QUIETISMO e la Chiesa in Italia,Rachele Lanfranchi,Raffaele

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QUIETISMO e la Chiesa in Italia,Rachele Lanfranchi,Raffaele
Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015
Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 17/01/2015
QUIETISMO e la Chiesa in Italia
Autore: Pietro Zovatto
Per quietismo si intende quel movimento si spiritualità che si propone di raggiungere «velociter» la
perfezione evangelica con un tipo di esperienza di carattere mistico. Storicamente compare nel XVII sec.
particolarmente in Italia, Francia e Spagna. Esso ha interessato sotto il profilo dottrinale tutta l’Europa
occidentale, ma più in generale ha riguardato anche l’Islam con il sufismo. La sua affermazione fondante
va individuata attorno al principio di “passività”, che ha trovato collocazione presso i catari, i Fratelli del
libero spirito, le beghine, i pelagini, e anche presso gli “alumbrados” spagnoli. Nel caso specifico in Italia
compare con“l’oratione detta di pura quiete”, o “orazione degli affetti” (card. Francesco Albizzi, 1682), o
ancora prima con il card. Caraffa, nunzio a Venezia, che denuncia un laico della diocesi di Brescia
(Valcamonica), G.F. Milanese, che insegnava nel suo Oratorio di s. Pelagia non essere necessaria la
recezione dei sacramenti, essendo sufficiente “l’orazione mentale”, mentre le altre devozioni popolari
venivano disattese (Madonna e santi). Le tesi che gli venivano contestate riguardavano “l’unione sublime
passiva, ed estatica, senza haver passato per i gradi della purgativa ed illuminativa”. La denuncia più
significativa è quella del card. Innico Caracciolo (30-1-1682) al papa Innocenzo XI. In questa si
descrivono le caratteristiche essenziali del quietismo, che non sempre trovano un corrispondente storico.
1). Il loro orare è “un sommo quieto e silenzio muti, come morti”, abbandonandosi “alle divine influenze”,
snobbano quindi il meditare raziocinando, quello che rende scopribili i propri difetti. 2) Pensano così di
raggiungere “quel sublime grado di orazione passiva di contemplazione, che Iddio per suo liberal dono
concede a chi vuole, e quando vuole”.3)Ignorano che è necessaria la via purgativa e di purificazione
prima di accedere al vertice della vita d’unione. 4) Non sanno che la contemplazione o “orazione
passiva”, è dono di Dio, e che il demonio si riveste sotto la forma di “angelo della luce”. 5) Addirittura
alcuni quietisti rinunciano alla “orazione vocale”, per buttarsi nella “orazione di pura fede e di quiete”,
tralasciando il rosario, la preghiera vocale quotidiana, restando come “morti alla presenza di Dio”. 6)
Muti davanti a Dio, rifiutano anche le immagini di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi, poiché in
questo stato di esperienza ritengono che ogni pensiero sia ispirato da Dio. 7) il card. Caracciolo non lo
dice esplicitamente che essi snobbano la confessione, sottolinea però che si credono degni di ricevere la
comunione quotidiana.
Storicamente i quietisti, o semiquietisti, rientrano nella categoria delle élites spirituali; sono meno
frequenti, anche se non mancano, “gli idioti”, cioè gli illetterati, che obbediscono ciecamente al loro
direttore spirituale. Come impazienti di fronte all’ideale della santità la vogliono raggiungere
velocemente e con sicurezza per mezzo di una metodologia semplificata al massimo. La via è quella della
opzione interiore radicale in un processo di interiorizzazione esperienziale che scavalca, o male se ne
appropria, persino della tradizione consacrata dalla storia dei grandi maestri, come s.Giovanni della
Croce. Per il quietismo l’attenzione più che sull’aspetto ascetico e della mortificazione si concentra nel
riposo interiore di una vita, il cui protagonista è Dio stesso. Nella orazione passiva acquisita infatti è Dio
che la elargisce a coloro che vi si dispongono. In tutto questo insieme l’anima di verità sembra consistere
nel riflettere un tipo di spiritualità esperienziale, come l’orazione di silenzio interiore, di semplice fede, di
contemplazione affettiva, coinvolgente tutte le facoltà umane. In polemica o per sfuggire al carico del
devozionale e alla aridità spirituale di un tipo di teologia intellettualistica di derivazione tomistica.
Purtuttavia, neanch’essi riescono sempre a sfuggire del tutto al devozionale.
Precursore del quietismo italiano si può considerare Isabella Cristina Berinzaga sotto la guida del gesuita
Achille Gagliardi (d’origine padovana), autore del Breve Compendio della perfezione (1597) a inizio del
Seicento a Milano. Con Angelo Elli l’uomo annientando radicalmente se stesso “si divinizza” a condizione
di restare passivo. Questo minore osservante si spinge fino a negare la responsabilità morale e il valore
delle opere in determinati stadi mistici. Insistendo sullo stato di amore puro, di amare cioè Dio per se
stesso e non per paura dell’inferno. A Brescia presso i Preti della Pace, amalgamati attorno alle
costituzioni di san Filippo Neri, emerge Giacomo Filippo Cosolo, che godeva fama di santo e di operare
addirittura dei miracoli. I Pelagini della Valcamonica sostenevano che è necessaria l’orazione mentale per
la salvezza, disprezzando la pratica sacramentale e il matrimonio. Al gruppo lombardo appartengono i
fratelli Leoni, Simone e Andrea Maria; essi con una rozza psicologia delle strutture conoscitive “di parte
superiore” e “di parte inferiore”, propugnavano una unione a Dio passiva in cui solo Dio agisce,
diventando l’uomo impeccabile, poiché mette in opera solo la parte superiore.
