HR Time

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HR Time
HR Time
Rivista dell’Associazione Direttori Risorse Umane
Testata registrata al Tribunale di Milano il 6 settembre 2007 n. 498
Direttore responsabile:
Dott. Luigi dell’Olio
Direttore editoriale:
Dott. Claudio Malatini
Comitato di direzione:
Dott.
Giovanni
Facco,
Ing.
Giuseppe Fumagalli, Dott.ssa
Piera Marini, Piero Quaroni, Ing.
Stefano Sedda
Coordinatore Comitato scientifico:
Prof. Avv. Pietro Ichino
Comitato scientifico:
Avv. Adriana Calabrese, Prof.
Avv. Maurizio Del Conte, Avv.
Antonio Simonetti, Avv. Antonio
Toffoletto
Numero uno
(settembre 2007)
IN QUESTO NUMERO:
IL SALUTO DEL PRESIDENTE
pag.
2
PRIMA PAGINA:
Donne, la difficile strada verso la carriera (Luigi dell’Olio)
pag.
3
Andare oltre “la complessità” (Giuseppe Fumagalli)
pag.
4
Quale etica per la Direzione Risorse Umane (Stefano Sedda)
pag.
5
La motivazione: il dialogo tra Responsabile e Collaboratore (Marco Parlatini)
pag.
7
Un percorso per l’occupazione femminile (Orsola Fiorani)
pag.
8
RUBRICA SCIENTIFICO/GIUSLAVORISTICA:
Proposte di riforma per il contratto a tempo
determinato (Pasquale Dui)
pag.
9
RUBRICA AMMINISTRATIVO/GESTIONALE:
In tema di T.F.R. ... (Piero Quaroni)
pag.
11
Il costo del lavoro nelle collaborazioni (Ugo Ettore Di Stefano)
pag.
12
SOCIETA’ DI FORMAZIONE:
Presentazione Midiform Business School
pag.
15
1
Il saluto del Presidente
HR Time, la nuova rivista dei Direttori Risorse Umane (GIDP/HRDA) che inizia le
pubblicazioni con questo numero, già dal titolo non può che sostenere la “centralità” della
persona, potremmo dire: è il “momento” delle persone che lavorano nelle aree HR e nelle
aziende.
E’ tempo di occuparsi seriamente di quella risorsa che oggi fa davvero la differenza e può
dare il vantaggio competitivo ad un’organizzazione: la persona, al di là di stereotipi e
luoghi comuni a volte troppo abusati, e chi meglio dei Direttori Risorse Umane è titolato a
farlo?
E’ a loro, in primo luogo, che la rivista intende rivolgersi: per formare una community che
crei squadra, che proponga stimoli culturali e, perché no, provocazioni; che rafforzi
sinergie dai tanti saperi gestiti, che ridia orgoglio a chi oggi interpreta un ruolo e una
professione sempre più difficili e “complessi” cui si richiede non solo scienza e sapienza
ma anche sentimento e umanità.
A loro e al Top management delle aziende, di cui il Direttore HR deve saper essere
sempre più partner per contribuire ai risultati di business.
Ai Direttori delle Risorse Umane e a quanti dagli stessi gestiti: le persone che lavorano in
azienda e che devono sentirsi partecipi degli obiettivi dell’azienda, alle quali richiediamo
motivazione e proattività, creatività e innovazione; persone alle quali chiediamo di
dedicare “tempo”, eccolo il “Time” che ritorna, bilanciando lavoro e vita personale, in un
concetto “olistico”, per avere nelle organizzazioni uomini nella loro completezza e
globalità.
Gli obiettivi sono questi, il percorso è tracciato: sta ora a tutti noi portare avanti il
cammino di questa rivista.
La rivista è di tutti noi, va vissuta e sostenuta prima ancora che letta per non correre il
rischio che finisca poi su qualche scaffale, assieme alle tante riviste che ci limitiamo a
sfogliare e poi dimentichiamo.
Buon lavoro a tutti!
Paolo Citterio
Presidente Nazionale Associazione Direttori Risorse Umane
G.I.D.P./H.R.D.A.
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DONNE, LA DIFFICILE STRADA VERSO LA CARRIERA
Solo cinque manager su cento sono donne, ma nelle risorse umane il dato sale
al 17 per cento.
Risorse umane felice eccezione in un mondo del lavoro ancora a forti tinte maschiliste o
funzione svalutata negli ultimi anni e per questo più disposta a favorire la parità tra i
generi? Il dibattito è aperto nelle H.R. delle aziende italiane, alla luce delle ultime
ricerche di mercato pubblicate sul tema. Federmanager ha calcolato che solo il 5,4% dei
manager impegnati nelle aziende industriali è donna, un dato in linea con quello rilevato
da Fondirigenti (6,1%). La situazione cambia sensibilmente se si considerano le sole
risorse umane: in questo caso, rivela una ricerca di Gidp/Hrda, le donne dirigenti
costituiscono il 17% del totale e la quota sale al 30% se si considerano le sole
multinazionali. Dunque, pur sempre una minoranza, ma ben più consistente.
“Il dato si presta ad una duplice lettura”, osserva Piera Marini, human resourcing and
general affairs director di Saima. “L’approccio ottimistico farebbe gridare al miracolo delle
risorse umane, che hanno abbattuto per prime le barriere al riconoscimento paritario tra
donne e uomini. Tuttavia c’è il sospetto che su questo dato pesi una perdita di rilevanza
della funzione risorse umane rispetto al passato”. Il ragionamento è semplice: sino a
quando la funzione ha ricoperto un ruolo di frontiera, nella stagione dei grandi conflitti
sindacali, le donne manager si contavano sulla punta delle dita. Il quadro è cambiato con
la progressiva migrazione verso una società dei servizi e l’appianarsi delle tensioni sui
luoghi di lavoro. Mentre ci sono funzioni rilevanti nell’organizzazione aziendale che
conservano un atteggiamento di sostanziale chiusura verso le donne manager: è il caso
delle vendite, dell’information technology e della direzione finanziaria.
