Briciole di Missione - n. 39 - 14 luglio 2013

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Briciole di Missione - n. 39 - 14 luglio 2013
Informatore Missionario - Macherio
n. 39 - 14 Luglio 2013
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI
AL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA
«IO NON MI VERGOGNO DEL VANGELO»
Buonasera a tutti, cari fratelli e sorelle!
L’Apostolo Paolo finiva questo brano della sua lettera ai nostri antenati con queste parole: non siete più
sotto la Legge, ma sotto la grazia. E
questa è la nostra vita: camminare
sotto la grazia, perché il Signore ci
ha voluto bene, ci ha salvati, ci ha
perdonati. Tutto ha fatto il Signore, e questa è la grazia, la grazia di
Dio. Noi siamo in cammino sotto la
grazia di Dio, che è venuta da noi,
in Gesù Cristo che ci ha salvati. Ma
questo ci apre verso un orizzonte grande, e questo è per noi gioia. “Voi non siete più sotto
la Legge, ma sotto la grazia”. Ma cosa significa, questo “vivere sotto la grazia”? Cercheremo
di spiegare qualcosa di che cosa significa vivere sotto la grazia. E’ la nostra gioia, è la nostra
libertà. Noi siamo liberi. Perché? Perché viviamo sotto la grazia. Noi non siamo più schiavi
della Legge: siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberati, ci ha dato la libertà, quella piena
libertà di figli di Dio, che viviamo sotto la grazia. Questo è un tesoro. Cercherò di spiegare
un po’ questo mistero tanto bello, tanto grande: vivere sotto la grazia.
Quest’anno avete lavorato tanto sul Battesimo e anche sul rinnovamento della pastorale postbattesimale. Il Battesimo, questo passare da “sotto la Legge” a “sotto la grazia”, è una rivoluzione. Sono tanti i rivoluzionari nella storia, sono stati tanti. Ma nessuno ha avuto la forza
di questa rivoluzione che ci ha portato Gesù: una rivoluzione per trasformare la storia, una
rivoluzione che cambia in profondità il cuore dell’uomo. Le rivoluzioni della storia hanno
cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore
dell’uomo. La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù
Cristo attraverso la sua Risurrezione: la Croce e la Risurrezione. E Benedetto XVI diceva, di
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questa rivoluzione, che “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Ma pensiamo a questo: è la più grande mutazione della storia dell’umanità, è una vera rivoluzione
e noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari di
questa rivoluzione, perché noi andiamo per
questa strada della più grande mutazione della storia dell’umanità. Un cristiano, se non è
rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano! Deve essere rivoluzionario per la grazia!
Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso
Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto fa di
noi rivoluzionari, perché – e cito nuovamente Benedetto – “è la più grande mutazione
della storia dell’umanità”. Perché cambia il
cuore. Il profeta Ezechiele lo diceva: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un
cuore di carne”. E questa è l’esperienza che
vive l’Apostolo Paolo: dopo avere incontrato
Gesù sulla via di Damasco, cambia radicalmente la sua prospettiva di vita e riceve il
Battesimo. Dio trasforma il suo cuore! Ma
pensate: un persecutore, uno che inseguiva
la Chiesa e i cristiani, diventa un santo, un
cristiano fino alle ossa, proprio un cristiano
vero! Prima è un violento persecutore, ora diventa un apostolo, un testimone coraggioso
di Gesù Cristo, al punto di non aver paura
di subire il martirio. Quel Saulo che voleva
uccidere chi annunziava il Vangelo, alla fine
dona la sua vita per annunciare il Vangelo.
E’ questo il mutamento, il più grande mutamento del quale ci parlava Papa Benedetto.
Ti cambia il cuore, da peccatore – da peccatore: tutti siamo peccatori – ti trasforma in
santo. Qualcuno di noi non è peccatore? Se
ci fosse qualcuno, alzi la mano! Tutti siamo
peccatori, tutti! Tutti siamo peccatori! Ma la
grazia di Gesù Cristo ci salva dal peccato: ci
salva! Tutti, se noi accogliamo la grazia di
Gesù Cristo, Lui cambia il nostro cuore e da
peccatori ci fa santi. Per diventare santi non
è necessario girare gli occhi e guardare là, o
avere un po’ una faccia da immaginetta! No,
no, non è necessario questo! Una sola cosa
è necessaria per diventare santi: accogliere
la grazia che il Padre ci da in Gesù Cristo.
Ecco, questa grazia cambia il nostro cuore.
Noi continuiamo ad essere peccatori, perché
tutti siamo deboli, ma anche con questa grazia che ci fa sentire che il Signore è buono,
che il Signore è misericordioso, che il Signore
ci aspetta, che il Signore ci perdona, questa
grazia grande, che cambia il nostro cuore.
E, diceva il profeta Ezechiele, che da un cuore di pietra lo cambia in un cuore di carne.
Cosa vuol dire, questo? Un cuore che ama,
un cuore che soffre, un cuore che gioisce con
gli altri, un cuore colmo di tenerezza per chi,
portando impresse le ferite della vita, si sente
alla periferia della società. L’amore è la più
grande forza di trasformazione della realtà,
perché abbatte i muri dell’egoismo e colma
i fossati che ci tengono lontani gli uni dagli altri. E questo è l’amore che viene da un
cuore mutato, da un cuore di pietra che è
trasformato in un cuore di carne, un cuore
umano. E questo lo fa la grazia, la grazia di
Gesù Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto.
Qualcuno di voi sa quanto costa la grazia?
Dove si vende la grazia? Dove posso comprare la grazia? Nessuno sa dirlo: no. Vado a
comprarla dalla segretaria parrocchiale, forse
lei la vende, la grazia? Qualche prete la vende, la grazia? Ascoltate bene questo: la grazia non si compra e non si vende; è un regalo di Dio in Gesù Cristo. Gesù Cristo ci
dà la grazia. E’ l’unico che ci dà la grazia.
E’ un regalo: ce lo offre, a noi. Prendiamola. E’ bello questo. L’amore di Gesù è così:
ci dà la grazia gratuitamente, gratuitamente.
E noi dobbiamo darla ai fratelli, alle sorelle,
gratuitamente. E’ un po’ triste quando uno
incontra alcuni che vendono la grazia: nella
storia della Chiesa alcune volte è accaduto
questo, e ha fatto tanto male, tanto male. Ma
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la grazia non si può vendere: la ricevi gratuitamente e la dai gratuitamente. E questa è
la grazia di Gesù Cristo.
In mezzo a tanti dolori, a tanti problemi
che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive
senza speranza. Ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza
speranza, e sono immerse in una profonda
tristezza da cui cercano di uscire credendo di
trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel
gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole … Ma si ritrovano
ancora più delusi e talvolta sfogano la loro
rabbia verso la vita con comportamenti violenti e indegni dell’uomo. Quante persone
tristi, quante persone tristi, senza speranza!
Pensate anche a tanti giovani che, dopo aver
sperimentato tante cose, non trovano senso
alla vita e cercano il suicidio, come soluzione.
Voi sapete quanti suicidi di giovani ci sono
oggi nel mondo? La cifra è alta! Perché? Non
hanno speranza. Hanno provato tante cose e
la società, che è crudele – è crudele! – non ti
può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio.
E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana
con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia. Il regalo che ci fa
Dio della grazia, porta la speranza. Noi, che
abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo
essere indifferenti verso questa città che ci
chiede, forse anche inconsapevolmente, senza
saperlo, una speranza che l’aiuti a guardare il
futuro con maggiore fiducia e serenità? Noi
non possiamo essere indifferenti. Ma come
possiamo fare questo? Come possiamo andare avanti e offrire la speranza? Andare per la
strada dicendo: “Io ho la speranza”? No! Con
la vostra testimonianza, con il vostro sorriso,
dire: “Io credo che ho un Padre”. L’annunzio del Vangelo è questo: con la mia parola,
con la mia testimonianza dire: “Io ho un Pa-
dre. Non siamo orfani. Abbiamo un Padre”,
e condividere questa filiazione con il Padre
e con tutti gli altri. “Padre, adesso capisco:
si tratta di convincere gli altri, di fare proseliti!”. No: niente di questo. Il Vangelo è
come il seme: tu lo semini, lo semini con la
tua parola e con la tua testimonianza. E poi,
non fai la statistica di come è andato questo: la fa Dio. Lui fa crescere questo seme;
ma dobbiamo seminare con quella certezza
che l’acqua la dà Lui, la crescita la dà Lui. E
noi non facciamo la raccolta: la farà un altro
prete, un altro laico, un’altra laica, un altro la
farà. Ma la gioia di seminare con la testimonianza, perché con la parola solo non basta,
non basta. La parola senza la testimonianza
è aria. Le parole non bastano. La vera testimonianza che dice Paolo.
