Fuoco. Giorno 4403. In questi anni di cenere e nebbia, ricordare è
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Fuoco. Giorno 4403. In questi anni di cenere e nebbia, ricordare è
Fuoco. Giorno 4403. In questi anni di cenere e nebbia, ricordare è necessario. Sono scomparse le strade, le case, i palazzi. Sono bruciati gli ospedali e le macchine sono scoppiate all’improvviso. Gli alberi sono diventati rossi e le montagne hanno cominciato a sanguinare. Questo è accaduto anni ed anni fa. Ma son bruciati anche i calendari, e con essi i giorni e i mesi sono diventati tutti uguali come una macchia di inchiostro. Oggi l’unico scandire del tempo è la noia. Gli anni corrono così frenetici che non si identificano e i giorni scorrono tanto lenti che muoiono con noi. Abbiamo perso tutto. Il giorno in cui tutto bruciò io ero lì per ammirare. Avevo diciassette anni e non avevo ancora imparato, non avevo ancora letto, non avevo ancora visto abbastanza. I miei genitori stavano cenando e io guardavo la televisione stesa sul divano di casa quando un caldo asfissiante cominciò a farci sudare. Era il quindici di Novembre. Aprimmo le finestre, accendemmo i condizionatori e preparammo pezze bagnate per asciugarci il sudore dalla fronte. Il caldo non cessava, non sembrava neanche più provenire dall’esterno, sembrava essere parte integrante della realtà da sempre e per sempre. Un caldo persistente e appiccicoso che lasciava uscire dalla mente tutto il resto. Faceva dimenticare le altre necessità e richiamava l’attenzione solo su di sé. Mio padre cominciò a chiedersi se fossero i nostri corpi ad avere caldo, indipendentemente dalla temperatura esterna. Se fosse un problema nostro, disse, potremmo avere la febbre. Così cominciammo a misurarci la temperatura ma era tutto normalissimo. Papà cominciò a camminare avanti e indietro per la casa, agitato. Sudava e ricordo ancora la faccia rossa e la maglietta sudata. 1 Avrebbe potuto effettivamente essere un problema nostro. Avrebbe potuto ucciderci tutto quel caldo. Furono due ore di preoccupazioni, in cui in silenzio ci avviammo al terrore più comune: la paura di morire. Ma bastò che quelle due ore passassero perché il terrore vero si facesse strada tutt’intorno a noi, fuori dalle finestre spalancate in quella notte di Novembre. Notai che le montagne all’orizzonte avevano un bagliore differente. Non erano le luminarie delle città lontane, né la luce della Luna. Il Fuoco stava scorrendo per tutte le montagne, e si allargava a perdita d’occhio. Un incendio mostruoso si presentava agli occhi miei e dei miei genitori e sembrò uno spettacolo impossibile, al quale per credere avremmo dovuto bruciare. Arrivarono aerei all’orizzonte con taniche d’acqua enormi, per sopprimere il Fuoco. Ma nulla sembrava arrestarlo, anzi tutto ciò che entrava in contatto con quel mostro sembrava entrare a farne parte. Divampava il Fuoco e cominciò a scendere dalle montagne, come un esercito punitore che si scaglia sulle città nemiche. Razziò città, palazzi e strade. Inarrestabile, uccise donne e bambini, e gli uomini che lo combatterono morirono nel provarci. Ricordo la schiena di mio padre correre fuori casa per aiutare un uomo che bruciava in una macchina. Quando l’auto scoppiò non il cielo pianse, ma i nostri occhi. Quella pioggia avrebbe asciugato la terra. Tutto il Mondo bruciava. Bruciava e gridava, e tutta l’acqua non serviva a dissetare il Fuoco che uccideva senza riguardo. Non passò tanto tempo prima che il Mondo si arrendesse. Le risorse stavano finendo e le persone morivano come mosche. Non era più possibile combattere contro la Natura. Il Fuoco era sempre vivente, noi morivamo per nulla. Non so quanto esattamente passò prima che tutti gli incendi si spegnessero. Ma si spensero, lasciando solo una coltre di fumo e cenere come paesaggio. Le montagne ora sono nere e il cielo è una distesa di nuvole grigie ovunque si vada. L’acqua è sporca e poca, e le sorgenti sono difficili da trovare. L’erba è secca e giallastra da anni. I fiori nascono appassiti. 