In generale, comunque, la maggior parte delle donne che lavorano è concentrata in
occupazioni di routine, in ruoli che rivestono uno scarso prestigio sociale e riceve salari
più bassi rispetto agli uomini impegnati nelle stesse funzioni. Inoltre, in ambito lavorativo
alle donne vengono richieste qualità che rappresentano una proiezione dei caratteri
materni oltre la famiglia, come l’abilità nel curare le relazioni e attenuare i conflitti. “A
favore delle risorse umane gioca la sensibilità richiesta dal ruolo”, osserva Patrizia
Bonometti, hr manager di Tenaris Dalmine. “Le donne spesso sono più portate dei loro
colleghi maschi alla gestione delle relazioni personali e al contemperamento dei diversi
interessi e punti di vista”.
Sembra che a poco siano fin qui servite anche le politiche di diversity management
attuate da alcune aziende: servizi come l’asilo nido aziendale, l’ufficio postale interno
all’impresa e le strategie di promozione della parità di genere restano casi isolati nel
panorama imprenditoriale italiano. Pesa, poi, la struttura familiare fortemente
sbilanciata: una ricerca realizzata da Arcidonna – associazione che promuove il ruolo
delle donne sui luoghi di lavoro - rivela che il 54% dei dirigenti in gonnella dedica almeno
un’ora al giorno alle faccende domestiche, contro il 22% degli uomini. Mentre il tempo
che le donne ritagliano per i propri interessi è circa il 25% inferiore rispetto ai colleghi. Di
conseguenza gli uomini beneficiano di più tempo libero, opportunità, scelte, aspirazioni. E
forse, anche per questo, possono concentrarsi maggiormente sul lavoro.
Il quadro è più confortante solo nelle aziende di famiglia, con le donne manager che
rappresentano il 10% del totale. Tuttavia c’è poco da esultare: nella maggior parte dei
casi si tratta di figure professionali che arrivano al vertice perché nella maggior parte dei
casi fanno parte degli assetti proprietari dell’azienda in virtù dei legami di parentela con i
fondatori. Per chi arriva dall’esterno, invece, la strada verso la carriera in un’azienda
familiare è ancora più dura.
Dott. Luigi dell’Olio
3
Direttore responsabile HR Time
ANDARE OLTRE “LA COMPLESSITA’”
Se si pensa all’impresa come ad un sistema, la reale dimensione della “complessità”
sfugge in quanto si tende a focalizzarsi sui problemi legati al governo delle decisioni e
della loro implementazione. La complessità appare allora in tutta la sua incombenza ed
immanenza, come risultato del passaggio da un ambiente stabile e circoscritto ad uno
dinamico e, in un certo senso, poco prevedibile, in quanto soggetto ad un continuo
cambiamento: ecco quindi l’aumento della complessità di fronte alla sfida dei mercati e
dei business, della tecnologia e della gestione dei professional workers, e alla
velocizzazione dei processi.
La complessità affiora così, prima di tutto, già negli schemi mentali utilizzati per
analizzare i problemi, e si trasferisce quindi sulla carta nelle procedure e nei manuali, che
si accumulano e soffocano, nella loro pretesa di codificare l’incodificabile, la progettualità.
Ma mai come oggi, in un’epoca dominata dal caos e dalla velocità, il manager deve
sapersi muovere con l’abilità di un “camaleonte” per adattarsi all’ambiente mutevole in
cui opera, mantenendo comunque quella solidità di base che gli permetta di essere
“stabile” nel tempo; mai come oggi, dato che è diventato più complesso operare in
azienda, occorre “depotenziare la complessità” in quanto fonte di possibili errori e
d’incertezze nei comportamenti dei singoli.
Il grado di complessità dell’ambiente richiede, in particolare, un’evoluzione del profilo
manageriale: per il manager che non si trova più ad agire in un ambiente stabile ma in
situazioni in evoluzione e complesse, il focus diventa motivare, “fare squadra”, guidare
attraverso l’esempio e i valori che incarna, rappresenta ed esprime.
Se, per contro, l’aspetto della complessità prevale, anche il tema del lavoro nelle aziende
si riduce ad un problema di motivazione da “indurre” nelle persone; e cade l’opportunità
e la scelta proattiva di progettarlo come uno strumento di valorizzazione del patrimonio
personale “tacito”, non espresso. Il sistema rischia allora di decadere ad un puro
complesso di tecniche di manipolazione che diventa complicato e costoso implementare e
gestire.
E’ solo l’intendere l’impresa come un continuum di azioni sociali, che partendo dalle
procedure valorizzano le esperienze e le competenze, un potenziale di risorse affettive e
cognitive sempre più vasto di quanto si pensi, fino a raggiungere una condivisione di
obiettivi, che permette di vivere la complessità come un’opportunità e non, invece, come
un vincolo da aggredire.
La vera sfida della complessità e il modo per “andare oltre”, è considerarla un’occasione
per la crescita professionale e personale di chi lavora in azienda e per liberare energie
trasformatrici di conoscenze, attraverso la “semplicità” dell’organizzazione: non sembri
un paradosso, ma è la semplicità organizzativa riferita agli scopi, a obiettivi ben precisi e
non dispersa sui temi del potere e degli organigrammi che permette di utilizzare le
competenze delle persone e di accrescerle.
La sfida della complessità va affrontata col rafforzamento delle conoscenze ma anche con
innovazione e creatività, elementi fondamentali di un’organizzazione capace di generare
innovazione e di apprendere; questo finisce per innescare un cambiamento culturale
profondo, con effetti che si riflettono anche sul management, e segnano un’accelerazione
nel passaggio da strutture gerarchizzate a soluzioni a “rete” e alla flat organization.
Un’impresa, e quindi un’organizzazione, “umile” e fondata sull’ascolto, sull’attenzione e
sul rispetto, diventa semplice in tutta la sua presunta complessità.
Ing. Giuseppe Fumagalli
Eni Corporate University
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QUALE ETICA PER LA DIREZIONE RISORSE UMANE
La nuova sfida per chi gestisce le persone in azienda
Perché parlare di Etica oggi inserendola nel dibattito sul ruolo di una Direzione Risorse
Umane adeguata a supportare l’azienda nel contesto competitivo odierno?
Prima di rispondere a questa domanda è opportuno partire dalle definizioni di Impresa e
di Etica quando la si considera in un contesto aziendale. Per Impresa s’intende
quell’entità, reale e concreta, che sviluppa delle azioni finalizzate alla realizzazione di un
Valore Economico, attraverso il contributo delle persone che vi fanno parte e che
concorrono alla produzione di questo valore.
