saggio introduttivo di Umberto Vincenti

Transcript

saggio introduttivo di Umberto Vincenti
Il sogno di un’Italia onesta
di Umberto Vincenti
Una Repubblica senza spirito pubblico
Di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti Alexis de Tocqueville pubblica nel 1835 il suo capolavoro, La democrazia in
America. Tocqueville, un aristocratico che esercitava la professione di giudice presso il tribunale di Versailles, era stato
incaricato dal ministro della giustizia francese di studiare il
sistema penitenziario statunitense. Ma egli finisce quasi con
il dimenticare lo scopo di questa missione perché rimane
colpito dalla Costituzione repubblicana del nuovo, vasto Stato federale. La sua indagine lo porta ad investire l’essenza
stessa della forma repubblicana di governo: un’indagine che
diviene un modello insuperato di analisi di ciò che è (o non
è) conforme a una repubblica bene ordinata e, in più punti,
essa assume tono profetico, di lettura del futuro, di quel che
potrà accadere. Una repubblica, ci spiega Tocqueville, non
può prosperare e nemmeno sopravvivere senza quella disposizione, mentale ed etica, che egli chiama «spirito pubblico»: il saper coordinare l’interesse privato e individuale
con l’interesse collettivo o generale, il rifiuto di anteporre,
in ogni caso di conflitto, il primo al secondo, al contrario la
disponibilità a sacrificare, se necessario, l’interesse proprio
al bene comune, la comprensione, in definitiva, che è esatto
il calcolo che dà come risultato il benessere dei singoli solo
attraverso il progressivo e proporzionale aumento del benessere dei cittadini nel loro complesso, nonché delle risorse
7
e dell’efficienza dello Stato. Questo spirito pubblico suppone una certa dose di patriottismo, l’orgoglio di far parte di
una comunità, l’impegno ad agire per il suo prestigio e il suo
progresso. Ma lo spirito pubblico, ammoniva Tocqueville, va
curato quotidianamente perché vi è il pericolo che esso si
corrompa e si inaridisca: se ciò si verifica, i cittadini smettono di avvertire la repubblica come una cosa che è anche loro,
di ciascuno come di tutti, e diventano egoisti, in mezzo «alla
confusione e alle miserie».
In Italia questo è accaduto, la progressiva caduta dello
spirito pubblico, una caduta che ci ha fatto molto male, anche se non abbiamo mai brillato per coscienza collettiva a
causa della fragilità originaria, mai veramente irrobustita,
della nostra unità nazionale. Dopo la seconda guerra mondiale è stato costante il processo di compromissione della
dimensione comunitaria che pur ci sembrava reintegrata e
restituita come mai prima di allora proprio dalla forma repubblicana che gli Italiani avevano liberamente voluto. Per
decenni siamo stati ostili all’idea e al sentimento della patria
(che solo da poco stiamo cercando faticosamente di ricostruire, più che altro per reazione ai proclami secessionisti);
ci siamo affidati a partiti e a corporazioni miserabili perché
capaci di coltivare solo prospettive di potere o interessi particolari o particolarissimi; siamo stati abituati ad avvertire la
Repubblica come altro da noi e a curare soprattutto (o sempre) le nostre posizioni individuali, pronti a rivendicare, ad
inventarci nuovi diritti verso lo Stato e a trascurare o a raggirare i nostri doveri. E la Repubblica e le istituzioni in genere
non sono state da meno, troppe condotte disdicevoli o manifestamente illecite, troppe finzioni e formalismi burocratici
messi in campo per occultare l’abbandono della dedizione
alle finalità pubbliche o, spesso, la loro strumentalizzazione
all’appagamento di interessi inconfessabili.
8
Ripartire «da quadri famosi della storia dell’arte»
Nel giugno del 2012 il premio Pulitzer Steven Pearlstein
pubblicava sul Washington Post un lungo articolo dove indicava le ragioni per cui l’Italia non avrebbe potuto veramente
superare la crisi economica in cui versa senza un’autentica
rivoluzione culturale: «Italy’s culture threatens its economic
future» titolava appunto Pearlstein. Un senso civico scarsamente diffuso in luogo del quale starebbe un familismo
alquanto amorale; un’elite imprenditoriale (e intellettuale)
cinicamente apatica perché non disposta all’impegno per
la tutela dell’interesse generale; l’aspettativa comune nella
gente che il prossimo non sia leale e onesto; lo strapotere di
corporazioni e di organismi dell’autogoverno professionale;
un ceto politico troppo spesso corruttibile; questi sono alcuni degli elementi che indurrebbero a valutare l’Italia in grave
deficit di spirito pubblico. Nel contesto ora descritto Pearlstein considera il sistema giudiziario italiano che a lui pare
più uno strumento di controllo sociale che una sorgente di
giustizia, uno strumento macchinoso e lento, il cui potere
può agevolmente lievitare a causa della complessità e delle
radicate contraddizioni della legislazione italiana.
È curioso che dall’America ci accusino di non avere una
cultura istituzionale adeguata alla Repubblica che siamo
quando proprio gli Americani si sono appropriati della nostra cultura che certamente noi abbiamo quasi dimenticato.