2 Eppure nulla vuole decidersi a morire. La Natura si trascina in un ultimo indignitoso canto di morte che non vuole finire. E’ un canto rivolto al vuoto più nero di un Fuoco che ha ucciso tutta la bellezza in una sola fiammata. Il Fuoco ha lasciato indietro pochissimi di noi. Io ero una di quelle persone. Sono una sopravvissuta. Giorno 4404. Siamo organizzati in villaggi. Non abbiamo nome, nessun villaggio dipende da un altro e non ci sono leggi. Ogni villaggio però ha una specie di gerarchia interna che permette essenzialmente che si possa avere cibo a sufficienza, che ci siano persone che proteggono il villaggio e persone che lavorano per mantenere tutti vivi. Nonostante la cenere, il dolore e il grigio di questi anni, ci sono anche bambini. Nascono ancora bambini, anche se sempre meno e molti muoiono, distrutti da malattie respiratorie. Muoiono prima di potersi ricordare di loro stessi, e di poter vedere davvero in che posto sono nati. Però alcuni sopravvivono. Non ci è rimasto nulla dei vecchi ospedali, e abbiamo poca memoria delle conoscenze che avevamo. Ma ci sono donne che aiutano le altre a partorire, anziani uomini che Prima furono medici che tramandano ai giovani ciò che sanno. Tutti provano a mantenere viva la speranza che vivere sia ancora possibile. Tutti hanno un compito. Io nel mio villaggio ho un compito delicato: io ricordo ciò che era Prima. Racconto ciò che ricordo e parlo il più possibile di ciò che so. Ero giovane quando il Fuoco divampò, è vero, ma coloro i quali erano più anziani di me preferivano dimenticare oppure non avevano il tempo sufficiente per dire ciò che volevano dire. Ho avuto maestri, prima che io assumessi questo incarico, che sono morti soffocati dalla tosse e dalla sete. Altri uomini si sono lasciati morire. Io sono abbastanza giovane da sopravvivere e abbastanza vecchia per ricordare. Tutti qui mi conoscono col nome di Tiresia. 3 Giorno 4405. Al villaggio una bambina è arrivata. Non si conosce la sua provenienza, ovviamente è troppo piccola per conoscere cosa siano il Nord e il Sud. Si rifiuta di parlare della mamma e del papà, è molto sporca e silenziosa. Arrivano tanti bambini nel tempo. Soprattutto in Inverno, dove è difficile restare vivi se non si ha una casa. Le materie prime scarseggiano, il legno è quasi un miraggio, quindi è difficile costruire case dal nulla. L’unico modo per avere una dimora è entrare in quelle sopravvissute al Fuoco. Non sono più nulla di ciò che erano Prima, ma restano dei posti in cui la gente può dormire. Col tempo la gente è passata per le case e ha rubato tutto ciò che poteva rubare (la bestialità delle persone si fa vedere nel momento in cui nessuno guarda) e ha lasciato solo gli involucri di muri e carta da parati, tinture e stucchi. Sono arrivati altri fuggitivi e vagabondi e le hanno abitate di nuovo, nude così come erano, e hanno messo dentro quelle poche cose che possedevano, stando bene attenti a tenersele strette. Forse questa bambina viveva in una casa senza esser parte di un villaggio, e i suoi genitori non avevano più come sfamarla. O forse sono morti. Forse si sono lasciati morire e la bambina è fuggita. Me l’hanno affidata. Nel villaggio funziona così. La bambina forse non sa nulla di come era il mondo Prima ed è giusto che lei sappia. E’ questo il mio compito. Domani starà con me tutto il giorno e allora comincerò a renderla partecipe del Passato. Giorno 4406. La bambina non sa il suo nome. Ho continuato a chiederglielo per tutto il giorno che abbiamo camminato insieme, e alla fine sono arrivata alla conclusione che forse non ha mai davvero avuto un nome. 4 E’ un esserino distratto. Camminando, osservava tutto e niente e appena vedeva qualcosa che la interessasse si avvicinava e si dimenticava di tutto il resto. Poi un rumore, una luce, qualcosa la distraeva di nuovo e lei andava a fissarsi su quel nuovo stimolo. E’ troppo distratta per