Il concetto di Etica di Impresa (o Etica per l’Impresa) è invece più complesso; è infatti
necessario estendere il senso comune che attribuisce all’etica l’insieme di tutti i
comportamenti basati su principi e valori giusti, moralmente corretti, utilizzando la teoria
del filosofo indiano Amartya Sen (successivamente ripresa dalla filosofia americana
Martha Nussbaum) che parla di “Etica delle Capacità”. Partendo dai concetti fondanti di
questa teoria possiamo parlare di Etica di Impresa finalizzata alla definizione dei criteri
necessari per orientare le scelte e le azioni che in un’azienda portano alla produzione del
valore. Criteri che hanno una rilevanza generale e che, come tali, impattano su tutta la
comunità degli stakeholders (intesi come coloro che hanno un interesse nell’impresa, ivi
compresi i sui dipendenti) e non riguardano esclusivamente solo le singole persone, i loro
comportamenti e la loro esistenza.
I principi dell’Etica delle Capacità portati in azienda, infatti, comprendono sì il codice e i
valori che dovrebbero essere alla base di qualsiasi relazione tra persone - ma si
estendono alla costruzione dei principi con i quali una Direzione Risorse Umane moderna,
e soprattutto funzionale agli obiettivi dell’Impresa, può e deve uscire dalla nicchia in cui
troppo spesso è confinata (a volte anche volontariamente) per creare valore e fornire un
contributo concreto e tangibile al risultato economico dell’azienda. Una Direzione Risorse
Umane, quindi, parte attiva in ogni aspetto del sistema organizzativo composto
dall’insieme di processi e dalle relazioni che si creano tra le persone che fanno parte
dell’azienda.
Secondo l’Etica delle Capacità ogni individuo possiede delle “capacità” che traduce, in
relazione alle circostanze e alle possibilità, in “funzionamenti”; il risultato dell’impresa è
dovuto ai funzionamenti dei singoli e al modo con cui questi interagiscono tra loro.
Per completare il nostro ragionamento utilizziamo l’ultimo libro di T. Davenport, “Human
Capital”, nel quale egli afferma come sia sbagliato e fuorviante definire le persone risorse
(umane) che, invece, devono più correttamente essere viste come proprietarie di risorse
(le “capacità” per l’appunto) che decidono se e come mettere a disposizione dell’Impresa
per cui lavorano sulla base di una contrattazione (e quindi farli diventare
“funzionamenti”). Contrattazione che va intesa in una logica estesa di total reward e che
include non solo la parte economica ma tutte le altre componenti quali clima, ambiente,
sviluppo e gestione delle relazioni interpersonali.
Pertanto la Direzione Risorse Umane si deve affermare, inequivocalmente, come la
funzione che regola i contratti collaboratore-impresa, che ne detta le regole e che
garantisce che siano rispettati sia da parte dell’individuo che da parte delle altre
componenti dell’impresa; in altre parole è responsabile di trasformare le capacità in
funzionamenti nel breve, medio e lungo termine.
L’azione delle Direzione Risorse Umane ha quindi una duplice valenza verso l’individuo e
verso l’impresa.
La Direzione Risorse Umane deve concorrere a definire gli obiettivi (quali risultati
raggiungere) e i valori (come raggiungerli) dell’Impresa cui appartiene e tradurli in
“capacità” da acquisire; comprendere cioè quali professionalità e quali caratteristiche
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personali devono appartenere alle donne e agli uomini che fanno parte dell’azienda o che
ne dovranno far parte in futuro.
Deciso questo, che diventa il “fabbisogno di capacità”, deve cercare e individuare le
persone che possiedono queste “capacità” e stabilire con loro un sistema di
contrattazione adeguato.
Sistema che funziona solo se è fondato su principi corretti, imparziali e moralmente validi
e basato su regole condivise trasparenti e comunicate, nonché garantito dall’azione della
Direzione Risorse Umane; essa, infatti, è da un lato la garante che i principi e i modi di
gestione della relazione “contrattuale” del singolo siano sempre rispettati e applicati nelle
altre relazioni, dall’altro che questi principi siano rispettati dagli altri componenti
dell’impresa.
Compito questo difficile in presenza di una disomogenità di valori tra le varie Direzioni
aziendali allorquando si rischia che quanto concordato da due parti (DRU e singolo) sia
disatteso da una terza (ad esempio Direzione di linea) creando una distonia tra quanto si
pensa debba essere fatto e quanto in realtà avviene. In questo modo si crea
disorientamento e si rischia che l’individuo si chiuda in sé stesso, perda i modelli e le
regole di riferimento e smetta di tradurre in funzionamenti le sue capacità.
Altro obiettivo della DRU è quello della creazione di un sistema Sociale-Organizzativo che
abiliti le capacità di tutti e che le indirizzi in modo organico e coerente verso la creazione
del valore atteso dell’impresa. Anche questo passaggio è delicato in quanto il sistema è si
progettato dalla DRU ma poi nella vita di tutti i giorni è messo in pratica da altri, in un
contesto fluente ed in continuo cambiamento.
L’Etica delle Capacità della Direzione Risorse Umane si traduce quindi nell’adozione di
comportamenti moralmente corretti ma anche nella sua capacità di contribuire alla
produzione del valore per l’impresa. In conclusione possiamo affermare che la correttezza
alla base di tutti i comportamenti etici prevede l’assunzione di responsabilità se i risultati
non sono raggiunti.
E’ infatti solo con la capacità di riconoscere quando non si c’entra l’obiettivo che gli altri ci
riconosceranno il merito quando invece si raggiungono i risultati previsti.
Ing. Stefano Sedda
Direttore del Personale e Organizzazione
Gruppo Blu Hotels
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LA MOTIVAZIONE
Il dialogo tra Responsabile e Collaboratore
Quante parole sono state spese sulla necessità di dialogo tra responsabile e
collaboratore? Capita spesso però di ritrovarsi al punto di partenza, senza sapere che
fare.
Spesso nella gestione delle politiche retributive accade qualcosa di strano: uno
sdoppiamento, del tipo dottor Jekill e mr Hyde, da parte del capo, che promette al
proprio collaboratore aumenti di livello e miglioramenti retributivi, salvo poi vedersi
addossare tutte le responsabilità se ciò non avviene.