È nota l’ammirazione di Washington e dei «padri fondatori»
verso la costituzione repubblicana di Roma antica e verso
gli statuti repubblicani dei liberi comuni medievali dell’Italia
centro-settentrionale: un’ammirazione che ha influenzato in
profondità il modo di essere delle strutture istituzionali statunitensi e imposto addirittura la nomenclatura dei luoghi
del potere pubblico (come Senato e Campidoglio). Nelle università americane il pensiero giuspolitico italiano è tuttora
studiato con grande interesse e dalle opere di italiani come
Marsilio da Padova o Machiavelli si traggono, a un tempo,
9
suggestioni e indicazioni per costruire nuove forme di partecipazione democratica e per rendere più penetranti i sistemi
di controllo dei pubblici poteri. In molti discorsi il Presidente Obama ha ricordato lo stretto legame esistente sul piano
istituzionale tra presente e passato degli USA, la vitalità del
pensiero politico dei «padri fondatori» e, indirettamente,
dei modelli a cui essi si ispiravano, le istituzioni e le virtù repubblicane di Roma antica e la pubblicistica dell’Umanesimo
e del Rinascimento italiani. E solo qualche anno fa la città di
Cincinnati, in Ohio, collocava, all’interno del parco pubblico,
una statua del dittatore romano del 458 a.C., Lucio Quinzio
Cincinnato, colto nel gesto memorabile di restituire i fasci
con le scuri (cioè il potere supremo) e contestualmente di
prendere, con l’altra mano, l’aratro per ritornare, salvata la
patria minacciata dagli Equi, a vita privata. Proprio come farà
il Presidente Washington che, in un memorabile discorso di
commiato, rinuncerà spontaneamente al terzo mandato che
certamente avrebbe ottenuto: perché, egli si giustificava,
non è conforme a una repubblica che un uomo permanga
troppo a lungo al potere. Un precedente era così instaurato
e gli Americani vi si attengono anche oggi.
Anche da questo, non irrilevante, punto di vista nella Repubblica italiana le cose vanno diversamente: la Costituzione del 1948, troppo facilmente mitizzata ma alquanto imperfetta, non ha posto alcun argine al desiderio di potere
degli uomini pubblici e nemmeno ha vietato di rieleggere
(per la seconda o terza o … ulteriore volta) un Presidente
della Repubblica che pur dura in carica (ben) sette anni.
Ma ciò è solo un esempio delle carenze normative dei nostri assetti istituzionali di base che rendono la nostra Costituzione, anche quella vivente, meno repubblicana di quel
che dovrebbe essere. Più di tutto conta che nella nostra
Repubblica sia scarsamente diffusa, presso il ceto politico e
gli stessi cittadini, una cultura civica repubblicana, quel civic
republicanism a cui ci richiamano i politologi anglosassoni.
Ci siamo dimenticati che questa cultura l’abbiamo creata in
10
buona parte proprio qui in Italia; e ci siamo dimenticati che
esiste, magnifica, in molte nostre città, tutta un’iconografia
pubblica che sta lì a renderci visibili i tratti istituzionali di una
repubblica bene ordinata.
Nelle Lezioni americane uno dei nostri migliori scrittori
del secolo scorso, Italo Calvino, ci invita ad immaginare quel
che potrebbe essere, anche sul piano istituzionale, «partendo da quadri famosi della storia dell’arte». Allora andiamo
agli Scrovegni a Padova, ad ammirare lo zoccolo a specchiature marmoree dove Giotto ha rappresentato, l’una di fronte all’altra, le sequenze delle Virtù e dei Vizi. O andiamo al
Palazzo Pubblico a Siena e “leggiamo” il ciclo di Ambrogio
Lorenzetti del Buon e del Cattivo Governo e degli effetti del
primo come del secondo. A Padova e analogamente a Siena emerge con assoluta evidenza visiva la centralità della
Giustizia: essa è la condizione prima per l’inverarsi di una
repubblica bene ordinata e per questo postula indefettibilmente di essere affidata a uomini retti e ad apparati amministrativi efficienti. Se in una comunità regna veramente la
regina di tutte le Virtù, la Giustizia, vi saranno ordine, pace
sociale, sicurezza e prosperità economica. A Siena Lorenzetti
fa scendere dai piatti della bilancia della Giustizia personificata un doppio filo che si riunisce nelle mani della Concordia, anch’essa personificata in una giovane donna posta immediatamente sotto la Giustizia a simboleggiare la relazione
di consequenzialità tra le due Virtù: un filo che poi corre, da
mano a mano, tra i cittadini da esso uniti (cum corde) e finisce legato al polso del Gran Vecchio, troneggiante sopra una
lupa e due bimbetti (il modello di Roma antica), che rappresenta la Repubblica senese. Sia a Padova che a Siena la Giustizia, se premia i buoni, punisce severamente i malfattori:
è una Giustizia essenzialmente retributiva e la Sicurezza, ci
mostra l’affresco di Lorenzetti, non può realizzarsi in alcuna
comunità politica se il diritto sia spuntato perché incline al
perdono, con ciò rinunciando alla sua essenziale componente sanzionatoria.
11