L’annunzio del Vangelo è destinato innanzitutto ai poveri, a quanti mancano spesso del
necessario per condurre una vita dignitosa. A
loro è annunciato per primi il lieto messaggio che Dio li ama con predilezione e viene
a visitarli attraverso le opere di carità che i
discepoli di Cristo compiono in suo nome.
Prima di tutto, andare ai poveri: questo è il
primo. Nel momento del Giudizio finale,
possiamo leggere in Matteo 25, tutti saremo
giudicati su questo. Ma alcuni, poi, pensano
che il messaggio di Gesù sia destinato a coloro che non hanno una preparazione culturale.
No! No! L’Apostolo afferma con forza che il
Vangelo è per tutti, anche per i dotti. La sapienza, che deriva dalla Risurrezione, non si
oppone a quella umana ma, al contrario, la
purifica e la eleva. La Chiesa è sempre stata
presente nei luoghi dove si elabora la cultura. Ma il primo passo è sempre la priorità ai
poveri. Ma anche dobbiamo andare alle frontiere dell’intelletto, della cultura, nell’altezza
del dialogo, del dialogo che fa la pace, del
dialogo intellettuale, del dialogo ragionevole. E’ per tutti, il Vangelo! Questo di andare
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verso i poveri non significa che noi dobbiamo
diventare pauperisti, o una sorta di “barboni
spirituali”! No, no, non significa questo! Significa che dobbiamo andare verso la carne
di Gesù che soffre, ma anche soffre la carne
di Gesù di quelli che non lo conoscono con
il loro studio, con la loro intelligenza, con la
loro cultura. Dobbiamo andare là! Perciò, a
me piace usare l’espressione “andare verso le
periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti
quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà
intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci dei cammini: andare
là. E là, seminare il seme del Vangelo, con
la parola e con la testimonianza.
E questo significa che noi dobbiamo avere
coraggio. Paolo VI diceva che lui non capiva
i cristiani scoraggiati: non li capiva. Questi
cristiani tristi, ansiosi, questi cristiani dei quali
uno pensa se credono in Cristo o nella “dea
lamentela”: non si sa mai. Tutti i giorni si lamentano, si lamentano; e come va il mondo,
guarda, che calamità, le calamità. Ma, pensate: il mondo non è peggiore di cinque secoli
fa! Il mondo è il mondo; è sempre stato il
mondo. E quando uno si lamenta: e va così,
non si può fare niente, ah la gioventù… Vi
faccio una domanda: voi conoscete cristiani
così? Ce ne sono, ce ne sono! Ma, il cristiano deve essere coraggioso e davanti al problema, davanti ad una crisi sociale, religiosa
deve avere il coraggio di andare avanti, andare avanti con coraggio. E quando non si
può far niente, con pazienza: sopportando.
Sopportare. Coraggio e pazienza, queste due
virtù di Paolo. Coraggio: andare avanti, fare
le cose, dare testimonianza forte; avanti! Sopportare: portare sulle spalle le cose che non si
possono cambiare ancora. Ma andare avanti
con questa pazienza, con questa pazienza che
ci dà la grazia. Ma, cosa dobbiamo fare con
il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi
stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre
comunità, per andare lì dove gli uomini e le
donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è
fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo
di Nazareth. Annunciare questa grazia che
ci è stata regalata da Gesù. Se ai sacerdoti,
Giovedì Santo, ho chiesto di essere pastori
con l’odore delle pecore, a voi, cari fratelli
e sorelle, dico: siate ovunque portatori della
Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi
di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare
fuori. Io non capisco le comunità cristiane
che sono chiuse, in parrocchia. Voglio dirvi una cosa. Nel Vangelo è bello quel brano
che ci parla del pastore che, quando torna
all’ovile, si accorge che manca una pecora,
lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una.
Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci
mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo
andare da loro! In questa cultura - diciamoci
la verità - ne abbiamo soltanto una, siamo
minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo
apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? Questa è una responsabilità grande,
e dobbiamo chiedere al Signore la grazia della generosità e il coraggio e la pazienza per
uscire, per uscire ad annunziare il Vangelo.
Ah, questo è difficile. E’ più facile restare a
casa, con quell’unica pecorella! E’ più facile
con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma noi preti, anche voi cristiani, tutti:
il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di
pecorelle; pastori! E quando una comunità è
chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità
che dà vita. E’ una comunità sterile, non è
feconda. La fecondità del Vangelo viene per
la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi,
la nostra predicazione, il nostro coraggio, la
nostra pazienza.
Viene un po’ lunga la cosa, vero? Ma non è
facile! Dobbiamo dirci la verità: il lavoro di
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evangelizzare, di portare avanti la grazia gratuitamente non è facile, perché non siamo noi
soli con Gesù Cristo; c’è anche un avversario,
un nemico che vuole tenere gli uomini separati da Dio. E per questo instilla nei cuori la
delusione, quando noi non vediamo ricompensato subito il nostro impegno apostolico.
Il diavolo ogni giorno getta nei nostri cuori
semi di pessimismo e di amarezza, e uno si
scoraggia, noi ci scoraggiamo. “Non va! Abbiamo fatto questo, non va; abbiamo fatto
quell’altro e non va! E guarda quella religione
come attira tanta gente e noi no!”. E’ il diavolo che mette questo. Dobbiamo prepararci alla lotta spirituale. Questo è importante.
Non si può predicare il Vangelo senza questa lotta spirituale: una lotta di tutti i giorni
contro la tristezza, contro l’amarezza, contro
il pessimismo; una lotta di tutti i giorni! Seminare non è facile. E’ più bello raccogliere,
ma seminare non è facile, e questa è la lotta
di tutti i giorni dei cristiani.
Paolo diceva che lui aveva l’urgenza di predicare e lui aveva l’esperienza di questa lotta spirituale, quando diceva: “Ho nella mia
carne una spina di satana e tutti i giorni la
sento”. Anche noi abbiamo spine di satana
che ci fanno soffrire e ci fanno andare con
difficoltà e tante volte ci scoraggiano. Prepararci alla lotta spirituale: l’evangelizzazione chiede da noi un vero coraggio anche per
questa lotta interiore, nel nostro cuore, per
dire con la preghiera, con la mortificazione,
con la voglia di seguire Gesù, con i Sacramenti che sono un incontro con Gesù, dire
a Gesù: grazie, grazie per la tua grazia. Voglio portarla agli altri. Ma questo è lavoro:
questo è lavoro. Questo si chiama – non vi
spaventate – si chiama martirio. Il martirio
è questo: fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il
Signore chiede il martirio della vita, ma c’è
il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore:
la testimonianza contro lo spirito del male
che non vuole che noi siamo evangelizzatori.
E adesso, vorrei finire pensando una cosa. In
questo tempo, in cui la gratuità sembra affievolirsi nelle relazioni interpersonali perché
tutto si vende e tutto si compra, e la gratuità è difficile trovarla, noi cristiani annunciamo un Dio che per essere nostro amico
non chiede nulla se non di essere accolto.
L’unica cosa che chiede Gesù: essere accolto.
Pensiamo a quanti vivono nella disperazione perché non hanno mai incontrato qualcuno che abbia loro mostrato attenzione, li
abbia consolati, li abbia fatti sentire preziosi
e importanti. Noi, discepoli del Crocifisso,
possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi
dove nessuno vuole andare per la paura di
comprometterci e del giudizio altrui, e così
negare a questi nostri fratelli l’annuncio della Parola di Dio? La gratuità! Noi abbiamo
ricevuto questa gratuità, questa grazia, gratuitamente; dobbiamo darla, gratuitamente.
E questo è quello che, alla fine, voglio dirvi.
Non avere paura, non avere paura. Non avere
paura dell’amore, dell’amore di Dio, nostro
Padre. Non avere paura. Non avere paura di
ricevere la grazia di Gesù Cristo, non avere
paura della nostra libertà che viene data dalla grazia di Gesù Cristo o, come diceva Paolo: “Non siete più sotto la Legge, ma sotto
la grazia”. Non avere paura della grazia, non
avere paura di uscire da noi stessi, non avere
paura di uscire dalle nostre comunità cristiane per andare a trovare le 99 che non sono
a casa. E andare a dialogare con loro, e dire
loro che cosa pensiamo, andare a mostrare il
nostro amore che è l’amore di Dio.
