Briciole di Missione - n. 39 - 14 luglio 2013
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Briciole di Missione - n. 39 - 14 luglio 2013
Informatore Missionario - Macherio n. 39 - 14 Luglio 2013 DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA «IO NON MI VERGOGNO DEL VANGELO» Buonasera a tutti, cari fratelli e sorelle! L’Apostolo Paolo finiva questo brano della sua lettera ai nostri antenati con queste parole: non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia. E questa è la nostra vita: camminare sotto la grazia, perché il Signore ci ha voluto bene, ci ha salvati, ci ha perdonati. Tutto ha fatto il Signore, e questa è la grazia, la grazia di Dio. Noi siamo in cammino sotto la grazia di Dio, che è venuta da noi, in Gesù Cristo che ci ha salvati. Ma questo ci apre verso un orizzonte grande, e questo è per noi gioia. “Voi non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Ma cosa significa, questo “vivere sotto la grazia”? Cercheremo di spiegare qualcosa di che cosa significa vivere sotto la grazia. E’ la nostra gioia, è la nostra libertà. Noi siamo liberi. Perché? Perché viviamo sotto la grazia. Noi non siamo più schiavi della Legge: siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberati, ci ha dato la libertà, quella piena libertà di figli di Dio, che viviamo sotto la grazia. Questo è un tesoro. Cercherò di spiegare un po’ questo mistero tanto bello, tanto grande: vivere sotto la grazia. Quest’anno avete lavorato tanto sul Battesimo e anche sul rinnovamento della pastorale postbattesimale. Il Battesimo, questo passare da “sotto la Legge” a “sotto la grazia”, è una rivoluzione. Sono tanti i rivoluzionari nella storia, sono stati tanti. Ma nessuno ha avuto la forza di questa rivoluzione che ci ha portato Gesù: una rivoluzione per trasformare la storia, una rivoluzione che cambia in profondità il cuore dell’uomo. Le rivoluzioni della storia hanno cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore dell’uomo. La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù Cristo attraverso la sua Risurrezione: la Croce e la Risurrezione. E Benedetto XVI diceva, di Briciole di Missione - 1 - questa rivoluzione, che “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Ma pensiamo a questo: è la più grande mutazione della storia dell’umanità, è una vera rivoluzione e noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari di questa rivoluzione, perché noi andiamo per questa strada della più grande mutazione della storia dell’umanità. Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano! Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto fa di noi rivoluzionari, perché – e cito nuovamente Benedetto – “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Perché cambia il cuore. Il profeta Ezechiele lo diceva: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. E questa è l’esperienza che vive l’Apostolo Paolo: dopo avere incontrato Gesù sulla via di Damasco, cambia radicalmente la sua prospettiva di vita e riceve il Battesimo. Dio trasforma il suo cuore! Ma pensate: un persecutore, uno che inseguiva la Chiesa e i cristiani, diventa un santo, un cristiano fino alle ossa, proprio un cristiano vero! Prima è un violento persecutore, ora diventa un apostolo, un testimone coraggioso di Gesù Cristo, al punto di non aver paura di subire il martirio. Quel Saulo che voleva uccidere chi annunziava il Vangelo, alla fine dona la sua vita per annunciare il Vangelo. E’ questo il mutamento, il più grande mutamento del quale ci parlava Papa Benedetto. Ti cambia il cuore, da peccatore – da peccatore: tutti siamo peccatori – ti trasforma in santo. Qualcuno di noi non è peccatore? Se ci fosse qualcuno, alzi la mano! Tutti siamo peccatori, tutti! Tutti siamo peccatori! Ma la grazia di Gesù Cristo ci salva dal peccato: ci salva! Tutti, se noi accogliamo la grazia di Gesù Cristo, Lui cambia il nostro cuore e da peccatori ci fa santi. Per diventare santi non è necessario girare gli occhi e guardare là, o avere un po’ una faccia da immaginetta! No, no, non è necessario questo! Una sola cosa è necessaria per diventare santi: accogliere la grazia che il Padre ci da in Gesù Cristo. Ecco, questa grazia cambia il nostro cuore. Noi continuiamo ad essere peccatori, perché tutti siamo deboli, ma anche con questa grazia che ci fa sentire che il Signore è buono, che il Signore è misericordioso, che il Signore ci aspetta, che il Signore ci perdona, questa grazia grande, che cambia il nostro cuore. E, diceva il profeta Ezechiele, che da un cuore di pietra lo cambia in un cuore di carne. Cosa vuol dire, questo? Un cuore che ama, un cuore che soffre, un cuore che gioisce con gli altri, un cuore colmo di tenerezza per chi, portando impresse le ferite della vita, si sente alla periferia della società. L’amore è la più grande forza di trasformazione della realtà, perché abbatte i muri dell’egoismo e colma i fossati che ci tengono lontani gli uni dagli altri. E questo è l’amore che viene da un cuore mutato, da un cuore di pietra che è trasformato in un cuore di carne, un cuore umano. E questo lo fa la grazia, la grazia di Gesù Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto. Qualcuno di voi sa quanto costa la grazia? Dove si vende la grazia? Dove posso comprare la grazia? Nessuno sa dirlo: no. Vado a comprarla dalla segretaria parrocchiale, forse lei la vende, la grazia? Qualche prete la vende, la grazia? Ascoltate bene questo: la grazia non si compra e non si vende; è un regalo di Dio in Gesù Cristo. Gesù Cristo ci dà la grazia. E’ l’unico che ci dà la grazia. E’ un regalo: ce lo offre, a noi. Prendiamola. E’ bello questo. L’amore di Gesù è così: ci dà la grazia gratuitamente, gratuitamente. E noi dobbiamo darla ai fratelli, alle sorelle, gratuitamente. E’ un po’ triste quando uno incontra alcuni che vendono la grazia: nella storia della Chiesa alcune volte è accaduto questo, e ha fatto tanto male, tanto male. Ma Briciole di Missione - 2 - la grazia non si può vendere: la ricevi gratuitamente e la dai gratuitamente. E questa è la grazia di Gesù Cristo. In mezzo a tanti dolori, a tanti problemi che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive senza speranza. Ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole … Ma si ritrovano ancora più delusi e talvolta sfogano la loro rabbia verso la vita con comportamenti violenti e indegni dell’uomo. Quante persone tristi, quante persone tristi, senza speranza! Pensate anche a tanti giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non trovano senso alla vita e cercano il suicidio, come soluzione. Voi sapete quanti suicidi di giovani ci sono oggi nel mondo? La cifra è alta! Perché? Non hanno speranza. Hanno provato tante cose e la società, che è crudele – è crudele! – non ti può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio. E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia. Il regalo che ci fa Dio della grazia, porta la speranza. Noi, che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevolmente, senza saperlo, una speranza che l’aiuti a guardare il futuro con maggiore fiducia e serenità? Noi non possiamo essere indifferenti. Ma come possiamo fare questo? Come possiamo andare avanti e offrire la speranza? Andare per la strada dicendo: “Io ho la speranza”? No! Con la vostra testimonianza, con il vostro sorriso, dire: “Io credo che ho un Padre”. L’annunzio del Vangelo è questo: con la mia parola, con la mia testimonianza dire: “Io ho un Pa- dre. Non siamo orfani. Abbiamo un Padre”, e condividere questa filiazione con il Padre e con tutti gli altri. “Padre, adesso capisco: si tratta di convincere gli altri, di fare proseliti!”