattrini. Penso al nord Europa, ma anche alla
Germania, Baden Wurttenberg, con il 4% del PIL in ricerca e innovazioni. La
Lombardia, che pure è una regione che non arretrata anzi è molto avanzata su
questi temi, investe l’1%, forse meno. Anche questo è un tema di politica forte.
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Allora credo che molto umilmente noi dobbiamo in qualche modo tener conto
un po’ anche delle cose che diceva Celè, dei modelli su cui possiamo contare
oggi per puntare all’innovazione. È quella che il professor Rullani ed il
professor Bonomi chiamano “capitalismo personale” e che forse Bettoni, nella
sua introduzione, richiamava in questa diffusa capacità di fare impresa, cioè di
questa miriade di micro, di piccole imprese che oggi tengono in piedi
l’economia italiana e lombarda. Questo è il punto. E allora come facciamo? Un
punto che però apre una grande prospettiva, perché permette di entrare dentro un
segmento di produzione complessa ed avanzata. Produzione complessa ed
avanzata unendo la creatività tipica di queste piccole imprese, la fantasia, la
capacità di pensare, con la flessibilità. Oggi c’è una domanda di piccoli lotti di
produzione mondiale che noi possiamo mettere sul mercato, perché abbiamo le
condizioni per farlo, le piccole imprese sono in condizioni per farlo. Certo,
piccole imprese, non da sole. Micro imprese se stanno in rete, se intercettiamo
capacità di metterle in rete, e di creare filiere. Cioè è lì che dobbiamo insistere.
L’internazionalizzazione la possiamo pensare in questi termini: non si può
internazionalizzare una piccola impresa, una micro impresa, però si
internazionalizza la filiera, che comprende la piccola e la media impresa. È
questo il punto su cui noi dobbiamo riflettere. Allora come fare? Molto
umilmente, parto dall’associazione di categoria, facendo un’autocritica, dicendo
che noi in passato forse abbiamo sposato troppo questa idea della svalutazione
competitiva, che poi per fortuna con l’euro si è mitigata. Però siamo stati dentro
questo meccanismo artificioso, che ci ha aiutato un po’ ad esportare, ma che ha
creato un grande deficit di innovazione, cosa che la Germania ad esempio non
ha mostrati e oggi in qualche modo regge. Allora credo che bisogna partire da
questo, da cosa noi facciamo per accompagnare le imprese dentro queste reti
lunghe dell’innovazione mondiale, della globalizzazione. Nel nostro piccolo
lancio due messaggini, forse non si può dire, SMS, visto che qui c’è il professor
Campo Dall’Orto, che ci ha seguito insieme a Unioncamere e Regione, su un
progetto piccolo ma che ha aperto prospettive interessantissime: collaborare in
rete, con una piattaforma tecnologica che mette in rete le filiere e le micro e le
medie imprese nel settore della tecnologia e della manifattura. Ha dato la
possibilità di far lavorare un consorzio con i mercati mondiali. Questo è il punto.
Collaborare in rete, una piccola cosa, che però può aprire delle possibilità. Sono
esempi. E questo è uno, ma ne cito un altro: bench art, un altro progetto
finanziato nella convenzione artigianato. Mille imprese che scambieranno tra
loro buone prassi anche sul sistema di innovazione tecnologica. Quello che ci
diceva un imprenditore di Varese l’altra sera: “Io non posso investire, non ho le
risorse per investire in grandi tecnologie, però se qualcuno mi dice come ha fatto
quella saldatura in quel modo io posso impararlo da lui forse.” Sappiamo che
non è così facile, ma i servono anche queste piccole cose. Quindi quando
pensiamo all’innovazione dobbiamo avere in testa questa dimensione di
innovazione. In questo senso credo che le politiche pubbliche debbano fare uno
29
sforzo in più. I PIA, i Pacchetti Integrati Agevolativi, che hanno messo a
disposizione tante risorse, non servono queste grandi cose. Servono ad esempio
le vecchie Leggi 7 o 41, che hanno promosso mille imprese a fare la
certificazione di qualità in questa Regione, quando ancora la certificazione di
qualità non la praticava nessuno. In questo senso credo che possa essere
interessante questo dibattito per aprire una prospettiva di dialogo che può aprirci
delle grandi prospettive. Grazie.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Grazie. Da tutti gli interventi del pubblico emerge una consapevolezza, ancora
una volta, e cioè che in effetti non è colpa dell’imprenditore che non fa i
brevetti, non è sua la responsabilità. La situazione effettivamente è così e c’è
una ragione, c’è una razionalità in questo tipo di comportamento. Quello che è
interessante e che emerge dai vostri interventi, è che sta crescendo una
consapevolezza del ruolo degli operatori che creano il tessuto connettivo per
prendere in mano la situazione dell’innovazione e dare il loro contributo per
agevolare la circolazione delle idee e delle possibili sorgenti di innovazione.
