HR Time
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HR Time Rivista dell’Associazione Direttori Risorse Umane Testata registrata al Tribunale di Milano il 6 settembre 2007 n. 498 Direttore responsabile: Dott. Luigi dell’Olio Direttore editoriale: Dott. Claudio Malatini Comitato di direzione: Dott. Giovanni Facco, Ing. Giuseppe Fumagalli, Dott.ssa Piera Marini, Piero Quaroni, Ing. Stefano Sedda Coordinatore Comitato scientifico: Prof. Avv. Pietro Ichino Comitato scientifico: Avv. Adriana Calabrese, Prof. Avv. Maurizio Del Conte, Avv. Antonio Simonetti, Avv. Antonio Toffoletto Numero uno (settembre 2007) IN QUESTO NUMERO: IL SALUTO DEL PRESIDENTE pag. 2 PRIMA PAGINA: Donne, la difficile strada verso la carriera (Luigi dell’Olio) pag. 3 Andare oltre “la complessità” (Giuseppe Fumagalli) pag. 4 Quale etica per la Direzione Risorse Umane (Stefano Sedda) pag. 5 La motivazione: il dialogo tra Responsabile e Collaboratore (Marco Parlatini) pag. 7 Un percorso per l’occupazione femminile (Orsola Fiorani) pag. 8 RUBRICA SCIENTIFICO/GIUSLAVORISTICA: Proposte di riforma per il contratto a tempo determinato (Pasquale Dui) pag. 9 RUBRICA AMMINISTRATIVO/GESTIONALE: In tema di T.F.R. ... (Piero Quaroni) pag. 11 Il costo del lavoro nelle collaborazioni (Ugo Ettore Di Stefano) pag. 12 SOCIETA’ DI FORMAZIONE: Presentazione Midiform Business School pag. 15 1 Il saluto del Presidente HR Time, la nuova rivista dei Direttori Risorse Umane (GIDP/HRDA) che inizia le pubblicazioni con questo numero, già dal titolo non può che sostenere la “centralità” della persona, potremmo dire: è il “momento” delle persone che lavorano nelle aree HR e nelle aziende. E’ tempo di occuparsi seriamente di quella risorsa che oggi fa davvero la differenza e può dare il vantaggio competitivo ad un’organizzazione: la persona, al di là di stereotipi e luoghi comuni a volte troppo abusati, e chi meglio dei Direttori Risorse Umane è titolato a farlo? E’ a loro, in primo luogo, che la rivista intende rivolgersi: per formare una community che crei squadra, che proponga stimoli culturali e, perché no, provocazioni; che rafforzi sinergie dai tanti saperi gestiti, che ridia orgoglio a chi oggi interpreta un ruolo e una professione sempre più difficili e “complessi” cui si richiede non solo scienza e sapienza ma anche sentimento e umanità. A loro e al Top management delle aziende, di cui il Direttore HR deve saper essere sempre più partner per contribuire ai risultati di business. Ai Direttori delle Risorse Umane e a quanti dagli stessi gestiti: le persone che lavorano in azienda e che devono sentirsi partecipi degli obiettivi dell’azienda, alle quali richiediamo motivazione e proattività, creatività e innovazione; persone alle quali chiediamo di dedicare “tempo”, eccolo il “Time” che ritorna, bilanciando lavoro e vita personale, in un concetto “olistico”, per avere nelle organizzazioni uomini nella loro completezza e globalità. Gli obiettivi sono questi, il percorso è tracciato: sta ora a tutti noi portare avanti il cammino di questa rivista. La rivista è di tutti noi, va vissuta e sostenuta prima ancora che letta per non correre il rischio che finisca poi su qualche scaffale, assieme alle tante riviste che ci limitiamo a sfogliare e poi dimentichiamo. Buon lavoro a tutti! Paolo Citterio Presidente Nazionale Associazione Direttori Risorse Umane G.I.D.P./H.R.D.A. 2 DONNE, LA DIFFICILE STRADA VERSO LA CARRIERA Solo cinque manager su cento sono donne, ma nelle risorse umane il dato sale al 17 per cento. Risorse umane felice eccezione in un mondo del lavoro ancora a forti tinte maschiliste o funzione svalutata negli ultimi anni e per questo più disposta a favorire la parità tra i generi? Il dibattito è aperto nelle H.R. delle aziende italiane, alla luce delle ultime ricerche di mercato pubblicate sul tema. Federmanager ha calcolato che solo il 5,4% dei manager impegnati nelle aziende industriali è donna, un dato in linea con quello rilevato da Fondirigenti (6,1%). La situazione cambia sensibilmente se si considerano le sole risorse umane: in questo caso, rivela una ricerca di Gidp/Hrda, le donne dirigenti costituiscono il 17% del totale e la quota sale al 30% se si considerano le sole multinazionali. Dunque, pur sempre una minoranza, ma ben più consistente. “Il dato si presta ad una duplice lettura”, osserva Piera Marini, human resourcing and general affairs director di Saima. “L’approccio ottimistico farebbe gridare al miracolo delle risorse umane, che hanno abbattuto per prime le barriere al riconoscimento paritario tra donne e uomini. Tuttavia c’è il sospetto che su questo dato pesi una perdita di rilevanza della funzione risorse umane rispetto al passato”. Il ragionamento è semplice: sino a quando la funzione ha ricoperto un ruolo di frontiera, nella stagione dei grandi conflitti sindacali, le donne manager si contavano sulla punta delle dita. Il quadro è cambiato con la progressiva migrazione verso una società dei servizi e l’appianarsi delle tensioni sui luoghi di lavoro. Mentre ci sono funzioni rilevanti nell’organizzazione aziendale che conservano un atteggiamento di sostanziale chiusura verso le donne manager: è il caso delle vendite, dell’information technology e della direzione finanziaria. In generale, comunque, la maggior parte delle donne che lavorano è concentrata in occupazioni di routine, in ruoli che rivestono uno scarso prestigio sociale e riceve salari più bassi rispetto agli uomini impegnati nelle stesse funzioni. Inoltre, in ambito lavorativo alle donne vengono richieste qualità che rappresentano una proiezione dei caratteri materni oltre la famiglia, come l’abilità nel curare le relazioni e attenuare i conflitti. “A favore delle risorse umane gioca la sensibilità richiesta dal ruolo”, osserva Patrizia Bonometti, hr manager di Tenaris Dalmine. “Le donne spesso sono più portate dei loro colleghi maschi alla gestione delle relazioni personali e al contemperamento dei diversi interessi e punti di vista”. Sembra che a poco siano fin qui servite anche le politiche di diversity management attuate da alcune aziende: servizi come l’asilo nido aziendale, l’ufficio postale interno all’impresa e le strategie