1 MINISTERO DELLA COMUNIONE E COMUNITA` “Poiché c`è un

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1 MINISTERO DELLA COMUNIONE E COMUNITA` “Poiché c`è un
MINISTERO DELLA COMUNIONE E COMUNITA’
“Poiché c’è un solo pane, noi….siamo un solo corpo” (I Cor 10,17)
Prof. Don Gianni Colombo
Premessa
• L’orizzonte missionario della presente riflessione (Cfr. Lettera Apostolica Novo
Millennio Ineunte, nn. 35-36).
• Il contesto pastorale e spirituale:
Una dolorosa constatazione
In questi anni, già a partire dal cammino di iniziazione cristiana, dobbiamo purtroppo
constatare un grave pericolo che si va profilando: mentre da un lato la partecipazione
al momento catechistico vede una totale partecipazione dei ragazzi, dall’altro la
celebrazione eucaristica domenicale vede una caduta verticale della medesima attorno
al 10 -15% di presenze dei medesimi. Le prossime generazioni di cristiani corrono così
il rischio di costruire una vita spirituale extraliturgica che, a sua volta, plasmerà cristiani
senza liturgia, vale a dire cristiani che non troveranno nella liturgia la fonte della loro
vita spirituale di credenti.
Due tentazioni e i conseguenti pericoli per la comunione sul fronte liturgico
- Stiamo anche vivendo un momento caratterizzato innanzitutto dall’emergere di una
reazione alla stanchezza e alla routine che abitano le nostre celebrazioni liturgiche. Il
rischio che stiamo correndo è quello di un ritorno nostalgico alle forme del passato.
E desiderare il passato è proprio di chi è insoddisfatto dell’oggi, di chi riceve
dall’attuale modo di celebrare poco o nulla per la sua fede .
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Una seconda reazione alla stanchezza routinaria è data dalla ricerca ingenua dello
spettacolare (emozioni forti, sensazioni intense, esaltazioni degli affetti a scapito
dell’interiorità, della razionalità, del pensiero, del silenzio, della povertà e semplicità
di mezzi e di segni tipici della liturgia cristiana, quali un pezzo di pane, un poco di
vino, la solita gente, il solito prete, la chiesa del paese). Nel suo ministero Gesù ha
sempre rifiutato la spettacolarità, non “seduceva” le folle.
Un sentiero da percorrere e da sperimentare: “una liturgia seria, semplice e bella”
Noi sappiamo che mentre la preghiera è il primo atto della fede, la liturgia invece è la
fede in atto, sperimentata, celebrata. Occorre però tenere presente l’originalità e la
specificità del linguaggio liturgico che non è verbale ma simbolico: la liturgia infatti non
trasmette la fede facendo discorsi attorno alle verità da credere, ma trasformando in
azione ciò che crede; essa fa toccare con mano la Chiesa, immergendo in essa e nel
suo Mistero i fedeli (la liturgia non trasmette la fede con concetti teologici o
insegnamenti catechistici). Perché la comprensione di questa affermazione avvenga e
sia efficace vi invito a immaginare la messa di una domenica qualunque: persone
comuni, né migliori né peggiori, alcune conosciute, altre no…..talvolta caratterizzate da
scelte politiche diverse, da culture varie, da condizioni sociali differenti. Cosa ci unisce e
li unisce? Non certamente la conoscenza personale o eventuali affinità di altro genere:
ciò che li unisce sono i doni che ricevono all’interno dell’assemblea santa: la Parola, il
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pane eucaristico e il calice). La comunione infatti ci è donata come grazia dello Spirito
Santo (umanamente non sarebbe realizzabile con le sole capacità umane).
E’ dunque la concretissima e umile Messa della nostra parrocchia il luogo dove
incontriamo anche “banalmente” il Mistero, perché è lì che incontriamo gente chiamata
dal Signore e da Lui scelta; è lì che incontriamo la Chiesa, è lì che ci viene detto ciò
che è la Chiesa, popolo riunito nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
questa è la sua dignità.