Quindi di questo vi ringrazio molto. Si era prenotato Andrea Bonaccorsi, come
dicevamo, andiamo verso la chiusura, che è prevista per le 17.00.
Pier Andrea Chevallard
Introduco un tema che nella discussione precedente in parte è stato accennato.
Riccardo Pietrabissa ha fornito una mappa molto chiara di che cosa si può fare
con i brevetti ed è chiaro un punto: il brevetto è un prodotto intermedio, non è
un prodotto finale, è un oggetto che serve per fare altro, e il suo valore dipende
dall’altro che si fa e dal fatto che lo si usi per realizzare qualcosa. Allora, nella
sua ultima categoria, cioè trasferire le conoscenze, trasferire l’innovazione c’è
una modalità che vorrei non restasse troppo nascosta, anche se
quantitativamente è meno importante delle migliaia o delle 800.000 imprese
esistenti. E’ il tema delle nuove imprese che è il tema del rapporto tra brevetti,
proprietà intellettuale e start up, imprese che nascono da zero e vogliono
costruire industria e terziario in settori di frontiera. Non parlo ora di questo, sono
d’accordo con la sottolineatura sul problema delle politiche industriali, delle
piccole imprese, del nostro sistema e anche personalmente mi adopero allo
sviluppo in questo senso. Ma c’è un’altra parte della storia che non dobbiamo
dimenticare, cioè che il Paese non ha un gran futuro se lavora solo a consolidare
il suo modello di specializzazione in settori in cui è già presente e in cui bisogna
fare tutto il possibile per consolidare e crescere. Dobbiamo anche aprire delle
finestre, il più possibile ampie, su settori nuovi, in cui non abbiamo magari
storia industriale, non abbiamo la Siemens, ma abbiamo per esempio ricerca di
buon livello, che può giocare qualche partita, ad oggi ancora piccola
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quantitativamente. Allora vorrei raccontare alcune storie per dare concretezza a
questo messaggio che derivano dall’esperienza pisana. Provengo da un contesto
abbastanza brillante da questo punto di vista ed è il rapporto tra il brevetto ed il
capitale di rischio. Cioè il brevetto è spesso importante perché serve da
collaterale, quando voglio rivolgermi a finanziatori in capitale di rischio e
persuaderli a finanziare il mio progetto d’impresa. Però i finanziatori in capitale
di rischio sono soggetti che vogliono rischiare poco e guadagnare tanto. Se
seguite il dibattito sul Corriere Economia - invito Luca De Biase a riaprirlo sul
Nova, perché non sono contento del modo in cui il dibattito è stato fatto finora abbiamo un problema, cioè il capitale di rischio non va alle start up, non va alle
imprese molto nuove. Allora a cosa serve l’esperienza che abbiamo fatto? A
finanziare in capitale di rischio le imprese da zero a tre anni per accompagnarle
al momento in cui possono negoziare con soggetti grossi di capitale di rischio o
anche con grandi imprese per avere un finanziamento importante su innovazioni
che vogliono immettere sul mercato. E lo dico per captatio benevolentiae
esplicita, perché il soggetto che l’ha supportata è la Camera di commercio di
Pisa. Quindi gioco in casa da questo punto di vista: con 2,5 milioni di euro ha
consentito di aprire un piccolo fondo di SID che supporta fino a 200.000 euro il
capitale nei primissimi anni di queste imprese. Una piccola esperienza che però
vuole dire una trentina di progetti valutati e una dozzina già operativi, che sono
oggetto di attenzione di molti, compresi i presenti, venuti anche a vedere come
funziona e altri che stanno giungendo. Cito i dati sui brevetti, tre mini-casi, ma
interessanti: primo, imprenditori che nascono dalla ricerca ma che non hanno
fatto un brevetto. Un’impresa di un gruppo molto brillante di fisici e ingegneri
che opera in tecnologie di film sottili e che,dopo aver introdotto i primi prodotti
sul mercato, è stata contattate dal secondo player mondiale che gli ha proposto
una joint venture, un accordo per commercializzare una loro tecnologia sui
mercati mondiali. Ma questa impresa non aveva i brevetti. Allora nell’istruttoria
con cui li abbiamo ammessi al capitale di rischio di questo piccolo fondo