di promozione della parità di genere restano casi isolati nel panorama imprenditoriale italiano. Pesa, poi, la struttura familiare fortemente sbilanciata: una ricerca realizzata da Arcidonna – associazione che promuove il ruolo delle donne sui luoghi di lavoro - rivela che il 54% dei dirigenti in gonnella dedica almeno un’ora al giorno alle faccende domestiche, contro il 22% degli uomini. Mentre il tempo che le donne ritagliano per i propri interessi è circa il 25% inferiore rispetto ai colleghi. Di conseguenza gli uomini beneficiano di più tempo libero, opportunità, scelte, aspirazioni. E forse, anche per questo, possono concentrarsi maggiormente sul lavoro. Il quadro è più confortante solo nelle aziende di famiglia, con le donne manager che rappresentano il 10% del totale. Tuttavia c’è poco da esultare: nella maggior parte dei casi si tratta di figure professionali che arrivano al vertice perché nella maggior parte dei casi fanno parte degli assetti proprietari dell’azienda in virtù dei legami di parentela con i fondatori. Per chi arriva dall’esterno, invece, la strada verso la carriera in un’azienda familiare è ancora più dura. Dott. Luigi dell’Olio 3 Direttore responsabile HR Time ANDARE OLTRE “LA COMPLESSITA’” Se si pensa all’impresa come ad un sistema, la reale dimensione della “complessità” sfugge in quanto si tende a focalizzarsi sui problemi legati al governo delle decisioni e della loro implementazione. La complessità appare allora in tutta la sua incombenza ed immanenza, come risultato del passaggio da un ambiente stabile e circoscritto ad uno dinamico e, in un certo senso, poco prevedibile, in quanto soggetto ad un continuo cambiamento: ecco quindi l’aumento della complessità di fronte alla sfida dei mercati e dei business, della tecnologia e della gestione dei professional workers, e alla velocizzazione dei processi. La complessità affiora così, prima di tutto, già negli schemi mentali utilizzati per analizzare i problemi, e si trasferisce quindi sulla carta nelle procedure e nei manuali, che si accumulano e soffocano, nella loro pretesa di codificare l’incodificabile, la progettualità. Ma mai come oggi, in un’epoca dominata dal caos e dalla velocità, il manager deve sapersi muovere con l’abilità di un “camaleonte” per adattarsi all’ambiente mutevole in cui opera, mantenendo comunque quella solidità di base che gli permetta di essere “stabile” nel tempo; mai come oggi, dato che è diventato più complesso operare in azienda, occorre “depotenziare la complessità” in quanto fonte di possibili errori e d’incertezze nei comportamenti dei singoli. Il grado di complessità dell’ambiente richiede, in particolare, un’evoluzione del profilo manageriale: per il manager che non si trova più ad agire in un ambiente stabile ma in situazioni in evoluzione e complesse, il focus diventa motivare, “fare squadra”, guidare attraverso l’esempio e i valori che incarna, rappresenta ed esprime. Se, per contro, l’aspetto della complessità prevale, anche il tema del lavoro nelle aziende si riduce ad un problema di motivazione da “indurre” nelle persone; e cade l’opportunità e la scelta proattiva di progettarlo come uno strumento di valorizzazione del patrimonio personale “tacito”, non espresso. Il sistema rischia allora di decadere ad un puro complesso di tecniche di manipolazione che diventa complicato e costoso implementare e gestire. E’ solo l’intendere l’impresa come un continuum di azioni sociali, che partendo dalle procedure valorizzano le esperienze e le competenze, un potenziale di risorse affettive e cognitive sempre più vasto di quanto si pensi, fino a raggiungere una condivisione di obiettivi, che permette di vivere la complessità come un’opportunità e non, invece, come un vincolo da aggredire. La vera sfida della complessità e il modo per “andare oltre”, è considerarla un’occasione per la crescita professionale e personale di chi lavora in azienda e per liberare energie trasformatrici di conoscenze, attraverso la “semplicità” dell’organizzazione: non sembri un paradosso, ma è la semplicità organizzativa riferita agli scopi, a obiettivi ben precisi e non dispersa sui temi del potere e degli organigrammi che permette di utilizzare le competenze delle persone e di accrescerle. La sfida della complessità va affrontata col rafforzamento delle conoscenze ma anche con innovazione e creatività, elementi fondamentali di un’organizzazione capace di generare innovazione e di apprendere; questo finisce per innescare un cambiamento culturale profondo, con effetti che si riflettono anche sul management, e segnano un’accelerazione nel passaggio da strutture gerarchizzate a soluzioni a “rete” e alla flat organization. Un’impresa, e quindi un’organizzazione, “umile” e fondata sull’ascolto, sull’attenzione e sul rispetto, diventa semplice in tutta la sua presunta complessità. Ing. Giuseppe Fumagalli Eni Corporate University 4 QUALE ETICA PER LA DIREZIONE RISORSE UMANE La nuova sfida per chi gestisce le persone in azienda Perché parlare di Etica oggi inserendola nel dibattito sul ruolo di una Direzione Risorse Umane adeguata a supportare l’azienda nel contesto competitivo odierno? Prima di rispondere a questa domanda è opportuno partire dalle definizioni di Impresa e di Etica quando la si considera in un contesto aziendale. Per Impresa s’intende quell’entità, reale e concreta, che sviluppa delle azioni finalizzate alla realizzazione di un Valore Economico, attraverso il contributo delle persone che vi fanno parte e che concorrono alla produzione di questo valore. Il concetto di Etica di Impresa (o Etica per l’Impresa) è invece più complesso; è infatti necessario estendere il senso comune che attribuisce all’etica l’insieme di tutti i comportamenti basati su principi e valori giusti, moralmente corretti, utilizzando la teoria del filosofo indiano Amartya Sen (successivamente ripresa dalla filosofia americana Martha Nussbaum) che parla di “Etica delle Capacità”. Partendo dai concetti fondanti di questa teoria possiamo parlare di Etica di Impresa finalizzata alla definizione dei criteri necessari per orientare le scelte e le azioni che in un’azienda portano alla produzione del valore. Criteri