Per comprendere meglio i meccanismi in gioco in questo dialogo è giusto partire
dall’inizio: quando un nuovo collaboratore viene inserito nella struttura di
un’organizzazione aziendale, riconosce come elemento fondamentale del proprio
ambiente lavorativo il responsabile, e in lui vede riflessa la sua immagine professionale
proiettata nel futuro. Quindi il capo, se da un lato è rivestito di un significato negativo
perchè fonte di giudizio sull’operato, dall’altro è la persona da cui si cerca di carpire le
competenze per la propria crescita. Da lui ci si aspetta competenza, dedizione, capacita’
di gestione e di relazione. Il capo deve essere dotato di grande passione per il suo ruolo,
deve avere grandi motivazioni da trasmetterne agli atri, deve condividere
intrinsecamente i valori aziendali: agli occhi del collaboratore, il capo è l’azienda.
E se il collaboratore si dovesse illudere? Ecco che arriva puntuale come un orologio
svizzero la delusione. Quali potrebbero essere i KPIs per valutare se il nostro
collaboratore è deluso? Proviamo a ragionarci. Se il collaboratore è deluso si capisce dal
suo sguardo, indicatore maggiore della condizione di scontentezza: nei momenti di
confronto con il responsabile esso non è più attento e vivace, ma sfuggente e spento.
Il secondo KPI cui prestare attenzione è la postura, poichè quando la delusione
caratterizza lo stato d’animo del lavoratore egli assume una posizione sottomessa e non
paritaria; se, prima della rottura, il suo atteggiamento è stato proteso verso il
responsabile, desideroso del contatto, attivo e comunicativo, successivamente è fiacco e
introspettivo.
Il terzo elemento da considerare è il tono della voce, il quale da vivace e acceso diventa
timido. Tutto questo si traduce in una performance insoddisfacente che punta al
raggiungimento di obiettivi minimi e non piu’ all’eccellenza, gli orari di lavoro si riducono
drasticamente, arriva la perdita di fiducia per una possibile gratificazione da parte del
capo e anche dell’azienda.
Quindi, per avere un’organizzazione efficiente con livelli di massima produttivita’, bisogna
evitare attriti, delusioni, false promesse, e cercare di creare uno spirito di squadra.
Quanti film ci hanno emozionato grazie all’accento posto sul valore dello spogliatoio?
Storie nelle quali squadre di giocatori mediocri, uniti dal senso di appartenenza,
sconfiggono plotoni di campioni dotati? Anche se in modo meno poetico, questa morale
dovrebbe valere anche in azienda.
Dott. Marco Parlatini
Human Resources Manager
Direzione Operazioni Industriali
Chiesi Farmaceutici S.p.A.
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UN PERCORSO PER L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
E’ dato dimostrato che a uomini e donne non si applichi lo stesso trattamento lavorativo:
maggiore tasso di disoccupazione, compensi più bassi, posizioni di minore prestigio e
responsabilità sono per le donne.
Dibattiti, conferenze, relazioni della Commissione Europea portano fortunatamente
all’attenzione i problemi del mercato del lavoro femminile, proponendo monitoraggi e
miglioramenti che, forse, vedremo nel lungo periodo. Nel frattempo statistiche e studi
europei mostrano un’Italia che registra indici comparativi che la pongono in una
situazione indubbiamente arretrata rispetto ad altri Paesi Europei.
Perché c’è ancora tanta strada da fare? La ricerca delle cause potrebbe aiutare a
delineare un percorso di modernizzazione.
La storia dipinge contesti ed evoluzioni culturali diversi in Paesi diversi: l’Italia viene da
una solida tradizione familiare, nella quale padre e madre avevano ruoli predefiniti, l’uno
destinato al mantenimento dei congiunti, l’altra ai figli, a farli, accudirli ed educarli.
Questa immagine si è così fortemente radicata nella nostra cultura che, ancora oggi,
nonostante evidenti ed innegabili cambiamenti, continua ad essere il filo conduttore di
una società in cui le pari opportunità sono in molti casi ancora scritte sulla carta.
Così le capacità, l’intraprendenza, la preparazione di molte donne che vogliono trovare,
mantenere o migliorare la loro collocazione lavorativa, si trovano a scontrarsi con le
condizioni imposte da una cultura in cui il compromesso consiste nell’avere meno a parità
di risorse investite. E tutto questo è messo in seria discussione con la nascita dei figli:
con un figlio si riesce a mantenere il posto di lavoro, ma con due o tre? Le donne si
trovano a dover scegliere: la cura dei figli richiede un impegno non compatibile con il
proseguimento dell’attività lavorativa, con la contraddizione che più aumenta
l’occupazione femminile meno cresce il tasso di natalità che ci colloca tra gli ultimi posti
della classifica europea. Per non parlare poi di come tasso di occupazione e tasso di
natalità subiscano un andamento opposto e le famiglie che potrebbero permettersi il
mantenimento dei figli, di fatto hanno un numero di figli inferiore rispetto alle famiglie
alle soglie della povertà.
Ma vediamo anche il fenomeno dalla parte imprenditoriale. Il livello di competitività è tale
che le aziende adottano politiche di contenimento dei costi che riguardano anche il
personale. Un’azienda che debba affrontare un’assenza ripetuta per mesi di una donna in
maternità registrerà una perdita iniziale di efficienza dell’attività, nonché costi aggiuntivi
di gestione, non potendo pianificare il rientro della dipendente. E quanto durerà questa
assenza? Cinque, undici o altri mesi ancora, se la donna deve stare a casa perché “non
riesce ad organizzare la sua vita privata con il rientro al lavoro”? Se voi foste l’azienda
non sareste tentati di assumere un uomo piuttosto di una donna? Questi comportamenti
caratterizzano profondamente il mercato del lavoro, tanto che il ruolo della donna
continua a non trovare unicità e completezza, scindendo la componente professionale da
quella familiare, entrambe di potenziale soddisfazione e realizzazione.
E’ più urgente che mai trovare un punto di incontro tra bisogni, delle donne e delle
aziende.
Strumenti contrattuali e non come il part-time, il telelavoro, i congedi di paternità
possono aiutare, ma non bastano a risolvere lo squilibrio.
Determinanti sono invece le strutture, gli asili nido, ma non quelli che chiudono alle
quattro di pomeriggio, che costano più di uno stipendio o per i quali devi metterti in coda
alle sei di mattina per iscrivere il bambino. Per struttura si intende qualcosa di più
articolato, organizzato e pianificato, accessibile a tutti e capillarmente diffuso. E’
sicuramente un cambiamento di mentalità, per le aziende e per le lavoratrici, ma
consentirà di ridurre quel divario che vede penalizzate le donne nella carriera e nella
retribuzione non solo nei confronti degli uomini ma anche di molte altre donne europee.