L’anno della fede che si sta concludendo avrebbe dovuto costituire una forte occasione
per ritrovare la centralità della celebrazione eucaristica domenicale e lo “stupore” per la
medesima: essa è il luogo e lo strumento per custodire, alimentare, trasmettere la fede
della Chiesa: infatti, in modo assolutamente forte, testimonia al cuore della comunità
cristiana che è solo lo Spirito Santo, attraverso la Parola e i Sacramenti, che genera,
nutre e fa crescere la vita di fede dei cristiani (e non il nostro agitarci o le innumerevoli
riunioni ....).
L’EUCARISTIA GENERA IL SERVIZIO E LA COMUNIONE FRATERNA
¾ Il comando di Gesù
Il fondamentale riferimento è dato dalla parola di Gesù: “Io vi ho dato l’esempio, perché
come ho fatto io facciate anche voi” (Gv 13,15). In questo contesto il comando si
riferisce non più al “fare liturgico”, ma al “fare quotidiano” nella memoria del significato
profondo della lavanda dei piedi. E’ l’Eucaristia che genera il servizio (1Gv 3,16; Lc
22,26-27; Mc 10,44) e a sua volta il servizio scaturisce ed è plasmato dalla potenza
dello Spirito Santo che ci fa dono della carità di Dio e, per questo, ci rende capaci di
amare con lo stesso cuore di Dio. Vi invito a considerare la variegata colorazione
dell’amore di Dio così come ci è presentata nei Vangeli: amore come prossimità (Lc 24,
13-35); amore come compassione (Mc 6,30-44); amore come servizio (Gv 13, 1-20);
amore come dono di sé (Gv 19, 25-30); amore come misericordia (Lc 7, 36-50).
Inoltre il pensiero e il contesto in cui le parole di Gesù sono state pronunciate – l’ultima
cena – dà a queste ultime il valore di una grazia e di un orizzonte ancora più grande,
perché in quella sera Gesù ha pregato per tutti noi e ha compiuto gesti di amore
incondizionato per quelli che stavano di fatto voltandogli le spalle: ha pregato per
Pietro, pur sapendo che lo avrebbe rinnegato; ha trattato da amico Giuda nel momento
in cui lo stava tradendo con un bacio; ha guarito il servo del sommo sacerdote al quale
Pietro aveva mozzato un orecchio, giungendo all’atto supremo del perdono sulla croce.
A partire da questo orizzonte è possibile uno sguardo complessivo alla fisionomia
spirituale dei ministri da un duplice punto di vista: innanzitutto da un punto di vista
negativo occorre dire che essi non possono essere interpretati dentro l’orizzonte
umano della promozione, della ricompensa per meriti acquisiti né come qualcosa che
potrebbe ulteriormente affaticare la struttura ecclesiastica, per un ulteriore eccesso di
complicazione organizzativa, quasi fosse un impegno ulteriore da aggiungere alle
molte fatiche.
In positivo essi domandano per il loro esercizio persone capaci di alimentarsi a
un’intensa corrente di spiritualità e di gratuità. Dire ministero e dire servizio è infatti la
stessa cosa.
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E servire è una dimensione dell’intera esistenza del credente (Mc 10,45). Servire tocca
la persona, non solo le sue azioni e le sue cose; tocca il modo di ragionare e di
pensare più che di fare.
Servire significa vivere sentendosi responsabile degli altri (in riscatto = solidarietà), e
questo non è solo questione di generosità (spesso confusa e immediata), ma di
sguardo attento e generoso, capace di vedere e di capire, perché il vero servizio
accoglie le persone, le ospita, fa loro spazio nella vita, nella casa, nelle
preoccupazioni.
I ministri sono persone dalle quali si impara l’amore di Dio su di noi. In una società
tecnica dove è forte il potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive
dell’uomo non sempre corrisponde il potenziamento delle sue capacità di amore. A
volte sembra che questa non conti nulla. Mentre sappiamo benissimo che la felicità o
infelicità sulla terra non dipenda tanto dal conoscere o non conoscere, quanto
dall’amare o non amare, dall’essere amato o dal non essere amato. La conoscenza da
sola spesso si traduce automaticamente in potere, l’amore in servizio.