una bambina della sua età. Quanti anni avrà? Cinque, sei? Può mai essere che a quell’età si sia incuriositi da qualsiasi cosa? A niente valgono le parole, i racconti. Niente, a lei interessa la sabbia rappresa vicino a una pozza d’acqua sporca, le lucertole che sgusciano via dalle pietre secche e dure. Le piace il sole opaco che saltuariamente esce dalla coltre di nuvole in cui s’è arroccato. Quando esce, lei ride come se lei e il sole stessero giocando a nascondino. Alza il dito al cielo e dice Bello! E’ decisamente figlia del Fuoco. Ha visto solo ciò che rimaneva di quella gigantesca fiaccola che ha strozzato il mondo intero. E da buona figlia, ama i rimasugli che la Madre ha lasciato a lei. Non so neanche se sa che c’è stato un Prima, prima del Fuoco e prima di tutto questo grigio imponente. Non so se mi chiederà mai di qualcosa. Il mio lavoro è camminare e attendere, per ora. Ma sono poco fiduciosa. E’ una bambina senza passato. Non ha memoria, ogni giorno è il primo giorno in cui cammina. Mi fa così paura che possa non sapere mai. Mi fa così paura che possa sapere. Da me. Giorno 4407. Questa bambina mi confonde. Provo un senso di affetto spontaneo nei suoi confronti. Mi intenerisce il suo camminare goffo, tipico della sua età, e il suo sguardo un po’ perso. Le sue manine sempre sporche di terra secca e i suoi vestiti un po’ strappati ai bordi mi fanno pensare a un vecchio vagabondo che viveva nel sottopassaggio alla ferrovia vicino casa mia, la casa in cui vivevo Prima. Era un uomo gentile e di maniere davvero educate. Se ti fermavi a parlare cinque minuti con lui, ti ringraziava con gli occhi e per sdebitarsi, ti chiedeva della tua vita. Aveva un linguaggio forbito e un’intelligenza vivida. Eppure, era un vagabondo che viveva ai piedi di una ferrovia in un città 5 qualunque. Non aveva nome, non aveva famiglia, non aveva passato. Così, da ragazza, quando lo incrociavo cominciavo a fantasticare su chi fosse stato prima. Ma su qualsiasi personaggio mi focalizzassi, nessuno era veramente calzante. Nella mia mente, quell’uomo era cucito a doppio filo nella sua giacca logora e pesante, i suoi capelli non esistevano sotto quel cappello rosso di lana e il suo volto aveva sempre avuto la barba incolta e il sorriso caldo. Per me era nato lì, in quel sottopassaggio. Non aveva mamma e non aveva papà. Era quel vagabondo. Questa bambina mi suscita gli stessi sentimenti. Sarà sempre così piccola, e prima di vederla lei non esisteva. E se esisteva, è così da quando esiste. Eppure lei mi piace e mi irrita al contempo. E’ indisciplinata e a volte si attacca ai miei vestiti come se avesse paura di qualcosa, eppure non c’è nulla attorno. Allora la scosto da me e lei si mette a piangere nello stesso momento. Non l’ho ancora del tutto allontanata da me che lei sta già piangendo. Mi sorprende la sua reattività, e mi infastidisce come poche cose mi infastidiscono. Non ascolta: quando provo a parlarle, lei non ascolta. Parla con la sua vocina squillante, e dice sempre le stesse cose. So a memoria cosa le piace, lo ripete di continuo. E’ gentile e delicata con ogni creatura che incontra. Le lucertole e i ragni sono le sue preferite. Stamattina stavo accidentalmente per calpestarne uno, mentre camminavamo nella periferia del Villaggio, tra le macerie di un vecchio parco. Fedele alla sua reattività, ha urlato così forte che io per poco cadevo, pur di sbilanciarmi all’indietro e non far morire il ragno. Non puoi urlare così! Mi spaventi! Le ho detto per rimproverarla, ma lei mi guarda con uno sguardo severissimo e corre vicino al ragnetto. Lo raccoglie e lo prende tra le mani, poi mi viene vicino e con una voce serissima e uno sguardo corrucciato mi dice: Bello! Allora ho capito che dovevo solo stare zitta. Se una cosa è bella la si preserva, non la si uccide, neanche per caso. Non posso dire che non sia sensibile. Ma non ha ancora imparato assolutamente nulla. Giorno 4408. 