Il mercato di Mbour

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Il mercato di Mbour
IL MERCATO DI MBOUR
Da poco abbiamo acquistato due diembèe (jambè) professionali ed uno piccolo. Sono tamburi scavati in
tronchi di legno e resi vibranti con pelle di gazzella o cervo, tesa dalla cavità più larga del fusto. Uno è per noi, gli
altri sono per Giorgio e Danilo, due amici italiani.
Così, sulla spiaggia di fronte casa, Adamo ci insegna qualche ritmo base e un ritornello africano:
Ah, ah,
ah ziza yengo
ah ziza yengo
Kuko bagna
na na dèe...
Con il ritmo ancora nelle mani tiriamo fuori gal garage il gommone, montiamo il motore e, con Abramo
come marinaio, partiamo: destinazione il porto di Mbour. Da quando siamo in Senegal sento parlare spesso di
Mbour, soprattutto per la possibilità di comprare bene.
Spinti così dall'idea di fare una grande spesa, prevalentemente alimentare, andiamo alla scoperta del
mercato di Mbour.
Pare sia una città "faro" sulla costa atlantica. In realtà non è una vera città, ma un villaggio di capanne in
legno e mattoni ed il porto non è un porto secondo l'accezione europea del termine. Non c'è un pontile, non c'è
una banchina, non un solo frangi flutti. E semplicemente una rada, dove le grandi piroghe in legno colorato
sono ormeggiate dove capita, non in fila lungo la riva, ma un po' ovunque in mezzo alla baia. Abbiamo percorso
poco più di tre chilometri prendendo schizzi d'acqua a non finire.
Dal mare Mbour, già in lontananza, si presenta con uno spettacolo unico. Attraversiamo la giungla
delle piroghe a forma di mezza luna dove alcuni pescatori preparano le reti, altri dormono.
Verso riva si intravede una strana massa oscura che invade il porto di Mbour in tutta la sua lunghezza.
Avvicinandoci di più rimango stupefatto nello scoprire la natura di quella massa scura: migliaia di persone
assiepate sulla spiaggia, quasi a formare una vera e propria tribuna di un affolatissimo stadio. Sparsi qua e là ci
sono dei fuochi da cui si alzano lunghe scie di fumo denso. A poche centinaia di metri dalla riva tra la folla nera
cominciano a distinguersi i mille colori degli abiti africani.
L'acqua si fa sempre più torbida e improvvisamente veniamo avvolti da un tanfo di pesce e alghe che
continua a rafforzarsi al nostro procedere. Non essendoci un molo per l'attracco siamo costretti ad arrivare con
il gommone fin sul bagnasciuga.
Qui il fetore sembra impossibile da sopportare. Siamo appena sbarcati a Mbour e già non vedo l'ora di
tornare.
Immediatamente il gommone viene circondato da file di bambini, ragazzi e adulti che guardano noi e la
strana imbarcazione di gomma con aria interrogativa e di grande curiosità. Alcuni di loro allungando l'indice
toccano la superficie del gommone per scoprirne la consistenza.
Mentre osservo le loro silenziose espressioni di meraviglia continuo a schiacciare strane cose con i miei
sandali. Abbasso lo sguardo e, schifato, scopro sotto i miei piedi una testa di pescecane. Tutto il bagnasciuga
color grigio scuro è un tappeto degli orrori: interiora, lische e teste di pesce di ogni tipo, buste, alghe, gusci di
grandi conchiglie. Molte di queste teste sono di squalo e pesce martello. Alla vista di tutto ciò il puzzo diviene
ancora più opprimente. Il mare infrangendosi sulla sabbia restituisce in superficie centinaia di altre teste e
scheletri di pesce. Non possiamo evitare che quell'acqua putrida ci copra fino alle caviglie.
Ora intorno al gommone sono moltissime le persone che osservano le nostre manovre. Sono
molto poveri, tutti laceri e sporchi. Più in là vedo uomini che, uno dopo l'altro, svuotano sulla riva
bidoni pieni di interiora e sangue di pesce.
Sono completamente sopraffatto da senso di disgusto. Ho l'impressione di trovarmi all'inferno. Provo
un sentimento di pietà e sconforto per questa gente che vive così, in grande povertà e per giunta senza
alcuna cura, pulizia e rispetto per l'ambiente in cui vivono. Alcuni di loro ora mi guardano come se fossi
la cosa più strana in quel momento, in quel posto. E così mi rendo conto di conservare, come scolpita sul
mio volto, una espressione così arricciata che non può che tradire i miei pensieri e la mia incapacità di
reggere quel fetore.