che hanno una rilevanza generale e che, come tali, impattano su tutta la comunità degli stakeholders (intesi come coloro che hanno un interesse nell’impresa, ivi compresi i sui dipendenti) e non riguardano esclusivamente solo le singole persone, i loro comportamenti e la loro esistenza. I principi dell’Etica delle Capacità portati in azienda, infatti, comprendono sì il codice e i valori che dovrebbero essere alla base di qualsiasi relazione tra persone - ma si estendono alla costruzione dei principi con i quali una Direzione Risorse Umane moderna, e soprattutto funzionale agli obiettivi dell’Impresa, può e deve uscire dalla nicchia in cui troppo spesso è confinata (a volte anche volontariamente) per creare valore e fornire un contributo concreto e tangibile al risultato economico dell’azienda. Una Direzione Risorse Umane, quindi, parte attiva in ogni aspetto del sistema organizzativo composto dall’insieme di processi e dalle relazioni che si creano tra le persone che fanno parte dell’azienda. Secondo l’Etica delle Capacità ogni individuo possiede delle “capacità” che traduce, in relazione alle circostanze e alle possibilità, in “funzionamenti”; il risultato dell’impresa è dovuto ai funzionamenti dei singoli e al modo con cui questi interagiscono tra loro. Per completare il nostro ragionamento utilizziamo l’ultimo libro di T. Davenport, “Human Capital”, nel quale egli afferma come sia sbagliato e fuorviante definire le persone risorse (umane) che, invece, devono più correttamente essere viste come proprietarie di risorse (le “capacità” per l’appunto) che decidono se e come mettere a disposizione dell’Impresa per cui lavorano sulla base di una contrattazione (e quindi farli diventare “funzionamenti”). Contrattazione che va intesa in una logica estesa di total reward e che include non solo la parte economica ma tutte le altre componenti quali clima, ambiente, sviluppo e gestione delle relazioni interpersonali. Pertanto la Direzione Risorse Umane si deve affermare, inequivocalmente, come la funzione che regola i contratti collaboratore-impresa, che ne detta le regole e che garantisce che siano rispettati sia da parte dell’individuo che da parte delle altre componenti dell’impresa; in altre parole è responsabile di trasformare le capacità in funzionamenti nel breve, medio e lungo termine. L’azione delle Direzione Risorse Umane ha quindi una duplice valenza verso l’individuo e verso l’impresa. La Direzione Risorse Umane deve concorrere a definire gli obiettivi (quali risultati raggiungere) e i valori (come raggiungerli) dell’Impresa cui appartiene e tradurli in “capacità” da acquisire; comprendere cioè quali professionalità e quali caratteristiche 5 personali devono appartenere alle donne e agli uomini che fanno parte dell’azienda o che ne dovranno far parte in futuro. Deciso questo, che diventa il “fabbisogno di capacità”, deve cercare e individuare le persone che possiedono queste “capacità” e stabilire con loro un sistema di contrattazione adeguato. Sistema che funziona solo se è fondato su principi corretti, imparziali e moralmente validi e basato su regole condivise trasparenti e comunicate, nonché garantito dall’azione della Direzione Risorse Umane; essa, infatti, è da un lato la garante che i principi e i modi di gestione della relazione “contrattuale” del singolo siano sempre rispettati e applicati nelle altre relazioni, dall’altro che questi principi siano rispettati dagli altri componenti dell’impresa. Compito questo difficile in presenza di una disomogenità di valori tra le varie Direzioni aziendali allorquando si rischia che quanto concordato da due parti (DRU e singolo) sia disatteso da una terza (ad esempio Direzione di linea) creando una distonia tra quanto si pensa debba essere fatto e quanto in realtà avviene. In questo modo si crea disorientamento e si rischia che l’individuo si chiuda in sé stesso, perda i modelli e le regole di riferimento e smetta di tradurre in funzionamenti le sue capacità. Altro obiettivo della DRU è quello della creazione di un sistema Sociale-Organizzativo che abiliti le capacità di tutti e che le indirizzi in modo organico e coerente verso la creazione del valore atteso dell’impresa. Anche questo passaggio è delicato in quanto il sistema è si progettato dalla DRU ma poi nella vita di tutti i giorni è messo in pratica da altri, in un contesto fluente ed in continuo cambiamento. L’Etica delle Capacità della Direzione Risorse Umane si traduce quindi nell’adozione di comportamenti moralmente corretti ma anche nella sua capacità di contribuire alla produzione del valore per l’impresa. In conclusione possiamo affermare che la correttezza alla base di tutti i comportamenti etici prevede l’assunzione di responsabilità se i risultati non sono raggiunti. E’ infatti solo con la capacità di riconoscere quando non si c’entra l’obiettivo che gli altri ci riconosceranno il merito quando invece si raggiungono i risultati previsti. Ing. Stefano Sedda Direttore del Personale e Organizzazione Gruppo Blu Hotels 6 LA MOTIVAZIONE Il dialogo tra Responsabile e Collaboratore Quante parole sono state spese sulla necessità di dialogo tra responsabile e collaboratore? Capita spesso però di ritrovarsi al punto di partenza, senza sapere che fare. Spesso nella gestione delle politiche retributive accade qualcosa di strano: uno sdoppiamento, del tipo dottor Jekill e mr Hyde, da parte del capo, che promette al proprio collaboratore aumenti di livello e miglioramenti retributivi, salvo poi vedersi addossare tutte le responsabilità se ciò non avviene. Per comprendere meglio i meccanismi in gioco in questo dialogo è giusto partire dall’inizio: quando un nuovo collaboratore viene inserito nella struttura di un’organizzazione aziendale, riconosce come elemento fondamentale del proprio ambiente lavorativo il responsabile, e in lui vede riflessa la sua immagine professionale proiettata nel futuro. Quindi il capo, se da un lato è rivestito di un significato negativo perchè fonte di giudizio sull’operato, dall’altro è la persona da cui si cerca di carpire le competenze per la propria crescita. Da lui ci si aspetta competenza, dedizione, capacita’ di gestione e