A Vercelli il vescovo Vittorio Ripa aveva chiamato il padre barnabita La Combe (subito raggiunto da
madame Guyon, di questi due aveva dato l’approvazione per la stampa delle loro opere) per dirigere i casi
di coscienza da tenere al clero, portandoseli anche nelle visite pastorali. L’orazione del cuore (1686) del
Ripa evidenzia un amore puro che si trasforma in passività annichilante per le facoltà sensibili al cuore. A
Venezia Michele Cicogna, un sacerdote titolato della chiesa parrocchiale di sant’Agostino di Venezia,
scrittore spirituale letterariamente seicentesco (Ambrosia divina, 1682), offrendo a Dio il libero arbitrio, è
disposto a sopportare le più orribili sofferenze (anche l’inferno) per compiere un atto di carità totalmente
disinteressato. Fecondo di opere di edificazione a più riprese l’Indice intervenne (1683; 1690;1691;1702).
Alla duchessa Laura di Modena, altro centro di spiritualità semiquietistica, il padre Giovanni Paolo Rocchi
di Città di Castello (Umbria) le dedicava il libro Passi dell’anima per il cammino di pura fede (1677, posto
all’Indice dieci anni dopo) dati dai tre gradi dell’orazione di pura fede, raccogliendo l’eredità di Ugo di
san Vittore, santa Caterina da Genova, san Giovanni della Croce, sostenendo che l’anima opera sia nella
contemplazione passiva che in quella acquisita; mantenendosi, tuttavia, in una posizione di un incerto
equilibrio.
In Pietro Battista da Perugia, minore osservante, il mistico deve restare immobile, affinché “Dio dipinga
nell’anime le misericordie”, senza cercare consolazioni, illuminazioni o sentimenti spirituali. La sua opera
Scala dell’anima per arrivare in breve alla contemplazione, perfettione ed unione con Dio fu posta
all’Indice nel 1689). Giovanni Antonio Solazzi, (all’Indice nel 1689 con Modo facile per far acquisto
dell’oratione di quiete) operante a Roma, conosce le posizioni del Petrucci e del Molinos, e afferma che lo
spirito “nell’orazione di quiete è assonnato” nell’essenza di Dio “con l’anima dell’anima”. Oltre ai due
massimi rappresentanti del quietismo citati, sente l’influenza di santa Maria Maddalena de’ Pazzi,
l’estatica carmelitana di Firenze.
Tommaso Menghini, domenicano di Albacina, insiste sulla “orazione degli affetti” (Opera della divina
grazia, 1680) tanto da attenuare la fase ascetica del cammino spirituale, questa può determinare l’amor
proprio. Questa “orazione degli affetti” consiste nell’elevare la mente a Dio in silenzio e lasciarlo parlare
“nel fondo del cuore”. Così da eliminare la fase meditativa. Con il Menghini si spezza l’equilibrio tra
abbandono fiducioso in Dio e la forza della natura sorretta dalla grazia (Indice, 1688). Si possono
considerare petrucciani il marchigiano Benedetto Biscia dell’Oratorio che fa un lungo elenco delle
difficoltà di pensieri, di distrazioni, di immaginazioni per attingere Dio che rimane inconoscibile, per cui
altro non resta che la fede che crede e non conosce, esperienza intellettiva che sarà possibile nella
dimensione eterna con il lume della beatitudine. Carlo Caldori di Fabriano, canonico, dedica un suo libro
al Petrucci: Del sacro santo sacrificio della messa (1682), ma risulta più guardingo del suo maestro,
poiché unisce l’ascetica alla mistica piena di slanci letterari con una vigile coscienza riflessa, non sfuggì,
tuttavia, all’Indice (1690). Anche i Pii Operai di san Balbina a Roma risentono del clima generale, tanto
che il loro Preposito Generale, padre Antonio Torres di Napoli (ammirato da G.B. Vico e poi anche nel
Settecento da sant’Alfonso), convinto assertore della “orazione mentale” fu condannato e quindi
riabilitato dalla sospensione, poiché non negava né l’orazione mentale né quella vocale.
In Sicilia suor Geltruda, benedettina, sosteneva i vari gradi di unione con Dio (unioni di matrimonio)
negando la responsabilità in atti del “de sexsto”; e un fra’ Romualdo, suo compagno di sventura, non
riconosceva l’efficacia oggettiva dei sacramenti se il sacerdote non era in stato di grazia
nell’amministrarli, confondendo la liceità con la validità. Entrambi, dopo alterne vicende del processo
finirono sul rogo.
