mons. Matteo Zuppi

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mons. Matteo Zuppi
S.Ecc. mons. Matteo Zuppi
(vescovo ausiliario Roma-Centro)
Omelia
Questo periodo dopo Pasqua è lungo. Ci vuole tempo per comprendere!
Sono cinquanta giorni che separano dal quel primo giorno dopo il sabato,
da quell'alba in cui si mischiavano ancora notte e giorno, quella che tutti gli
uomini cercano, desiderano, hanno nascosta in sé, verso cui andiamo e che
libera dalle tenebre.
E' un periodo lungo perché il male e convincente, perché l’incredulità con la
sua logica raffinata o greve che sia, paralizza i cuori dei discepoli, perché è
tanto più facile stare con le porte chiuse che esporsi e andare incontro,
restare a guardare noi stessi, a parlarsi addosso, ad accontentarci di avere
ragione piuttosto che abbandonarsi al insegna le lingue a noi galilei, che
dona forza al debole e intelligenza all’ignorante.
Non a caso l’icona di pentecoste e il segno del vostro Congresso: cerchiamo
lo Spirito che rivela ogni cosa, che apre gli occhi all’intelligenza spirituale,
che rende nuovo ciò che è vecchio e libera noi, tanti “nicodemi” saggi di
analisi e conoscenze, ma presuntuosi e tristi perché incapaci a comprendere
come può nascere di nuovo ciò che è vecchio.
Noi siamo in questo periodo: crediamo, abbiamo visto, eppure, come nei
discepoli, facciamo una grande fatica ad essere pieni di speranza, a metterci
a correre, a liberarci dalle ferite del passato, dalle tracce del male che durano
molto più a lungo della notte tragica del giovedì e dal suo compimento nel
buio su tutta la terra che parte dal Golgota.
Come liberarsi dalla rassegnazione, dal senso di prudenza, dall’abitudine al
pragmatismo realista, dalla tentazione della vita di sempre?
La sconfitta della croce, lo scandalo della croce riempie sempre i credenti di
paure. E rendono speranza un vaneggiamento di donne. I discepoli avevano
paura di essere contenti! E la paura paralizza il cuore, consiglia rimandare,
riduce le prospettive, abbassa lo sguardo, rende refrattari ai sogni come i due
discepoli di Emmaus che parlavano di Gesù ma non lo riconoscono.
Sono contento di essere con voi, perché abbiamo bisogno di diventare
uomini della resurrezione, per non essere prudenti amministratori di precetti
e consigli della resurrezione; per alzare gli occhi e guardare i campi che già
biondeggiano anche se mancano mesi alla mietitura. Se non vediamo quello
verso cui andiamo, se non sentiamo già oggi la resurrezione anche se
abbiamo ancora addosso l’ombra della morte, tutto diventa faticoso,
impossibile, si fanno strada i calcoli, 1e convenienze, i ruoli.
Quando non si cercano cose grandi diventiamo tutti terribilmente piccini.
La ricostruzione non avviene senza la passione per quello che ancora non
c’e, senza la gioia di piantare alberi che forse non vedremo ma che
sappiamo saranno belli e daranno vita dopo di noi, che altri vedranno. E
vedere questo che fa ricostruire con passione, frutto della sapienza
evangelica, cosi spirituale e umana, per cui la gioia non è consumare, cioé
vivere per se stessi, ma costruire, cioè donare a chi viene dopo.
Solo così il sacrificio diventa un giogo leggero e soave! E' mi sembra il
tema stesso della vostra riflessione: guardare con occhi della speranza il
mondo intorno, con quell’idealismo della bellissima frase di Aldo Moro,
scritta durante la tragedia della guerra, per cui crediamo sempre e solo nella
forza della carità ed allo stesso tempo col realismo di volere con tutte le
energie la giustizia e il gioco delle forze politiche che la determina.
Non amiamo a parole né con lingua, ma con i fatti e con la verità,
ammonisce l’apostolo dell'amore, Giovanni, che certo non si lascia catturare
dalla tentazione di una generazione narcisista, che svuota le parole e non
compie la fatica, l’umiliazione di renderle vita. O forse, dovremmo dire, la
fa pagare a chi viene dopo. Perché se non ricostruiamo il tanto che abbiamo
goduto altri non lo avranno e il compito lo lasciamo, con pesi ulteriori, a chi
viene dopo!
E interrogarci severamente sulle complicità personali e di gruppo alla
“distruzione” che rende necessario oggi parlare di ricostruzione, e uno
sforzo che deve andare di pari passo, (proprio per non amare a parole), al
guardare con passione e speranza il futuro! Rimaniamo con lui. E' il
fondamento, l’inizio della fraternità. Rimanere insieme, pensarsi insieme, la
consapevolezza che non c‘è futuro da soli, sfuggire alla vera tentazione della
divisione per cui sono me stesso solo se rimango solo.
E' vero, la fraternità e la verità della condizione umana, prima ancora di
essere una virtù etica.