di relazione. Il capo deve essere dotato di grande passione per il suo ruolo, deve avere grandi motivazioni da trasmetterne agli atri, deve condividere intrinsecamente i valori aziendali: agli occhi del collaboratore, il capo è l’azienda. E se il collaboratore si dovesse illudere? Ecco che arriva puntuale come un orologio svizzero la delusione. Quali potrebbero essere i KPIs per valutare se il nostro collaboratore è deluso? Proviamo a ragionarci. Se il collaboratore è deluso si capisce dal suo sguardo, indicatore maggiore della condizione di scontentezza: nei momenti di confronto con il responsabile esso non è più attento e vivace, ma sfuggente e spento. Il secondo KPI cui prestare attenzione è la postura, poichè quando la delusione caratterizza lo stato d’animo del lavoratore egli assume una posizione sottomessa e non paritaria; se, prima della rottura, il suo atteggiamento è stato proteso verso il responsabile, desideroso del contatto, attivo e comunicativo, successivamente è fiacco e introspettivo. Il terzo elemento da considerare è il tono della voce, il quale da vivace e acceso diventa timido. Tutto questo si traduce in una performance insoddisfacente che punta al raggiungimento di obiettivi minimi e non piu’ all’eccellenza, gli orari di lavoro si riducono drasticamente, arriva la perdita di fiducia per una possibile gratificazione da parte del capo e anche dell’azienda. Quindi, per avere un’organizzazione efficiente con livelli di massima produttivita’, bisogna evitare attriti, delusioni, false promesse, e cercare di creare uno spirito di squadra. Quanti film ci hanno emozionato grazie all’accento posto sul valore dello spogliatoio? Storie nelle quali squadre di giocatori mediocri, uniti dal senso di appartenenza, sconfiggono plotoni di campioni dotati? Anche se in modo meno poetico, questa morale dovrebbe valere anche in azienda. Dott. Marco Parlatini Human Resources Manager Direzione Operazioni Industriali Chiesi Farmaceutici S.p.A. 7 UN PERCORSO PER L’OCCUPAZIONE FEMMINILE E’ dato dimostrato che a uomini e donne non si applichi lo stesso trattamento lavorativo: maggiore tasso di disoccupazione, compensi più bassi, posizioni di minore prestigio e responsabilità sono per le donne. Dibattiti, conferenze, relazioni della Commissione Europea portano fortunatamente all’attenzione i problemi del mercato del lavoro femminile, proponendo monitoraggi e miglioramenti che, forse, vedremo nel lungo periodo. Nel frattempo statistiche e studi europei mostrano un’Italia che registra indici comparativi che la pongono in una situazione indubbiamente arretrata rispetto ad altri Paesi Europei. Perché c’è ancora tanta strada da fare? La ricerca delle cause potrebbe aiutare a delineare un percorso di modernizzazione. La storia dipinge contesti ed evoluzioni culturali diversi in Paesi diversi: l’Italia viene da una solida tradizione familiare, nella quale padre e madre avevano ruoli predefiniti, l’uno destinato al mantenimento dei congiunti, l’altra ai figli, a farli, accudirli ed educarli. Questa immagine si è così fortemente radicata nella nostra cultura che, ancora oggi, nonostante evidenti ed innegabili cambiamenti, continua ad essere il filo conduttore di una società in cui le pari opportunità sono in molti casi ancora scritte sulla carta. Così le capacità, l’intraprendenza, la preparazione di molte donne che vogliono trovare, mantenere o migliorare la loro collocazione lavorativa, si trovano a scontrarsi con le condizioni imposte da una cultura in cui il compromesso consiste nell’avere meno a parità di risorse investite. E tutto questo è messo in seria discussione con la nascita dei figli: con un figlio si riesce a mantenere il posto di lavoro, ma con due o tre? Le donne si trovano a dover scegliere: la cura dei figli richiede un impegno non compatibile con il proseguimento dell’attività lavorativa, con la contraddizione che più aumenta l’occupazione femminile meno cresce il tasso di natalità che ci colloca tra gli ultimi posti della classifica europea. Per non parlare poi di come tasso di occupazione e tasso di natalità subiscano un andamento opposto e le famiglie che potrebbero permettersi il mantenimento dei figli, di fatto hanno un numero di figli inferiore rispetto alle famiglie alle soglie della povertà. Ma vediamo anche il fenomeno dalla parte imprenditoriale. Il livello di competitività è tale che le aziende adottano politiche di contenimento dei costi che riguardano anche il personale. Un’azienda che debba affrontare un’assenza ripetuta per mesi di una donna in maternità registrerà una perdita iniziale di efficienza dell’attività, nonché costi aggiuntivi di gestione, non potendo pianificare il rientro della dipendente. E quanto durerà questa assenza? Cinque, undici o altri mesi ancora, se la donna deve stare a casa perché “non riesce ad organizzare la sua vita privata con il rientro al lavoro”? Se voi foste l’azienda non sareste tentati di assumere un uomo piuttosto di una donna? Questi comportamenti caratterizzano profondamente il mercato del lavoro, tanto che il ruolo della donna continua a non trovare unicità e completezza, scindendo la componente professionale da quella familiare, entrambe di potenziale soddisfazione e realizzazione. E’ più urgente che mai trovare un punto di incontro tra bisogni, delle donne e delle aziende. Strumenti contrattuali e non come il part-time, il telelavoro, i congedi di paternità possono aiutare, ma non bastano a risolvere lo squilibrio. Determinanti sono invece le strutture, gli asili nido, ma non quelli che chiudono alle quattro di pomeriggio, che costano più di uno stipendio o per i quali devi metterti in coda alle sei di mattina per iscrivere il bambino. Per struttura si intende qualcosa di più articolato, organizzato e pianificato, accessibile a tutti e capillarmente diffuso. E’ sicuramente un cambiamento di mentalità, per le aziende e per le lavoratrici, ma consentirà di ridurre quel divario che vede penalizzate le donne nella carriera e nella retribuzione non solo nei confronti degli uomini ma anche di molte altre donne europee. 