abbiamo indicato un vincolo: accettazione, ma a patto che, entro x mesi, sia
valutata la fattibilità di un brevetto. Adesso che hanno avuto quest’offerta, a
carte ancora coperte, sono tornati chiedendo: che dobbiamo fare? Ed è chiaro
che questa è una situazione in cui un brevetto aiuta. Se vado a trattare con un
soggetto che è cento volte più grande di me, che ha bisogno della mia tecnologia
se non sono accorto, mi mangia in un boccone. Secondo caso: un’impresa che
Riccardo Pietrabissa conosce molto bene che si occupa di tecnologie
biomedicali e che aveva il brevetto ma intestato a un gruppo, a un centro, un
consiglio delle ricerche estero coreano. Per il ricercatore tutto bene, perché la
ricerca è mondiale. Quando ci hanno chiesto di fare un’impresa, gli abbiamo
detto: fermate le macchine, non diamo capitale a un’impresa la cui proprietà
intellettuale sta in Corea, perché non sappiamo cosa può succedere. Allora
questi sono tornati indietro, hanno negoziato un accuratissimo contratto, si sono
fatti aiutare da una società di consulenza legale per negoziare un contratto di
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esclusiva di licenza ventennale con cui affermare che loro hanno, di fatto, se non
la proprietà, perlomeno un accordo blindato sulla proprietà dell’innovazione che
volevano commercializzare nel nostro Paese. Questa impresa è oggetto di offerte
da parte di diversi soggetti per entrare nel capitale; infatti, avanzando sul
mercato, questa innovazione potrebbe costituire un opportunità molto
interessante a livello mondiale. Parliamo di un ultimo mini-caso che riguarda
ricercatori che non hanno invece la più pallida idea di dove siano i brevetti,
quelli con cui il professor Pietrabissa lavora o combatte. Il ricercatore che cosa
ha? Oscilla tra due opposti: da un lato non ha la più pallida idea del valore
economico della sua ricerca, perché non è abituato a misurarla. Essendo un
ricercatore pubblico non si pone nemmeno il problema di quanto vale la sua
ricerca, e quindi la diffonde, non la brevetta, non si preoccupa. Ma a volte si
verifica il caso opposto. Noi abbiamo avuto il caso di uno scienziato di buon
livello che voleva creare un’impresa intorno a un brevetto. Nel momento in cui è
arrivato da noi, gli abbiamo detto: va bene, però adesso parliamo di che cosa
vale questo oggetto. Lui l’ha fatto valutare da uno studio che ha applicato un po’
di “stregoneria”, perché la valutazione degli asset intangibili è una disciplina
ancora abbastanza esoterica, dando la stima di un valore di 6 milioni di euro.
Allora al professore che fino al giorno prima non sapeva che cosa aveva in
mano, è stato detto che possiede un oggetto del valore di 6 milioni di euro.
Impazzito, il professore è tornato da noi dicendo: “Adesso mi create un’impresa
in cui metto 6 milioni di euro, voi mi date 5 e vi prendete lo 0,5%, perché
evidentemente valgo così tanto. Allora lì abbiamo dovuto spiegargli quello che
giustamente diceva Pietrabissa, cioè che il brevetto da solo non vale nulla, vale
la carta in cui è scritto, cioè l’insieme del know-how di questo team
imprenditoriale che prende il brevetto e lo porta a valle verso l’applicazione,
verso il mercato. Per occorre invece avere una valutazione molto più prudente e
impostare un piano di impresa da cui trarre una valutazione. Ora questi sono
mini casi, sono piccole realtà, ma credo che questa finestra vada aperta. Non
sono d’accordo con gli scettici che dicono che, insomma, di questo tema non
bisogna parlare perché sono poche e poca cosa. Dobbiamo mantenere una
finestra per i prossimi anni, perché se non lo facciamo avremo difficoltà
importanti. Quindi da un lato certamente rivolgiamoci alle piccole imprese, ma
lasciamo anche uno spiraglio per lo start up, radicalmente nuovo, che a volte
parte dalla ricerca.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
Anzi, probabilmente, è proprio questa la specificità del sistema Italia, quella di
essere sempre stata capace di creare un sacco di nuove imprese. E’ fertile, da
questo punto di vista, molto più di altri Paesi. Pietrabissa, una battuta.