. No: niente di questo. Il Vangelo è come il seme: tu lo semini, lo semini con la tua parola e con la tua testimonianza. E poi, non fai la statistica di come è andato questo: la fa Dio. Lui fa crescere questo seme; ma dobbiamo seminare con quella certezza che l’acqua la dà Lui, la crescita la dà Lui. E noi non facciamo la raccolta: la farà un altro prete, un altro laico, un’altra laica, un altro la farà. Ma la gioia di seminare con la testimonianza, perché con la parola solo non basta, non basta. La parola senza la testimonianza è aria. Le parole non bastano. La vera testimonianza che dice Paolo. L’annunzio del Vangelo è destinato innanzitutto ai poveri, a quanti mancano spesso del necessario per condurre una vita dignitosa. A loro è annunciato per primi il lieto messaggio che Dio li ama con predilezione e viene a visitarli attraverso le opere di carità che i discepoli di Cristo compiono in suo nome. Prima di tutto, andare ai poveri: questo è il primo. Nel momento del Giudizio finale, possiamo leggere in Matteo 25, tutti saremo giudicati su questo. Ma alcuni, poi, pensano che il messaggio di Gesù sia destinato a coloro che non hanno una preparazione culturale. No! No! L’Apostolo afferma con forza che il Vangelo è per tutti, anche per i dotti. La sapienza, che deriva dalla Risurrezione, non si oppone a quella umana ma, al contrario, la purifica e la eleva. La Chiesa è sempre stata presente nei luoghi dove si elabora la cultura. Ma il primo passo è sempre la priorità ai poveri. Ma anche dobbiamo andare alle frontiere dell’intelletto, della cultura, nell’altezza del dialogo, del dialogo che fa la pace, del dialogo intellettuale, del dialogo ragionevole. E’ per tutti, il Vangelo! Questo di andare Briciole di Missione - 3 - verso i poveri non significa che noi dobbiamo diventare pauperisti, o una sorta di “barboni spirituali”! No, no, non significa questo! Significa che dobbiamo andare verso la carne di Gesù che soffre, ma anche soffre la carne di Gesù di quelli che non lo conoscono con il loro studio, con la loro intelligenza, con la loro cultura. Dobbiamo andare là! Perciò, a me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci dei cammini: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza. E questo significa che noi dobbiamo avere coraggio. Paolo VI diceva che lui non capiva i cristiani scoraggiati: non li capiva. Questi cristiani tristi, ansiosi, questi cristiani dei quali uno pensa se credono in Cristo o nella “dea lamentela”: non si sa mai. Tutti i giorni si lamentano, si lamentano; e come va il mondo, guarda, che calamità, le calamità. Ma, pensate: il mondo non è peggiore di cinque secoli fa! Il mondo è il mondo; è sempre stato il mondo. E quando uno si lamenta: e va così, non si può fare niente, ah la gioventù… Vi faccio una domanda: voi conoscete cristiani così? Ce ne sono, ce ne sono! Ma, il cristiano deve essere coraggioso e davanti al problema, davanti ad una crisi sociale, religiosa deve avere il coraggio di andare avanti, andare avanti con coraggio. E quando non si può far niente, con pazienza: sopportando. Sopportare. Coraggio e pazienza, queste due virtù di Paolo. Coraggio: andare avanti, fare le cose, dare testimonianza forte; avanti! Sopportare: portare sulle spalle le cose che non si possono cambiare ancora. Ma andare avanti con questa pazienza, con questa pazienza che ci dà la grazia. Ma, cosa dobbiamo fare con il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre comunità, per andare lì dove gli uomini e le donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo di Nazareth. Annunciare questa grazia che ci è stata regalata da Gesù. Se ai sacerdoti, Giovedì Santo, ho chiesto di essere pastori con l’odore delle pecore, a voi, cari fratelli e sorelle, dico: siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori. Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchia. Voglio dirvi una cosa. Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a cercarla, a cercarne una. Ma, fratelli e sorelle, noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo andare da loro! In questa cultura - diciamoci la verità - ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza! E noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? Questa è una responsabilità grande, e dobbiamo chiedere al Signore la grazia della generosità e il coraggio e la pazienza per uscire, per uscire ad annunziare il Vangelo. Ah, questo è difficile. E’ più facile restare a casa, con quell’unica pecorella! E’ più facile con quella pecorella, pettinarla, accarezzarla… ma noi preti, anche voi cristiani, tutti: il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle; pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, questa comunità non è una comunità che dà vita. E’ una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo, ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza. Viene un po’ lunga la cosa, vero? Ma non è facile! Dobbiamo dirci la verità: il lavoro di Briciole di Missione - 4 - evangelizzare, di portare avanti la grazia gratuitamente non è facile, perché non siamo noi soli con Gesù Cristo; c’è anche un avversario, un nemico che vuole tenere gli uomini separati da Dio. E per questo instilla nei cuori la delusione, quando noi non vediamo ricompensato subito il nostro impegno apostolico. Il diavolo ogni giorno getta nei nostri cuori semi di pessimismo e di amarezza, e uno si scoraggia, noi ci scoraggiamo. “Non va! Abbiamo fatto questo, non va; abbiamo fatto quell’altro e non va! E guarda quella religione come attira tanta gente e noi no!”. E’ il diavolo che mette questo. Dobbiamo prepararci alla lotta spirituale. Questo è importante. Non si può predicare il Vangelo senza questa lotta spirituale: una lotta di tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo; una lotta di tutti i giorni! Seminare non è facile. E’ più bello raccogliere, ma seminare non è facile, e questa è la lotta di tutti i giorni dei cristiani. Paolo diceva che lui aveva l’urgenza di predicare e lui aveva l’esperienza di questa lotta spirituale, quando diceva: “Ho nella mia carne una spina di satana e tutti i giorni la sento”. Anche noi abbiamo spine di satana che ci fanno soffrire e ci fanno andare con difficoltà e tante volte ci scoraggiano. Prepararci alla lotta spirituale: l’evangelizzazione chiede da noi un vero coraggio anche per questa lotta interiore, nel nostro cuore, per dire con la preghiera, con la mortificazione, con la voglia di seguire Gesù, con i Sacramenti che sono un incontro con Gesù, dire a Gesù: grazie, grazie per la tua grazia. Voglio portarla agli altri. Ma questo è lavoro: questo è lavoro. Questo si chiama – non vi spaventate – si chiama martirio. Il martirio è questo: fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il Signore chiede il martirio della vita, ma c’è il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore: la testimonianza contro lo spirito del male che non vuole che noi siamo evangelizzatori. E adesso, vorrei finire pensando una cosa. In questo tempo, in cui la gratuità sembra affievolirsi nelle relazioni interpersonali perché tutto si vende e tutto si compra, e la gratuità è difficile trovarla, noi cristiani annunciamo un Dio che per essere nostro amico non chiede nulla se non di essere accolto. L’unica cosa che chiede Gesù: essere accolto. Pensiamo a quanti vivono nella disperazione perché non hanno mai incontrato qualcuno che abbia loro mostrato attenzione, li abbia consolati, li abbia fatti sentire preziosi e importanti. Noi, discepoli del Crocifisso, possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi dove nessuno vuole andare per la paura di comprometterci e del giudizio altrui, e così negare a questi nostri fratelli l’annuncio della Parola di Dio? La gratuità! Noi abbiamo ricevuto questa gratuità, questa grazia, gratuitamente; dobbiamo darla, gratuitamente. E questo è quello che, alla fine, voglio dirvi. Non avere paura, non avere paura. Non avere paura dell’amore, dell’amore di Dio, nostro Padre. Non avere paura. Non avere paura di ricevere la grazia di Gesù Cristo, non avere paura della nostra libertà che viene data dalla grazia di Gesù Cristo o, come diceva Paolo: “Non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Non avere paura della grazia, non avere paura di uscire da noi stessi, non avere paura di