8 Dott.ssa Orsola Fiorani LAVORO A TERMINE E PROPOSTE DI RIFORMA La dottrina divisa tra tutela dell’occupazione e del posto di lavoro L’attuale dibattito sul contratto di lavoro a tempo determinato si innesta su un piano nettamente distinto da quello che ha caratterizzato l’analisi di questi primi 5/6 anni di vigenza delle disposizioni del 2001 (d.lgs. 368/2001), le quali hanno introdotto la ben nota disciplina attuale, completamente innovativa rispetto a quella precedente. Gli elementi caratterizzanti questa disciplina, attuativa di specifici obblighi comunitari, possono così riassumersi: 1. individuazione di causali per tipologia descrittiva, indipendentemente dal riferimento ad esasperate e/o analitiche casistiche (è oggi consentita l’apposizione del termine, in via generale, “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”) (art. 1); 2. controllo giudiziale sulla effettiva sussistenza/consistenza di una delle ragioni, ma non sul merito della stessa o sulle connesse scelte organizzative del datore di lavoro, le quali restano insindacabili. In questi termini, l’intervento di controllo sull’utilizzo del contratto a termine, necessariamente successivo, è mirato a contrastarne l’abuso attraverso l’utilizzo di causali non riconducibili ad una situazione oggettiva del tipo di quelle descritte dalla legge (causali verosimili possono considerarsi gli aumenti di produzione in genere; le necessità riconducibili ad una riorganizzazione interna delle risorse umane o, per esempio, dei sistemi produttivi e/o informativi aziendali, o, ancora, più in generale, quelle predisposte per un migliore funzionamento dell’impresa); 3. individuazione di limiti quantitativi per l’utilizzazione dell’istituto, rimessi alla contrattazione collettiva nazionale, secondo il modulo ormai generalizzato della delega alle parti sociali sul “contingentamento” di alcune forme di accesso al lavoro considerate particolarmente delicate o, comunque, tali da non poter essere lasciate alla libera contrattazione tra imprese e lavoratori (art. 10); 4. previsione di meccanismi per arginare il fenomeno delle proroghe attuate senza il consenso genuino del lavoratore. È questo, insieme al primo punto, quello più delicato, laddove mirato ad evitare, appunto, l’utilizzo continuato e reiterato del contratto a termine senza un adeguato meccanismo dissuasivo a carico delle imprese che, a fronte di offerte di lavoro per successivi blocchi di mesi/anni, con la riproposizione della medesima motivazione produttiva e/o organizzativa del primo contratto, possano di fatto eludere la disciplina pilota. Il pericolo è ora escluso, come ben noto, dalla previsione di una sola proroga (art. 4). L’intervento paventato dal ministro del lavoro sulla attuale disciplina muove dalla considerazione della ritenuta insufficienza della riforma del 2001 (a suo tempo realizzata sulla base di un avviso comune tra le parti sociali non sottoscritto dalla CGIL) ad attuare pienamente quella lotta alla precarietà che il governo vuole perseguire. L’invito rivolto alle suddette parti nei mesi scorsi è stato dunque quello di raggiungere un nuovo avviso sociale, che ponga le basi per una diversa disciplina sulla materia. La disciplina da ipotizzare, così, dovrebbe essere impostata sul diverso, capovolto principio per cui, posto che la forma normale del rapporto di lavoro sia quella a tempo indeterminato, quella a termine dovrebbe rispondere a esigenze precise delle aziende. La questione non è di poco conto, come può agevolmente intuirsi, considerato che le reazioni delle parti sociali sono state, come prevedibile, di segno nettamente opposto. 9 Si tratta, però, di stabilire, proprio sulla base dell’esperienza di questi ultimi anni, se veramente questa disciplina legislativa ora in discussione abbia portato solo occupazione precaria, o non, piuttosto, occupazione flessibile, anche sulla base della considerazione che difficilmente gli obiettivi della stabilità del lavoro possono essere raggiunti attraverso disposizioni che mirano a disciplinare la struttura interna del contratto di lavoro, prescindendo dai profili di politica economica e, conseguentemente, occupazionale. Occorre, in buona sostanza, tenere in debito conto la distinzione tra tutela (e/o incentivazione) dell’occupazione e tutela del posto di lavoro: le leggi sull’occupazione e sul suo rilancio incentivano la prima; le leggi sul rapporto di lavoro incentivano la seconda. Ogni errore di impostazione che si riverberi nelle scelte specifiche di politica legislativa, senza tenere conto di questa precisa distinzione, può creare molti più danni che benefici. In questo senso, sembra proprio che, al di là di ogni semplificazione spicciola con apparenti questioni di natura sindacale, non possa negarsi l’incontrovertibile dato che la disciplina di un rapporto di lavoro a tempo determinato, tale da semplificare la possibilità del ricorso allo stesso e, nel contempo, evitare il pericolo di abusi, contribuisca ad incrementare il numero dei posti di lavoro. Ogni intervento sulla relativa disciplina, dunque, dovrebbe tenere in debito conto questa precisa considerazione. Avv. Pasquale Dui Partner Studio legale Dui e Associati 10 IN TEMA DI T.F.R. … In tema di t.f.r., in questo periodo, abbiamo sentito di tutto e il contrario di tutto. Il Governo ha auspicato che i lavoratori operassero una scelta seria e responsabile, ma poi ha fatto i conti sull’elevata liquidità che affluirebbe all’INPS da parte di chi non opera tale scelta; i sindacati si dicono fortemente preoccupati sul futuro pensionistico dei lavoratori, ma hanno cercato e cercano, in maniera talvolta anche pressante, di tirare l’acqua al mulino dei loro fondi, anche se scarsamente redditizi. Si è creata la convinzione che la scelta di un fondo possa essere semmai d’interesse per chi ha davanti una vita lavorativa lunga, mentre non sia conveniente per chi è prossimo alla pensione. Chi ha maturato una decisione con largo anticipo, ha dovuto assistere all’offensiva da parte di fondi, banche e assicurazioni scatenatasi in giugno insieme ad una sana concorrenza. Non meraviglierebbe se qualcuno ora proclamasse: “Il mio fondo è così ben amministrato, che garantisce uno X%”, dove X sia un reddito interessante e superiore agli altri. A quel