32
Riccardo PIETRABISSA - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria dei
Sistemi - Politecnico di Milano
Sì, perché lui mi ha lanciato una serie di assist. Credo che, veramente,
l’innovazione sia molto nel metodo più che nello strumento. Noi dobbiamo
inventare qualcosa di nuovo. Chevallard ha illustrato questi mini casi, come li ha
chiamati: credo che l’università abbia una responsabilità grande e debba mettersi
in gioco, in questo senso, molto più di quanto non abbia fatto nel passato.
Lancio anch’io un esempio che è un mini caso. Oggi doveva essere oggi qui con
noi l’ingegner Valassi. Sono in questo momento pro - rettore del Politecnico a
Lecco quindi ho una visione abbastanza puntuale di quello che sta succedendo in
una realtà sicuramente molto ricca di micro impresa, manifatturiera. Ieri sera
sono stato a cena con alcuni giovani industriali della provincia di Lecco, i quali
mi dicevano “Ma l’università a cosa serve?, Prepara i giovani, ma qual è il ruolo
innovativo dell’università, la ricerca?Noi abbiamo problemi contingenti. La
ricerca è molto bella, fatevela e poi fateci sapere.. Il problema è questo. Chi fa
ricerca, il grande scienziato, non capisce neanche il valore della sua ricerca sul
mercato.” Ho ribadito: “Qual è il problema? Ho un ricercatore bravo, fa un bel
brevetto, ma non lo metto sul mercato perché non sono capace di farlo; mi
farebbe piacere fare un’industria ma non sono un industriale. Ci provo: metto il
brevetto, faccio la mia società spin off - non mi interessa il capitale speculativo -,
perché rischio comunque non essendo il mio business. C’è un industriale qui che
fa rondelle e che ha ancora un po’ di soldi e ce li mette per aiutarmi a fare il
management?” Cioè passiamo a fare micro riconversione industriale utilizzando
il ruolo dell’università e della ricerca? Questa è una sfida che si può fare. Allora
ecco che non solo facciamo innovazione, ma cerchiamo anche di salvare quei
settori che presentano un orizzonte cortissimo: i soldi ci sono per farlo, ci vuole
un pochino di coraggio.
Andrea BONACCORSI - Professore Ordinario Facoltà di Ingegneria Università di Pisa
Uno dei mini casi di cui parlavo prima: un imprenditore calzaturiero che ha
affermato: “Basta spendere nel mio settore, non riesco più ad investire, butto
soldi, tanti, fino a un milione e mezzo di euro, in una di queste imprese con forti
tecnologie innovative.” Sono assolutamente d’accordo: se gli imprenditori
recepissero questo messaggio e una parte della loro liquidità fosse investita,
anche in modo ad alto rischio, verso attività di questo tipo, sarebbe una via
italiana a un capitalismo hi-tech, non al modo di Siemens, ma che può avere
qualche chance.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
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Estremamente interessante questo discorso. C’è ancora una domanda…
Cristina BINI - Senior Analyst Finlombarda Gestioni SGR SpA
Volevo difendere per un secondo la categoria dei Fondi di Venture Capital. Nel
senso che condivido pienamente alcuni dei temi che sono stati posti: la difficoltà
della valutazione del brevetto, le lotte con il ricercatore perché uno dice 10,
l’altro mille. E’ vero i fondi anche questo fanno. Credo però che, in parziale
disaccordo con quello che diceva la persona che mi ha preceduto, esistano
ottime opportunità di sviluppo nel nostro Paese generate proprio dalle università
e dai centri di ricerca, che sono lì pronte perché qualcuno le colga. È logico che
non si possa pretendere che le piccole imprese vadano a dare soldi alle
università per far nascere degli spin off universitari, anche perché i fondi hanno
difficoltà a farlo. Sicuramente possiamo cercare di far nascere realtà con questo
obiettivo ma sapendo a priori che queste realtà non necessariamente
diventeranno grandi imprese italiane. Per cui uno spin off nelle biotecnologie
dell’Università di Milano può benissimo essere qualcosa di particolarmente
interessante, una buona opportunità, chiaramente per investitori come un fondo
oppure dei business angels, dei privati disponibili a finanziarlo, partendo però
dal presupposto che prima o poi questa realtà deve avere un futuro diverso.