Cari, cari fratelli e sorelle: non abbiamo paura!
Andiamo avanti per dire ai nostri fratelli e alle
nostre sorelle che noi siamo sotto la grazia,
che Gesù ci dà la grazia e questo non costa
niente: soltanto, riceverla. Avanti!
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«PERCHÈ IN EUROPA
VI LAMENTATE SEMPRE DEI NUMERI?»
IL CARDINALE ARCIVESCOVO DI MANILA LUIS ANTONIO TAGLE:
«LA FEDE NON DIPENDE DALLA QUANTITÀ, MA DALLA VITALITÀ DEI CRISTIANI.
L'EVANGELIZZAZIONE? AVVIENE SOTTOVOCE, COME NELLE RISAIE DELLA CINA»
«Ogni volta che una guardia svizzera in
Vaticano mi chiama eminenza, mi stupisco
sempre. Io cardinale? Per la mia autocoscienza
sono sempre Gokim Tagle, un semplice prete
chiamato dal Signore per servire».
Non è per contagio da papa Francesco che
l'arcivescovo di Manila ostenta umiltà e
un senso dimesso della propria posizione:
veramente Luis Antonio "Chito" Gokim
Tagle, cardinale filippino, è un personaggio
straordinario nella sua normalità. Supera la
ritrosia personale per far fronte all'assalto dei
giornalisti che gli chiedono di Ior, di Curia,
di politica vaticana. Lui che nella sua terra è
un evangelizzatore instancabile, un amico dei
poveri, un alunno degli "apostoli di Dio" che
egli stesso individua negli ultimi, nei migranti,
negli emarginati.
Intervenuto a Roma per presentare il suo
primo libro in italiano, Gente di Pasqua. La
comunità cristiana, profezia di speranza
(Editrice Missionaria Italiana), Tagle si
mostra tutt'altro che sprovveduto sulle ultime
vicende di cronaca vaticana. Ai cronisti che lo
incalzano se il Vaticano debba ancora avere
una banca come lo Ior, risponde serafico che
"non è una banca ma una fondazione per le
Opere religiose", dimostrando prontezza di
risposta e sagacia comunicativa, chiudendo
la questione con uno dei suoi irrefrenabili
sorrisi che restituiscono l'eccezionalità umana
del personaggio e rimettono al loro posto
insinuazioni e polemiche.
Ma è proprio quando si parla di Vangelo, di
fede, di come comunicare a chi non conosce
Cristo e la sua vita, che la statura dell'uomo
viene fuori. «Mi hanno raccontato che in
Cina, nelle campagne, durante il lavoro nelle
risaie, i cristiani parlano delle parabole di Gesù
mentre piantano il riso per terra, sottovoce.
Ecco, questo è il modo di portare il Vangelo
oggi. La Chiesa che oggi vive un abbassamento
del numero dei fedeli è chiamata dal Signore
ad essere minoritaria, e a non aver fiducia
nel denaro, nel potere o nei numeri, ma a
manifestare la propria vitalità senza pensare
di voler far pesare la propria influenza
sulla società. Per noi, Chiesa d'Asia, essere
minoranza è la normalità. Non capisco perchè
in Europa ci si lamenti in continuazione dei
numeri!».
Quello che Tagle considera prioritario è
«partecipare ad una società che sia riflesso
della nuova Gerusalemme, una città nata
dall'alto, sorta dalla forza di Cristo». E in
questo un ruolo centrale lo hanno gli ultimi
della Bibbia: «Gli orfani, le vedove, i migranti,
i rifugiati, i poveri sanno dire Dio, me lo
insegnano. Ascoltiamo questi missionari di
Dio nel mondo di oggi». Prima che essere
fiducioso nell'efficacia dell'annuncio della
Chiesa, Tagle manifesta un'incrollabile fede
nel fatto che Dio sia ancora presente e parlante
oggi nel mondo: «Credo, io credo che Gesù
Cristo e il suo stile, la sua compassione, sono
presenti nel mondo contemporaneo. La fede
nel Risorto può dare forza a un'umanità che
cerca la comunione. Nella contradditorietà e
nell'assurdità della vita noi possiamo vedere il
Mistero e la Speranza».
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Il "baby-cardinale", come l'hanno ribattezzato
alcuni organi di stampa all'indomani della
sua nomina nel Collegio (lo volle fortemente
papa Benedetto al termine del Sinodo sulla
nuova evangelizzazione, lo scorso autunno),
riserva una bonaria tirata di orecchie ai suoi
confratelli vescovi d'Europa: «Al Sinodo
sentivo sempre parlare di stanchezza della
Chiesa. Ma secondo me questa stanchezza è
causata da un atteggiamento che cerca solo
radici nel problema, ovvero quello del calo del
numero dei fedeli, e invece non ha attenzione
sulle opportunità per portare il Vangelo
proprio in questa situazione di minoranza. Si
parla di Chiesa stanca, ma la Chiesa è viva!
Dobbiamo annunciare più con l'esempio della
vita che con le parole».
Non vuole atteggiarsi a maestro, il porporato
venuto dalle Filippine, unico Paese asiatico
in cui il cattolicesimo è maggioranza. Anche
perchè conosce molto bene la condizione delle
piccole chiese, viaggia spesso in Asia, visita
comunità, incontra sacerdoti, religiose, fedeli:
«Come quando sono stato in Cambogia e ho
visitato una parrocchia con 20 persone. Che
cosa devo dire loro, che siccome sono pochi
non valgono? Ma la fede non dipende dal
numero ma dalla vitalità di noi cristiani!».
Certo, in un contesto come quello asiatico la
missione si scrive sulle righe del dialogo: «La
missione in Asia si deve fare con il dialogo
con le altre religioni, con le antiche culture e
con i poveri. Noi non abbiamo il potere per
influire sull'opinione pubblica, ma possiamo
operare con il dialogo. Padre Jacques Dupuis,
il teologo gesuita esperto di religioni, ha
aiutato molto la Chiesa asiatica dal punto della
riflessione, ma poi nella vita pastorale concreta
si deve mantenere la fedeltà alla propria
identità cristiana. L'apertura alla diversità deve
avvenire mantenendo la propria identità».
Non è irenico il cardinale che viene dall'Oriente,
figlio di una mamma cinese, attento - come
uno dei suoi grandi predecessori, il cardinal
Sin, che ricostituì in pratica, giorno per
giorno, visita per visita, la Chiesa in Cina dopo
la "rivoluzione culturale" omicida di Meo Tse
Tung - al "piccolo gregge" cattolico all'ombra
di Pechino. È un uomo di Dio, anzitutto, uno
che ha ben chiara la direzione della storia dei
giorni e degli ultimi. «Il capitolo ultimo della
storia umana è la vittoria del Signore, non
quella del male, il trionfo della speranza,
non quello della morte. La Chiesa, noi, io,
dobbiamo continuamente riscoprire questa
verità».
Briciole di Parola:
PERDONO: la più grande prova d'amore
IL
LUCA 7,36-8,3, DI PADRE CIRO BIONDI,
MISSIONARIO DEL PIME IN PAPUA NUOVA GUINEA
COMMENTO AL
VANGELO
DI
Le occasioni non mancano mai per fare esperienza di questa operazione divina! Questo brano
del Vangelo di Luca è un bello schiaffo in faccia ai perbenisti. Particolarmente è un grande
insegnamento per noi, missionari e le missionarie, molte volte malati di fariseismo tra i popoli
che si aspettano da noi la verità, quella che costa la vita.
Abbiamo accettato di essere mandati ai confini della terra per essere strumento e segno della
misericordia di Dio in mezzo ai popoli posti ai margini dal perbenismo del nostro mondo
e molte volte diventiamo strumento di giudizio e di condanna per coloro che chiedono di essere
accolti con il perdono.
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Lasciatemi soffermare sull’episodio di questa donna che Gesù pone al centro della scena, una
donna che diventa esempio di come bisogna accostarsi agli altri, che si dona senza chiedere
nulla, che ama per rispondere alla grande
vocazione che è dentro di lei: amare e
essere amata.
Non una parola esce dalle labbra di questa
donna. E’ lì per rispondere all’amore che
l’ha chiamata. E’ lì per essere adombrata
dal perdono che la mette in condizione
di essere amante. E’ lì per dire sì all’amore
con gesti che la fanno diventare intima con
colui che l’ama.