Abramo resta qui a badare al gommone e con Silvia e Adamo ci dirigiamo verso il mercato.
Alcuni dei curiosi intorno al gommone ora si staccano dal gruppo e ci seguono. Formiamo così una
piccola carovana e, in una movimentata fila indiana, attraversiamo il mercato del pesce. Lo scenario è
incredibile: centinaia di pianali fatti di intrecci di palme sorreggono cataste di pesce di ogni specie,
molluschi di mare e perfino alcune parti di interiora.
Qui, a beneficio di mosche e insetti di ogni tipo, si svolge il processo di essiccazione naturale
del pesce: unico metodo di conservazione dato che i frigoriferi li hanno solo i ricchi e gli europei. E' una
vera e propria distesa di pesce fresco e secco. Questi pianali sono posti a un metro circa da terra e tenuti
sollevati da tronchi. Qui sotto, in buche scavate nella sabbia, sono posizionate grandi vasche in terra
cotta che raccolgono i liquidi putrescenti che sgocciolano dall'alto. Non ho osato chiedere l'utilizzo che
ne fanno. Qui la puzza è cosi forte e penetrante che quasi scompare, si annulla. Come l'effetto del
ghiaccio sulla pelle: dapprima raffredda e dopo sembra bruci come il fuoco.
Sotto altre bancarelle, invece, si possono trovare donne o intere famiglie che stese o sedute
sonnecchiano e riposano godendosi l'ombra. Dopo aver attraversato decine e decine di queste
bancarelle entriamo in una pescheria con mura di mattoni colorati di blu sbucando dall'uscita sul retro
che affaccia direttamente su una strada di Mbour. Ancora l'odore di pesce non ci lascia, ma comincia a
mescolarsi con altri profumi, alcuni perfino quasi piacevoli, ma tutti molto intensi.
Qui incontriamo Saliou, un ragazzo di Mbour. Ha un sorriso gradevole, deve avere circa venticinque
anni. Pare sia amico di Adamo per come si parlano. Non è affatto facile capire quando i senegalesi sono
veri amici tra loro. Soprattutto poi quando qualcuno di loro accompagna un tubab (uomo bianco)
perchè vengono presi di mira. In ogni caso Saliou fa ormai parte del gruppo e si offre di accompagnarci
al mercato a cercare la merce a miglior prezzo.
Al di fuori di qualche strada, tutta Mbour appare come un grande mercato. Da una stradina di sabbia e
terra si apre il mercato della frutta e verdura. Stuoie di venditrici sono affiancate una all'altra in due file
che corrono lungo i lati della strada. Sulle stuoie, ai piedi di donne ora sdraiate, ora sedute o
inginocchiate si trovano pomodori, insalate, melanzane, peperoni, zucchine, banane, papaya, mango,
avogado, datteri, noci di cola, ananas, carote, patate e altri strani tuberi e radici. Ora gli odori sono meno
sgradevoli sebbene le strade siano piene di rifiuti e sterco di cavalli e somari.
Qui, nonostante le mosche, la terra e lo stato di conservazione e presentazione della merce,
compriamo un casco di banane, un chilo di insalata, uno di pomodori, un ananas e due papaya.
Appena concluso l'affare alle nostre spalle compare un ragazzo che ha in mano una specie di croce
fatta di bastoni, sulla quale sono appese, quasi a creare uno spaventapasseri, delle buste. E' il
venditore di sacchetti di plastica. Ne compriamo due per la nostra spesa. In un'altra strada alcuni
anziani con le loro bancarelle creano una zona del mercato specializzata in erbe medicinali. Foglie
secche, radici, fiori e arbusti di molti tipi, colori e forme costituiscono il catalogo completo dei
prodotti terapeutici della tipica farmacia tradizionale senegalese. Qui compriamo un po' di
kinkiliba per i nostri infusi contro il raffreddore.
Da qui si apre un'altra strada dove in grandi sacchi sono esposti riso di ogni tipo, miglio,
mais, arachidi, farina di miglio per il cus cus, farina di mais, farina di arachidi, legumi di tutte le
specie. Anche se sostiamo poco in questa strada raccogliamo nuovi odori, più buoni, rotondi e
dolciastri. A sferzare l'aria comunque c'è sempre qualcosa o qualcuno che, tramutandosi in odore
nemico, si insinua tra le morbide carezze di alcuni profumi con improvvisi, spigolosi e
sonori schiaffi all'organo olfattivo. Sul lato destro della stessa strada ecco il bisabe ed il pane delle
scimmie (frutto del baobab) con cui si preparano le bevande che tanto ci sono piaciute. Anche
queste hanno proprietà terapeutiche. Ne compriamo un bel po' insieme ad un chilo di tè africano,
alla menta ovviamente. Le grandi quantità sono anche per una scorta da portare in Italia.