Questa fenomenologia mistica con notevoli intemperanze dottrinali non rappresenta un organismo
sistematico logico con un centro unitario interno. E mostra di non soddisfare le esigenze antropologiche
delle singole persone in cammino di perfezione, indicando una inquietudine religiosa diffusa. Il quietismo
del resto non rappresenta una dottrina teologica sistematica, ma piuttosto un insieme di insegnamenti di
carattere pratico, collocandosi in un grado avanzato del percorso spirituale. Si potevano trovare dei
quietisti che consideravano la contemplazione acquisita uno stato permanente dell’anima. Non esistevano
singoli quietisti, poiché essi si presentano perlopiù organizzati in gruppi, “conventicole”, ove era quasi
sempre un sacerdote che li dirigeva, o un laico. Le smagliature di condotta licenziosa attinenti il “de
sexto”, là ove c’erano, si potevano trovare tra la gente di basso profilo culturale e quindi facilmente
vittime della presunzione. Le polemiche insorte riguardavano le facili estasi, le visioni a richiesta e altre
forme vistose della fenomenologia mistica. Di certo non si trattava di quietismo quando si parlava di
“orazione degli affetti o di quiete”, come esigenza di coinvolgere la totalità della persona. Emergeva,
tuttavia, questo, quando per affermarlo, si eludevano esplicitamente le orazioni vocali considerate inutili,
dal momento che ci si collocava in uno stadio più elevato dello spirito. L’incapacità della teologia del
tempo di considerare le tre età della vita interiore, purgativa, illuminativa e unitiva, fasi di un processo in
un rapporto dialettico di flessibilità tra loro, secondo cui il momento prevalente non esclude, ma suppone
gli altri. Basti vedere i punti qualificanti del quietismo come erano stati concepiti dal card. Girolamo
Casanata (1682) quando la vertenza sul quietismo aveva raggiunto il suo apice (J. De Guibert, Documenta
ecclesiastica Christianae perfectionis, 1931, n. 445-452; Id., Theologia spiritualis ascetica et Mystica,
1952, n 518). Storicamente la più grande querelle l’aveva scatenata Molinos (a Roma dal 1663 al 1693)
con la sua Guida Spirituale (1675) qui uscita con l’approvazione dei censori ecclesiastici e del maestro
dei Sacri Palazzi. La sua dottrina si dirige a chi ha superato la fase ascetica di purificazione e
s’incammina alla contemplazione, facilmente raggiungibile attraverso la contemplazione appunto, ma
possibile pure per via meditativa. Nell’unione con Dio l’anima fissa la volontà in Dio, ma con “ripulsa di
pensieri e tentazioni” con la maggiore calma possibile. Questo percorso attinge molto dal magistero di s.
Giovanni della Croce. Di lui lo specialista carmelitano E. Pacho (DSp., X, 1486-1514 e DM, s.v.) ha
indicato la sua ortodossia e la sua assenza di turpitudini di cui fu accusato. Negli articoli (Denzinger n.
1221-1288) la condanna (1687) si concentra sulla “orazione di quiete” o passiva e sulla conciliazione di
pensieri immorali senza responsabilità personale, poiché considerati violenza diabolica.
Per il citato card. Pier Matteo Petrucci (Jesi, 1636-1701), amico di Molinos, la meditazione non va
trascurata, ma concentrandosi il cammino di perfezione sulla contemplazione di abbandono o di quiete,
non ammette l’impeccabilità in questo stato, come altri pur sostenevano. Nell’opera Mistici enigmi,
(1680), presa di mira dal Sant’ufficio, parla de “l’unione tutta perduta in Dio”, da cui non deriva un
panteismo negatore della individualità personale, ma “la perfetta indifferenza” dal momento che l’anima
“fissa” in Dio vive con la sola possibilità di “amare con tutta la totalità della sua volontà”. Anche il
Petrucci si rifà alla dottrina sanjuanista, oltre che a F. Malaval, I. Berinzaga, A. Gagliardi, J. Falconi, A.
Elli e P. Manassei. E ha come interlocutore chi è già avanzato nel cammino di perfezione e non il cristiano
comune, che pur è chiamato alla santità. A Roma intanto fioccavano le denunce sul Petrucci, chiamato
“begardo”, “calvinista”, “iconoclasta”, “giansenista”e insieme “quietista”. Anche nella denuncia del
Caracciolo tra i quietisti si nominava il Petrucci. E la condanna non tardò ad arrivare, sulla scia del
Molinos. Certo non si può considerare il Petrucci quietista, poiché risulta cristocentrico nell’organizzare
la sua dottrina spirituale, mentre i quietisti sono fondamentalmente teocentrici; e inculca la necessità
dell’ascesi quotidiana, senza frettolosi scavalcamenti dall’ascetica alla mistica. Il Petrucci domina la
scena nel panorama quietistico o semiquietistico italiano con il suo innato senso della diplomazia.
Quietisti o vicini al quietismo ormai sparsi alla macchia se ne trovavano in Italia in Angelo Elli, Sisto
Cucchi e Paolo Manassei.
Dei due citati fratelli Leoni: Antonio Maria (n. 1639), laico, della diocesi di Como. Con le sue affermazioni
bizzarre propugnava: la riforma della chiesa sotto il papa Alessandro VIII (1689-1691) in virtù di una
cristologia antiatanasiana. Con la morte mistica si realizza l’impeccabilità e l’indifferenza totale
dell’uomo con Dio, separandosi la parte inferiore dell’anima da quella superiore si acquista
l’impeccabilità e l’indifferenza tra il sensibile e il visibile. In questo cristianesimo decurtato e semplificato
i sacramenti non sono necessari, in particolare la confessione, anche se si incoraggia la comunione
quotidiana. Questo quietismo eterodosso, che con varianti emerge nella penisola, è lungi da quello ben
strutturato e colto di Petrucci; e di Molinos che tanta influenza ha esercitato anche al di là di Roma, ove
operava, nel mondo protestante.