I ministri sono dunque figure chiamate dallo Spirito a fare il dono della propria umile
persona (e sappiamo che il rischio è che siamo così poco costruiti per un tale dono!).
Gente dunque di qualità spirituale. Di qui le esigenze formative che delineerò più
avanti.
Va dunque riaffermato che il Ministero, compreso quello ordinato, non crea graduatorie
o ordini di grandezza. Solo la santità fa veramente differenza. Infatti i più grandi nel
Regno dei cieli non sono i Ministri, ma i Santi.
L’orizzonte indicato dovrebbe costituire un forte elemento di vigilanza per impedire di
ridurre il Ministero a un fatto puramente funzionale, mirante a rendere più spedita
l’organizzazione liturgico-pastorale di una parrocchia, senza un profondo contenuto
ecclesiale e senza coinvolgere le persone in un vero impegno spirituale (il rischio che
si è corso in questi anni è quello indicato in una conferenza da Mons. Brandolini che
indicava il pericolo che per questo Ministero si facessero avanti “o preti mancati o
sagrestani maggiorati”).
I GESTI AL SERVIZIO COMUNITA’ E DELLA COMUNIONE
¾ La visita ai malati: “ero malato e mi avete visitato”
Gesù ha incontrato malati e sofferenti di ogni genere e ha offerto loro la Parola del
Regno e la guarigione (Lc 7, 17-18). Non risulta (eccetto l’episodio del cieco nato) che
Gesù abbia mai dato ai malati una spiegazione della loro malattia. Per il Vangelo
l’incontro con il malato non è anzitutto il momento della catechesi ma della
partecipazione. Davanti all’uomo che soffre il Vangelo non si attarda in spiegazioni ma
gli comunica una ragione di fiducia. Gesù ha incontrato i malati e li ha accolti e guariti.
Non a tutti è concesso di guarirli come Lui, ma a tutti è data la possibilità di accoglierli.
E il segno del Regno è, forse, più l’accoglienza che la guarigione.
A ogni modo, proprio perché i suoi discepoli continuassero a incontrare e ad accogliere
i malati, Gesù si è identificato con loro: “ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36).
Il verbo visitare (epischeptein) è fondamentalmente un verbo di vedere, non però un
vedere qualsiasi, frettoloso, distratto, bensì un vedere che si accorge si sofferma e
partecipa. E’ lo stesso verbo usato per la “visita” di Dio al suo popolo: Dio vede l’uomo,
si accorge dei suoi bisogni e se ne prende cura (Lc 1, 68; 7,16). L’intreccio, racchiuso
nello stesso verbo, fra il vedere, l’accorgersi e il partecipare dice già molto bene quale
sia la nota che trasforma in un gesto evangelico la visita al malato.
La vita di comunione delle nostre comunità deve essere alimentata da gesti concreti:
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mi sembra più facile per capirlo ispirarmi per un momento ai “gesti” contenuti nella
parabola del buon samaritano. Sono undici verbi: “lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò,
scese, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò, al ritorno salderò”.
Alla luce di quanto sopra detto oso affermare che i Ministri dovrebbero essere
innanzitutto trascinatori di persone, capaci di contagiare il prossimo sul fronte della
carità.
¾ La processione e il gesto di Comunione: la sua finalità profonda
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Diamo innanzitutto uno sguardo alla sequenza dei gesti del Rito di Comunione:
Il fedele lascia il suo posto e cammina verso l’altare: l’Eucaristia è il pane per l’uomo
pellegrino, come lo è stata la manna per Israele e il pane per il cammino di Elia nel
deserto.
Il cammino è compiuto non da solo, ma insieme ai fratelli (synodus è uno dei nomi più
antichi dell’assemblea liturgica cristiana = cammino insieme).
Tutti dunque vanno verso l’altare con il proprio fardello di miseria per ricevere il pane di
vita eterna, del perdono e della misericordia che solo Dio può dare.