uscire dalle nostre comunità cristiane per andare a trovare le 99 che non sono a casa. E andare a dialogare con loro, e dire loro che cosa pensiamo, andare a mostrare il nostro amore che è l’amore di Dio. Cari, cari fratelli e sorelle: non abbiamo paura! Andiamo avanti per dire ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che noi siamo sotto la grazia, che Gesù ci dà la grazia e questo non costa niente: soltanto, riceverla. Avanti! Briciole di Missione - 5 - «PERCHÈ IN EUROPA VI LAMENTATE SEMPRE DEI NUMERI?» IL CARDINALE ARCIVESCOVO DI MANILA LUIS ANTONIO TAGLE: «LA FEDE NON DIPENDE DALLA QUANTITÀ, MA DALLA VITALITÀ DEI CRISTIANI. L'EVANGELIZZAZIONE? AVVIENE SOTTOVOCE, COME NELLE RISAIE DELLA CINA» «Ogni volta che una guardia svizzera in Vaticano mi chiama eminenza, mi stupisco sempre. Io cardinale? Per la mia autocoscienza sono sempre Gokim Tagle, un semplice prete chiamato dal Signore per servire». Non è per contagio da papa Francesco che l'arcivescovo di Manila ostenta umiltà e un senso dimesso della propria posizione: veramente Luis Antonio "Chito" Gokim Tagle, cardinale filippino, è un personaggio straordinario nella sua normalità. Supera la ritrosia personale per far fronte all'assalto dei giornalisti che gli chiedono di Ior, di Curia, di politica vaticana. Lui che nella sua terra è un evangelizzatore instancabile, un amico dei poveri, un alunno degli "apostoli di Dio" che egli stesso individua negli ultimi, nei migranti, negli emarginati. Intervenuto a Roma per presentare il suo primo libro in italiano, Gente di Pasqua. La comunità cristiana, profezia di speranza (Editrice Missionaria Italiana), Tagle si mostra tutt'altro che sprovveduto sulle ultime vicende di cronaca vaticana. Ai cronisti che lo incalzano se il Vaticano debba ancora avere una banca come lo Ior, risponde serafico che "non è una banca ma una fondazione per le Opere religiose", dimostrando prontezza di risposta e sagacia comunicativa, chiudendo la questione con uno dei suoi irrefrenabili sorrisi che restituiscono l'eccezionalità umana del personaggio e rimettono al loro posto insinuazioni e polemiche. Ma è proprio quando si parla di Vangelo, di fede, di come comunicare a chi non conosce Cristo e la sua vita, che la statura dell'uomo viene fuori. «Mi hanno raccontato che in Cina, nelle campagne, durante il lavoro nelle risaie, i cristiani parlano delle parabole di Gesù mentre piantano il riso per terra, sottovoce. Ecco, questo è il modo di portare il Vangelo oggi. La Chiesa che oggi vive un abbassamento del numero dei fedeli è chiamata dal Signore ad essere minoritaria, e a non aver fiducia nel denaro, nel potere o nei numeri, ma a manifestare la propria vitalità senza pensare di voler far pesare la propria influenza sulla società. Per noi, Chiesa d'Asia, essere minoranza è la normalità. Non capisco perchè in Europa ci si lamenti in continuazione dei numeri!». Quello che Tagle considera prioritario è «partecipare ad una società che sia riflesso della nuova Gerusalemme, una città nata dall'alto, sorta dalla forza di Cristo». E in questo un ruolo centrale lo hanno gli ultimi della Bibbia: «Gli orfani, le vedove, i migranti, i rifugiati, i poveri sanno dire Dio, me lo insegnano. Ascoltiamo questi missionari di Dio nel mondo di oggi». Prima che essere fiducioso nell'efficacia dell'annuncio della Chiesa, Tagle manifesta un'incrollabile fede nel fatto che Dio sia ancora presente e parlante oggi nel mondo: «Credo, io credo che Gesù Cristo e il suo stile, la sua compassione, sono presenti nel mondo contemporaneo. La fede nel Risorto può dare forza a un'umanità che cerca la comunione. Nella contradditorietà e nell'assurdità della vita noi possiamo vedere il Mistero e la Speranza». Briciole di Missione - 6 - Il "baby-cardinale", come l'hanno ribattezzato alcuni organi di stampa all'indomani della sua nomina nel Collegio (lo volle fortemente papa Benedetto al termine del Sinodo sulla nuova evangelizzazione, lo scorso autunno), riserva una bonaria tirata di orecchie ai suoi confratelli vescovi d'Europa: «Al Sinodo sentivo sempre parlare di stanchezza della Chiesa. Ma secondo me questa stanchezza è causata da un atteggiamento che cerca solo radici nel problema, ovvero quello del calo del numero dei fedeli, e invece non ha attenzione sulle opportunità per portare il Vangelo proprio in questa situazione di minoranza. Si parla di Chiesa stanca, ma la Chiesa è viva! Dobbiamo annunciare più con l'esempio della vita che con le parole». Non vuole atteggiarsi a maestro, il porporato venuto dalle Filippine, unico Paese asiatico in cui il cattolicesimo è maggioranza. Anche perchè conosce molto bene la condizione delle piccole chiese, viaggia spesso in Asia, visita comunità, incontra sacerdoti, religiose, fedeli: «Come quando sono stato in Cambogia e ho visitato una parrocchia con 20 persone. Che cosa devo dire loro, che siccome sono pochi non valgono? Ma la fede non dipende dal numero ma dalla vitalità di noi cristiani!». Certo, in un contesto come quello asiatico la missione si scrive sulle righe del dialogo: «La missione in Asia si deve fare con il dialogo con le altre religioni, con le antiche culture e con i poveri. Noi non abbiamo il potere per influire sull'opinione pubblica, ma possiamo operare con il dialogo. Padre Jacques Dupuis, il teologo gesuita esperto di religioni, ha aiutato molto la Chiesa asiatica dal punto della riflessione, ma poi nella vita pastorale concreta si deve mantenere la fedeltà alla propria identità cristiana. L'apertura alla diversità deve avvenire mantenendo la propria identità». Non è irenico il cardinale che viene dall'Oriente, figlio di una mamma cinese, attento - come uno dei suoi grandi predecessori, il cardinal Sin, che ricostituì in pratica, giorno per giorno, visita per visita, la Chiesa in Cina dopo la "rivoluzione culturale" omicida di Meo Tse Tung - al "piccolo gregge" cattolico all'ombra di Pechino. È un uomo di Dio, anzitutto, uno che ha ben chiara la direzione della storia dei giorni e degli ultimi. «Il capitolo ultimo della storia umana è la vittoria del Signore, non quella del male, il trionfo della speranza, non quello della morte. La Chiesa, noi, io, dobbiamo continuamente riscoprire questa verità». Briciole di Parola: PERDONO: la più grande prova d'amore IL LUCA 7,36-8,3, DI PADRE CIRO BIONDI, MISSIONARIO DEL PIME IN PAPUA NUOVA GUINEA COMMENTO AL VANGELO DI Le occasioni non mancano mai per fare esperienza di questa operazione divina! Questo brano del Vangelo di Luca è un bello schiaffo in faccia ai perbenisti. Particolarmente è un grande insegnamento per noi, missionari e le missionarie, molte volte malati di fariseismo tra i popoli che si aspettano da noi la verità, quella che costa la vita. Abbiamo accettato di essere mandati ai confini della terra per essere strumento e segno della misericordia di Dio in mezzo ai popoli posti ai margini dal perbenismo del nostro mondo e molte volte diventiamo strumento di giudizio e di condanna per coloro che chiedono di essere accolti con il perdono. Briciole di Missione - 7 - Lasciatemi soffermare sull’episodio di questa donna che Gesù pone al centro della scena, una donna che diventa esempio di come bisogna accostarsi agli altri, che si dona senza chiedere nulla, che ama per rispondere alla grande vocazione che è dentro di lei: amare e essere amata. Non una parola esce dalle labbra di questa donna. E’ lì per rispondere all’amore che l’ha chiamata. E’ lì per essere adombrata dal perdono che la mette in condizione di essere amante. E’ lì per dire sì all’amore con gesti che la fanno diventare intima con colui che l’ama. Gesù rimprovera il fariseo che l’ha invitato a mangiare a casa sua. Lo rimprovera perché non gli ha dato la cosa più importante per lui: non l’ha fatto entrare nella sua vita, è rimasto in superfice, non lo ha lasciato scendere nell’intimità del suo essere, non l’ha fatto diventare suo, non gli ha dato il cuore. La donna invece supera tutte le limitazioni della sua