Il fratello Simone Leoni, sacerdote, rifiuta la meditazione, le invocazioni dei santi con la conseguente
svalutazione dei sacramenti. Quello che è più inquietante in lui è l’affermazione secondo cui l’anima nello
stato passivo è impeccabile e non deve opporsi alle tentazioni, poiché tutte le attività sono sospese
(compreso il libero arbitrio) e la creatura divinizzata. Stranezze vengono proposte anche intorno alla
Trinità, in cui il Figlio è inferiore al Padre; e nella incarnazione tutta l’essenza trinitaria si unisce alla
carne, e la divinità di Cristo è creata. Lo stesso Cristo non fu esente dalla macchia originale. Tutti e due i
fratelli furono condannati al carcere, oltre che all’Indice (1689; 1717).
In generale a questa dottrina quietista, non sempre con smagliature ereticali, s’opposero A. Regio, in
particolare Gottardo Belluomo (gesuita †1690) ( con Il pregio e l’ordine dell’orationi ordinarie e mistiche,
(Modena 1678) in maniera radicale, affermando, quest’ultimo, il valore previo della meditazione e delle
virtù per via unitiva, a cui si perviene, tuttavia, “in modo perfetto” senza attingere la contemplazione.
Contemplazione che non può concepirsi come “un addormire dello spirito”, ma piuttosto “un movimento
della libertà”. Paolo Segneri con Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione (Firenze 1680) difende la
meditazione senza attenuare il valore della contemplazione, anche se sospettoso della fenomenologia
mistica, come rapimenti e visioni. L’opera fu posta all’Indice (1681) “donec corrigatur”. Tuttavia,
Alessandro Regio con Clavis aurea assieme alla Concordia del Segneri contro i quietisti (Molinos
compreso) furono messi all’Indice, poiché in quella fase storica il quietismo godeva di un particolare
momento di favore. Al Segneri si affiancava Daniello Bartoli, pure gesuita, con l’opera Scrittura contro li
quietisti, in cui si sottolineava la tradizione storica di quel movimento quietista con i Begardi, condannati
da papa Clemente V al Concilio di Vienne (1312)
Altri antiquietisti furono, i vescovi Mercurio Maria Teresi e Nicolò Terzago nel XVIII sec., quando ormai
la questione quietista era diventata un oggetto storico. E il Manzoni stesso si può collocare tra gli
antiquietisti, non solo perché di atteggiamento “filogiansenista”, ma perché considerava il desiderio della
felicità una legge universale del cuore umano (contro l’amore puro indifferente alla beatitudine). Così era
stato condannato Molinos (1687) dapprima dal Sant’Ufficio e poi dalla costituzione di Innocenzo XI
Coelestis pastor (1687), con conseguente incarcerazione perpetua. Nello stesso anno il card. Petrucci
dovette emettere, in forma discreta, una ritrattazione di 54 proposizioni davanti al segretario del
Sant’Ufficio, il card. Alderano Cybo.
Con la condanna di Molinos e del Petrucci il quietismo italiano si poteva considerare sconfitto e con
quella di Fénelon (1689), che ebbe la peggio nel duello con Bossuet sulla vertenza del “puro amore”, la
mistica stessa veniva considerata virtualmente messa sotto accusa. Sotto il profilo storico il suo insistere
sulla contemplazione acquisita mostra l’importanza accordata alla presenza silenziosa davanti a Dio, al di
là di ogni formulazione, in adorazione dello spirito; segna l’inizio di un’era di crisi della mistica, o
perlomeno di un guardarla con sospetto per favorire ogni metodologia alla perfezione, con la
preponderanza ascetica; lascia libero spazio alla spiritualità gesuita che nelle mani dei suoi figli andava
progressivamente rafforzandosi con “l’asceticismo” (Bremond), oscurando la radice mistica delle sue
origini; poneva il problema della possibilità di considerare la contemplazione sì uno spazio riservato ai
vertici, ma a portata di mano anche dei “semplici” o degli “idioti”, per rendere possibile la vocazione
universale alla santità; nella ricerca dell’affettività nel porsi presso Dio in contemplazione, il quietismo
affermava inconsapevolmente una antropologia molinista, cioè la definizione egologica nel vertice
dell’itinerario a Dio, al di là d’ogni intellettualismo dottrinario elevato a sistema. Senza avvedersene si
scopriva così l’esigenza ineludibile dell’esperienza cristiana profonda, per viverla con radicale impegno. I
quietisti anche se elitari (quelli che lo erano) come i giansenisti, proprio questi essi sembrano
controbattere, senza nominarli, per il loro rigorismo etico e aprirsi così la strada per rendere accessibile i
più alti gradi di perfezione a ogni uomo. Il principio di passività quietistico di fronte alla preponderante
grazia di Dio veniva interpretato come una svalutazione delle opere presso il mondo protestante e un
argomento apologetico anticattolico (una negazione pericolosa, se non ereticale, dell’economia
sacramentale presso quello cattolico), per cui la Guida spirituale di Molinos, formulata nel cuore della
cristianità, ha goduto di una notevole fortuna nelle molteplici traduzioni in tedesco.