Se la viviamo, la cerchiamo, la difendiamo anzitutto tra noi, se la sappiamo
riconoscere e difendere dal nemico insidioso, intelligente, pieno di ragioni,
suadente che è l’individualismo, l’autosufficienza; la fraternità è la nostra
forza. Anche in questo caso: la fraternità non è solo un fine, è anche un
metodo, un dono che possiamo vivere. Essa esprime quel “rimanere” che è
l’invito pieno di amore di Gesù che vuole restare in noi e noi in lui. Solo
essere insieme permette di dare frutti, cioè di non seccarsi nella sterilità,
incapacità di trasmettere vita, di clonarla, di perderla per altri.
E’ vero, non c’è futuro senza rimanere insieme.
Umiliamoci nella fatica tutta umana di tradurre l’amore in qualcosa di
concreto, legandoci alla concretezza del prossimo, così com’è. Perché
lasciamo l’amore solo parola? A volte rincorriamo un’idea astratta di amore,
perfetta, mitica, che non esiste e la realtà ci appare troppo parziale; altre
volte siamo banalmente pigri, ci arrendiamo alle prime difficoltà, non
facciamo il sacrificio che richiede la vita vera.
Perché volere bene è passione, ma anche lavoro, impegno, insistenza,
pazienza!
Gesù non ama angeli o perfetti, ma persone concrete, contraddittorie,
incredule, facili al tradimento. Non ama a parole, ma unisce queste alla vita.
Lui è credibile perché per primo vive quello che annuncia.
Per questo il suo è un amore possibile ed umano! Si traduce, infatti, in gesti,
in scelte.
Non basta dire ad un fratello di andare in pace se ha freddo! Non sono
sufficienti le nostre analisi, fossero anche intelligenti e raffinate; non serve
avere ragione sulle cause o i giudizi, se poi non amiamo nei fatti, cioè non
cerchiamo di capire quello che serve e lo doniamo.
I frutti del tralcio non sono dei frutti qualsiasi e non sono solo del tralcio,
perché in essi si manifesta tutta la vite e si rivela l’amore del vignaiolo, che
con attenzione, sensibilità, pazienza, cura la sua vigna. Il vignaiolo non è
ossessionato dai frutti perché schiavo della produzione, come il nostro
mondo, che usa la vita degli e poi la butta se non serve più, se è meno
conveniente. No. Vuole i frutti perché vuole una vita bella e piena per tutti. I
frutti vengono se rimaniamo nella vite. "Il tralcio non può fare frutto da se
stesso". Tutti abbiamo bisogno di amore per non seccarci! Non si trasmette
amore quando non lo sappiamo ricevere! Il compimento della nostra vita,
del tralcio che siamo noi, non è in se stesso, ma nel dare frutto, nel perdersi
diventando frutto per altri. Non possiamo esigerlo, nutrircene voracemente,
senza renderlo frutti per altri!
Rimanere con lui significa un legame d’amore.
Non si secca facilmente il nostro cuore quando e "slegato”, quando vive per
se stesso e non si pensa insieme a qualcun altro, per qualcun altro? Abbiamo
la bellissima la responsabilità di tradurre in fatti l’amore. E’ il tanto che
abbiamo e che vogliamo trasmettere, in man1era credibile e concreta, al
prossimo. Non accontentiamoci di una vita sterile! Non abbiamo paura di
dare frutti e che questi siano grandi! Spesso siamo inconcludenti perché non
ci preoccupiamo più della necessità che hanno gli altri dei nostri frutti!
Quanto poco regaliamo della nostra vita! Quante occasioni perse per
1ogiche interne, ruoli, incapacità a vivere la fraternità, convenienze, piccole
log1che di potere!
So1o lasciando in questo mondo qualcosa di buono, che come un frutto non
è più nostro e va o1tre di noi, la nostra vita ha futuro. Il nostro mondo ricco
sembra, invece, avere paura di perdersi, troppo innamorato di se stesso
com’é. In questo è glorificato il Padre: nel dimostrare che povere persone,
come siamo noi, diventano capaci di dare frutti, cioè di perdersi per gli altri!
Questi sono la "gloria" di Dio, che non si compiace di se stesso, ma
dell’amore. Gloria di Dio sarà la protezione di chi e debole, la compagnia a
chi è nella sofferenza, l’accoglienza a chi è straniero, l’amicizia tra i fratelli
e per tutti, la protezione del debole. Questa è la gloria di Dio, che ci aiuta a
comprendere quella del cielo. Grazie Signore che rimani con noi e vuoi che
restiamo con te. Grazie perché non ti stanchi mai della nostra vita e ci rendi
capaci di dare frutti e di poterlo fare sempre. Signore, il mondo, i poveri, noi
stessi abbiamo bisogno di vita. Insegnaci a rimanere con te nel tuo amore e a
trasmetterlo. So1o per la tua gloria, luce di amore gratuito e pieno.