Senza dubbio se costituiamo degli spin off universitari, soprattutto in settori ad
alto rischio, come quelli delle tecnologie, pensando che diventino grandi
imprese italiane, forse stiamo dimenticando qual è la nostra storia. Meglio
sapere prima e non dopo un po’ di anni che questa azienda sarà venduta a una
grande Farma piuttosto che integrata in una realtà sovranazionale che comunque
dà la possibilità a tutti quanti - chi dal punto di vista economico chi dal punto di
vista invece conoscitivo - di fare qualche cosa. Quindi il tema era: non pensiamo
di voler fare delle grande impresi biotecnologiche o in settori ad alto contenuto
tecnologico in Italia, ma l’importante è che ne nascano, poi una strada la si
prende in qualche modo.
Luca De BIASE - Il sole 24 Ore
La ringraziamo, anche se come rappresentante di Fondi di Venture Capital è
arrivata un po’ in ritardo nel dibattito, però… mi scusi, è una battuta… Trovo
che assolutamente sia così: il punto che sottolineare sulle nuove imprese è
decisivo; l’ha detto anche Bonaccorsi. Può essere che alla fine ci metteremo a
esportare imprese invece che a esportare prodotti, creando nuove imprese che si
vendono in giro. L’ultima parola ad Andrea Granelli, perché è il promotore, sia
dell’uno sia dell’altro libro, comunque ha collaborato a entrambi, prima di
salutarci. Nel frattempo vi ringrazio tutti. Sicuramente ho imparato più di quanto
abbiate imparato voi e cercherò di darne conto sul giornale che, vi ricordo, si
chiama Nova 24, ed esce ogni giovedì con Il Sole 24 Ore.
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Andrea GRANELLI - Fondazione COTEC
Grazie, Luca. Due commenti su alcuni spunti che sono emersi dal dibattito,
anche per cercare di definire i prossimi passi di questo seminario. Mi riallaccio
al discorso del collega di Confindustria sui servizi: a me la cosa che un po’
preoccupa è questa contrapposizione fra manifattura e servizi, che tende a dire
manifattura uguale grandi aziende e servizi piccoli operatori. Ma il settore dei
servizi è una realtà enorme: la più grande (e ricca) azienda nel mondo si chiama
Wallmart ed è una società di servizi. I suoi servizi e i suoi asset sono tutto
fuorché intangibili. Prendiamo altri servizi: le telecomunicazioni, l’energia, il
broadcasting, l’intrattenimento, il turismo. E, nonostante ciò, si tende a dire “…
ci sono anche i servizi, le piccole imprese, ma sono realtà piccole, poco
significative, senza tecnologia e non esportabili”. Un altro stimolo: trovo molto
pertinenti le considerazioni che faceva Andrea Bonaccorsi: abbiamo il dovere di
battagliare e difendere il vantaggio che abbiamo acquisito, le posizioni di
rendita, ma c’è un “altro mondo” che non è solo fatto di start up, di piccole
imprese e di profitti incerti; è una realtà importante, che assicura quasi il 70%
del PIL. Il servizio non è solo l’immateriale, non è solo fatto di camerieri e
addetti alle pulizie, il servizio è un insieme di tecnologie, di luoghi, di prodotti e
di luoghi. Ha cioè una importante componente materiale. Non rifiuta il passato e
la cultura industriale ma ne è una evoluzione. Quello delle start-up – come
finanziarle, farle crescere, aiutare a internazionalizzarsi – è invece un tema
molto vasto che non possiamo affrontare oggi in questa sede: ritengo comunque
fondamentale dare maggiore importanza alle start-up, e sono pienamente
d’accordo con Andrea Bonaccorsi su questo. Il tema è cosa fare dopo avere
finanziato la nascita di una start-up? cosa viene dopo il seed capital? C’è un
famoso aforisma di un grande analizzatore della cultura italiana che una volta
disse: «l’Italia è il paese delle inaugurazioni e non delle manutenzioni». A noi
piace sempre fare le cose iniziali, anche le start-up; il vero problema è come
farle crescere, che non vuole dire solamente creare fusioni per aumentare
(artificialmente) la dimensione aziendale; si tratta di strumenti finanziari ad hoc
– come il growth capital – ma anche di una mentalità orientata alla crescita e
all’internazionalizzazione, una mentalità di chi non si accontenta. L’idea che
citava Pietrabissa poc’anzi mi sembra molto illuminante. Io aggiungerei un
elemento in più: non solo l’opportunità di usare capitale intelligente di
imprenditori, un po’ come dei business angels che si diversificano, e quindi un
processo di riconversione industriale. Ma usare capitale e competenze per dare
finalmente vita ai veri incubatori d’impresa: non spazi dismessi dalle industrie
che vengono riqualificati ma veri e propri “Centri di sviluppo di opportunità di
crescita”. L’idea è che una NUOVA business idea, un brevetto non richiedano
necessariamente una NUOVA azienda. Spesso creando una start-up o forzando
uno spin-off si fa violenza. Si chiede a un ricercatore di trasformarsi
improvvisamente in imprenditore, in direttore generale, in capo del personale.