Gesù rimprovera il fariseo che l’ha invitato
a mangiare a casa sua. Lo rimprovera perché
non gli ha dato la cosa più importante per
lui: non l’ha fatto entrare nella sua vita, è rimasto in superfice, non lo ha lasciato scendere
nell’intimità del suo essere, non l’ha fatto diventare suo, non gli ha dato il cuore.
La donna invece supera tutte le limitazioni della sua società, non si cura di quello che la gente
dirà, fa delle cose che la gente credeva impossibili per lei, non ha vergogna di far capire che vuole
essere perdonata da quell’uomo che è capace di amare senza limiti.
Ricordo le mortificazioni che mia madre subì per tutta la sua vita perché aveva rifiutato di
ricoprirsi di perbenismo quando era rimasta incinta dell’uomo che amava. Quando aveva
accettato di far nascere il bambino che portava in seno e che sarebbe stato la “colpa” visibile agli
occhi dei “farisei” della sua società, che mendicò il perdono per tutta la sua vita e che ricevette
solo da Dio attraverso le mani della madre sua, Maria.
Il Figlio di Dio venne perché noi potessimo conoscere l’amore, perché i crocifissi di questo
mondo potessero diventare i protagonisti dell’amore di Dio, perché la loro vita manifestasse
la prova più grande dell’amore: il perdono.
Ho imparato da mia madre cosa significa amare quando l’ho vista in lacrime lavare, asciugare,
baciare e profumare i bimbi degli altri nei tanti anni che ha lavorato come infermiera nei nidi
di tanti ospedali. Amava per essere perdonata, amava i figli di coloro che la giudicavano quella
“specie” di donna da cui bisognava stare lontani, amava senza parlare, nascostamente, senza farsi
notare, per dire grazie a chi gli aveva permesso di conoscere di essere amata, a chi non si era
vergognato di lei.
Non so ancora bene perché il Cristo ha chiamato proprio me ad essere prete e missionario, ma
comincio a intravvedere la verità. Forse la mia chiamata è il segno del perdono per quella “specie”
di donna che non fu mai perdonata dalla sua società umana e dalla comunità cristiana a cui
apparteneva per la sua fede nel crocifisso che aveva dato la vita per lei.
Scusate se mi sfogo un poco con voi, ma non vorrei che l’amore che Gesù rivela a quella donna
senza nome fosse solo un altro episodio di un “racconto” che non coinvolge le nostre vite, che
non ci fa scoprire cosa sia la fede che salva.
Quella “specie” di donna siamo noi chiamati a rispondere all’amore di colui che ha dato se
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stesso per noi, che non si vergogna di noi, che ci permette di entrare nella sua intimità, di
essere al centro del suo cuore.
Sì, il centro del cuore di Dio siamo noi, coloro che rispondono alla vocazione di essere amore,
che hanno fatto esperienza di perdono e da esso sono stati trasformati in amore. Dio ha fatto dei
perdonati per amore il cuore del mondo.
E’ tempo per noi tutti di testimoniare la nostra fede in Dio dando a tutti la più grande prova
d’amore: il perdono, l’atto con cui riveliamo il divino che è in noi e che ci manifesta al mondo
come esseri creati per la bontà.
“Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?” si domandarono i benpensanti commensali di
Gesù. Ora possiamo dare la risposta con sicurezza: egli è la prova che l’amore di Dio ci ha
raggiunti con il perdono.
Per la riflessione in comunità:
1) Abbiamo fatto esperienza del perdono di Dio in Cristo? Siamo disposti a raccontarlo?
2) Siamo disposti ad abbandonare il nostro perbenismo e accettare gli altri nella nostra vita affinché
facciano esperienza della prova d’amore di Dio che è il perdono?
3) E’ la nostra fede la risposta all’amore del Figlio di Dio che ci ha amato e ha dato la sua vita per noi?
LA «STRAORDINARIA» POLITICA ESTERA
NEI MEDIA ITALIANI
Le notizie di politica estera che escono dalla
dimensione tragica o sensazionalistica non
interessano Tv e giornali, eppure anch’esse ci
riguardano nel mondo che cambia. L'analisi
dell'Osservatorio Media Research di Pavia nella
consueta rubrica su Popoli
L’attenzione che i media italiani dedicano
alle questioni internazionali è oggetto, ormai
da anni, di studi e approfondimenti, in ragione della centralità delle azioni di politica
estera, della portata che alcuni eventi hanno
e del dibattito dell’opinione pubblica intorno
ad alcune scelte dei governi. Eventi recenti
come le guerre in Iraq e in Afghanistan con
contingenti italiani impiegati sul campo, la
primavera araba, il rovesciamento del regime
di Gheddafi in Libia, la guerra civile in Siria
hanno avuto e continuano ad avere un’ampia
copertura mediatica in ragione sia della loro
drammaticità sia della loro prossimità.
Le guerre, i conflitti, le rivolte - avvenute
e in corso nel mondo - ricevono spesso un’adeguata copertura mediatica in ragione della
loro «gravità» e in ragione della loro collocazione. L’area del Mediterraneo, per vicinanza
geopolitica e culturale gode tradizionalmente, nei nostri media, di uno spazio adeguato,
a differenza per esempio di altre aree come
quella sudamericana o quella asiatica.
Sono gli eventi «ordinari» di politica estera,
ma non per questo meno importanti o cruciali, a essere spesso tralasciati dai media italiani, e non solo dai notiziari televisivi (che
negli ultimi anni nella media delle sette edizioni serali hanno dedicato circa il 6% dello
spazio alla politica estera, contro il 22% assegnato alla politica interna e circa il 12% alla
criminalità) ma anche dalla carta stampata.
Gli esempi sono numerosi. Uno dei più recenti risale al 22 aprile scorso, quando la
Commissione europea ha aperto i negoziati
per l’adesione della Serbia all’Unione e per
l’associazione del Kosovo. Si tratta, per quan-
Briciole di Missione - 9 -
to la cautela sia d’obbligo, di un passo molto
importante per una riconciliazione definitiva
nell’area dei Balcani.
Analizzando la stampa italiana, in particolare
i due principali quotidiani nazionali (Corriere
della Sera e La Repubblica), si rileva che essi
hanno dedicato spazio alla notizia nelle edizioni on line, ma ben poco o nulla in quelle
cartacee. Si può obiettare che le pagine dei
quotidiani italiani erano occupate dalle attese
infinite per la formazione del governo, ma si
può ribattere che negli stessi giorni in Francia si manifestava contro il riconoscimento dei
matrimoni tra omosessuali e, ciò nonostante,
la notizia sulla Serbia ha avuto più di un articolo sui due principali quotidiani nazionali (Le
Monde e Le Figaro), con un editoriale dedicato
alle implicazioni dell’evento per la componente
nazionalista serba. Lo stesso è avvenuto per El
País, principale quotidiano spagnolo, con un
editoriale critico in tema di allargamento. Anche The Guardian e The Daily Telegraph hanno
trattato la vicenda, nonostante il tradizionale
euroscetticismo britannico. Inoltre, negli stessi
giorni, i principali quotidiani europei davano
notizia della crisi sino-giapponese per il controllo delle isole Senkaku, evento di politica
internazionale non tematizzato dai principali
quotidiani italiani.
È pur vero, guardando alla Realpolitik, che
il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale (così come le azioni di politica estera in
cui essa è coinvolta) è diverso rispetto a quello
di Paesi come Gran Bretagna, Francia o Germania. È altrettanto vero, però, che raccontare
eventi che avvengono fuori e lontano, soprattutto se riguardano opportunità politiche, è di
per sé un’occasione di cambiamento. D’altra
parte, come ha ricordato Barack Obama nel
discorso di insediamento del gennaio scorso
«quando i tempi cambiano, dobbiamo cambiare anche noi».
Paola Barretta
DIGIUNARE INSIEME
Quest’anno il mese di Ramadan cade tra il 9
luglio e l’8 agosto. Come ogni anno, esso offre
un’occasione di solidarietà e condivisione per
i musulmani tra loro e per i non musulmani
con loro. Tradizionalmente i cristiani, gli ebrei
e i musulmani d’una stessa città s’invitavano
gli uni gli altri in famiglia per offrire un pasto
serale di rottura del digiuno di Ramadan in
spirito di ospitalità abramitica. In molti Paesi,
famiglie, associazioni e comunità organizzano
«cene» di Ramadan (iftâr) per i loro vicini
musulmani, per sottolineare che insieme
formiamo comunità di destino e di speranza,
di sofferenza e di consolazione, di felicità e di
comunione.