società, non si cura di quello che la gente dirà, fa delle cose che la gente credeva impossibili per lei, non ha vergogna di far capire che vuole essere perdonata da quell’uomo che è capace di amare senza limiti. Ricordo le mortificazioni che mia madre subì per tutta la sua vita perché aveva rifiutato di ricoprirsi di perbenismo quando era rimasta incinta dell’uomo che amava. Quando aveva accettato di far nascere il bambino che portava in seno e che sarebbe stato la “colpa” visibile agli occhi dei “farisei” della sua società, che mendicò il perdono per tutta la sua vita e che ricevette solo da Dio attraverso le mani della madre sua, Maria. Il Figlio di Dio venne perché noi potessimo conoscere l’amore, perché i crocifissi di questo mondo potessero diventare i protagonisti dell’amore di Dio, perché la loro vita manifestasse la prova più grande dell’amore: il perdono. Ho imparato da mia madre cosa significa amare quando l’ho vista in lacrime lavare, asciugare, baciare e profumare i bimbi degli altri nei tanti anni che ha lavorato come infermiera nei nidi di tanti ospedali. Amava per essere perdonata, amava i figli di coloro che la giudicavano quella “specie” di donna da cui bisognava stare lontani, amava senza parlare, nascostamente, senza farsi notare, per dire grazie a chi gli aveva permesso di conoscere di essere amata, a chi non si era vergognato di lei. Non so ancora bene perché il Cristo ha chiamato proprio me ad essere prete e missionario, ma comincio a intravvedere la verità. Forse la mia chiamata è il segno del perdono per quella “specie” di donna che non fu mai perdonata dalla sua società umana e dalla comunità cristiana a cui apparteneva per la sua fede nel crocifisso che aveva dato la vita per lei. Scusate se mi sfogo un poco con voi, ma non vorrei che l’amore che Gesù rivela a quella donna senza nome fosse solo un altro episodio di un “racconto” che non coinvolge le nostre vite, che non ci fa scoprire cosa sia la fede che salva. Quella “specie” di donna siamo noi chiamati a rispondere all’amore di colui che ha dato se Briciole di Missione - 8 - stesso per noi, che non si vergogna di noi, che ci permette di entrare nella sua intimità, di essere al centro del suo cuore. Sì, il centro del cuore di Dio siamo noi, coloro che rispondono alla vocazione di essere amore, che hanno fatto esperienza di perdono e da esso sono stati trasformati in amore. Dio ha fatto dei perdonati per amore il cuore del mondo. E’ tempo per noi tutti di testimoniare la nostra fede in Dio dando a tutti la più grande prova d’amore: il perdono, l’atto con cui riveliamo il divino che è in noi e che ci manifesta al mondo come esseri creati per la bontà. “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?” si domandarono i benpensanti commensali di Gesù. Ora possiamo dare la risposta con sicurezza: egli è la prova che l’amore di Dio ci ha raggiunti con il perdono. Per la riflessione in comunità: 1) Abbiamo fatto esperienza del perdono di Dio in Cristo? Siamo disposti a raccontarlo? 2) Siamo disposti ad abbandonare il nostro perbenismo e accettare gli altri nella nostra vita affinché facciano esperienza della prova d’amore di Dio che è il perdono? 3) E’ la nostra fede la risposta all’amore del Figlio di Dio che ci ha amato e ha dato la sua vita per noi? LA «STRAORDINARIA» POLITICA ESTERA NEI MEDIA ITALIANI Le notizie di politica estera che escono dalla dimensione tragica o sensazionalistica non interessano Tv e giornali, eppure anch’esse ci riguardano nel mondo che cambia. L'analisi dell'Osservatorio Media Research di Pavia nella consueta rubrica su Popoli L’attenzione che i media italiani dedicano alle questioni internazionali è oggetto, ormai da anni, di studi e approfondimenti, in ragione della centralità delle azioni di politica estera, della portata che alcuni eventi hanno e del dibattito dell’opinione pubblica intorno ad alcune scelte dei governi. Eventi recenti come le guerre in Iraq e in Afghanistan con contingenti italiani impiegati sul campo, la primavera araba, il rovesciamento del regime di Gheddafi in Libia, la guerra civile in Siria hanno avuto e continuano ad avere un’ampia copertura mediatica in ragione sia della loro drammaticità sia della loro prossimità. Le guerre, i conflitti, le rivolte - avvenute e in corso nel mondo - ricevono spesso un’adeguata copertura mediatica in ragione della loro «gravità» e in ragione della loro collocazione. L’area del Mediterraneo, per vicinanza geopolitica e culturale gode tradizionalmente, nei nostri media, di uno spazio adeguato, a differenza per esempio di altre aree come quella sudamericana o quella asiatica. Sono gli eventi «ordinari» di politica estera, ma non per questo meno importanti o cruciali, a essere spesso tralasciati dai media italiani, e non solo dai notiziari televisivi (che negli ultimi anni nella media delle sette edizioni serali hanno dedicato circa il 6% dello spazio alla politica estera, contro il 22% assegnato alla politica interna e circa il 12% alla criminalità) ma anche dalla carta stampata. Gli esempi sono numerosi. Uno dei più recenti risale al 22 aprile scorso, quando la Commissione europea ha aperto i negoziati per l’adesione della Serbia all’Unione e per l’associazione del Kosovo. Si tratta, per quan- Briciole di Missione - 9 - to la cautela sia d’obbligo, di un passo molto importante per una riconciliazione definitiva nell’area dei Balcani. Analizzando la stampa italiana, in particolare i due principali quotidiani nazionali (Corriere della Sera e La Repubblica), si rileva che essi hanno dedicato spazio alla notizia nelle edizioni on line, ma ben poco o nulla in quelle cartacee. Si può obiettare che le pagine dei quotidiani italiani erano occupate dalle attese infinite per la formazione del governo, ma si può ribattere che negli stessi giorni in Francia si manifestava contro il riconoscimento dei matrimoni tra omosessuali e, ciò nonostante, la notizia sulla Serbia ha avuto più di un articolo sui due principali quotidiani nazionali (Le Monde e Le Figaro), con un editoriale dedicato alle implicazioni dell’evento per la componente nazionalista serba. Lo stesso è avvenuto per El País, principale quotidiano spagnolo, con un editoriale critico in tema di allargamento. Anche The Guardian e The Daily Telegraph hanno trattato la vicenda, nonostante il tradizionale euroscetticismo britannico. Inoltre, negli stessi giorni, i principali quotidiani europei davano notizia della crisi sino-giapponese per il controllo delle isole Senkaku, evento di politica internazionale non tematizzato dai principali quotidiani italiani. È pur vero, guardando alla Realpolitik, che il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale (così come le azioni di politica estera in cui essa è coinvolta) è diverso rispetto a quello di Paesi come Gran Bretagna, Francia o Germania. È altrettanto vero, però, che raccontare eventi che avvengono fuori e lontano, soprattutto se riguardano opportunità politiche, è di per sé un’occasione di cambiamento. D’altra parte, come ha ricordato Barack Obama nel discorso di insediamento del gennaio scorso «quando i tempi cambiano, dobbiamo cambiare anche noi». Paola Barretta DIGIUNARE INSIEME Quest’anno il mese di Ramadan cade tra il 9 luglio e l’8 agosto. Come ogni anno, esso offre un’occasione di solidarietà e condivisione per i musulmani tra loro e per i non musulmani con loro. Tradizionalmente i cristiani, gli ebrei e i musulmani d’una stessa città s’invitavano gli uni gli altri in famiglia per offrire un pasto serale di rottura del digiuno di Ramadan in spirito di ospitalità abramitica. In molti Paesi, famiglie, associazioni e comunità organizzano «cene» di Ramadan (iftâr) per i loro vicini musulmani, per sottolineare che insieme formiamo comunità di destino e di speranza, di sofferenza e di consolazione, di felicità e di comunione. In un convegno di tre giorni nella Comunità non violenta dell’Arche di Lanza del Vasto di St. Antoine l’Abbaye, presso Grenoble, abbiamo