Ci spostiamo più al centro di Mbour e giungiamo su una strada (naturalmente di sabbia e terra)
molto trafficata. Qui passano molti calesse e anche qualche macchina, dove la profondità della
sabbia lo consente. Sono moltissime le persone a piedi. Soprattutto donne, che con i loro calabas
sulla testa trasportano di tutto. Ma ci sono anche moltissimi bambini, tutti mal ridotti. Si
avvicinano e guardandoci straniti allungano la mano chiedendo pane e soldi. Gli uomini se ne
stanno sui bordi della strada o seduti o in piedi, appoggiati ai muri delle botteghe. In una di queste
botteghe di tessuti compriamo due borse imbottite porta-diembèe. In un'altra, invece, dopo
durissime contrattazioni, strappiamo un buon prezzo a un ricco mercante per tre stoffe lavorate a
mano. Poiché, comunque il costo totale è superiore al denaro che ci è rimasto, Saliou si offre di
seguirci fino a Saly, di prendere il resto e di riportarlo al mercante di Mbour. E' così che funziona
qui: le distanze, nonostante vengano coperte spesso a piedi o sui calesse, non sembrano esistere
per loro. Forse perché è l'idea del tempo che non esiste. O meglio esiste, ma è dilatata, soggettiva.
Non conoscono la velocità, la fretta o l'efficienza. Ne la richiedono. Non producono stress.
Entriamo in una piccola bottega artigianale, dove l'odore scuro e asciutto del legno mi
suggerisce finalmente la somiglianza con l'odore della pelle di molti senegalesi. Da tempo cercavo
di capire quale odore intenso, secco da consumare l'ossigeno mi ricordasse quello di alcuni
africani. E' il legno, forse per la loro continua stagionatura al sole che non conosce lavaggi di
morbidi e profumati saponi.
Saliou, indicandoci un viottolo alle nostre spalle, ci invita a seguirlo nel cuore della produzione artigianale
del legno. Superiamo una donna che inginocchiata su una bacinella si sciacqua i denti strofinandoli con le
dita e un uomo che si lava i piedi con la stessa acqua e, passando attraverso due capanne che espongono
totem e maschere antiche sbuchiamo in una particolarissima piazza. Qui i raggi del sole che volge al
tramonto accendono di rosso una scena bellissima: decine di uomini sollevando al cielo grosse accette le
lasciano poi cadere su tronchi di tek rosso e bianco scolpendo tamburi e diambèe, ma anche statuette,
utensili, maschere e oggetti portafortuna (gri-gri).
E' tutto un ammasso di grandi tronchi grezzi, tronchi in via di lavorazione e scaglie di legno. Tutto
intorno, invece, all'ombra delle tettoie delle capanne che circondano la piazza, altri uomini e donne
provvedono alle rifiniture. Nei pressi di una di queste, dove si confezionano diembèe, a terra, sotto o miei
piedi, mischiate nella sabbia e nelle mosche ci sono pelli morbide, ancora da seccare, ancora calde dei corpi
di gazzella e di cervo. Il ritmo e il suono secco delle accette che si abbattono sui tronchi robusti sembra essere
il presagio primitivo dei suoni più morbidi e profondi che quei tronchi sapranno creare quando si
trasformeranno in tamburi.
Carichi di pacchi torniamo al porto, ripercorrendo a ritroso il filo di arianna dei cattivi odori.
Rieccoci quindi nell'inferno di pesce. Scarichiamo tutto nel gommone ancora protetto da un semicerchio di
persone e aspettiamo Abramo che corre a comprare un po' di sarde e calamari per la pesca di domani.
Rientriamo il gommone nel mare attraverso la palude di alghe, rifiuti e pesce morto e finalmente, lentamente
abbandoniamo la cappa maleodorante. Con noi c'è Saliou che sembra molto divertito dai morbidi sussulti
del gommone sulle onde.
Il tramonto ci aspetta di fronte casa, con il nostro prato verde e i fiori color loto.
Com'è profumato il nostro rientro!