Fonti e Bibl. essenziale
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Ottocento, Aedes Muratoniana, Modena 1988; M. Marcocchi, La spiritualità tra giansenismo e quietismo
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ascetica giansenista e quietista nelle regioni di influenza avellanita (Atti Convegno Centro Studi
Avellaniti), Fonte Avellana 1977, 127-188; A. Sampers, Appunti di s. Alfonso tratti da un’opera del card.
Petrucci, “Spicilegium Historicum C.S.S.C.” (1978/26), 249-290; J.-R. Armogathe, s.v. in Catholicisme,
XII, Paris 1990, 370-377; E. Pacho – J. Le Brun, s.v. in DSp., XII-2, Paris 1980, 2756-2842, per l’Italia E.
Pacho, 2756-2789; E. Pacho, s.v., in Dizionario di mistica, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1998,
1053-1055; M. Modica, Infetta dottrina: Inquisizione e quietismo nel Seicento, Viella, Roma 2009.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
Rachele Lanfranchi
Raffaele Savigni
Professore associato confermato (M-STO/01 STORIA MEDIEVALE) Nato a Budrio (BO) il 25 maggio 1953,
ha conseguito nel luglio 1972 il diploma di maturità classica. Successivamente ha conseguito, presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, la laurea in Lettere moderne (il 5 luglio 1977) e
la laurea in Storia, indirizzo medievale (il 14 marzo 1986), in entrambi i casi con la votazione di 110 su
110 e menzione di lode, discutendo due tesi elaborate sotto la guida della prof. Alba M. Orselli (Giona di
Orléans: una ecclesiologia carolingia; e Storia universale e storia ecclesiastica nel «Chronicon» di
Freculfo di Lisieux). I due lavori, rielaborati, sono stati pubblicati rispettivamente dall’editore Pàtron di
Bologna (sotto forma di volume, n. 2 della collana «Cristianesimo antico e medievale», diretta dalla stessa
prof. Orselli) e sulla rivista “Studi medievali”. Ha inoltre frequentato la Scuola di Archivistica, Paleografia
e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Bologna, conseguendo nel 1981 il relativo diploma; ed ha
tenuto, nell’anno accademico 1977-78, un corso di esercitazioni pratiche per gli studenti di Storia del
Cristianesimo. Ha insegnato nelle scuole secondarie dall’anno scolastico 1977-78 al 1994-95. Nominato
docente di ruolo di Italiano, Storia e Geografia nella scuola media in quanto vincitore di concorso
ordinario a cattedre (con immissione in ruolo in data 19 settembre 1984), il 10 settembre 1985 è stato
immesso per concorso nei ruoli della scuola secondaria superiore, come docente di Materie letterarie, e
quindi di Italiano e Latino nei licei. Ha frequentato il dottorato di ricerca (quadriennale) in Storia
medievale (VI ciclo, anni accademici 1990-94) istituito presso l’Ateneo di Firenze (coordinatore prof. G.
Cherubini; sedi consorziate: Bologna e Roma «La Sapienza»), in quanto vincitore del concorso bandito
con D.M. 28 maggio 1990; ed ha conseguito il titolo di dottore di ricerca il 19/01/1996, discutendo una
tesi su Episcopato e società cittadina a Lucca da Anselmo II (+1086) a Roberto (+ 1225), pubblicata lo
stesso anno dall’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti. Dal 1° novembre 1995 è stato immesso
nel ruolo dei ricercatori universitari in quanto vincitore del concorso bandito dall’Ateneo bolognese con
D.R. n. 14 del 12/01/1994, per il gruppo disciplinare M03C, Storia del Cristianesimo antico e medievale
(poi M-STO/07, Storia del Cristianesimo e delle Chiese), ed ha prestato servizio come ricercatore
universitario nella Facoltà di Lettere e Filosofia, sede di Ravenna, e quindi nella Facoltà di Conservazione
dei beni culturali dell’Università di Bologna, ottenendo nel 1999 la conferma in tale ruolo, con afferenza
presso il Dipartimento ravennate di «Storie e metodi per la conservazione dei beni culturali». Nel marzo
2001 ha conseguito l’idoneità a ricoprire un posto di professore associato per il settore scientificodisciplinare M-01X-Storia medievale (ora M-STO/01), nell’ambito di un procedimento di valutazione
comparativa bandito dalla Facoltà di Beni culturali dell’Università di Lecce con D.R. n. 1935 del 4 luglio
2000; ed ha preso servizio in tale ruolo il 1° novembre 2001 nella Facoltà di Conservazione dei Beni
culturali dell’Università di Bologna, ottenendo la conferma in ruolo nel novembre 2004. Ha conseguito
l’abilitazione scientifica nazionale nella prima tornata (2012) per il settore concorsuale 11/A4, Scienze del
libro e del documento e scienze storico-religiose. Dall’anno accademico 1998-99 al 2003-2004 gli è stato
affidato l’insegnamento di Paleografia latina. Dal 2001-02 ha tenuto l’insegnamento di Storia medievale,
e successivamente quelli di Istituzioni medievali e Storia dell’Emilia Romagna nel Medioevo nella Facoltà