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Dott.ssa Orsola Fiorani
LAVORO A TERMINE E PROPOSTE DI RIFORMA
La dottrina divisa tra tutela dell’occupazione e del posto di lavoro
L’attuale dibattito sul contratto di lavoro a tempo determinato si innesta su un piano
nettamente distinto da quello che ha caratterizzato l’analisi di questi primi 5/6 anni di
vigenza delle disposizioni del 2001 (d.lgs. 368/2001), le quali hanno introdotto la ben
nota disciplina attuale, completamente innovativa rispetto a quella precedente.
Gli elementi caratterizzanti questa disciplina, attuativa di specifici obblighi comunitari,
possono così riassumersi:
1. individuazione di causali per tipologia descrittiva, indipendentemente dal riferimento
ad esasperate e/o analitiche casistiche (è oggi consentita l’apposizione del termine, in
via generale, “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo”) (art. 1);
2. controllo giudiziale sulla effettiva sussistenza/consistenza di una delle ragioni, ma non
sul merito della stessa o sulle connesse scelte organizzative del datore di lavoro, le
quali restano insindacabili. In questi termini, l’intervento di controllo sull’utilizzo del
contratto a termine, necessariamente successivo, è mirato a contrastarne l’abuso
attraverso l’utilizzo di causali non riconducibili ad una situazione oggettiva del tipo di
quelle descritte dalla legge (causali verosimili possono considerarsi gli aumenti di
produzione in genere; le necessità riconducibili ad una riorganizzazione interna delle
risorse umane o, per esempio, dei sistemi produttivi e/o informativi aziendali, o,
ancora, più in generale, quelle predisposte per un migliore funzionamento
dell’impresa);
3. individuazione di limiti quantitativi per l’utilizzazione dell’istituto, rimessi alla
contrattazione collettiva nazionale, secondo il modulo ormai generalizzato della delega
alle parti sociali sul “contingentamento” di alcune forme di accesso al lavoro
considerate particolarmente delicate o, comunque, tali da non poter essere lasciate
alla libera contrattazione tra imprese e lavoratori (art. 10);
4. previsione di meccanismi per arginare il fenomeno delle proroghe attuate senza il
consenso genuino del lavoratore. È questo, insieme al primo punto, quello più
delicato, laddove mirato ad evitare, appunto, l’utilizzo continuato e reiterato del
contratto a termine senza un adeguato meccanismo dissuasivo a carico delle imprese
che, a fronte di offerte di lavoro per successivi blocchi di mesi/anni, con la
riproposizione della medesima motivazione produttiva e/o organizzativa del primo
contratto, possano di fatto eludere la disciplina pilota. Il pericolo è ora escluso, come
ben noto, dalla previsione di una sola proroga (art. 4).
L’intervento paventato dal ministro del lavoro sulla attuale disciplina muove dalla
considerazione della ritenuta insufficienza della riforma del 2001 (a suo tempo realizzata
sulla base di un avviso comune tra le parti sociali non sottoscritto dalla CGIL) ad attuare
pienamente quella lotta alla precarietà che il governo vuole perseguire. L’invito rivolto
alle suddette parti nei mesi scorsi è stato dunque quello di raggiungere un nuovo avviso
sociale, che ponga le basi per una diversa disciplina sulla materia.
La disciplina da ipotizzare, così, dovrebbe essere impostata sul diverso, capovolto
principio per cui, posto che la forma normale del rapporto di lavoro sia quella a tempo
indeterminato, quella a termine dovrebbe rispondere a esigenze precise delle aziende.
La questione non è di poco conto, come può agevolmente intuirsi, considerato che le
reazioni delle parti sociali sono state, come prevedibile, di segno nettamente opposto.
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Si tratta, però, di stabilire, proprio sulla base dell’esperienza di questi ultimi anni, se
veramente questa disciplina legislativa ora in discussione abbia portato solo occupazione
precaria, o non, piuttosto, occupazione flessibile, anche sulla base della considerazione
che difficilmente gli obiettivi della stabilità del lavoro possono essere raggiunti attraverso
disposizioni che mirano a disciplinare la struttura interna del contratto di lavoro,
prescindendo dai profili di politica economica e, conseguentemente, occupazionale.
Occorre, in buona sostanza, tenere in debito conto la distinzione tra tutela (e/o
incentivazione) dell’occupazione e tutela del posto di lavoro: le leggi sull’occupazione e
sul suo rilancio incentivano la prima; le leggi sul rapporto di lavoro incentivano la
seconda. Ogni errore di impostazione che si riverberi nelle scelte specifiche di politica
legislativa, senza tenere conto di questa precisa distinzione, può creare molti più danni
che benefici.
In questo senso, sembra proprio che, al di là di ogni semplificazione spicciola con
apparenti questioni di natura sindacale, non possa negarsi l’incontrovertibile dato che la
disciplina di un rapporto di lavoro a tempo determinato, tale da semplificare la possibilità
del ricorso allo stesso e, nel contempo, evitare il pericolo di abusi, contribuisca ad
incrementare il numero dei posti di lavoro. Ogni intervento sulla relativa disciplina,
dunque, dovrebbe tenere in debito conto questa precisa considerazione.
Avv. Pasquale Dui
Partner Studio legale Dui e Associati
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IN TEMA DI T.F.R. …
In tema di t.f.r., in questo periodo, abbiamo sentito di tutto e il contrario di tutto. Il
Governo ha auspicato che i lavoratori operassero una scelta seria e responsabile, ma poi
ha fatto i conti sull’elevata liquidità che affluirebbe all’INPS da parte di chi non opera tale
scelta; i sindacati si dicono fortemente preoccupati sul futuro pensionistico dei lavoratori,
ma hanno cercato e cercano, in maniera talvolta anche pressante, di tirare l’acqua al
mulino dei loro fondi, anche se scarsamente redditizi. Si è creata la convinzione che la
scelta di un fondo possa essere semmai d’interesse per chi ha davanti una vita lavorativa
lunga, mentre non sia conveniente per chi è prossimo alla pensione.