punto chi aveva già optato per altre soluzioni, dovrà attendere due anni prima di poter cambiare. Ma è sull’ultima affermazione che vorrei richiamare l’attenzione dei lettori, pregandoli di seguirmi nel ragionamento, se già non l’avessero fatto per conto loro. Se l’opzione è per la conservazione del t.f.r. (che sia in azienda o presso l’INPS), alla fine del rapporto esso sarà corrisposto con lo stesso criterio degli scorsi anni. Se viceversa l’opzione è per un fondo, la rendita che ne deriverà con pochi anni di versamenti sarà risibile, a fronte di un capitale che ha comunque un suo interesse. Tuttavia, ci si potrebbe avvalere, a quel punto, dell’opzione prevista dall’art. 11, 3° comma, del Decreto Legislativo 5/12/2005 n° 252 che recita: “Nel caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70% del montante finale sia inferiore al 50% dell’assegno sociale (…) la stessa può essere erogata in capitale”. Considerato che nel 2007, l’assegno sociale ammonta ad Euro 389,36 mensili, cioè 5.061,68 annuali, per arrivare a costituire una rendita pari al 50% di detto importo occorre aver versato un capitale che, in base alle tabella attuariali, si aggira intorno a 48.000 Euro: a quel punto, siccome non l’avrò raggiunto, posso avvalermi dell’opzione di ritiro del 100% del capitale, che sarà tassato al 15% definitivo, contro un minimo del 23% che però, per un direttore del personale, ordinariamente è molto di più: ipotizzando un t.f.r. (calcolato su una retribuzione di 100.000 Euro per tre anni di lavoro residuo) di 20.000 Euro questo mi verrebbe tassato al 15%, e cioè 3.000 Euro, anziché al 35,46% (ipotizzando – è una semplificazione, d’accordo – che il reddito sia rimasto costante negli ultimi cinque anni) e realizzando così, senza colpo ferire, un risparmio fiscale di 4.092 Euro. Tutto sommato non male, no? Piero Quaroni Pirola Pennuto Zei 11 "IL COSTO DEL LAVORO NELLE COLLABORAZIONI" Il costo del personale è certamente una delle voci di spesa più significative per l’azienda. Ne consegue l’importanza di una precisa conoscenza delle sue componenti ed un costante monitoraggio che consentano di ottimizzare tale onere economico; ovviamente compatibilmente con la relativa normativa di riferimento. In particolare, l’evoluzione del mercato del lavoro e i mutati processi produttivi, hanno contribuito (al fine di garantire maggiore competitività all’impresa mediante l’utilizzo della tanto conclamata flessibilità del lavoro) a far sì che la quota di spesa per il “personale non dipendente” assumesse un ruolo sempre più rilevante (in quanto personale considerato, non a torto, maggiormente flessibile in entrata, uscita e, talvolta, anche per mansioni affidate). Tra i lavoratori non dipendenti, ovvero collaboratori, includiamo l’ampissima categoria che il diritto del lavoro definisce di lavoro autonomo. Trattasi non solo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co. e lavori a progetto, cosiddetti parasubordinati) ma altresì le prestazioni d’opera o di servizi occasionali, anche svolte da liberi professionisti titolari di partita i.v.a., le collaborazioni con agenti e procacciatori d’affari, gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, le cessioni di diritti d’autore, etc. In questa categoria rientrano infine anche le cariche di Amministratori e sindaci di società. Tale diversità di tipologie rende necessaria molta prudenza in ogni trattazione che intenda essere unitaria del fenomeno. E ciò in quanto le norme civilistiche, fiscali, previdenziali sono talvolta mal coordinate e comunque diverse per le diverse tipologie citate. Pertanto, senza poter qui scendere nel dettaglio analitico della determinazione dei costi per ciascuna tipologia di rapporto di collaborazione, si possono comunque evidenziare alcuni tratti comuni alle problematiche connesse all’effettivo costo sopportato dal datore (rectius committente) per ciascun rapporto di collaborazione. Ovviamente la componente del costo di maggior rilievo è data dal compenso pattuito1. In linea di principio esiste la piena libertà delle parti nel concordare in sede di trattative il corrispettivo per la collaborazione, non sussistendo, come per i rapporti di lavoro dipendente, il vincolo del rispetto dei minimi dei CCNL, in quanto pochi e poco applicati sono i CCNL per i lavoratori parasubordinati. In realtà, però, già l’art. 63 del d.lgs. 276/03 (c.d. Legge Biagi) introduceva una limitazione a questo principio, statuendo che “il compenso corrisposto (…) deve tener conto dei compensi corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”. Inoltre la Legge Finanziaria per il 2007 (comma 772), da ultimo, ha indicato che tali compensi “devono tener conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni di analoga professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi nazionali di riferimento”. Su questo il Ministero del Lavoro ha recentemente chiarito (in una risposta data in occasione del “Forum Lavoro 2007” tenutosi a febbraio 2007) che in assenza di CCNL applicabili ai lavoratori autonomi il riferimento dovrà essere fatto ai CCNL sottoscritti dalle OOSS dei lavoratori subordinati2. La difficoltà di applicazione di tali parametri di riferimento 1 In sede di trattative contrattuali risulta assolutamente doveroso, se possibile e a meno che non si possiedano le necessarie competenze tecniche e giuslavoristiche, concordare il compenso della prestazione al lordo di ritenute e contributi di legge dovuti. Non è infatti raro il rischio di essere successivamente smentiti (o sul netto ipotizzato o sul costo lordo azienda preventivato) nel momento in cui l’amministrazione provvederà a corrispondere il compenso al netto delle ritenute e contributi operate. 