6 Questa mattina nella nostra passeggiata abbiamo camminato un po’ in più del solito. Ci eravamo svegliate prima, e la bambina aveva voglia di correre. Così siamo finite al limitare del Villaggio, vicino alle rovine di quello che un tempo doveva essere stato il centro di una città. La bambina correva qui e lì tra i lampioni rotti e piegati, le panchine bruciate delle quali restavano solo i piedi di metallo e qualche asse che aveva resistito, passava a guardare le entrate dilaniate di ogni singolo palazzo o negozio e io la seguivo da lontano con lo sguardo. Anche io guardavo con attenzione: ero già stata lì, ma non così di frequente. Eravamo abbastanza lontane dal Villaggio. La bambina all’improvviso mi corre vicino, mi prende le mani con le sue manine e con fare risoluto mi trascina verso un punto dove si trovava prima di venirmi a prendere. Mi guarda e indica una vecchia croce di legno. Era tutta bruciacchiata e il Cristo inciso in rilievo si vedeva a malapena. Erano bruciate le mani e i piedi. Non si vedevano i chiodi che lo tenevano incollato alla croce. La croce era a terra, poggiata su una pietra. Messo così, il Cristo sembrava solo un uomo addormentato con una croce di spine sulla fronte. Era sbiadita anche la scritta INRI. Non era più Gesù Cristo. La bambina però tutto questo non lo sa, e mi guarda con sguardo interrogativo e poi finalmente prende coraggio e dice: Cos’è? E’ una croce di legno, ma questo non basta a spiegarti tutto quello che sta sotto questa croce tutta annerita e sciupata. Devi sapere che questa croce è il simbolo di una religione. Una religione è un modo che le persone hanno per affidarsi ad un potere superiore. Questo potere superiore è Dio. Dio è ciò che ha creato tutto questo. Le persone credono ci sia un Dio che, dall’alto, pianifica e crea tutto. Come te quando con la terra costruisci qualcosa. Dio crea dal nulla, e distrugge dal nulla. Prima che tu nascessi, c’erano luoghi in cui questi simboli erano sistemati e la gente andava in questi posti per poter pensare intensamente a Dio. Si dice pregare. La bambina è confusa, ovviamente. Mi guarda con uno sguardo stupito. Anche io sono ancora stupita come lei. Forse per motivi diversi, ma lo sono. Da quando il Fuoco si è spento e noi ci siamo aggregati in Villaggi, ci sono vagabondi che passano di villaggio in villaggio a predicare. Non vestono scarpe, hanno tuniche lunghe e una bisaccia in 7 spalla e gridano ai quattro venti che il Fuoco venne per punizione divina. Il Fuoco fu la purificazione di Dio sui peccati della Terra. E la gente dei villaggi, quando vede questi mendicanti, si riversa per le strade sassose e polverose e li accoglie come dei messaggeri di pace e amore. Consegna loro cibo e acqua a sufficienza perché possano arrivare al villaggio successivo e tramandare la Parola. Quando queste stesse persone vedono me invece a volte piangono. Sono necessaria, ma vorrebbero che non esistessi. L’unica memoria che non ho mai dovuto raccontare è Dio. Lo conoscono tutti, nessuno se lo scorda. E’ la prima cosa che raccontano ai loro figli, ancora prima che vengano affidati a me. Forse vogliono proteggerli da me. Dar loro speranza. Ma Dio non se ne va mai. Dopo tutto questo tempo so che Dio è una presenza impossibile da cancellare. Nonostante il terrore e la morte, nonostante il Fuoco. Anzi, soprattutto grazie al Fuoco, Dio adesso è più grande. La sua presenza aleggia maestosa sopra tutti i villaggi, ora più che mai. Forse è quella nebbia che nasconde l’alba e non ci fa capire quando tramonta il sole. Se quello che dicono i Profeti che girano per i villaggi è vero, allora adesso Dio ci guarda e ride. Io però ho un’altra opinione. Io credo piuttosto che Dio abbia mandato quella pioggia rossa solo per farci leggere un luminoso e terribile messaggio: Io non esisto. Non ho detto nulla di tutto questo alla bambina, e non credo lo farò. Io ho la responsabilità di farle sapere che c’è stato un Prima. Non ho il dovere di cancellare la gioia e la speranza sul suo