In un convegno di tre giorni nella Comunità
non violenta dell’Arche di Lanza del Vasto
di St. Antoine l’Abbaye, presso Grenoble,
abbiamo riflettuto a lungo sulla condizione
insopportabilmente dolorosa del popolo
siriano. Allorché s’era sollevato per una
rivoluzione, nata non violenta, per la
democrazia e la dignità, è stato abbandonato
dalla comunità internazionale, con poche
lodevoli eccezioni.
A causa di tale abbandono, la rivoluzione si è
trasformata in un massacro perpetrato da un
regime criminale sotto gli occhi delle nostre
società civili. Queste sono state ridotte alla
quasi impotenza a causa d’un gioco di equilibri
geopolitici
internazionali
propriamente
vergognoso.
Osservando la situazione mediorientale, siamo
inoltre afflitti dalle opposizioni, tensioni e
conflitti violenti tra musulmani e in particolare
tra sunniti e sciiti. Nella coscienza che queste
Briciole di Missione - 10 -
tensioni dipendono anche da pressioni e
interventi dall’esterno collegati agli interessi
geostrategici regionali e globali, occorre
gridare che la pace nell’islam è essenziale alla
pace mondiale, di tutte le religioni e chiese.
Al fine di risvegliare le nostre coscienze di
cittadini, sarebbe bello che tutti partecipassero
a questo digiuno di Ramadan, secondo la
salute e la cultura di ciascuno. Durante questo
mese benedetto, la preghiera ci unirà a tutti
i musulmani per domandare pace e giustizia
nel mondo dell’Islam. La pace del mondo ne
dipende!
Insieme agli amici dell’Arche e a chi vorrà
unirsi, in particolare proponiamo la data di
sabato 3 agosto per un giorno di digiuno e di
preghiera per la riconciliazione nella giustizia
in Siria.
Sperando che questa iniziativa sia adottata e
rilanciata in tutta Europa e oltre, invitiamo
ciascuno a invitare il suo o i suoi vicini
musulmani per una «cena» di Ramadan. I
rifugiati siriani saranno al centro della nostra
preoccupazione, assieme alla riconciliazione
tra sunniti e sciiti.
Nutriamo la speranza che questo gesto, per
grazia del Misericordioso, possa aprire la via
ad altre azioni efficaci e durevoli.
Paolo Dall'Oglio
Gesuita del monastero di Deir Mar Musa
(Siria)
Ci scrivono:
don Gigi dal Cameroun
Assalaamu aleekum...
a waali jam na? Dormito bene?
Jam bandu na? La salute va bene?
Jam saare na? La famiglia sta bene?
..sono queste le prime domande che dopo
il saluto chiunque incontriate lungo la
vostra strada vi pone. Ogni incontro è
scandito da questa breve litania che può
sembrare pura formalità, ma che dice
una dimensione profonda delle persone che
vivono qui.
Innanzitutto il desiderio di inscrivere ogni
incontro e ogni discussione all'interno di un
clima disteso e amichevole. Anche quando i
temi da trattare sono spinosi difficilmente i
popoli di queste terre si presentano in aperta
conflittualità, tradizionalmente non è un
modo educato di fare. Questa modalità di
approccio, forse per noi poco pratica (vi
immaginate all'ufficio postale o in banca
domandare a chi è allo sportello tutte queste
cose?) dice che anche tra estranei prima di
cominciare a parlare occorre creare una certa
sintonia e loro si
prendono il tempo
di farlo. Nulla di
idilliaco, solo un
modo diverso di
approcciare le cose.
La successione delle
domande poi dice
una scala di valori
della società rurale
e tradizionale.
Interessante è la prima domanda circa la
notte trascorsa, infatti, secondo alcuni, non
si tratta solo di sapere se il sonno è stato
disturbato da qualche inconveniente come il
caldo o le zanzare, ma si tratta anche di sapere
se il sonno sia stato disturbato da qualche
sogno particolare. Il linguaggio dei sogni
è un possibile mezzo attraverso il quale gli
spiriti degli antenati fanno sapere alla loro
progenie se sono in collera con loro. E
nonostante l'avanzare della mentalità
occidentale in queste terre, vi posso assicurare
Briciole di Missione - 11 -
che ancora questo legame ancestrale con le
loro origini è molto forte, in qualche modo
dice ancora la loro identità legata alla loro
etnia, al loro clan.
Poi abbiamo la domanda sulla salute del
corpo. In una società rurale è essenziale essere
in buona forma per provvedere a tutte le
necessità vitali.
Infine la domanda sulla famiglia che può essere
completata dalla domanda sui figli (jam bikkon
na?). La famiglia allargata sta ad indicare tutto
il mondo della persona, non solo il suo nucleo
famigliare, ma anche quella fitta rete
di relazioni che compone il clan della
propria famiglia. Ecco che allora in
pochi passaggi si toccano tutti i livelli di
esistenza di una persona: il rapporto con
gli spiriti (il suo passato) il rapporto con il
suo corpo e la sua famiglia (il suo presente
individuale e sociale) i suoi figli (il suo futuro).
Sono queste le dimensioni che scandiscono
la vita delle persone che fanno parte della
nostra comunità. Una vita semplice, che ha
come prima preoccupazione la sopravvivenza
e il benessere della famiglia anche in alcune
prospettive per noi oggi, forse impensabili
(come per esempio il rapporto con gli spiriti
degli antenati).
Ed è con la curiosità di entrare in questo
mondo che questo mese abbiamo proseguito
la nostra visita presso i settori della parrocchia,
le zone che raggruppano 3-6 villaggi, per
cominciare a conoscere le differenti realtà
del nostro territorio. Si va da zone come
quella di Barrume piccolo centro che dista
pochi kilometri dalla frontiera con la Nigeria
e che per tutta la stagione delle piogge è
irraggiungibile, al settore di Sanguere Paul
uno dei più attivi della nostra parrocchia che
è situato poco lontano dalla città di Garoua.
Le problematiche sono per certi versi molto
lontane dalle realtà pastorali che conosciamo
in Italia, ma alcune questioni sono molto
simili. Uno dei problemi che recentemente
abbiamo discusso con gli altri sacerdoti della
nostra zona pastorale (come tutte le diocesi
anche l'arcidiocesi di Garoua è divisa in zone
pastorali la nostra si chiama Garoua rurale
e conta 6 parrocchie) è il problema della
Iniziazione Tradizionale presso le tribù dei
Masà e di Toupourì. Con il termine Iniziazione
tradizionale si intende un'esperienza iniziatica
che i giovani maschi appartenenti a queste
tribù sono chiamati a vivere per entrare nel
mondo adulto. Solitamente vengono prelevati
dalle loro case e portati nella foreste durante i
mesi della pioggia (dove i campi iniziatici sono
pressochè irraggiungibili) e li vengono istruiti
attraverso riti e apprendistati ai doveri e ai
compiti di un uomo adulto.
Non è una pratica molto diffusa, negli ultimi
15 anni solo due volte sono stati fatti i campi
per l'iniziazione, questo perché non se ne
sentiva più l'esigenza visto il passaggio lento
ma inesorabile da una società tribale ad una
società nazionale. Il problema è sorto quando
le autorità di queste etnie hanno convenuto
nel ritenere che l'educazione impartita
ai loro giovani dalle scuole fosse troppo
blanda. In effetti l'incontro-scontro tra
la società tradizionale e lo stato moderno
ha prodotto in non poche generazioni di
giovani la perdita dei valori tradizionali
senza la giusta maturazione dei valori
di uno stato moderno quali la democrazia,
la giustizia e la parità dei diritti, ecc. Uso il
termine Tradizionale e Moderno non come
giudizio di valore, ma nel loro significato
storico, anche perché molti valori della
tradizione sono assolutamente da recuperare.
Ad esempio: la centralità della famiglia
all'interno della costruzione della società, una
diffusa solidarietà all'interno del villaggio o del
quartiere, il rispetto e la valorizzazione degli
anziani. Sono tutti valori che provengono
dalla tradizione tribale e che offrono ospitalità
Briciole di Missione - 12 -
al messaggio cristiano, dando al Vangelo la
possibilità di inculturarsi.
Il problema con l'iniziazione tradizionale sorge
soprattutto nella procedura che viene usata
come percorso educativo e rispetto al tema
del sacrificio religioso legato al culto degli
antenati. Il prete che ci ha parlato di questa
pratica ci ha detto, per esperienza personale,
che le pratiche educative mirano ad una sorta
di plagio della persona, rischiano di non essere
rispettose della coscienza e della libertà del
singolo e educano ad una certa disparità tra i
sessi e le tribù.