2 La risposta in realtà si presta ad alcune critiche. In primis la norma parla di compenso e non di retribuzione laddove il primo termine indica il corrispettivo di un contratto di lavoro autonomo e il secondo è specifico per il 12 comporta che, nella prassi, il compenso sia liberamente pattuito tra le parti solo in ragione delle “tacite leggi” della domanda e dell’offerta del mercato del lavoro e al momento non risultano pronunce di Giudici che abbiano disposto una rideterminazione dei termini economici del contratto in relazione alle disposizioni citate. La normativa, invece, non prevede nessun compenso obbligatorio in sede di conclusione del rapporto o di raggiungimento di specifici obiettivi aziendali con istituti equiparabili al TFR o al MBO dei dipendenti, tali voci potranno essere però, naturalmente, pattiziamente introdotte nel contratto. Il generale principio di libera determinazione del compenso, comunque, non è pienamente valido (fatte salve le recenti norme in materia di liberalizzazione delle tariffe professionali) per quei collaboratori liberi professionisti, iscritti ad Ordini professionali, con tariffe ed onorari previsti da apposite tabelle regolarmente approvate. Una volta determinato il compenso occorre conoscere i contributi e le imposte che su esso gravano. Come anticipato, le aliquote e quindi gli importi, variano secondo la qualificazione del rapporto di collaborazione. Per esemplificare, in materia di contributi di previdenza: in caso di prestazione d’opera occasionale e senza coordinamento il compenso non sarà gravato da alcun contributo previdenziale fino al limite di 5.000,00 euro (inteso come limite del reddito di lavoro autonomo occasionale annuo del collaboratore medesimo nei confronti di tutti i suoi committenti). Oltre tale soglia e/o per le collaborazioni coordinate continuative, anche a progetto, sono dovuti i contributi nella misura del 16% (pensionati o titolari anche di altre forme di previdenza obbligatoria) o 23% ripartiti nella misura di 2/3 a carico del “datore” e 1/3 a carico del collaboratore e versati tutti direttamente dall’azienda committente. A questo proposito, la finanziaria 2007, che ha disposto l’innalzamento di alcune aliquote previdenziali, ha anche sancito che, per evitare che alcuni datori di lavoro scarichino sul collaboratore l’intero incremento dei contributi, il compenso al netto non possa essere inferiore al netto corrisposto al medesimo collaboratore nell’anno precedente (ovviamente a parità di condizioni contrattuali, e ciò rende la norma di difficile applicazione). I professionisti con i.v.a. invece versano direttamente i contributi e hanno facoltà di richiedere all’azienda solo un contributo integrativo (nella misura del 2% o 4% secondo le figure professionali con o senza propria Cassa di previdenza). Per i profili fiscali vale certamente la medesima affermazione di estrema varietà delle aliquote applicabili in considerazione della qualificazione del rapporto. In sostanza occorre verificare caso per caso quale tipologia di reddito si debba applicare alla collaborazione: reddito assimilato a quello dipendente, reddito di lavoro autonomo professionale abituale, redditi diversi anche di natura autonoma occasionale, redditi per cessione diritti d’autore, redditi d’impresa (in quest’ultimo caso, però, siamo nel pieno di un rapporto commerciale e fuori dell’ambito del rapporto di lavoro propriamente detto). Tralasciando, per brevità in questa sede, i regimi i.v.a. semplificati e forfetari, le agevolazioni sulla cessione dei diritti d’autore e la particolare disciplina delle ritenute fiscali sulle provvigioni per alcuni rapporti (agenti e procacciatori, venditori porta a porta, etc…), ricordiamo unicamente che in caso di prestazioni occasionali o professionali il committente applicherà una ritenuta a titolo di acconto del 20% (oltre ad un ulteriore 20% di i.v.a. per i professionisti con partita iva); in caso di collaborazioni a carattere coordinato e continuativo (anche a progetto) le ritenute fiscali sono assimilabili a quelle operate per i lavoratori dipendenti e quindi incidono per scaglioni di reddito. Per esemplificare: qualora un soggetto abbia, nel corso dell’anno, dodici collaborazioni qualificabili come occasionali con compenso concordato di 1000,00 euro lorde per lavoro dipendente. Vi sono poi perplessità anche in relazione alla concreta applicabilità della norma data la difficoltà di individuare poi, caso per caso, la qualifica e livello di riferimento per un collaboratore nei profili individuati dai CCNL. Non a caso, infatti, il Ministero ha altresì chiarito che gli ispettori del Lavoro non potranno dare effettività a tale norma che avrà una valenza esclusiva per il collaboratore solo in sede di contenzioso con il committente. 13 ciascuna collaborazione, il collaboratore percepirà un importo “netto” di 800,00 euro (salvo conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi) e il costo azienda coinciderà con il compenso lordo pattuito. Al contrario, in caso di collaborazione a progetto per un anno, del medesimo importo di 1.000,00 al mese, l’importo netto percepito risulterà pressoché il medesimo (il datore opera già le ritenute senza necessità di conguaglio), ma il costo azienda salirà a quasi 14.000,00 euro! Se invece lo spesso compenso sarà percepito a titolo di cessione diritti d’autore (magari da un soggetto che avendo meno di 35 anni può godere della riduzione dell’imponibile previsto dall’ultima legge finanziaria) ad un costo azienda di 12.000,00 euro corrisponderà un netto erogato pari a circa 10.600,00 euro. Non immediatamente quantificabili, ma certamente onerosi, sono i costi di gestione delle collaborazioni; Si aggiungono infatti agli oneri fiscali (ritenute, irap, etc…) e previdenziali (INPS, INAIL, etc…), tutti i costi relativi alla gestione degli adempimenti non solo amministrativi; a titolo non esaustivo ricordiamo: elaborazioni cedolini paga e, iscrizione libri obbligatori (obbligatori per i cococo e cocopro), certificazione compensi e ritenute effettuate, comunicazioni di legge ad enti previdenziali e centri per l’impiego, gestione dei pagamenti delle ritenute e contributi, rimborsi spese e di mensa dove previsti e consentiti, attuazione misure di sicurezza, messa a disposizione di infrastrutture e strumentazioni aziendali, predisposizione piani di investimento e budget del costo del suddetto personale, eventuali costi per la gestione di sviluppo e formazione dei medesimi collaboratori, etc… Un discorso a parte meriterebbe poi il tema del regime di deducibilità, per l’impresa, di tali costi; regime che, solo in parte ricalca quello dei