Dopo. Giorno 4409. La bambina e io facciamo progressi. Comincia a capire che i palazzi in cui lei vive, i letti che ha usato per dormire e i mobili rotti e terribilmente scoloriti non sono sempre stati così e non sono sempre stati alla mercé di chiunque volesse utilizzarli. Comincia a comprendere la Storia, i movimenti interni a quella grandissima e complicatissima parola che ripeto ormai da giorni: Prima. In questa parola si conserva ancora un mondo che non riusciamo a cancellare. Prima o poi in quella parola sarà intesa anche la mia vita, la memoria di questo mondo bruciato. Ma non sarà mai un vero 8 Prima. Tutti diranno che prima il mondo bruciò, poi ricominciarono a ricostruire dalle ceneri. La memoria non sarà mai più la stessa. Come prima del Fuoco si misuravano gli anni utilizzando la venuta del Cristo come unità di misura. Forse adesso gli anni si misureranno con la scomparsa di Dio. Questa bambina però mi paralizza. Nelle strade non osserva le macerie come le osservo io. Cammina saltellando, sorride e mi balla attorno. Vorrei poter giocare con lei, sorriderle, ma penso di non avere più l’età per farlo. Se non avessi visto quello che ho visto, o se non fossi rimasta sola, se solo non avessi deciso (o se non avessero deciso per me) di ricordare, forse giocherei e riderei con lei. Ma anche io ho bisogno di serenità. E se non posso averla io in prima persona, allora vivrò la serenità attraverso questa bambina. Questa bambina, per la quale provo un’invidia violenta. Non vorrei averla con me. Eppure le voglio bene. Mi fa ricordare del Fuoco senza che lei lo abbia mai visto. Mi ricorda tutto e niente contemporaneamente e dolorosamente. Se non ci fosse stato il Fuoco, forse adesso sarei madre e moglie e forse avrei tradito, avrei amato, avrei vissuto, avrei lavorato, avrei ascoltato e visto cose meravigliose. Avrei visto l’Uomo ancora forte, ergersi nei suoi altissimi palazzi e pensare, parlare. Avrei visto l’Uomo essere ancora così Umano da lasciarmi senza fiato. Invece adesso l’Uomo si erge semplicemente su un pagliericcio costruito precariamente, e non lo fa per pensare o per parlare o per deliberare o per essere libero. Lo fa per pregare, per prostrarsi di fronte al cibo che ottiene con la ricerca di un interno giorno. Lo fa per riposarsi dal duro lavoro e dalla carestia. Questa bambina non mi fa rassegnare a ciò che abbiamo perso. Poteva essere figlia mia. Probabilmente se avessi avuto una figlia, avrebbe avuto quell’età, quel viso, quel sorriso, quello stupore. 9 Questa bambina pensa, inesorabilmente, incessantemente, meravigliosamente. Nella sua piccolezza, questa bambina si erge sopra la mia testa per dimostrarmi che ci si può ancora meravigliare per una bellezza. Anche se piccola. Giorno 4410. Il mio lavoro in fondo è suscitare curiosità, ma a volte viene a me curiosità nei confronti di questa bimba saltellante e gioiosa. Di cosa gioisci, di cosa ti bei? Mi viene da chiederle questo. Forse la migliore risposta che possa pretendere da lei è proprio un decoroso silenzio, che lei mantiene così bene. Io invece parlo tanto, forse troppo. Ma lei mi domanda, comincia a diventare curiosa. Stamattina nella nostra passeggiata siamo entrate in un vecchio palazzo. Io avrei evitato, era sicuramente pericoloso, ma la bambina si è fiondata a una velocità paurosa e io ho dovuto correrle dietro per raggiungerla. Quando sono arrivata da lei, l’ho vista che fissava un vecchio televisore. Era rotto, ovviamente, ma lo scheletro era rimasto stranamente intatto. La plastica ai bordi era bruciacchiata, ma restava un vecchio televisore. Vecchio persino per quando anche io guardavo la televisione. Ricordo che in camera mia ne avevo uno più moderno, più bello e lineare. Era sottile e le immagini si vedevano così nitide. Allora non mi sembrava importante, lo davo per scontato, ma se questa bambina adesso vedesse delle immagini uscire da quello schermo, si spaventerebbe a morte. Sicuramente ne aveva già visti