riflettuto a lungo sulla condizione insopportabilmente dolorosa del popolo siriano. Allorché s’era sollevato per una rivoluzione, nata non violenta, per la democrazia e la dignità, è stato abbandonato dalla comunità internazionale, con poche lodevoli eccezioni. A causa di tale abbandono, la rivoluzione si è trasformata in un massacro perpetrato da un regime criminale sotto gli occhi delle nostre società civili. Queste sono state ridotte alla quasi impotenza a causa d’un gioco di equilibri geopolitici internazionali propriamente vergognoso. Osservando la situazione mediorientale, siamo inoltre afflitti dalle opposizioni, tensioni e conflitti violenti tra musulmani e in particolare tra sunniti e sciiti. Nella coscienza che queste Briciole di Missione - 10 - tensioni dipendono anche da pressioni e interventi dall’esterno collegati agli interessi geostrategici regionali e globali, occorre gridare che la pace nell’islam è essenziale alla pace mondiale, di tutte le religioni e chiese. Al fine di risvegliare le nostre coscienze di cittadini, sarebbe bello che tutti partecipassero a questo digiuno di Ramadan, secondo la salute e la cultura di ciascuno. Durante questo mese benedetto, la preghiera ci unirà a tutti i musulmani per domandare pace e giustizia nel mondo dell’Islam. La pace del mondo ne dipende! Insieme agli amici dell’Arche e a chi vorrà unirsi, in particolare proponiamo la data di sabato 3 agosto per un giorno di digiuno e di preghiera per la riconciliazione nella giustizia in Siria. Sperando che questa iniziativa sia adottata e rilanciata in tutta Europa e oltre, invitiamo ciascuno a invitare il suo o i suoi vicini musulmani per una «cena» di Ramadan. I rifugiati siriani saranno al centro della nostra preoccupazione, assieme alla riconciliazione tra sunniti e sciiti. Nutriamo la speranza che questo gesto, per grazia del Misericordioso, possa aprire la via ad altre azioni efficaci e durevoli. Paolo Dall'Oglio Gesuita del monastero di Deir Mar Musa (Siria) Ci scrivono: don Gigi dal Cameroun Assalaamu aleekum... a waali jam na? Dormito bene? Jam bandu na? La salute va bene? Jam saare na? La famiglia sta bene? ..sono queste le prime domande che dopo il saluto chiunque incontriate lungo la vostra strada vi pone. Ogni incontro è scandito da questa breve litania che può sembrare pura formalità, ma che dice una dimensione profonda delle persone che vivono qui. Innanzitutto il desiderio di inscrivere ogni incontro e ogni discussione all'interno di un clima disteso e amichevole. Anche quando i temi da trattare sono spinosi difficilmente i popoli di queste terre si presentano in aperta conflittualità, tradizionalmente non è un modo educato di fare. Questa modalità di approccio, forse per noi poco pratica (vi immaginate all'ufficio postale o in banca domandare a chi è allo sportello tutte queste cose?) dice che anche tra estranei prima di cominciare a parlare occorre creare una certa sintonia e loro si prendono il tempo di farlo. Nulla di idilliaco, solo un modo diverso di approcciare le cose. La successione delle domande poi dice una scala di valori della società rurale e tradizionale. Interessante è la prima domanda circa la notte trascorsa, infatti, secondo alcuni, non si tratta solo di sapere se il sonno è stato disturbato da qualche inconveniente come il caldo o le zanzare, ma si tratta anche di sapere se il sonno sia stato disturbato da qualche sogno particolare. Il linguaggio dei sogni è un possibile mezzo attraverso il quale gli spiriti degli antenati fanno sapere alla loro progenie se sono in collera con loro. E nonostante l'avanzare della mentalità occidentale in queste terre, vi posso assicurare Briciole di Missione - 11 - che ancora questo legame ancestrale con le loro origini è molto forte, in qualche modo dice ancora la loro identità legata alla loro etnia, al loro clan. Poi abbiamo la domanda sulla salute del corpo. In una società rurale è essenziale essere in buona forma per provvedere a tutte le necessità vitali. Infine la domanda sulla famiglia che può essere completata dalla domanda sui figli (jam bikkon na?). La famiglia allargata sta ad indicare tutto il mondo della persona, non solo il suo nucleo famigliare, ma anche quella fitta rete di relazioni che compone il clan della propria famiglia. Ecco che allora in pochi passaggi si toccano tutti i livelli di esistenza di una persona: il rapporto con gli spiriti (il suo passato) il rapporto con il suo corpo e la sua famiglia (il suo presente individuale e sociale) i suoi figli (il suo futuro). Sono queste le dimensioni che scandiscono la vita delle persone che fanno parte della nostra comunità. Una vita semplice, che ha come prima preoccupazione la sopravvivenza e il benessere della famiglia anche in alcune prospettive per noi oggi, forse impensabili (come per esempio il rapporto con gli spiriti degli antenati). Ed è con la curiosità di entrare in questo mondo che questo mese abbiamo proseguito la nostra visita presso i settori della parrocchia, le zone che raggruppano 3-6 villaggi, per cominciare a conoscere le differenti realtà del nostro territorio. Si va da zone come quella di Barrume piccolo centro che dista pochi kilometri dalla frontiera con la Nigeria e che per tutta la stagione delle piogge è irraggiungibile, al settore di Sanguere Paul uno dei più attivi della nostra parrocchia che è situato poco lontano dalla città di Garoua. Le problematiche sono per certi versi molto lontane dalle realtà pastorali che conosciamo in Italia, ma alcune questioni sono molto simili. Uno dei problemi che recentemente abbiamo discusso con gli altri sacerdoti della nostra zona pastorale (come tutte le diocesi anche l'arcidiocesi di Garoua è divisa in zone pastorali la nostra si chiama Garoua rurale e conta 6 parrocchie) è il problema della Iniziazione Tradizionale presso le tribù dei Masà e di Toupourì. Con il termine Iniziazione tradizionale si intende un'esperienza iniziatica che i giovani maschi appartenenti a queste tribù sono chiamati a vivere per entrare nel mondo adulto. Solitamente vengono prelevati dalle loro case e portati nella foreste durante i mesi della pioggia (dove i campi iniziatici sono pressochè irraggiungibili) e li vengono istruiti attraverso riti e apprendistati ai doveri e ai compiti di un uomo adulto. Non è una pratica molto diffusa, negli ultimi 15 anni solo due volte sono stati fatti i campi per l'iniziazione, questo perché non se ne sentiva più l'esigenza visto il passaggio lento ma inesorabile da una società tribale ad una società nazionale. Il problema è sorto quando le autorità di queste etnie hanno convenuto nel ritenere che l'educazione impartita ai loro giovani dalle scuole fosse troppo blanda. In effetti l'incontro-scontro tra la società tradizionale e lo stato moderno ha prodotto in non poche generazioni di giovani la perdita dei valori tradizionali senza la giusta maturazione dei valori di uno stato moderno quali la democrazia, la giustizia e la parità dei diritti, ecc. Uso il termine Tradizionale e Moderno non come giudizio di valore, ma nel loro significato storico, anche perché molti valori della tradizione sono assolutamente da recuperare. Ad esempio: la centralità della famiglia all'interno della costruzione della società, una diffusa solidarietà all'interno del villaggio o del quartiere, il rispetto e la valorizzazione degli anziani. Sono tutti valori che provengono dalla tradizione tribale e che offrono ospitalità Briciole di Missione - 12 - al messaggio cristiano, dando al Vangelo la possibilità di inculturarsi. Il problema con l'iniziazione tradizionale sorge soprattutto nella procedura che viene usata come percorso educativo e rispetto al tema del sacrificio religioso legato al culto degli antenati. Il prete che ci ha parlato di questa pratica ci ha detto, per esperienza personale, che le pratiche educative mirano ad una sorta di plagio della persona, rischiano di non essere rispettose della coscienza e della libertà del singolo e educano ad