di Conservazioone dei Beni culturali di Ravenna (corsi di laurea quadriennale, poi triennali e magistrali);
e dal 2007-2008 anche l’insegnamento di Storia medievale nel corso di Archeologia navale (sede di
Trapani). Ha svolto per molti anni la funzione di tutor nell’ambito del corso teledidattico di diploma (e poi
di laurea) per operatore dei beni culturali, per gli insegnamenti di Esegesi delle fonti storiche,
Paleografia latina, Diplomatica; ed ha tenuto lezioni di taglio storico-documentario in alcuni master di
ambito archgivistico-librario a Ravenna ed a Trapani . Nella sua attività di ricerca, inizialmente
incentrata sull’analisi del complesso ed articolato rapporto degli intellettuali carolingi con la cultura
patristica e con l’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche e dell’ideologia politica, ha progressivamente
allargato la propria attenzione dagli aspetti più propriamente storico-religiosi e storico-esegetici alle
problematiche connesse alla costruzione di strumenti concettuali e lessicali che riflettono il complesso
tentativo di definire le istituzioni della società cristiana. Ha poi analizzato il rapporto tra istituzioni
ecclesiastiche, ordinamento territoriale e società urbana nel periodo precomunale e comunale; l’esegesi
biblica carolingia, in connessione con con il contesto politico-ideologico e lo sforzo di ridefinizione del
sacro da parte degli esponenti della cultura clericale e monastica; l’associazionismo del clero lucchese ed
i diversi aspetti del rapporto tra dinamiche sociali e memoria culturale tanto in ambito cittadino quanto in
aree periferiche (come la Valdinievole e la Garfagnana). Il prof. Savigni, già membro (dal 1994 al 2002)
del gruppo di ricerca nazionale «Studi sulla letteratura esegetica cristiana e giudaica antica», ha
sviluppato la sua attività di ricerca in collaborazione con importanti istituzioni culturali italiane e
straniere (la SISMEL di Firenze, il CISAM di Spoleto, il CNRS, il “Centre d’études médiévales di Auxerre,
le Università di Nizza, Zurigo, Limoges) e nell’ambito di Convegni e Colloqui internazionali. Inoltre è
socio corrispondente di «Reti medievali», socio della SISMEL (Società italiana per lo studio del Medioevo
latino), dell’Istituto storico lucchese, del centro studi «Ravennatensia» e dell’Associazione Internazionale
per le Ricerche sui Santuari (A.I.R.S.). Collabora con il CISEC (Centro interdipartimentale di Scienze
delle religioni) e con l’osservatorio regionale dell’AISSCA per la Toscana. Inoltre è stato membro del
Collegio docenti del Dottorato di ricerca «Società, regalità, sacerdozio nelle fonti filologiche, storiche,
antropologiche (secoli V-XVI)», coordinato dal prof. Antonio Carile (attualmente denominato «Bisanzio ed
Eurasia»), e del Dottorato in Storia coordinato da Maria Malatesta, nel quale il suddetto Dottorato è
confluito (in questo ambito è stato responsabile dell’indirizzo “Bisanzio ed Eurasia” ed ha organizzato
seminari e momenti formativi per dottorandi).Attualmente fa parte del Collegio docenti del Dottorato
“Studi sul patrimonio culturale”, costituito presso il Dipartimento di Beni culturali e coordinato dal prof.
Cosentino, ed è tutor di due tesi di dottorato. Ha fatto parte due volte della Commissione giudicatrice per
l’esame di ammissione al Dottorato, nonché della Commissione finale per il conferimento del titolo di
dottore di ricerca. Inoltre è membro del Comitato scientifico della rivista «Actum Luce», emanazione
dell’Istituto storico lucchese (per il quale ha organizzato e sta organizzando vari cicli di incontri
culturali), e coordinatore della “Storia della Chiesa di Rimini”, volume I, Dalle origini all’anno Mille,
pubblicata nel dicembre 2010, nonché curatore del volume “Santuari d’Italia: Romagna”, Roma, De Luca,
2013. Già membro per molti anni della Commissione Biblioteca e della Commissione tirocini della
Facoltà, è attualmente membro della Giunta del Dipartimento di Beni culturali e della Commissione per
gli obblighi formativi (OFA), e presidente del Comitato scientifico della Biblioteca di Campus di Ravenna.
Ha organizzato, per la Facoltà, un ciclo di “Incontri con l’autore”, ed organizza attualmente attività
culturali nell’ambito del Dipartimento di Beni culturali.
RELIGIOSITA' POPOLARE e la Chiesa
in Italia
Autore: Pietro Zovatto
Solo di recente la storiografia ha fatto oggetto di ricerca la religiosità popolare, faticando non poco ad
individuare un suo spazio di attenzione accanto alla religione ufficiale. Incerta nel trovare il suo metodo
di procedere, di volta in volta con una andatura vicino alla sociologia, alla antropologia, alla filosofia e,
magari, avvicinandosi alla teologia cristiana, o ad una filosofia della religione “laica”, mutuata
dall’idealismo materialistico o dal razionalismo agnostico.