altri, perché si avvicinò al televisore senza paura e cominciò a girarci intorno. Magari vagabondando di casa in casa doveva averne visti parecchi. Come si chiama questo, mi chiede poi dopo averci girato attorno un po’. Un televisore, era bello guardarlo di domenica, le dico io. Cosa è domenica? Domenica era l’ultimo giorno in un ciclo di sette giorni che noi chiamavamo settimana. Così classificavamo i giorni. Domenica era il giorno di riposo, dove si guardava la televisione, dove si dormiva tanto e dove le mamme cucinavano tante cose buone. Era un giorno di stallo, in cui il letto restava disfatto e le mattine si trascorrevano in pigiama e pantofole. Era una pausa dalla fatica e 10 dalla vita in generale. Ma la noia in quel giorno avanzava come un esercito in marcia contro un unico solo povero civile, che dall’altro lato del campo di battaglia provava a scappare senza successo. La domenica ovattava i sensi e irretiva ogni tentativo di movimento. La sera della domenica la gente si sedeva sconfortata sulle poltrone che aveva agognato per tutta la settimana e rifletteva su tutto e su niente, sulla possibilità di uscire e divertirsi invece di restare lì fermi. Eppure, di domenica, ogni possibilità si faceva muta e prendeva forma uno strano senso di procrastinazione non voluta. Tutto veniva rimandato pur non volendo rimandare nulla. Il rubinetto gocciolava e a nessuno importava, i piatti giacevano dentro al lavandino e nessuno voleva lavarli. La televisione faceva da sottofondo a un silenzio annoiato e pesto come il senso di morte imminente. Tutto andava a rilento e si aspettava inesorabilmente una fine definitiva di quella giornata. Era il giorno peggiore, salvo poi vedere l’alba dalle dita rosate accarezzare il lunedì (il giorno dopo) e disperarsi per non aver dormito abbastanza la domenica. Era il giorno più ambito. La domenica era la prova generale di un suicidio di massa, di una morte universale del pensiero e della dinamicità del corpo. Ovviamente questa risposta non ha soddisfatto minimamente la mia bambina, come era comprensibile. E non ha soddisfatto neanche me in fondo. Vorrei essere più chiara e più specifica. Vorrei però anche essere più poetica, per darle l’idea della grande opera che i grandi scrittori del mio Prima donarono. Descrivere la quotidianità è un’impresa così difficile e io mi vergogno così tanto di non essere all’altezza. Se non fossero bruciati i libri, i poemi, le poesie e i quadri, i vinili e i CD sarebbe tutto più facile. L’unica opera d’arte rimasta sono io, perché ricordo quello che posso. E mi dispiace non ci sia nessuno migliore di me ad accudire e cullare e strattonare la mente di questa bambina indifesa. Giorno 4411. 11 Ho portato la bambina a cercare dei vestiti. Oggi niente lezioni, nessuna domanda. Solo tanti sorrisi e risate. Anche per me diventa un dolore ricordare. E diventa difficile parlare. L’ho già fatto, ho avuto altri bambini con me. Ma la sera quando calava il sole le madri protettive correvano dai loro bambini scombussolati e confusi e li riportavano nelle loro case. E io potevo dimenticare i loro sguardi, e loro potevano far finta che le mie fossero favole di un mondo immaginario. E le mamme potevano cercare di convincere i bambini che ricordare non era poi necessario. Quella donna serve a poco, eppure è necessaria, sopportala ancora un altro po’ e tutto finirà. Dicevano questo ai bambini che, speranzosi di concludere in fretta quel flusso continuo di informazioni che io davo loro, si impegnavano più che potevano nel ricordare il più possibile. E poi, quando erano pronti, io li congedavo. E loro scomparivano nella nebbia della loro ignoranza, e io potevo passare oltre. Senza dimenticare mai un solo volto, mai una sola domanda, mai una sola lacrima. Ma se ne andavano, e la loro assenza mi ha sempre dato una pace indescrivibile. L’assenza dà alla mente la possibilità di giocare, di fingere. E io ho lasciato che facesse. La mia mente ha bisogno di