Davanti al ministro il fedele tende le braccia e apre le mani per ricevere il pane
eucaristico (apre le mani colui che si appresta a ricevere un dono). Le mani aperte
sono mani fiduciose, chi invece vuol prendere da sé o impossessarsi di qualcosa non
apre le mani, ma afferra per stringere…..(cfr. Gen 3,6…..prese del frutto). Dunque il
pane eucaristico non lo si prende da sé, ma lo si riceve da qualcuno come dono.
La formula “Corpo di Cristo” e la risposta “Amen” accompagnano i gesti ed esprimono
l’invito ad essere ciò che si riceve, cioè Corpo di Cristo. L’espressione “Comunione” poi
non indica solo l’atto del nutrirsi del Corpo del Signore, ma anche il fine per cui ci si
nutre dell’Eucaristia: fare la Comunione dunque per essere Chiesa – Comunione.
Anche quando si dice “Corpo di Cristo” non si fa solo una formula di tipo affermativo,
ma anche di carattere esortativo: “Sii ciò che ricevi, sii il Corpo di Cristo”.
¾ Da qui il volto festivo del Ministro straordinario e la sua relazione con la
comunità
E’ infine evidente che i ministeri devono trovare il loro abituale ambiente dentro una
comunità abitata da una grande cura per la qualità testimoniale della fede, che si
esprime in diversi modi: la preghiera comune, l’ascolto prolungato della Parola, una
celebrazione sacramentale capace di educare alla comunione, la formazione al senso
della Chiesa e della vocazione cristiana, l’aiuto dato alle persone ad appassionarsi alla
vita della gente, l’interesse al senso della vita civile e dei problemi sociali.
Ricollocato nel cuore del Mistero celebrato, esso favorisce la possibilità di ritrovare
nella sua bellezza e significatività originaria il rapporto intercorrente tra la comunità
eucaristica e i fratelli infermi. Anzi esso dovrebbe essere autorevolmente indicato come
una delle espressioni ordinarie della pastorale dei malati, che non può essere ridotta
ad impegno di preti più o meno zelanti, ma attenzione di tutta la comunità, soprattutto
in questo tempo dove l’efficienza e la produttività sono malattie che insidiano anche il
lavoro pastorale, che in questo settore rivela qualche trascuratezza (il pericolo della
cultura dello scarto e della globalizzazione dell’indifferenza del cuore – Papa
Francesco). Per questo occorre grande attenzione alle persone che frequentano
regolarmente la comunità e che improvvisamente sono assenti o perché malate o
perché, per varie ragioni, non possono muoversi da casa.
E per superare il rischio della privatezza del gesto è necessario che la Comunione ai
malati sia recata dopo una delle Messe parrocchiali, indicandone anche la modalità
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concreta per non svilire privatisticamente lo stesso gesto della consegna. In concreto:
quando e come consegnare le particole consacrate? Quando e in quale momento
inviare i Ministri? Ad essi poi, recandosi nelle case, va affidato anche il compito di
portare il dono della Parola e di coinvolgere i malati e anziani con la preghiera e il
sacrificio a sostegno delle iniziative pastorali della parrocchia.
PER UN VOLTO ADULTO DEL MINISTERO
¾ Quali dunque le esigenze formative di questo Ministero?
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Innanzitutto esso domanda che i Ministri siano figure dotate di unità personale e di
senso ecclesiale: questo comporta la necessaria competenza (essi vivono il
cristianesimo per gli altri, devono sapere di più di quello che basta per un buon
cristiano) e maturità nella fede adeguata al compito (perché essi non devono
tenere in vita solo la propria fede).
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Si tratta di figure che devono essere educate al senso teologico di una
celebrazione liturgica e a saperla concretamente “fare”. Per questo la Chiesa
desidera che il rito da compiere abbia tutti gli elementi fondamentali della
celebrazione eucaristica: saluto iniziale, atto penitenziale, breve liturgia della
Parola, il Padre nostro e il rito di Comunione, il rito di conclusione (una orazione con
una formula di benedizione). In questo modo si offre la possibilità ai fedeli malati di
accogliere con purezza di cuore la Parola di Dio e rendersi conto che le mirabili
opere da Lui compiute, e che sono proclamate nelle letture bibliche, raggiungono il
loro vertice nel mistero pasquale, attualizzato nell’Eucaristia e partecipato ai fedeli
nella Comunione.