Chi ha maturato una decisione con largo anticipo, ha dovuto assistere all’offensiva da
parte di fondi, banche e assicurazioni scatenatasi in giugno insieme ad una sana
concorrenza.
Non meraviglierebbe se qualcuno ora proclamasse: “Il mio fondo è così ben
amministrato, che garantisce uno X%”, dove X sia un reddito interessante e superiore
agli altri. A quel punto chi aveva già optato per altre soluzioni, dovrà attendere due anni
prima di poter cambiare.
Ma è sull’ultima affermazione che vorrei richiamare l’attenzione dei lettori, pregandoli di
seguirmi nel ragionamento, se già non l’avessero fatto per conto loro.
Se l’opzione è per la conservazione del t.f.r. (che sia in azienda o presso l’INPS), alla fine
del rapporto esso sarà corrisposto con lo stesso criterio degli scorsi anni. Se viceversa
l’opzione è per un fondo, la rendita che ne deriverà con pochi anni di versamenti sarà
risibile, a fronte di un capitale che ha comunque un suo interesse.
Tuttavia, ci si potrebbe avvalere, a quel punto, dell’opzione prevista dall’art. 11, 3°
comma, del Decreto Legislativo 5/12/2005 n° 252 che recita: “Nel caso in cui la rendita
derivante dalla conversione di almeno il 70% del montante finale sia inferiore al 50%
dell’assegno sociale (…) la stessa può essere erogata in capitale”.
Considerato che nel 2007, l’assegno sociale ammonta ad Euro 389,36 mensili, cioè
5.061,68 annuali, per arrivare a costituire una rendita pari al 50% di detto importo
occorre aver versato un capitale che, in base alle tabella attuariali, si aggira intorno a
48.000 Euro: a quel punto, siccome non l’avrò raggiunto, posso avvalermi dell’opzione di
ritiro del 100% del capitale, che sarà tassato al 15% definitivo, contro un minimo del
23% che però, per un direttore del personale, ordinariamente è molto di più: ipotizzando
un t.f.r. (calcolato su una retribuzione di 100.000 Euro per tre anni di lavoro residuo) di
20.000 Euro questo mi verrebbe tassato al 15%, e cioè 3.000 Euro, anziché al 35,46%
(ipotizzando – è una semplificazione, d’accordo – che il reddito sia rimasto costante negli
ultimi cinque anni) e realizzando così, senza colpo ferire, un risparmio fiscale di 4.092
Euro.
Tutto sommato non male, no?
Piero Quaroni
Pirola Pennuto Zei
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"IL COSTO DEL LAVORO NELLE COLLABORAZIONI"
Il costo del personale è certamente una delle voci di spesa più significative per
l’azienda. Ne consegue l’importanza di una precisa conoscenza delle sue componenti ed
un costante monitoraggio che consentano di ottimizzare tale onere economico;
ovviamente compatibilmente con la relativa normativa di riferimento. In particolare,
l’evoluzione del mercato del lavoro e i mutati processi produttivi, hanno contribuito (al
fine di garantire maggiore competitività all’impresa mediante l’utilizzo della tanto
conclamata flessibilità del lavoro) a far sì che la quota di spesa per il “personale non
dipendente” assumesse un ruolo sempre più rilevante (in quanto personale considerato,
non a torto, maggiormente flessibile in entrata, uscita e, talvolta, anche per mansioni
affidate).
Tra i lavoratori non dipendenti, ovvero collaboratori, includiamo l’ampissima categoria
che il diritto del lavoro definisce di lavoro autonomo. Trattasi non solo dei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co. e lavori a progetto, cosiddetti
parasubordinati) ma altresì le prestazioni d’opera o di servizi occasionali, anche svolte da
liberi professionisti titolari di partita i.v.a., le collaborazioni con agenti e procacciatori
d’affari, gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, le cessioni di diritti d’autore,
etc. In questa categoria rientrano infine anche le cariche di Amministratori e sindaci di
società.
Tale diversità di tipologie rende necessaria molta prudenza in ogni trattazione che
intenda essere unitaria del fenomeno. E ciò in quanto le norme civilistiche, fiscali,
previdenziali sono talvolta mal coordinate e comunque diverse per le diverse tipologie
citate. Pertanto, senza poter qui scendere nel dettaglio analitico della determinazione dei
costi per ciascuna tipologia di rapporto di collaborazione, si possono comunque
evidenziare alcuni tratti comuni alle problematiche connesse all’effettivo costo sopportato
dal datore (rectius committente) per ciascun rapporto di collaborazione.
Ovviamente la componente del costo di maggior rilievo è data dal compenso pattuito1.
In linea di principio esiste la piena libertà delle parti nel concordare in sede di trattative il
corrispettivo per la collaborazione, non sussistendo, come per i rapporti di lavoro
dipendente, il vincolo del rispetto dei minimi dei CCNL, in quanto pochi e poco applicati
sono i CCNL per i lavoratori parasubordinati. In realtà, però, già l’art. 63 del d.lgs.
276/03 (c.d. Legge Biagi) introduceva una limitazione a questo principio, statuendo che
“il compenso corrisposto (…) deve tener conto dei compensi corrisposti per analoghe
prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”. Inoltre la Legge
Finanziaria per il 2007 (comma 772), da ultimo, ha indicato che tali compensi “devono
tener conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni di analoga
professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi nazionali di riferimento”. Su
questo il Ministero del Lavoro ha recentemente chiarito (in una risposta data in occasione
del “Forum Lavoro 2007” tenutosi a febbraio 2007) che in assenza di CCNL applicabili ai
lavoratori autonomi il riferimento dovrà essere fatto ai CCNL sottoscritti dalle OOSS dei
lavoratori subordinati2. La difficoltà di applicazione di tali parametri di riferimento
1
In sede di trattative contrattuali risulta assolutamente doveroso, se possibile e a meno che non si possiedano le
necessarie competenze tecniche e giuslavoristiche, concordare il compenso della prestazione al lordo di ritenute
e contributi di legge dovuti. Non è infatti raro il rischio di essere successivamente smentiti (o sul netto ipotizzato
o sul costo lordo azienda preventivato) nel momento in cui l’amministrazione provvederà a corrispondere il
compenso al netto delle ritenute e contributi operate.