svago, altrimenti sarei già morta. Invece la presenza di questa bambina mi si impone sfacciata ed innocente, e io non posso dimenticarla. Ma lei ride, lei gioca, lei ammira e lei apprezza ciò che gli altri non apprezzano. Questa bambina guarda le macerie e vede bellezza. Io no. Io ricordo tutto ciò che vedevo Prima e che pensavo fosse bello. Paragonato a questo, per me quello che vedo Ora è solo lo stupro insensato della Natura su sé stessa e sull’Uomo. O forse è l’Uomo che per troppo tempo ha abusato della Natura senza ricompensarla, e allora la Prostituta Natura, senza se e senza ma, un giorno ha deciso di bruciare tutto. Si è stancata di noi. Come Dio con Sodoma e Gomorra. Come una donna che lascia il suo uomo che l’ha tradita. O come un uomo che piange la sua rabbia e il suo dolore in silenzio perché sa che la sua donna l’ha tradito e non ha il coraggio di ammetterlo. 12 Ma la mia bambina no. Non sa cos’è uno stupro, e non so se mai lo scoprirà, ma non vede niente di brutale nel mondo come è adesso. Non solo lo accetta, le piace. Io negli altri bambini non vedevo questo. Vedevo paura, quando correvamo tra le macerie delle periferie. Non entravano mai nei palazzi semidistrutti. I genitori avevano loro instillato la paura di tutto. E come fai a percepire la bellezza quando ne hai paura? Forse in questo mondo avremmo dovuto morire tutti noi, compresa me, e nascere tutti orfani e nudi, per imparare ad amare questa nuova bellezza. E ricominciare da questo, senza il tentativo disperato di cancellare tutto. Questo mi ricorda che io forse non sono più Tiresia. La bambina, forse, sono io e solo io. Giorno 4412. Con questo io finisco. E cominciamo io e lei. Stamattina mi sveglio con la sua faccia vicinissima alla mia che mi guardava aspettando che mi svegliassi. È bella e non lo sa. Ha gli occhi furbi e umidi come quelli di una donna e il viso di una bambina innocente. È perfetta e sono grata che sia raro trovare specchi di questi tempi, perché quando crescerà non potrà mai dubitare della sua bellezza. E mi guarda, io mi sveglio e lei continua a fissarmi. Allora le dico ciao con la voce impastata di sonno e le sorrido. Lei si avvicina al mio orecchio e mi urla ciao! La maledico. Però come si fa a dirle di smetterla, quando si vede davvero che è contenta di vedermi? Allora lascio che urli ancora un minuto, per farla ridere, e poi la prendo e la butto sul materasso dove dormo e prendo a solleticarla. Lei ride, tira calci, e io rido perché è davvero buffa. Mi fa sentire viva, perché si vede chiaramente che lei la vecchiaia non sa neanche cosa sia. Forse a quattordici anni comincerà a sperimentarla, come una vera paura, poi la butterà via di nuovo subito, per rituffarsi in una giovinezza rincorsa e mai davvero afferrata. Si riposerà solo quando la 13 giovinezza vera se ne sarà andata nel tentativo di stringerla. Tra un amore e l’altro, si accorgerà che il corpo che i suoi uomini ammirano tanto in fondo serve solo a manifestare una voglia effimera. E quando i suoi glutei cominceranno a cedere e il suo seno non sarà più sodo come lo era prima, allora anche i suoi uomini si renderanno conto che non è il corpo che rende bello fare l’amore. E allora, quando la giovinezza prorompente e la vanità cancerogena saranno finalmente morte, cominceranno davvero a fare l’amore. Ma è presto. Lei ora non sa cosa sia l’amore, e per fortuna nemmeno cosa vuol dire fare l’amore. Queste sono cose che, Prima o Dopo che sia, c’è sempre un modo per impararle. Per cui che le impari da sola, io non gliene voglio parlare mai. Il solletico finisce, io mi riposo, e lei ride ancora. Poi ci laviamo nella tinozza dell’acqua piovana che io ogni sera metto fuori dalla casa così che si riempia (non che piova ogni sera, ma non si sa mai), poi mangiamo un po’ di frutta e usciamo. Ma questa mattina lei ha qualcosa da far vedere a me. Mi prende la mano e silenziosa e concentrata mi trascina in periferia, il suo posto preferito, e mi porta in