In Italia uno dei primi studiosi della religione popolare è stato Antonio Gramsci, secondo cui la religione
si stratifica al suo interno, anche se tutte le religioni non sono che “folklore” in rapporto al “pensiero
moderno”. In particolare questa distinzione vale per la “la religione del popolo”, che è molto diversa da
quella degli intellettuali. È difficile ridurre la religiosità popolare a folklore, se essa rivendica un culto il
cui destino detiene una intenzionalità trascendente
Dello storicismo ideologico gramsciano uno dei più coerenti discepoli fu certamente Ernesto De Martino,
particolarmente con le due opere Sud e magia (1959) e Il mondo magico (1967) con una nuova
impostazione della scienza etnologica, con cui esplora la sopravvivenza delle più rozze pratiche di magia
cerimoniale in terra lucana (Basilicata). La chiave di interpretazione è data dalla alternativa tra “magia”
capillarmente diffusa nel mondo contadino, di fronte alla “razionalità”. Il pensiero meridionale si adagiò a
questa temperie senza optare in maniera determinante alla razionalità illuministica.
Alfonso di Nola dopo la lezione di Ernesto de Martino, inserisce la sua premessa marxisteggiante nella
antropologia delle forme religiose popolari. Ha tuttavia il merito di recepire l’istanza empirica nello
studiare le feste e i culti popolari delle regioni meridionali, negli anni Settanta, con la ricerca: Gli aspetti
magico–religiosi di una cultura subalterna italiana (1976).Egli si presenta con un’ opera significativa
sotto il profilo storico-antropologico sulle forme della “cultura subalterna” in Italia. Sono infatti
presentati i risultati di due ricerche effettuate sul territorio in terre abruzzesi, di antica civiltà rurale in
riferimento ai culti riguardanti san Domenico a Cucullo e di san Antonio Abate nella Marsica, nonché di
san Zopito. E indica il ricupero di questo materiale indigeno e ancestrale da parte della religione ufficiale,
che si mostra così egemone su una cultura che deve restare subordinata rispetto a quella dominante e
canonica.
Questa doppia interpretazione degli stessi dati, una “subalterna” del popolo e una “ufficiale”, avanzata
dal Di Nola, richiede il passaggio dall’esegesi antropologica di carattere puramente “culturale” su un
fatto di natura ostile all’uomo (il serpente) in una società di pastori e di cacciatori. Nonostante il
passaggio alla industrializzazione del sistema capitalistico, la persistenza storica di diversi riti locali
abruzzesi può essere considerata come resistenza delle culture locali subordinate ai modelli unificanti.
L’intervento di Carlo Ginsburg: Folklore, magia, religione (in Storia d’Italia, I, 1972) per certi aspetti
risente l’influenza di Gramsci avvicinando la religione popolare al “folklore” sacrale, o al magismo, dal
momento che per Gramsci la religione è folklore. Prendendo il filo dall’Umanesimo non dà che un giudizio
negativo su tutto il Rinascimento fino ad arrivare ad un indistinto coacervo di scongiuri e di giaculatorie
espresso da l’Alfabeto dei villani (del Seicento), secondo Ginsburg. In questo particolare momento storico
si avverte lo spostamento della strategia della presenza storica controriformista dalla città alla
campagna, che diventa il centro della conservazione del patrimonio religioso. Anche i gesuiti, gli
strateghi moderni dopo il Concilio di Trento, seguono questo indirizzo e adattano il loro messaggio con le
immagini per il loro valore emotivo e di immediata percezione. Di qui il diffondersi di preghiere, di vite di
santi, di narrazioni di miracoli, di litanie e almanacchi e cantari con diffusione capillare di questo
“opuscolame devozionale”.
Anche altre opere di nomi prestigiosi del Settecento – secondo le ricerche di Ginsburg come sant’Alfonso,
oppure del Pastorini e del Muzzarelli esprimevano una religiosità minore “idilliaca e dolciastra”, sia con
le sentimentali canzoncine mariane, sia con la devozione a Gesù Bambino, dal carattere ingenuamente
carammelloso. E i parroci nelle loro omelie non predicano certo “né il Dio corrucciato del Vecchio
Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cristo zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre”.
Immaginette che sono, tuttavia, state studiate come una mediazione dimessa ed immediata che partendo
da un supporto cartaceo discutibile sotto il profilo artistico, possiedono la virtualità di sollecitare
esigenze elementari del popolo verso le sublimi verità del dogma cristiano, fino ad attingere la Trinità,
con un sentire autenticamente religioso (P. Zovatto, Il santinio tra metafisica e religiosità, 1988 ).
Un indirizzo tutto nuovo ha impresso a questo genere di ricerche Gabriele De Rosa che in vario modo ha
assimilato la lezione della pietà di don Giuseppe De Luca, di Gabriel Le Bras e di Lucien Febvre. Si tratta
della pietà delucana quale presenza di Dio amato per consuetudine d’amore. Per una ricostruzione
storica della complessa situazione meridionale, egli ha fatto lungo ricorso al materiale documentario
ecclesiastico proveniente dalle relazioni delle visite pastorali dei vescovi, dalle relazioni “ad limina” degli
episcopati, dalle pastorali e dai sinodi. Compulsando infatti gli archivi della Calabria e della Basilicata
(Lucania), ha potuto esordire con un saggio Nicola Monterisi (1867-1944): “Pensieri e appunti”. Magia
popolo nelle esperienze di un vescovo meridionale (“Archivio Italiano per la Storia delle Pietà” 1970, VI,
403-491). Oltre che alla mediazione di “pietas” delucana si avvale dell’apporto sociologico delle
“Annales” e “mostra come quelle due regioni del Sud, la religiosità popolare, trovava in continuazione un
vigilante controllo dei vescovi per mantenerla ancorata alla ortodossia cattolica secondo i canoni della
Controriforma. Parte quindi con una metodologia meno ideologizzata di un Gramsci e muovendo
dall’interno della istituzione ecclesiastica con i suoi organi di governo (vescovi, sinodi, pastorali, visite
“ad limina”), sistematicamente sottoposte ad analisi. E la magia viene colta nei suoi aspetti sociali quando
diventa spia d’una condizione sociale e delle aspirazioni delle popolazioni rurali onde “garantirsi
dall’ignoto”, assumendo sì un aspetto irrazionale, ma per sfuggire da una crisi economica senza sbocchi.