una certa disparità tra i sessi e le tribù. Inoltre sembra che in alcuni casi si possa arrivare a pratiche che mettano in pericolo la vita dei giovani che vi partecipano. Naturalmente questo sarebbe contro non solo l'insegnamento evangelico, ma anche contro la legge dello stato del Cameroun, ma siccome coloro che partecipano al percorso iniziatico vengono vincolati dal voto del segreto è difficile che qualcosa venga riferito all'esterno di ciò che capita nei campi stessi. Per le comunità il problema che si pone è di come relazionarsi a coloro che essendo già cristiani accettano di partecipare a questo percorso iniziatico. È complesso poter giudicare le cose, ma l'indicazione di massima che ci è stata data è quella di invitare coloro che hanno vissuto questa pratica a ripetere il percorso del catecumenato. Cambiando argomento, in questi giorni tutti i parrocchiani dei nostri villaggi, con il favore della pioggia, stanno cominciando a lavorare nei campi. Questo significa che il villaggio al mattino verso le 6 si svuota di tutta la forza lavoro (uomini, donne e ragazzi) che raggiungono i campi per coltivarli. Quest'anno la semina prevede arachidi, cotone, miglio e mais. È davvero un'esperienza interessante vedere come la vita di una comunità sia scandita dal ritmo delle stagioni. Ogni tempo assume una sua unicità scandita da un evento particolare legato alla terra, vivere qui ti da un idea più concreta di come poteva essere la vita di Israele e del perché di certe feste riportate nella Bibbia. Inoltre restituisce alcune sensazioni che nelle nostre civiltà urbane abbiamo perso, una fra tutte la trepidante attesa del raccolto. Dal raccolto dipende la possibilità di un anno sereno o problematico. Anche i ragazzi più grandi, quelli che frequentano le superiori, si ingegnano a cercare dei piccoli campi di un ettaro circa per guadagnarsi il necessario per pagare la scuola e tutto ciò che è necessario agli studi. Con la stagione delle piogge anche l'anno scolastico volge al termine giovedì 30 maggio abbiamo fatto la festa per la conclusione del corso di formazione per le ragazze dei villaggi. Come vi avevo già accennato è un corso per quelle ragazze che non hanno frequentato la scuola dell'obbligo, e sono tante, durante il quale fanno corsi di alfabetizzazione e di economia domestica compreso il taglio e cucito. È un corso di tre anni al termine del quale viene rilasciato un attestato di frequenza con la valutazione da parte dei formatori. Durante la festa per quelli del terzo anno c'è stata la consegna degli attestati. Per l'occasione tutte le ragazze hanno indossato la divisa della scuola realizzata da loro nel corso degli ultimi mesi. Poi la festa è continuata con i saluti di rito, la premiazione delle gare sportive effettuate in questo ultimo mese e uno spettacolo di danza realizzato dalle ragazze stesse. Ad assistere c'erano gran parte delle loro famiglie e dei loro amici tutto si è concluso verso le 12.30 con il momento del pranzo. E' stata un occasione per richiamare l'importanza della formazione di queste ragazze e di altre come loro, che avranno la possibilità di dare il loro contributo per la crescita di tutta la società. Briciole di Missione - 13 - Prima di chiudere vorrei ringraziare tutti coloro che in vario modo mi fanno sentire la loro vicinanza: grazie a voi tutti, fa sempre piacere ricevere notizie da un amico/a. Vi accompagno sempre nella preghiera anche e soprattutto in questo periodo di rinnovamento anche per la nostra Chiesa di Milano. Allah hokke jam don Gigi padre Rocky dal Ciad Grazie Anna qui stiamo bene. Ora siamo impegnati per la nostra parrocchia lavora appositamente per la preparazione di nuove liste dei nostri pre-catucumenes e catecumenes. Quest'anno abbiamo quasi 100 nuovi pre-catecumenes. Grazie per la vostra piccola briciola per le nostre opere missionarie. Sì p. Rinaldo è sempre nel mio cuore io non lo dimenticherà mai come lui è il mio angelo Gurdian per la mia vita. Per favore, pregate per la nostra missione in Ciad. I miei migliori auguri e preghiere per voi tutti i membri del gruppo missionario di Macherio. padre Giacomo Gobbi - Regionale Saveriani-Bangladesh Carissimi, buongiorno e grazie del vostro ricordo e della vostra generosità. Il ricordo di P. Rinaldo Nava ci lega spiritualmente e ci dona la gioia di continuarne la missione. Il giorno 4 di luglio ci uniremo anche noi alle vostre preghiere. Quello che generosamente ci avete mandato sarà certamente usato per studenti che si stanno preparando alla vita missionaria. Il fatto sorprendente è che dopo il P. Rocky Gomes, figlio spirituale di P. Rinaldo, e che lavora già in Camerun-Chad, un altro giovane -già alla fine degli studi teologici- ha chiesto di unirsi a noi... proprio perchè nel 2001 aveva iniziato con P. Rinaldo questo discorso, nella settimana in cui il Padre ci ha lasciati. Ringraziamo per questo il Signore. Come sapete già in questi giorni mi trovo a Tavernerio insieme al P. Lorenzo Valoti per il nostro Capitolo Generale. Pregate per noi. Avendo liberi il sabato pomeriggio e la domenica... chissà che non ci si possa vedere! Per ora vi saluto, vi ringrazio di nuovo e vi assicuro della nostra preghiera. P. Giacomo Gobbi Regionale Saveriani-Bangladesh BANGLADESH, QUANDO I MORTI SONO COMPRESI NEL PREZZO La strage di Dacca del 24 aprile - 1.127 operai morti sul lavoro - non è stata una fatalità, ma lo specchio di un modello di sviluppo distorto che attraversa l’Asia e interpella anche investitori e consumatori europei. Pubblichiamo una parte del servizio che esce sul numero di giugno-luglio di Popoli Reshma è una giovane operaia estratta viva dopo 17 giorni dalle macerie del palazzo crol- lato a Savar, periferia di Dacca. Sono 1.127 i morti accertati nei laboratori inseriti negli otto piani del Rana Plaza che si è sgretolato il 24 aprile scorso: un solo crollo ha causato più del triplo delle vittime del terremoto dell’Aquila nel 2009. E poi ci sono circa 1.600 feriti, in quello che forse è il più grave disastro industriale avvenuto in Asia dopo Bhopal. Quante persone lavoravano alla New Wave Style, alla Phantom Apparels, alla Phantom Tac o Briciole di Missione - 14 - in qualche altro «fantasma» della produzione di abbigliamento? Forse tremila, ma di preciso non si saprà mai. Il proprietario del palazzo, Mohammed Sohel Rana, è stato arrestato alcuni giorni dopo la tragedia al confine con l’India, mentre cercava di fuggire. Il 23 aprile aveva fatto controllare l’edificio perché mostrava segni di cedimento. Notizie sui pericoli che correva la struttura erano apparse anche sulla stampa locale e, secondo l’agenzia Ap, la polizia aveva ordinato di evacuare l’edificio, ma il proprietario avrebbe comunque convinto la gente a raggiungere il posto di lavoro. Rana, di cui adesso molti in Bangladesh chiedono la condanna a morte, è un giovane imprenditore rampante con i giusti contatti nella Awami League, il partito di governo. Avrebbe avuto le autorizzazioni per prosciugare uno stagno e costruire l’edificio che, invece di fermarsi ai cinque piani previsti nel progetto, è arrivato a otto. E su quella struttura, già inadeguata, sono stati inseriti i laboratori con i macchinari, dove lavoravano migliaia di operaie. di 112 cadaveri. Racconta di Rukiya Begum, che aveva la figlia diciannovenne al quarto piano e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Perciò Rukiya non ha potuto ricevere i circa cinquemila euro offerti da governo, imprenditori di categoria e alcune aziende straniere come indennizzo. «Ho provato a chiedere un certificato di morte - racconta Rukiya -, ma mi hanno detto: “Dov’è il corpo?”