Inoltre sembra che in alcuni casi si possa
arrivare a pratiche che mettano in pericolo la
vita dei giovani che vi partecipano.
Naturalmente questo sarebbe contro non solo
l'insegnamento evangelico, ma anche contro
la legge dello stato del Cameroun, ma siccome
coloro che partecipano al percorso iniziatico
vengono vincolati dal voto del segreto è
difficile che qualcosa venga riferito all'esterno
di ciò che capita nei campi stessi. Per le
comunità il problema che si pone è di come
relazionarsi a coloro che essendo già cristiani
accettano di partecipare a questo percorso
iniziatico. È complesso poter giudicare
le cose, ma l'indicazione di massima che ci è
stata data è quella di invitare coloro che hanno
vissuto questa pratica a ripetere il percorso del
catecumenato.
Cambiando argomento, in questi giorni tutti
i parrocchiani dei nostri villaggi, con il favore
della pioggia, stanno cominciando a lavorare
nei campi. Questo significa che il villaggio
al mattino verso le 6 si svuota di tutta la
forza lavoro (uomini, donne e ragazzi) che
raggiungono i campi per coltivarli. Quest'anno
la semina prevede arachidi, cotone, miglio e
mais. È davvero un'esperienza interessante
vedere come la vita di una comunità sia
scandita dal ritmo delle stagioni. Ogni tempo
assume una sua unicità scandita da un evento
particolare legato alla terra, vivere qui ti da un
idea più concreta di come poteva essere la vita di
Israele e del perché di certe feste riportate nella
Bibbia. Inoltre restituisce alcune sensazioni
che nelle nostre civiltà urbane abbiamo perso,
una fra tutte la trepidante attesa del raccolto.
Dal raccolto dipende la possibilità di un anno
sereno o problematico. Anche i ragazzi più
grandi, quelli che frequentano le superiori, si
ingegnano a cercare dei piccoli campi di un
ettaro circa per guadagnarsi il necessario per
pagare la scuola e tutto ciò che è necessario
agli studi.
Con la stagione delle piogge anche l'anno
scolastico volge al termine giovedì 30 maggio
abbiamo fatto la festa per la conclusione del
corso di formazione per le ragazze dei villaggi.
Come vi avevo già accennato è un corso per
quelle ragazze che non hanno frequentato
la scuola dell'obbligo, e sono tante, durante
il quale fanno corsi di alfabetizzazione e di
economia domestica compreso il taglio e
cucito.
È un corso di tre anni al termine del quale
viene rilasciato un attestato di frequenza con
la valutazione da parte dei formatori.
Durante la festa per quelli del terzo
anno c'è stata la consegna degli attestati.
Per l'occasione tutte le ragazze hanno
indossato la divisa della scuola realizzata
da loro nel corso degli ultimi mesi. Poi la
festa è continuata con i saluti di rito, la
premiazione delle gare sportive effettuate
in questo ultimo mese e uno spettacolo
di danza realizzato dalle ragazze stesse.
Ad assistere c'erano gran parte delle
loro famiglie e dei loro amici tutto si è
concluso verso le 12.30 con il momento
del pranzo. E' stata un occasione per
richiamare l'importanza della formazione
di queste ragazze e di altre come loro,
che avranno la possibilità di dare il loro
contributo per la crescita di tutta la società.
Briciole di Missione - 13 -
Prima di chiudere vorrei ringraziare tutti
coloro che in vario modo mi fanno sentire
la loro vicinanza: grazie a voi tutti, fa sempre
piacere ricevere notizie da un amico/a.
Vi accompagno sempre nella preghiera anche e
soprattutto in questo periodo di rinnovamento
anche per la nostra Chiesa di Milano.
Allah hokke jam
don Gigi
padre Rocky dal Ciad
Grazie Anna qui stiamo bene. Ora siamo impegnati per la nostra parrocchia lavora appositamente
per la preparazione di nuove liste dei nostri pre-catucumenes e catecumenes. Quest'anno
abbiamo quasi 100 nuovi pre-catecumenes. Grazie per la vostra piccola briciola per le nostre
opere missionarie. Sì p. Rinaldo è sempre nel mio cuore io non lo dimenticherà mai come lui è
il mio angelo Gurdian per la mia vita. Per favore, pregate per la nostra missione in Ciad. I miei
migliori auguri e preghiere per voi tutti i membri del gruppo missionario di Macherio.
padre Giacomo Gobbi - Regionale Saveriani-Bangladesh
Carissimi,
buongiorno e grazie del vostro ricordo e della
vostra generosità. Il ricordo di P. Rinaldo Nava
ci lega spiritualmente e ci dona la gioia di
continuarne la missione. Il giorno 4 di luglio
ci uniremo anche noi alle vostre preghiere.
Quello che generosamente ci avete mandato
sarà certamente usato per studenti che si
stanno preparando alla vita missionaria. Il
fatto sorprendente è che dopo il P. Rocky
Gomes, figlio spirituale di P. Rinaldo, e che
lavora già in Camerun-Chad, un altro giovane
-già alla fine degli studi teologici- ha chiesto
di unirsi a noi... proprio perchè nel 2001
aveva iniziato con P. Rinaldo questo discorso,
nella settimana in cui il Padre ci ha lasciati.
Ringraziamo per questo il Signore.
Come sapete già in questi giorni mi trovo a
Tavernerio insieme al P. Lorenzo Valoti per il
nostro Capitolo Generale.
Pregate per noi. Avendo liberi il sabato
pomeriggio e la domenica... chissà che non ci
si possa vedere!
Per ora vi saluto, vi ringrazio di nuovo e vi
assicuro della nostra preghiera.
P. Giacomo Gobbi
Regionale Saveriani-Bangladesh
BANGLADESH, QUANDO I MORTI
SONO COMPRESI NEL PREZZO
La strage di Dacca del 24 aprile - 1.127 operai
morti sul lavoro - non è stata una fatalità, ma lo
specchio di un modello di sviluppo distorto che
attraversa l’Asia e interpella anche investitori e
consumatori europei. Pubblichiamo una parte
del servizio che esce sul numero di giugno-luglio
di Popoli
Reshma è una giovane operaia estratta viva
dopo 17 giorni dalle macerie del palazzo crol-
lato a Savar, periferia di Dacca. Sono 1.127 i
morti accertati nei laboratori inseriti negli otto
piani del Rana Plaza che si è sgretolato il 24
aprile scorso: un solo crollo ha causato più del
triplo delle vittime del terremoto dell’Aquila
nel 2009. E poi ci sono circa 1.600 feriti, in
quello che forse è il più grave disastro industriale avvenuto in Asia dopo Bhopal. Quante persone lavoravano alla New Wave Style,
alla Phantom Apparels, alla Phantom Tac o
Briciole di Missione - 14 -
in qualche altro «fantasma» della produzione
di abbigliamento? Forse tremila, ma di preciso non si saprà mai.
Il proprietario del palazzo, Mohammed Sohel
Rana, è stato arrestato alcuni giorni dopo la
tragedia al confine con l’India, mentre cercava
di fuggire. Il 23 aprile aveva fatto controllare
l’edificio perché mostrava segni di cedimento.
Notizie sui pericoli che correva la struttura erano apparse anche sulla stampa locale e, secondo l’agenzia Ap, la polizia aveva ordinato di
evacuare l’edificio, ma il proprietario avrebbe
comunque convinto la gente a raggiungere il
posto di lavoro. Rana, di cui adesso molti in
Bangladesh chiedono la condanna a morte, è
un giovane imprenditore rampante con i giusti contatti nella Awami League, il partito di
governo. Avrebbe avuto le autorizzazioni per
prosciugare uno stagno e costruire l’edificio
che, invece di fermarsi ai cinque piani previsti nel progetto, è arrivato a otto. E su quella
struttura, già inadeguata, sono stati inseriti i
laboratori con i macchinari, dove lavoravano
migliaia di operaie.
di 112 cadaveri. Racconta di Rukiya Begum,
che aveva la figlia diciannovenne al quarto piano e il cui corpo non è mai stato ritrovato.
Perciò Rukiya non ha potuto ricevere i circa
cinquemila euro offerti da governo, imprenditori di categoria e alcune aziende straniere
come indennizzo. «Ho provato a chiedere un
certificato di morte - racconta Rukiya -, ma
mi hanno detto: “Dov’è il corpo?”. Ho paura
che sia stata ridotta in cenere».