2
La risposta in realtà si presta ad alcune critiche. In primis la norma parla di compenso e non di retribuzione
laddove il primo termine indica il corrispettivo di un contratto di lavoro autonomo e il secondo è specifico per il
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comporta che, nella prassi, il compenso sia liberamente pattuito tra le parti solo in
ragione delle “tacite leggi” della domanda e dell’offerta del mercato del lavoro e al
momento non risultano pronunce di Giudici che abbiano disposto una rideterminazione
dei termini economici del contratto in relazione alle disposizioni citate. La normativa,
invece, non prevede nessun compenso obbligatorio in sede di conclusione del rapporto o
di raggiungimento di specifici obiettivi aziendali con istituti equiparabili al TFR o al MBO
dei dipendenti, tali voci potranno essere però, naturalmente, pattiziamente introdotte nel
contratto.
Il generale principio di libera determinazione del compenso, comunque, non è
pienamente valido (fatte salve le recenti norme in materia di liberalizzazione delle tariffe
professionali) per quei collaboratori liberi professionisti, iscritti ad Ordini professionali,
con tariffe ed onorari previsti da apposite tabelle regolarmente approvate.
Una volta determinato il compenso occorre conoscere i contributi e le imposte che su
esso gravano. Come anticipato, le aliquote e quindi gli importi, variano secondo la
qualificazione del rapporto di collaborazione. Per esemplificare, in materia di contributi
di previdenza: in caso di prestazione d’opera occasionale e senza coordinamento il
compenso non sarà gravato da alcun contributo previdenziale fino al limite di 5.000,00
euro (inteso come limite del reddito di lavoro autonomo occasionale annuo del
collaboratore medesimo nei confronti di tutti i suoi committenti). Oltre tale soglia e/o per
le collaborazioni coordinate continuative, anche a progetto, sono dovuti i contributi nella
misura del 16% (pensionati o titolari anche di altre forme di previdenza obbligatoria) o
23% ripartiti nella misura di 2/3 a carico del “datore” e 1/3 a carico del collaboratore e
versati tutti direttamente dall’azienda committente. A questo proposito, la finanziaria
2007, che ha disposto l’innalzamento di alcune aliquote previdenziali, ha anche sancito
che, per evitare che alcuni datori di lavoro scarichino sul collaboratore l’intero incremento
dei contributi, il compenso al netto non possa essere inferiore al netto corrisposto al
medesimo collaboratore nell’anno precedente (ovviamente a parità di condizioni
contrattuali, e ciò rende la norma di difficile applicazione).
I professionisti con i.v.a. invece versano direttamente i contributi e hanno facoltà di
richiedere all’azienda solo un contributo integrativo (nella misura del 2% o 4% secondo
le figure professionali con o senza propria Cassa di previdenza).
Per i profili fiscali vale certamente la medesima affermazione di estrema varietà delle
aliquote applicabili in considerazione della qualificazione del rapporto. In sostanza occorre
verificare caso per caso quale tipologia di reddito si debba applicare alla collaborazione:
reddito assimilato a quello dipendente, reddito di lavoro autonomo professionale abituale,
redditi diversi anche di natura autonoma occasionale, redditi per cessione diritti d’autore,
redditi d’impresa (in quest’ultimo caso, però, siamo nel pieno di un rapporto commerciale
e fuori dell’ambito del rapporto di lavoro propriamente detto). Tralasciando, per brevità in
questa sede, i regimi i.v.a. semplificati e forfetari, le agevolazioni sulla cessione dei diritti
d’autore e la particolare disciplina delle ritenute fiscali sulle provvigioni per alcuni rapporti
(agenti e procacciatori, venditori porta a porta, etc…), ricordiamo unicamente che in caso
di prestazioni occasionali o professionali il committente applicherà una ritenuta a titolo di
acconto del 20% (oltre ad un ulteriore 20% di i.v.a. per i professionisti con partita iva);
in caso di collaborazioni a carattere coordinato e continuativo (anche a progetto) le
ritenute fiscali sono assimilabili a quelle operate per i lavoratori dipendenti e quindi
incidono per scaglioni di reddito.
Per esemplificare: qualora un soggetto abbia, nel corso dell’anno, dodici collaborazioni
qualificabili come occasionali con compenso concordato di 1000,00 euro lorde per
lavoro dipendente. Vi sono poi perplessità anche in relazione alla concreta applicabilità della norma data la
difficoltà di individuare poi, caso per caso, la qualifica e livello di riferimento per un collaboratore nei profili
individuati dai CCNL. Non a caso, infatti, il Ministero ha altresì chiarito che gli ispettori del Lavoro non
potranno dare effettività a tale norma che avrà una valenza esclusiva per il collaboratore solo in sede di
contenzioso con il committente.
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ciascuna collaborazione, il collaboratore percepirà un importo “netto” di 800,00 euro
(salvo conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi) e il costo azienda coinciderà con il
compenso lordo pattuito. Al contrario, in caso di collaborazione a progetto per un anno,
del medesimo importo di 1.000,00 al mese, l’importo netto percepito risulterà pressoché
il medesimo (il datore opera già le ritenute senza necessità di conguaglio), ma il costo
azienda salirà a quasi 14.000,00 euro! Se invece lo spesso compenso sarà percepito a
titolo di cessione diritti d’autore (magari da un soggetto che avendo meno di 35 anni può
godere della riduzione dell’imponibile previsto dall’ultima legge finanziaria) ad un costo
azienda di 12.000,00 euro corrisponderà un netto erogato pari a circa 10.600,00 euro.
Non immediatamente quantificabili, ma certamente onerosi, sono i costi di gestione
delle collaborazioni; Si aggiungono infatti agli oneri fiscali (ritenute, irap, etc…) e
previdenziali (INPS, INAIL, etc…), tutti i costi relativi alla gestione degli adempimenti non
solo amministrativi; a titolo non esaustivo ricordiamo: elaborazioni cedolini paga e,
iscrizione libri obbligatori (obbligatori per i cococo e cocopro), certificazione compensi e
ritenute effettuate, comunicazioni di legge ad enti previdenziali e centri per l’impiego,
gestione dei pagamenti delle ritenute e contributi, rimborsi spese e di mensa dove
previsti e consentiti, attuazione misure di sicurezza, messa a disposizione di
infrastrutture e strumentazioni aziendali, predisposizione piani di investimento e budget
del costo del suddetto personale, eventuali costi per la gestione di sviluppo e formazione
dei medesimi collaboratori, etc…
Un discorso a parte meriterebbe poi il tema del regime di deducibilità, per l’impresa, di
tali costi; regime che, solo in parte ricalca quello dei costi per i lavoratori dipendenti.