quello che probabilmente era un negozio per la casa, perché quando entriamo ci sono piatti e roba per la cucina un po’ ovunque. Mi porta verso il fondo scuro del negozio. C’è una gran puzza di bruciato, come quasi ovunque in periferia. Poi lei prende in mano una cosa, che sicuramente aveva già visto in precedenza, e me la mette tra le mani. È una cornice scolorita con dentro una foto. Era una di quelle foto di prova che si mettevano nelle cornici per far vedere il formato e come sarebbe stata bella la foto una volta incorniciata. Queste foto erano fatte da modelli e modelle, ovviamente, e tutto erano tranne che realistiche. Era una foto di una famiglia composta da mamma, papà e figlia. Allora lei me la indica e mi guarda con quel suo solito sguardo intelligente, carico di domande che non hanno bisogno della voce per essere poste. Io capisco e non so cosa dire. Non ho molte parole per spiegarle quella foto. Non so perché lei non ha avuto due modelli belli come quelli della foto a farle da genitori. E non capisco neanche perché 14 lei non abbia potuto avere il piacere di essere incorniciata in una foto con due genitori in un posto accogliente e caldo e sicuro. Invece è costretta a stare con me in una casa che praticamente è una tenda, a lavarsi con dell’acqua piovana piena di cenere, a mangiare frutta e sempre frutta, e carne di cane o gatto quando capita, a vestire vestiti sempre neri di polvere e cenere, e con i capelli sempre legati per non far prendere loro l’odore del fumo. Avrebbe meritato una vita da fotografia. Ma le sono capitata solo io. Come risponderle? Cosa è mamma e cosa è papà? Io non so spiegarlo. Forse non l’ho mai saputo fare. Vorrei raccontarglielo come lo ricordo io. L’abbraccio tenero di una mamma in qualsiasi momento della giornata, il sorriso innamorato di un padre. Io non posso darle nessuna delle due cose, perché non sono mamma e non sono papà. Ma mi piacerebbe regalarle i due più grandi ricordi che lei ha perso. Dopo tutti questi viaggi, queste scampagnate tra le rovine di una città senza nome, non sarò più nessuno. Neanche l’ombra degli oggetti che ha guardato, neanche l’ombra dietro di lei. Non so parlarle della domanda fondamentale. Nonostante io sappia cosa è mamma e cosa è papà. Ma non è stato il Fuoco questa volta a bruciare le mie parole, le mie spiegazioni. Sono io che ho voluto scambiare i miei ricordi felici con la fretta di dimenticare, per non morirne. Ho avuto paura, tanta paura, che in mezzo a tutto quel dolore ricordare la felicità mi sarebbe stato fatale. Io ero sola, in mezzo a fiamme divampanti, e tutto era al di fuori di me. Non avevo mamma e non avevo papà, non più. Così ho lasciato che il fuoco si insinuasse nei miei ricordi. Ma io ho aperto la porta, io ho lasciato che un bagno di fuoco cancellasse tutto. Io sono diventata Tiresia quel giorno. Ma ora che guardo questa bambina, che sento tanto mia e solo mia, mi chiedo che scopo ho io se non so parlare delle cose belle? Come farà lei a riconoscere le cose belle adesso? La amo di un amore così carico di dolore che mi irrita. Mi fa tornare indietro, troppo indietro, in un solo lampo. Vivido avvilente e avvinghiato a tanti piccoli fotogrammi di una vita che forse ho solo immaginato. Quanto patetica posso essere per rendermi conto solo adesso che ho sprecato giorni e 15 giorni, li ho anche contati, a ricordare un mondo vecchio senza guardare quello nuovo. Questa bambina è mia, è la mia nuova vita. Ho un debito con lei che non finirò mai di ripagare. Mi sento così in colpa per l’eredità piena di falle ed errori di giudizio e mancanza di senno e attaccamento al passato e paura del futuro e pigrizia e ignoranza e insensibilità ed emotività e lacrime e dolore che le sto lasciando. Ma forse è questo mamma e papà. Infatti decido di tacere e le sorrido. La accarezzo nella penombra di quel vecchio negozio e lei ricambia quello sguardo. Poi dice Mamma. Io quindi oggi finisco. Tiresia muore. Cominciamo io e lei. 16