Ma molto spesso il NUOVO prodotto complementa prodotti di aziende
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consolidate, e quindi potrebbe essere un aggiuntivo di queste aziende, che
hanno già un brand, dei canali commerciali attivi, ma anche una contabilità, dei
commercialisti, dei conti correnti con fidi attivi. E’ su questo terreno fertile e già
produttivo che talvolta è più efficace inserire (e fare incubare) una tecnologia
con chi l’ha concepita. Pertanto una delle innovazione per spingere la crescita
potrebbe essere passare dagli spin-off a quello che alcuni chiamano spin-in,
intendendo con ciò che la tecnologia o il prodotto si inserisce in una media
impresa già operante. Questa sorta di operazione di regia, che unisce finanza
sapiente, meccanismi di business e processi organizzativi, potrebbe essere un
cammino in parallelo rispetto a start-up e spin-off. Lo ripeto, per un paese come
l’Italia, caratterizzato dal nanismo aziendale, la vera sfida non è far aumentare il
numero di start up, ma cercare di arrivare a quella dimensione media che è
fondamentale soprattutto nei momenti di crisi, dove serve il capitale per
resistere. Come dicevo, trarre delle conclusioni qui ed oggi è difficile, e non era
neanche fra gli obiettivi che ci siamo dati. È stato molto interessante il fatto che
abbiamo focalizzato l’attenzione e abbiamo toccato con mano l’importanza dei
brevetti, che non devono essere fine ma soprattutto mezzo per creare
innovazione. Anzi direi che la stessa innovazione non è fine ma mezzo, perché
l’obiettivo ultimo è la crescita: bisogna creare una crescita sostenibile.
L’innovazione è uno strumento – come il brevetto. Penso che sia ormai evidente,
dalla chiacchierata di oggi e dal confronto dei differenti punti di vista, che quello
dell’innovazione, della comunicazione e della protezione intellettuale è un tema
fondamentale e articolato, che non può essere ridotto a slogan del tipo: “Sono
bravo perché ho 20.000 brevetti”. Ritorno ad un’affermazione fatta all’inizio,
dove si diceva: le grandi aziende che innovano veramente sono quelle che hanno
i brevetti. Ancora una volta ci deve far riflettere la vicenda di Microsoft, di Coca
Cola o di Ferrero, tre aziende importanti che hanno fatto il loro successo con il
segreto industriale; queste aziende non sono del 1800 né rappresentano la
retroguardia del mondo economico contemporaneo. E’ chiaro, il segreto
industriale viene unito alla qualità, alla velocità attuativa, all’innovazione
continua (non necessariamente dei prodotti, ma anche dei processi produttivi,
delle strategie di commercializzazione). C’è un modo di costruzione delle
barriere all’ingresso, che non si limita al segreto, ma è un insieme articolato di
processi aziendali. Il problema della protezione deve quindi essere inquadrato in
un discorso molto più ampio: oggi il giurista vuole un approccio unitario, uguale
per tutti, perché le leggi devono essere uguali per tutti. Ma fare innovazione nel
biotech, nel turismo, nei beni culturali, nel software e nell’aerospazio richiede
meccanismi di innovazione, di protezione e di finanziamento probabilmente
molto diversi tra loro. I fondi di fondi non funzioneranno mai: queste soluzioni
generali che vanno bene “per tutte le stagioni”, sono sicuramente efficaci per
fare titoli sui giornali ma rischiano di essere poco applicabili. Il punto è quello
che gli economisti chiamano de-averaging, cioè avere il coraggio di uscire dalla
“media del pollo” e accettare il fatto che alcuni settori hanno caratteristiche
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molto specifiche e quindi richiedono strategie di protezione intellettuale, di
valorizzazione, di finanziamento e di comunicazione ad hoc, in qualche modo
specifiche per i singoli settori merceologici. Chiuderei con tale riflessione
questo stimolante seminario, ringraziando tutti i partecipanti per la bella
chiacchierata.
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