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Si tratta di persone che “sanno” il mistero dell’Eucaristia, sia come mensa della
Parola che del Pane di vita. La prima domanda un minimo di familiarità con il ciclo
dei Vangeli domenicali e con il senso dell’anno liturgico, a cui deve accompagnarsi
una sapiente introduzione al significato del dolore e della sofferenza nella vicenda
di Gesù e del cristiano (per non dire parole inutili o addirittura sbagliate).
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Infine la possibilità di portare la Comunione anche nella forma del Viatico (che
costituisce lo scopo primario e originario della conservazione dell’Eucaristia) offre al
Ministro, capace di costruire un rapporto di familiarità spirituale con il malato e con
l’anziano, una autentica occasione per ritrovare nella vicenda di molti malati lo
smarrito senso del morire nel Signore. È pure evidente che quanto è stato fin qui
detto, mutatis mutandis, vale anche per gli ospedali e per le case di cura.
Un constatazione: senza una certa perseveranza nel Ministero è difficile stabilire
quella familiarità che consente di accompagnare il malato nel suo cammino, senza
però sostituirsi al sacerdote, anzi sollecitandolo perché non manchi la sua visita e
l’offerta del sacramento della Penitenza e, quando opportuno, il sacramento
dell’Unzione degli infermi.
Conclusione
Vorrei sottolineare la forte istanza profetica del gesto del portare la Comunione ai fratelli
sofferenti, spesso in condizioni di solitudine. Trovo riccamente suggestive le riflessioni di
Padre Cantalamessa fatte nel primo ritiro di Avvento predicato alla Casa Pontificia in
presenza del nuovo Pontefice Benedetto XVI (a.2005).
“La venuta di Cristo nell’incarnazione, mantenuta viva nei secoli dall’Eucaristia, rende ogni
posto il primo posto. Con Cristo nel cuore, ci si sente al centro del mondo anche nel più
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sperduto villaggio della terra.
Questo spiega perché tanti credenti, uomini e donne, possono vivere ignorati da tutti, fare i
mestieri più umili del mondo o addirittura chiudersi in clausura, e sentirsi, in questa
situazione, le persone più felici e realizzate della terra. Una di queste claustrali, la Beata
Maria di Gesù Crocifisso, nota con il nome di Piccola Araba per la sua origine palestinese
e la statura minuta, tornando al suo posto dopo aver ricevuto la Comunione, la si sentiva
esclamare tra sé sottovoce: ora ho tutto, ora ho tutto.
Oggi acquista per noi un significato nuovo il fatto che Cristo non sia venuto in splendore,
potenza e maestà, ma piccolo, povero; che abbia scelto per madre un’umile ancella, che
non abbia vissuto in una metropoli del tempo, Roma, Alessandria, o anche Gerusalemme,
ma in uno sperduto villaggio della Galilea, esercitando l’umile mestiere di falegname. In
quel momento il centro vero del mondo, oggi lo sappiamo, non era né Roma né
Gerusalemme ma Betlemme, la più piccola delle città di Giuda e, dopo di essa, Nazareth,
il villaggio da cui si diceva che non poteva venire nulla di buono.
Quello che diciamo della società in generale vale a più forte ragione per noi, persone di
Chiesa. La certezza che Cristo è con noi dovunque siamo e qualsiasi ufficio svolgiamo, ci
libera dal bisogno ossessivo di salire, di fare carriera, di occupare i posti più alti. Nessuno
può dire di essere del tutto esente dal provare in sé tali sentimenti e desideri naturali
(meno che meno i predicatori!), ma il pensiero di Cristo ci aiuta almeno a riconoscerli e a
lottare contro di essi perché non divengano il motivo dominante del nostro agire. Il frutto
meraviglioso di ciò è la pace” (R. Cantalamessa, La fede che vince il mondo. L’annuncio di
Cristo nel mondo d’oggi, Ed. San Paolo 2006, pp. 60-61).
Impegniamoci dunque a coltivare questa consapevolezza nel fratello ammalato che
visitiamo.
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