Lovely, invece, nel 2006 è sopravvissuta a un
incendio a Chittagong (seconda città del Paese) che fece 63 vittime. Ha raccontato la sua
storia in un rapporto di International Labor
Rights Forum. Aveva undici anni ed era stata
appena assunta da un’impresa, la Kts Textile
Factory, che permetteva a operaie bambine di
impacchettare calzini. Al secondo piano del palazzo dove ha lavorato per soli 23 giorni non
ha potuto fuggire rapidamente dalle porte,
appositamente bloccate per tenere meglio a
bada le ragazzine, e oggi, con ustioni sul viso
e alle mani, non può più lavorare. Non ha
avuto risarcimenti.
UNA SERIE DI INCENDI
Una lista di crolli e, soprattutto, incendi accompagna la crescita industriale che in Bangladesh è sinonimo di tessile e abbigliamento. Il 9 maggio, mentre ancora si scavava tra
le macerie del Rana Plaza, sette persone sono
morte nell’incendio in un’altra fabbrica di
Dacca. Lo scorso 24 novembre era bruciata
la sede della Tazreen Fashion di Ashulia, altro
sobborgo della capitale. Subito dopo l’innesco
dell’allarme, i caporeparto avevano intimato a
centinaia di operaie di restare al proprio posto
e continuare a confezionare magliette, jeans e
pantaloncini per clienti come Walmart e Sears. James Pogue, un giornalista che ha visitato
Ashulia, riferisce che il numero esatto di corpi
recuperati è uno dei tanti misteri che circondano la vicenda, sebbene la stampa abbia parlato
IL BOOM DELL’ABBIGLIAMENTO
Il Bangladesh è diventato in pochi anni il secondo esportatore mondiale di abbigliamento
dopo la Cina. Con un giro di affari di circa
20 miliardi di dollari, questa è l’unica vera
industria del Paese e rappresenta l’80% delle
esportazioni. Unione europea, Usa e Giappone
sono i principali destinatari del Made in Bangladesh. Agli attuali tassi di crescita potrebbe
diventare il primo produttore mondiale ed è
in forte competizione con India e Pakistan. Il
settore occupa quasi 5 dei 150 milioni di bangladesi (per l’80% donne). In un Paese sovraffollato, particolarmente soggetto a inondazioni
e con difficili approvvigionamenti di energia,
è frequente il ricorso a fabbriche verticali con
linee di produzione congestionate, cortocircuiti
elettrici, materiali infiammabili, estintori non
Briciole di Missione - 15 -
funzionanti, scale di sicurezza bloccate da pile
di indumenti, uscite sbarrate, lavoratrici intrappolate che muoiono asfissiate, bruciate o
che si lanciano nel vuoto.
L’enormità della tragedia di aprile, tuttavia,
ha avuto un impatto fortissimo: per giorni ci
sono stati cortei e proteste con la sospensione
della produzione. Dopo un braccio di ferro
tra lavoratori e imprenditori, il 15 maggio è
stata annunciata la chiusura di duecento aziende, in risposta ai continui scioperi per chiedere più sicurezza e aumenti di retribuzione. Il
salario minimo mensile è di soli 3.000 taka
(meno di 30 euro). Un rapporto dell’Istituto per l’alimentazione dell’Università di Dacca nel 2010 spiegava che una lavoratrice nel
settore dell’abbigliamento avrebbe bisogno di
3.400 calorie per svolgere dieci ore di lavoro al giorno. Per comprare alimenti adeguati
a tale fabbisogno, spende circa 2.350 taka al
mese (e ne servirebbero 11mila per mantenere
una famiglia media). Tali salari, tra i più bassi
del mondo, attirano investimenti e il boom
della produzione ha spinto a convertire edifici sorti per altri scopi in fabbriche dove migliaia di operaie, giorno e notte, rispondono
alle richieste di produzione dei grandi marchi,
soprattutto occidentali.
Le catene fast fashion come Gap e H&M
esigono processi produttivi rapidi: gli ordini
richiedono di subappaltare a diversi produttori attraverso catene di produzione articolate e
poco trasparenti. Se occorre, i datori di lavoro assumono personale in più per rispondere
rapidamente alle richieste e la manodopera
in Bangladesh non manca. La spagnola Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear tra i suoi
marchi) riesce in due settimane a ideare un
nuovo capo, produrlo e venderlo in 4.600 negozi nel mondo. I 122 morti nell’incendio di
Ashulia in novembre facevano straordinari per
rispondere alla sovrapproduzione prenatalizia
richiesta nei Paesi occidentali.
ABITI PULITI
Anche nelle fabbriche crollate a Savar si rifornivano aziende multinazionali (Mango,
Bon Marche e altre) che hanno iniziato ad
ammettere il loro coinvolgimento. L’angloirlandese Primark ha emesso un comunicato in
cui riconosce le proprie responsabilità. Dopo
che fotografi dell’agenzia Afp hanno scattato
immagini di etichette United Colors of Benetton tra le macerie, anche l’azienda italiana
è finita sotto i riflettori. La Campagna Abiti
puliti (www.abitipuliti.org) è entrata in possesso di una copia di un ordine di acquisto
da parte di Benetton per capi prodotti dalla
New Wave Bottoms. L’azienda prima ha negato, poi ammesso (il 29 aprile) di avere fornitori nell’edificio. «Ma Benetton non è l’unica
- spiega a Popoli Deborah Lucchetti, coordinatrice per l’Italia della Campagna -. Ci sono
altre aziende del nostro Paese, in particolare
Yes Zee, del marchio Essenza. Mentre la Pellegrini era stata cliente di una delle aziende,
ma solo in passato. Stiamo cercando di entrare in contatto con Manifattura Corona, le
verifiche sono ancora in corso».
Ma quali sono le principali aziende italiane che acquistano in Bangladesh? «Le filiere
produttive non sono trasparenti, nessuno dichiara i propri fornitori come noi chiediamo
da anni - aggiunge Lucchetti -. In alcuni casi
emergono i coinvolgimenti, come quello di
Piazza Italia nel caso dell’incendio della Tazreen a novembre».
Il 15 maggio anche il gruppo Benetton ha
sottoscritto il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, come richiesto dalla Campagna,
che intanto ha raccolto più di un milione di
firme. L’Accordo sugli incendi e la sicurezza
negli impianti è un programma specifico di
azione che comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in
merito ai loro diritti e revisione strutturale
delle norme di sicurezza. La novità sostanzia-
Briciole di Missione - 16 -
le è l’obbligo per le marche e i rivenditori di
coprire i costi degli interventi e interrompere
gli affari con qualsiasi fabbrica rifiuti di fare
gli interventi necessari per la sicurezza. E, soprattutto, le imprese accettano di pagare per
la manutenzione necessaria delle fabbriche in
Bangladesh.
Le pressioni dell’opinione pubblica si fanno sentire e il numero di aziende aderenti è
cresciuto in pochi giorni: dalla svedese H&M
alla spagnola Inditex, ma anche l’americana
Pvh (marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger), le britanniche Mark&Spencer e Tesco
e la tedesca Tchibo. Resta fuori dall’Accordo, voluto anche da confederazioni sindacali bangladesi e internazionali, un gigante della grande distribuzione come Walmart
(la più grande multinazionale del mondo).
Sembrerebbe una svolta significativa, dato che
in questi anni le imprese non avevano aderito
a protocolli vincolanti, limitandosi a emettere
codici di condotta (uno di Walmart in dodici
punti risale a vent’anni fa), ma senza veri risultati. Sistemi di certificazione come SA8000,
che esiste dal 1997, sono spesso inefficaci: gli
imprenditori locali sanno in anticipo quando
arrivano gli ispettori, istruiscono gli operai
su che cosa dire, falsificano i registri. Con la
corruzione si pagano costruttori e ispettori.
Dopo il crollo della Spectrum a Dacca nel
2005 (Popoli, n. 1/2007), non ci sono stati
passi avanti nella legislazione interna in Bangladesh, come conferma Lucchetti: «L’unico
elemento degno di nota è stato l’aumento del
salario minimo, che resta comunque sotto la
soglia del salario vivibile».
«Vivere con 38 dollari al mese: il salario delle
persone che sono morte… questo si chiama “lavoro schiavo”», ha denunciato papa Francesco
lo scorso 1º maggio. Il direttore della Caritas
del Bangladesh che è impegnata nell’assistenza alle famiglie colpite (dalla distribuzione di
medicine al sostegno psicologico), ha dichiarato ad AsiaNews che la responsabilità è di
tutti: governi, industrie, clienti. «Credo che
tutti - incalza - dovremmo chiederci perché
una maglietta prodotta in Bangladesh costa
20 euro, mentre se viene prodotta in Europa
costa 80 euro».