. Ho paura che sia stata ridotta in cenere». Lovely, invece, nel 2006 è sopravvissuta a un incendio a Chittagong (seconda città del Paese) che fece 63 vittime. Ha raccontato la sua storia in un rapporto di International Labor Rights Forum. Aveva undici anni ed era stata appena assunta da un’impresa, la Kts Textile Factory, che permetteva a operaie bambine di impacchettare calzini. Al secondo piano del palazzo dove ha lavorato per soli 23 giorni non ha potuto fuggire rapidamente dalle porte, appositamente bloccate per tenere meglio a bada le ragazzine, e oggi, con ustioni sul viso e alle mani, non può più lavorare. Non ha avuto risarcimenti. UNA SERIE DI INCENDI Una lista di crolli e, soprattutto, incendi accompagna la crescita industriale che in Bangladesh è sinonimo di tessile e abbigliamento. Il 9 maggio, mentre ancora si scavava tra le macerie del Rana Plaza, sette persone sono morte nell’incendio in un’altra fabbrica di Dacca. Lo scorso 24 novembre era bruciata la sede della Tazreen Fashion di Ashulia, altro sobborgo della capitale. Subito dopo l’innesco dell’allarme, i caporeparto avevano intimato a centinaia di operaie di restare al proprio posto e continuare a confezionare magliette, jeans e pantaloncini per clienti come Walmart e Sears. James Pogue, un giornalista che ha visitato Ashulia, riferisce che il numero esatto di corpi recuperati è uno dei tanti misteri che circondano la vicenda, sebbene la stampa abbia parlato IL BOOM DELL’ABBIGLIAMENTO Il Bangladesh è diventato in pochi anni il secondo esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Con un giro di affari di circa 20 miliardi di dollari, questa è l’unica vera industria del Paese e rappresenta l’80% delle esportazioni. Unione europea, Usa e Giappone sono i principali destinatari del Made in Bangladesh. Agli attuali tassi di crescita potrebbe diventare il primo produttore mondiale ed è in forte competizione con India e Pakistan. Il settore occupa quasi 5 dei 150 milioni di bangladesi (per l’80% donne). In un Paese sovraffollato, particolarmente soggetto a inondazioni e con difficili approvvigionamenti di energia, è frequente il ricorso a fabbriche verticali con linee di produzione congestionate, cortocircuiti elettrici, materiali infiammabili, estintori non Briciole di Missione - 15 - funzionanti, scale di sicurezza bloccate da pile di indumenti, uscite sbarrate, lavoratrici intrappolate che muoiono asfissiate, bruciate o che si lanciano nel vuoto. L’enormità della tragedia di aprile, tuttavia, ha avuto un impatto fortissimo: per giorni ci sono stati cortei e proteste con la sospensione della produzione. Dopo un braccio di ferro tra lavoratori e imprenditori, il 15 maggio è stata annunciata la chiusura di duecento aziende, in risposta ai continui scioperi per chiedere più sicurezza e aumenti di retribuzione. Il salario minimo mensile è di soli 3.000 taka (meno di 30 euro). Un rapporto dell’Istituto per l’alimentazione dell’Università di Dacca nel 2010 spiegava che una lavoratrice nel settore dell’abbigliamento avrebbe bisogno di 3.400 calorie per svolgere dieci ore di lavoro al giorno. Per comprare alimenti adeguati a tale fabbisogno, spende circa 2.350 taka al mese (e ne servirebbero 11mila per mantenere una famiglia media). Tali salari, tra i più bassi del mondo, attirano investimenti e il boom della produzione ha spinto a convertire edifici sorti per altri scopi in fabbriche dove migliaia di operaie, giorno e notte, rispondono alle richieste di produzione dei grandi marchi, soprattutto occidentali. Le catene fast fashion come Gap e H&M esigono processi produttivi rapidi: gli ordini richiedono di subappaltare a diversi produttori attraverso catene di produzione articolate e poco trasparenti. Se occorre, i datori di lavoro assumono personale in più per rispondere rapidamente alle richieste e la manodopera in Bangladesh non manca. La spagnola Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear tra i suoi marchi) riesce in due settimane a ideare un nuovo capo, produrlo e venderlo in 4.600 negozi nel mondo. I 122 morti nell’incendio di Ashulia in novembre facevano straordinari per rispondere alla sovrapproduzione prenatalizia richiesta nei Paesi occidentali. ABITI PULITI Anche nelle fabbriche crollate a Savar si rifornivano aziende multinazionali (Mango, Bon Marche e altre) che hanno iniziato ad ammettere il loro coinvolgimento. L’angloirlandese Primark ha emesso un comunicato in cui riconosce le proprie responsabilità. Dopo che fotografi dell’agenzia Afp hanno scattato immagini di etichette United Colors of Benetton tra le macerie, anche l’azienda italiana è finita sotto i riflettori. La Campagna Abiti puliti (www.abitipuliti.org) è entrata in possesso di una copia di un ordine di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave Bottoms. L’azienda prima ha negato, poi ammesso (il 29 aprile) di avere fornitori nell’edificio. «Ma Benetton non è l’unica - spiega a Popoli Deborah Lucchetti, coordinatrice per l’Italia della Campagna -. Ci sono altre aziende del nostro Paese, in particolare Yes Zee, del marchio Essenza. Mentre la Pellegrini era stata cliente di una delle aziende, ma solo in passato. Stiamo cercando di entrare in contatto con Manifattura Corona, le verifiche sono ancora in corso». Ma quali sono le principali aziende italiane che acquistano in Bangladesh? «Le filiere produttive non sono trasparenti, nessuno dichiara i propri fornitori come noi chiediamo da anni - aggiunge Lucchetti -. In alcuni casi emergono i coinvolgimenti, come quello di Piazza Italia nel caso dell’incendio della Tazreen a novembre». Il 15 maggio anche il gruppo Benetton ha sottoscritto il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, come richiesto dalla Campagna, che intanto ha raccolto più di un milione di firme. L’Accordo sugli incendi e la sicurezza negli impianti è un programma specifico di azione che comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti e revisione strutturale delle norme di sicurezza. La novità sostanzia- Briciole di Missione - 16 - le è l’obbligo per le marche e i rivenditori di coprire i costi degli interventi e interrompere gli affari con qualsiasi fabbrica rifiuti di fare gli interventi necessari per la sicurezza. E, soprattutto, le imprese accettano di pagare per la manutenzione necessaria delle fabbriche in Bangladesh. Le pressioni dell’opinione pubblica si fanno sentire e il numero di aziende aderenti è cresciuto in pochi giorni: dalla svedese H&M alla spagnola Inditex, ma anche l’americana Pvh (marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger), le britanniche Mark&Spencer e Tesco e la tedesca Tchibo. Resta fuori dall’Accordo, voluto anche da confederazioni sindacali bangladesi e internazionali, un gigante della grande distribuzione come Walmart (la più grande multinazionale del mondo). Sembrerebbe una svolta significativa, dato che in questi anni le imprese non avevano aderito a protocolli vincolanti, limitandosi a emettere codici di condotta (uno di Walmart in dodici punti risale a vent’anni fa), ma senza veri risultati. Sistemi di certificazione come SA8000, che esiste dal 1997, sono spesso inefficaci: gli imprenditori locali sanno in anticipo quando arrivano gli ispettori, istruiscono gli operai su che cosa dire, falsificano i registri. Con la corruzione si pagano costruttori e ispettori. Dopo il crollo della Spectrum a Dacca nel 2005 (Popoli, n. 1/2007), non ci sono stati passi avanti nella legislazione interna in Bangladesh, come conferma Lucchetti: «L’unico elemento degno di nota è stato l’aumento del salario minimo, che resta comunque sotto la soglia del salario vivibile». «Vivere con 38 dollari al mese: il salario delle persone che sono morte… questo si chiama “lavoro schiavo”», ha denunciato papa Francesco lo scorso 1º maggio. Il direttore della Caritas del Bangladesh che è impegnata nell’assistenza alle famiglie colpite (dalla distribuzione di medicine al sostegno psicologico), ha dichiarato ad AsiaNews che la responsabilità è di tutti: governi, industrie, clienti. «Credo che tutti - incalza - dovremmo chiederci perché una maglietta prodotta in Bangladesh costa 20 euro, mentre se viene prodotta in Europa costa 80 euro». Le grandi marche internazionali non possono nascondersi dietro i fornitori locali o giustificare condizioni di lavoro schiavistico con il