L’importante considerazione che emerge da questa breve disamina delle principali
problematiche connesse con i costi di gestione dei lavoratori non dipendenti, è la
rilevanza che assume la qualificazione (ovvero l’individuazione dell’esatto tipocontrattuale da applicare alla singola fattispecie) della tipologia del rapporto di
collaborazione instaurando, in relazione ai medesimi costi. Qualificare ad esempio un
contratto come cessione diritti d’autore invece che come collaborazione continuativa non
è indifferente: può comportare una riduzione dell’imponibile fiscale fino al 40% e un
totale azzeramento dell’imponibile previdenziale; di contro, nell’esempio indicato, diverso
sarà il regime del rimborso di eventuali spese sostenute dal collaboratore che risultano
già forfetariamente dedotte nel regime fiscale della cessione diritti d’autore. Optare,
laddove possibile, per l’una o l’altra soluzione non è indifferente e la scelta, però, deve
essere fatta considerando non solo i vantaggi economici, ma anche le specificità di
gestione del rapporto di collaborazione.
In conclusione, competenze legali, fiscali, amministrative, previdenziali non possono
mancare al professionista che miri, nella gestione delle “Risorse Umane non-dipendenti”,
a ridurre i costi senza però
aumentare i rischi di evasione/omissione fiscale o
contributiva o incrementando altre problematiche di gestione del personale. Risparmiare
su TFR, indennità di cessazione rapporto di agenzia, minori contributi previdenziali, etc…
è certamente allettante per ogni imprenditore, ma a patto di non limitarsi a trasferire tali
“costi certi” in “costi altamente probabili” derivanti da rischi di contenzioso con lavoratori
e ispettorati del lavoro o Agenzia delle Entrate.
Una consapevole strategia di utilizzo delle tipologie contrattuali esistenti, nell’attuale
evoluzione del mercato del lavoro, finisce pertanto per tradursi in un indubbio vantaggio
in termini di competitività d’impresa.
Avv. Ugo Ettore Di Stefano
Direttore Area Collaboratori
Gruppo Mondadori
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MIDIFORM
Midiform Business School è attiva da oltre 10 anni nel mercato della formazione con la
mission di favorire la diffusione della cultura d’impresa fra chi intende accrescere lo
spessore culturale della propria professionalità e chi intende proporsi con una maggiore
qualifica nel mondo del lavoro.
Oltre 2000 sono state le persone che hanno frequentato i nostri Master/Corsi e di queste
oltre il 50% sono stati inviati da aziende, enti, studi consulenziali e professionali, segno
evidente di un riconoscimento autentico da parte del mondo del lavoro.
Durante questi anni Midiform ha potuto perfezionare metodi didattici innovativi grazie
anche e soprattutto agli investimenti sostenuti per la creazione e lo sviluppo di un proprio
Centro di Ricerca, costantemente orientato alla realizzazione di nuovi “modelli” di
analisi aziendale.
La linea strategica intrapresa dalla Business School, fin dall’inizio, è stata quella della
qualità della proposta formativa e dell’innovazione originale nella strumentazione di
supporto, accanto a una concreta attenzione alla liaison fra formazione e lavoro.
1. La qualità. Il primo indirizzo è stato perseguito attraverso una costante attenzione
all’intero processo di formazione, dal disegno del piano formativo, al reclutamento dei
docenti, dalla predisposizione dei materiali didattici alla realizzazione di knowledge
partnership con aziende portatrici di best practice, ed ancora attraverso un costante
processo di controllo e feedback dall’aula (fisica o virtuale), il tutto è sempre orientato
alla generazione del massimo value for customer.
2. L’innovazione. Il secondo indirizzo è stato perseguito attraverso un costante
investimento diretto nelle attività di ricerca e nello sviluppo di supporti didattici
interattivi, ‘technology-based’. Midiform si presenta così sul mercato con un sistema
formativo avanzato (unico in Italia) che nasce dall’integrazione delle sue principali aree di
proposta didattico-scientifica:
• I Master e Corsi “in aula”
• I Master e Corsi “on line” (e-learning)
• I software MIDItools (gli strumenti operativi per il professionista e per l’impresa)
3. La liaison fra formazione e lavoro. Il terzo indirizzo è la naturale risultante dei
primi due. Infatti, il costante impegno nel trasformare l’aula in un vero e proprio
‘laboratorio di vita vissuta in impresa’, ha permesso alla Business School di raggiungere
prestigiosi risultati nelle attività di job placement. Prova concreta di tutto ciò è la
condivisione delle strategie formativo-didattiche con un numero sempre crescente di
aziende/enti/studi nazionali ed internazionali, tanto da consentire, ai neo-laureati, un più
facile ingresso nel mondo del lavoro (sotto anche forma di stage) e, a tutti gli altri, un
progressivo sviluppo delle competenze e conoscenze agevolmente spendibili nell’attuale
competitivo mercato delle professioni e della consulenza in genere.
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I Master e corsi “in aula”
I Master ed i corsi Midiform nascono sul fertile terreno dell’ormai pluriennale
collaborazione tra Midiform, primarie aziende nazionali, istituti finanziari ed affermati
studi di consulenza nazionali ed internazionali. I programmi dei percorsi formativi sono
studiati per rispondere alle reali esigenze del mercato del lavoro, sempre più attento a
profili professionali evoluti. Per queste ragioni le giornate d’aula sono divise in due
cluster:
• L’OVERVIEW, ove i temi vengono trattati con un taglio didattico/teorico teso a
fornire una visione ed una conoscenza dell’argomento ampie e costantemente
aggiornate.
• Il FOCUS, in cui gli stessi temi verranno affrontati attraverso esempi,
esercitazioni, case history, al fine di fare della giornata d’aula un momento
professionale vissuto “sul campo”.
I CORSI DI SPECIALIZZAZIONE:
I Corsi d'aula "on-line" e su CDRom, sono divisi per aree tematiche (Contabilità, bilancio
e controllo; Legale; Finanza; Marketing; Risorse Umane; Lavoro) e offrono l'opportunità
di effettuare approfondimenti manageriali avanzati e di specializzarsi in particolari
contesti professionali
PER ULTERIORI INFORMAZIONI, CONSULTA:
www.midiform.it
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