Le grandi marche internazionali non possono
nascondersi dietro i fornitori locali o giustificare condizioni di lavoro schiavistico con il
fatto che si crea occupazione. Se non vogliono essere indifferenti ai danni di immagine,
oppure abbandonare il Bangladesh per luoghi
dove i rischi di simili incidenti sono minori
(danneggiando il Bangladesh), la tragedia di
Savar può segnare una svolta.
Francesco Pistocchini
MA CHE COSA NON FUNZIONA PIÙ IN BRASILE?
Più che i poveri delle favelas in piazza c'è la
classe media. Quella che comunque non
avverte benefici dalla globalizzazione
Le proteste in corso in Brasile hanno colto di
sorpresa l'opinione pubblica mondiale. Non
ci si aspettava tanto malcontento in una delle
economie più floride e promettenti del mondo,
spesso citata come modello da imitare per la
sua capacità di coniugare apertura al mercato
e politiche di inclusione sociale. Non ci si
aspettava tanta insoddisfazione in un Paese che
negli ultimi anni si è andato progressivamente
affermando come superpotenza regionale e
che aspira chiaramente a diventare uno degli
attori principali del mondo multipolare postguerra fredda, con i mondiali di calcio del
2014 e le olimpiadi del 2016 come eventi
destinati a consolidarne immagine e prestigio
internazionale.
L'ondata di manifestazioni semi-spontanee av-
Briciole di Missione - 17 -
venute a San Paolo, Rio de Janeiro, Brasilia,
Recife e in altre città mette in evidenzia che
c'è qualcosa che non va dietro l'immagine patinata del Brasile come Paese dallo sviluppo
travolgente. C'è un malessere sociale che cova
sotto gli straordinari indici macroeconomici
fatti registrare nell'ultimo decennio; un malessere che gli indicatori non possono o non
vogliono rilevare, perché si possa continuare a
sognare e a fare business senza preoccupazioni.
Ma che cosa non va nello specifico? Come
molti commentatori hanno rilevato, in piazza non c'erano, se non in piccola parte, i veri
poveri del Brasile. Non c'erano contadini senza terra, indigeni, minatori o abitanti delle
favelas. Le strade delle grandi città brasiliane
sono state invase soprattutto da persone di
classe media, in linea di massima giovani con
un certo potere d'acquisto e un certo grado
di istruzione. Questo significa che il malcontento esploso nelle scorse settimane riguarda
soprattutto la classe media urbana e il modo
in cui percepisce che sta venendo ripartita o
spesa la grande ricchezza prodotta dal Paese
nell'ultimo decennio, prima con Lula e ora
con Dilma Roussef.
Questo settore della società sente che il modello di sviluppo abbracciato dal Brasile - il
modello neoliberale, temperato da una serie di
programmi sociali - non sta portando benefici
per la classe media. Al contrario, la sta mettendo in difficoltà. In controtendenza rispetto
alla vulgata "privatizzatrice" diffusa dalle elite economiche, i manifestanti chiedono più
politiche pubbliche, più Stato. Vogliono una
scuola pubblica di qualità, un sistema sanitario pubblico dignitoso, trasporti pubblici a
prezzi accessibili e via dicendo. Contestano
un modello di sviluppo dove il compito della politica e dello Stato si riduce a stendere
un tappeto rosso perché possano affluire gli
investimenti internazionali e a garantirli col
diritto e - nel caso - con la forza; discutono
il fatto che, sempre per attrarre nuovi investimenti, si pubblicizzi l' immagine-Paese attraverso costosissimi eventi di richiamo mondiale, come i mondiali di calcio o le olimpiadi, dimenticandosi dei milioni di persone che
sono in difficoltà nell'immediato.
Quanto sta accadendo in Brasile per certi
versi può essere messo in parallelo con quanto ormai da anni succede in Cile con l'imponente movimento studentesco che - forte
dell'appoggio trasversale di buona parte della
società - si batte per ottenere un'istruzione e
in particolare un'università pubblica di qualità
finanziata al 100 per cento dallo Stato. Anche
in Cile, Paese ferramente neoliberale, è forte
la domanda di una migliore distribuzione dei
proventi dello sviluppo prodottosi negli ultimi
anni per la via del mercato; e l'educazione è
il settore in cui questa domanda si concentra
con maggior forza. Gli studenti cileni si oppongono a un sistema educativo che mette la
libertà d'impresa prima del diritto allo studio
e obbliga chi vuole studiare a indebitarsi pesantemente o a "emigrare" in un Paese vicino
come l'Argentina, dove c'è un sistema educativo pubblico gratuito fino all'università e dove
i corsi post-laurea hanno prezzi decisamente
più accessibili che in Cile.
A emergere dunque - tanto in Brasile come
in Cile - è che c'è un settore della società che
guarda con sempre maggiore sfiducia al mo-
Briciole di Missione - 18 -
dello di sviluppo neoliberale e al processo di
globalizzazione che vengono propagandati da
quotidiani e tv mainstream nazionali e internazionali come motore di rapido sviluppo e
progresso. Anni di esperienza quotidiana dicono che un eccesso di mercato e di privato
nell'economia riduce i diritti delle persone, fa
aumentare i prezzi, crea senso di insicurezza e
impotenza, produce agitazione più che armonia, conduce a un progressivo smantellamento
delle tutele sociali, impone una competitività spesso eccessiva, mette a rischio la natura,
quantifica e dà un prezzo ad ogni cosa, abbassa
il livello culturale medio, il tutto fondamentalmente solo perché un circolo ristretto di
individui e gruppi economici possa continuare aumentare la propria già enorme ricchezza.
Le proteste non mettono in discussione la democrazia o il diritto alla libertà d'impresa. In
discussione, seppur confusamente, è un'idea di
uomo al servizio dell'economia che si è venuta
imponendo un po' in tutto il mondo negli ultimi decenni. Ad essere messa sul banco degli
imputati è l'idea che lo sviluppo e la dignità
dei molti debba venire dalle briciole che cadono dalla tavola dei pochi che concentrano
la ricchezza. In uno scenario come questo la
politica e lo Stato, messi al servizio della società civile e non dei "poteri forti", vengono
sentiti come l'unico mezzo per riequilibrare le
cose. È per questo che in controtendenza rispetto alla retorica liberale che chiede "meno
Stato", settori sempre più ampi della popolazione chiedono "più Stato"; chiedono servizi
pubblici di qualità, scuola, sanità, pensioni,
diritti, opportunità.
La retorica della necessità di applicare una
cura dimagrante allo Stato, sulla base dell'argomento che il pubblico costituisce un freno
per lo sviluppo, proviene da ben precise elite
economiche private sovranazionali che hanno
anche precisi interessi. Ad esempio gli studi
sulla globalizzazione della sociologa statunitense Saskia Sassen, recente vincitrice in Spagna
del prestigioso premio Príncipe de Asturias, lo
mostrano chiaramente, sostenendo che uno
sviluppo fondato sugli investimenti stranieri
e sui mercati globali alla fine svuota gli Stati.
Uno scenario che risulta illuminante per spiegare in profondità fenomeni come le proteste
del Brasile, il movimento studentesco cileno
o, in tutt'altra parte del mondo, le manifestazioni di Istanbul.
di Alessandro Armato
Macherio, 4 luglio 2013
S. Messa per i Missionari defunti macheriesi
Briciole di Missione - 19 -
Il GRUPPO MISSIONARIO
ringrazia ognuno di voi e vi augura
BUONE VACANZE!!!
Vi aspettiamo con il nostro banchetto
e con un nuovo numero di Briciole di Missione
Domenica 8 Settembre 2013
sul piazzale della Chiesa dalle ore 7.30 alle 12.30
PREGHIERA
O Gesù, che hai detto:
«Dove due o più sono radunati
nel mio nome, io sono in mezzo a loro»,
visitaci con la tua Presenza in
questi giorni di intensa preghiera.
Aiutaci a riscoprire
nella vita comune il luogo del perdono e della festa,
per essere sempre “un cuor solo e un’anima sola”.
Donaci il coraggio e l’umiltà di perdonare sempre,
di andare incontro a chi si vorrebbe allontanare da noi,
di mettere in risalto il molto che ci unisce e il poco che ci divide.
Fa’ che la nostra Comunità Pastorale sia una famiglia,
dove ognuno si sforza di comprendere,
perdonare, aiutare, condividere;
dove l’unica legge che ci lega e ci fa essere discepoli
sia l’amore reciproco.
Amen.
Briciole di Missione - 20 -