costi per i lavoratori dipendenti. L’importante considerazione che emerge da questa breve disamina delle principali problematiche connesse con i costi di gestione dei lavoratori non dipendenti, è la rilevanza che assume la qualificazione (ovvero l’individuazione dell’esatto tipocontrattuale da applicare alla singola fattispecie) della tipologia del rapporto di collaborazione instaurando, in relazione ai medesimi costi. Qualificare ad esempio un contratto come cessione diritti d’autore invece che come collaborazione continuativa non è indifferente: può comportare una riduzione dell’imponibile fiscale fino al 40% e un totale azzeramento dell’imponibile previdenziale; di contro, nell’esempio indicato, diverso sarà il regime del rimborso di eventuali spese sostenute dal collaboratore che risultano già forfetariamente dedotte nel regime fiscale della cessione diritti d’autore. Optare, laddove possibile, per l’una o l’altra soluzione non è indifferente e la scelta, però, deve essere fatta considerando non solo i vantaggi economici, ma anche le specificità di gestione del rapporto di collaborazione. In conclusione, competenze legali, fiscali, amministrative, previdenziali non possono mancare al professionista che miri, nella gestione delle “Risorse Umane non-dipendenti”, a ridurre i costi senza però aumentare i rischi di evasione/omissione fiscale o contributiva o incrementando altre problematiche di gestione del personale. Risparmiare su TFR, indennità di cessazione rapporto di agenzia, minori contributi previdenziali, etc… è certamente allettante per ogni imprenditore, ma a patto di non limitarsi a trasferire tali “costi certi” in “costi altamente probabili” derivanti da rischi di contenzioso con lavoratori e ispettorati del lavoro o Agenzia delle Entrate. Una consapevole strategia di utilizzo delle tipologie contrattuali esistenti, nell’attuale evoluzione del mercato del lavoro, finisce pertanto per tradursi in un indubbio vantaggio in termini di competitività d’impresa. Avv. Ugo Ettore Di Stefano Direttore Area Collaboratori Gruppo Mondadori 14 MIDIFORM Midiform Business School è attiva da oltre 10 anni nel mercato della formazione con la mission di favorire la diffusione della cultura d’impresa fra chi intende accrescere lo spessore culturale della propria professionalità e chi intende proporsi con una maggiore qualifica nel mondo del lavoro. Oltre 2000 sono state le persone che hanno frequentato i nostri Master/Corsi e di queste oltre il 50% sono stati inviati da aziende, enti, studi consulenziali e professionali, segno evidente di un riconoscimento autentico da parte del mondo del lavoro. Durante questi anni Midiform ha potuto perfezionare metodi didattici innovativi grazie anche e soprattutto agli investimenti sostenuti per la creazione e lo sviluppo di un proprio Centro di Ricerca, costantemente orientato alla realizzazione di nuovi “modelli” di analisi aziendale. La linea strategica intrapresa dalla Business School, fin dall’inizio, è stata quella della qualità della proposta formativa e dell’innovazione originale nella strumentazione di supporto, accanto a una concreta attenzione alla liaison fra formazione e lavoro. 1. La qualità. Il primo indirizzo è stato perseguito attraverso una costante attenzione all’intero processo di formazione, dal disegno del piano formativo, al reclutamento dei docenti, dalla predisposizione dei materiali didattici alla realizzazione di knowledge partnership con aziende portatrici di best practice, ed ancora attraverso un costante processo di controllo e feedback dall’aula (fisica o virtuale), il tutto è sempre orientato alla generazione del massimo value for customer. 2. L’innovazione. Il secondo indirizzo è stato perseguito attraverso un costante investimento diretto nelle attività di ricerca e nello sviluppo di supporti didattici interattivi, ‘technology-based’. Midiform si presenta così sul mercato con un sistema formativo avanzato (unico in Italia) che nasce dall’integrazione delle sue principali aree di proposta didattico-scientifica: • I Master e Corsi “in aula” • I Master e Corsi “on line” (e-learning) • I software MIDItools (gli strumenti operativi per il professionista e per l’impresa) 3. La liaison fra formazione e lavoro. Il terzo indirizzo è la naturale risultante dei primi due. Infatti, il costante impegno nel trasformare l’aula in un vero e proprio ‘laboratorio di vita vissuta in impresa’, ha permesso alla Business School di raggiungere prestigiosi risultati nelle attività di job placement. Prova concreta di tutto ciò è la condivisione delle strategie formativo-didattiche con un numero sempre crescente di aziende/enti/studi nazionali ed internazionali, tanto da consentire, ai neo-laureati, un più facile ingresso nel mondo del lavoro (sotto anche forma di stage) e, a tutti gli altri, un progressivo sviluppo delle competenze e conoscenze agevolmente spendibili nell’attuale competitivo mercato delle professioni e della consulenza in genere. 15 I Master e corsi “in aula” I Master ed i corsi Midiform nascono sul fertile terreno dell’ormai pluriennale collaborazione tra Midiform, primarie aziende nazionali, istituti finanziari ed affermati studi di consulenza nazionali ed internazionali. I programmi dei percorsi formativi sono studiati per rispondere alle reali esigenze del mercato del lavoro, sempre più attento a profili professionali evoluti. Per queste ragioni le giornate d’aula sono divise in due cluster: • L’OVERVIEW, ove i temi vengono trattati con un taglio didattico/teorico teso a fornire una visione ed una conoscenza dell’argomento ampie e costantemente aggiornate. • Il FOCUS, in cui gli stessi temi verranno affrontati attraverso esempi, esercitazioni, case history, al fine di fare della giornata d’aula un momento professionale vissuto “sul campo”. I CORSI DI SPECIALIZZAZIONE: I Corsi d'aula "on-line" e su CDRom, sono divisi per aree tematiche (Contabilità, bilancio e controllo; Legale; Finanza; Marketing; Risorse Umane; Lavoro) e offrono l'opportunità di effettuare approfondimenti manageriali avanzati e di specializzarsi in particolari contesti professionali PER ULTERIORI INFORMAZIONI, CONSULTA: www.midiform.it 16