fatto che si crea occupazione. Se non vogliono essere indifferenti ai danni di immagine, oppure abbandonare il Bangladesh per luoghi dove i rischi di simili incidenti sono minori (danneggiando il Bangladesh), la tragedia di Savar può segnare una svolta. Francesco Pistocchini MA CHE COSA NON FUNZIONA PIÙ IN BRASILE? Più che i poveri delle favelas in piazza c'è la classe media. Quella che comunque non avverte benefici dalla globalizzazione Le proteste in corso in Brasile hanno colto di sorpresa l'opinione pubblica mondiale. Non ci si aspettava tanto malcontento in una delle economie più floride e promettenti del mondo, spesso citata come modello da imitare per la sua capacità di coniugare apertura al mercato e politiche di inclusione sociale. Non ci si aspettava tanta insoddisfazione in un Paese che negli ultimi anni si è andato progressivamente affermando come superpotenza regionale e che aspira chiaramente a diventare uno degli attori principali del mondo multipolare postguerra fredda, con i mondiali di calcio del 2014 e le olimpiadi del 2016 come eventi destinati a consolidarne immagine e prestigio internazionale. L'ondata di manifestazioni semi-spontanee av- Briciole di Missione - 17 - venute a San Paolo, Rio de Janeiro, Brasilia, Recife e in altre città mette in evidenzia che c'è qualcosa che non va dietro l'immagine patinata del Brasile come Paese dallo sviluppo travolgente. C'è un malessere sociale che cova sotto gli straordinari indici macroeconomici fatti registrare nell'ultimo decennio; un malessere che gli indicatori non possono o non vogliono rilevare, perché si possa continuare a sognare e a fare business senza preoccupazioni. Ma che cosa non va nello specifico? Come molti commentatori hanno rilevato, in piazza non c'erano, se non in piccola parte, i veri poveri del Brasile. Non c'erano contadini senza terra, indigeni, minatori o abitanti delle favelas. Le strade delle grandi città brasiliane sono state invase soprattutto da persone di classe media, in linea di massima giovani con un certo potere d'acquisto e un certo grado di istruzione. Questo significa che il malcontento esploso nelle scorse settimane riguarda soprattutto la classe media urbana e il modo in cui percepisce che sta venendo ripartita o spesa la grande ricchezza prodotta dal Paese nell'ultimo decennio, prima con Lula e ora con Dilma Roussef. Questo settore della società sente che il modello di sviluppo abbracciato dal Brasile - il modello neoliberale, temperato da una serie di programmi sociali - non sta portando benefici per la classe media. Al contrario, la sta mettendo in difficoltà. In controtendenza rispetto alla vulgata "privatizzatrice" diffusa dalle elite economiche, i manifestanti chiedono più politiche pubbliche, più Stato. Vogliono una scuola pubblica di qualità, un sistema sanitario pubblico dignitoso, trasporti pubblici a prezzi accessibili e via dicendo. Contestano un modello di sviluppo dove il compito della politica e dello Stato si riduce a stendere un tappeto rosso perché possano affluire gli investimenti internazionali e a garantirli col diritto e - nel caso - con la forza; discutono il fatto che, sempre per attrarre nuovi investimenti, si pubblicizzi l' immagine-Paese attraverso costosissimi eventi di richiamo mondiale, come i mondiali di calcio o le olimpiadi, dimenticandosi dei milioni di persone che sono in difficoltà nell'immediato. Quanto sta accadendo in Brasile per certi versi può essere messo in parallelo con quanto ormai da anni succede in Cile con l'imponente movimento studentesco che - forte dell'appoggio trasversale di buona parte della società - si batte per ottenere un'istruzione e in particolare un'università pubblica di qualità finanziata al 100 per cento dallo Stato. Anche in Cile, Paese ferramente neoliberale, è forte la domanda di una migliore distribuzione dei proventi dello sviluppo prodottosi negli ultimi anni per la via del mercato; e l'educazione è il settore in cui questa domanda si concentra con maggior forza. Gli studenti cileni si oppongono a un sistema educativo che mette la libertà d'impresa prima del diritto allo studio e obbliga chi vuole studiare a indebitarsi pesantemente o a "emigrare" in un Paese vicino come l'Argentina, dove c'è un sistema educativo pubblico gratuito fino all'università e dove i corsi post-laurea hanno prezzi decisamente più accessibili che in Cile. A emergere dunque - tanto in Brasile come in Cile - è che c'è un settore della società che guarda con sempre maggiore sfiducia al mo- Briciole di Missione - 18 - dello di sviluppo neoliberale e al processo di globalizzazione che vengono propagandati da quotidiani e tv mainstream nazionali e internazionali come motore di rapido sviluppo e progresso. Anni di esperienza quotidiana dicono che un eccesso di mercato e di privato nell'economia riduce i diritti delle persone, fa aumentare i prezzi, crea senso di insicurezza e impotenza, produce agitazione più che armonia, conduce a un progressivo smantellamento delle tutele sociali, impone una competitività spesso eccessiva, mette a rischio la natura, quantifica e dà un prezzo ad ogni cosa, abbassa il livello culturale medio, il tutto fondamentalmente solo perché un circolo ristretto di individui e gruppi economici possa continuare aumentare la propria già enorme ricchezza. Le proteste non mettono in discussione la democrazia o il diritto alla libertà d'impresa. In discussione, seppur confusamente, è un'idea di uomo al servizio dell'economia che si è venuta imponendo un po' in tutto il mondo negli ultimi decenni. Ad essere messa sul banco degli imputati è l'idea che lo sviluppo e la dignità dei molti debba venire dalle briciole che cadono dalla tavola dei pochi che concentrano la ricchezza. In uno scenario come questo la politica e lo Stato, messi al servizio della società civile e non dei "poteri forti", vengono sentiti come l'unico mezzo per riequilibrare le cose. È per questo che in controtendenza rispetto alla retorica liberale che chiede "meno Stato", settori sempre più ampi della popolazione chiedono "più Stato"; chiedono servizi pubblici di qualità, scuola, sanità, pensioni, diritti, opportunità. La retorica della necessità di applicare una cura dimagrante allo Stato, sulla base dell'argomento che il pubblico costituisce un freno per lo sviluppo, proviene da ben precise elite economiche private sovranazionali che hanno anche precisi interessi. Ad esempio gli studi sulla globalizzazione della sociologa statunitense Saskia Sassen, recente vincitrice in Spagna del prestigioso premio Príncipe de Asturias, lo mostrano chiaramente, sostenendo che uno sviluppo fondato sugli investimenti stranieri e sui mercati globali alla fine svuota gli Stati. Uno scenario che risulta illuminante per spiegare in profondità fenomeni come le proteste del Brasile, il movimento studentesco cileno o, in tutt'altra parte del mondo, le manifestazioni di Istanbul. di Alessandro Armato Macherio, 4 luglio 2013 S. Messa per i Missionari defunti macheriesi Briciole di Missione - 19 - Il GRUPPO MISSIONARIO ringrazia ognuno di voi e vi augura BUONE VACANZE!!! Vi aspettiamo con il nostro banchetto e con un nuovo numero di Briciole di Missione Domenica 8 Settembre 2013 sul piazzale della Chiesa dalle ore 7.30 alle 12.30 PREGHIERA O Gesù, che hai detto: «Dove due o più sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro», visitaci con la tua Presenza in questi giorni di intensa preghiera. Aiutaci a riscoprire nella vita comune il luogo del perdono e della festa, per essere sempre “un cuor solo e un’anima sola”. Donaci il coraggio e l’umiltà di perdonare sempre, di andare incontro a chi si vorrebbe allontanare da noi, di mettere in risalto il molto che ci unisce e il poco che ci divide. Fa’ che la nostra Comunità Pastorale sia una famiglia, dove ognuno si sforza di comprendere, perdonare, aiutare, condividere; dove l’unica legge che ci lega e ci fa essere discepoli sia l’amore reciproco. Amen. Briciole di Missione - 20 -