Al De Martino De Rosa replica che allargando la ricerca sulla vita interna della chiesa controriformista, in
cui si scopre che la storia religiosa del Sud Italia fu anche storia di sinodi e di visite pastorali, atti ufficiali
delle curie vescovili che non vanno sottovalutati. Questi fenomeni di ibridismo magico-religioso rimasero,
tuttavia, sempre fenomeni circoscritti e ben individuati da parte della gerarchia. Il vescovo Angelo Anzani
nella Basilicata infatti deplorava nel suo clero il compromesso con le pratiche magiche e distingueva un
esorcismo extracanonico, stigmatizzato, da un esorcismo previsto dal diritto canonico. E richiamava il
senso agostiniano del peccato ( che magari poteva avere smagliature gianseniste) e la volontà di spezzare
ogni nesso tra religione e magia. Per Gabriele De Rosa “c’è insomma una storia del sincretismo paganocattolico del Sud, che appartiene al folklore, e una storia istituzionale della pietà”, che muove da una
concezione religiosa e cristiana dell’uomo, che è “storia di liberazione dalla magia” (Vescovi, popolo e
magia nel Sud, 1971).
Sotto questo aspetto si profila la tesi di Gramsci secondo cui la religione è “la più grande utopia”, cioè la
più “gigantesca metafisica” apparsa nella storia. Essa infatti si configura come il tentativo di conciliare le
contraddizioni della mitologia della religione popolare con la vita reale della storia, ed è questa la
religione del popolo; quella degli intellettuali (gesuiti), invece, è tutt’altra cosa. E lo sforzo di questi è
stato sempre quello di unire le due religioni in una unità superiore per sottrarre quella popolare dal
frammentarismo e dalla superstizione per portarla ad un grado di maggiore organicità e coerenza
unitaria. Ma quello che per Gramsci costituisce un’esigenza ideologica, per De Rosa diventa dato storico,
poiché i sinodi, le visite pastorali dei vescovi dell’Italia meridionali sono intervenuti per riportare quelle
credenze ambigue ad un livello di consapevolezza dottrinale di ortodossia, secondo le direttive del
Concilio di Trento. Del resto, rileva De Rosa, la scarsa stima di Gramsci nei riguardi della cultura
popolare, “la religione dei semplici”, corredo della classe subalterna, mostra una pregiudiziale diffidenza
verso il popolino che dovrebbe diventare, alleato della classe operaia, protagonista della dialettica
marxista per raggiungere il potere.
Con il Concilio Vaticano II “i pii esercizi”, “gli esercizi di pietà” (Sacrosanctum Concilium 13; Optatam
Totius, 89) e le devozioni antiche acquistano la loro dignità essendo aperto ad essi uno spazio paraliturgico, ma pur percorso da una devozione più elevata non ancora liturgia con cui la chiesa offre a Dio,
per il tramite di Gesù Cristo, il culto ufficiale adeguato. Il più recente Direttorio su pietà popolare e
liturgia. Principi e orientamenti (2002) sospinge la ritualità delle credenze popolari di lunga tradizione (la
Madonna, i santi, i pellegrinaggi, le novene) verso la purificazione dei contenuti, accostati con una
strategia pastorale più congrua al credo cattolico.
Anche se quella religiosità popolare è “alternativa o parallela” alla liturgia, non sempre nata da
“l’ispirazione liturgica”, riporta “forme di sensibilità naturalistica di credenze e pratiche popolari
paleocristiane”. Questo “excursus” dei maggiori studi della critica sulla religiosità popolare mostra la
tendenza ad accentuare il lato irrazionale, magico, primitivo della religione popolare e dall’altro lato se
ne sottolinea l’arcaicità che assicura gli elementi di lunga durata, nonostante gli interventi dell’autorità
ecclesiastica. Pur evidenziando gli aspetti di sincretismo tra sacro e profano – spesso interpretati con una
metodologia ideologizzata – si rintracciano sì bisogni primordiali di sicurezza psicologica e materiale, ma
solo pochi hanno sottolineato gli interventi vigilanti dell’autorità ecclesiastica per convogliare questo
fenomeno complesso e debordante del vissuto popolare alle fonti dell’intuizione cristiana. Tendenza del
sentire religioso diffuso che pur brillava nella compassata e giuridica chiesa controriformista.
Ancora ha notato Philippe Ariès (Religion populaire et réforme religieuse, (“Maison Dieu” (1975/ 122) in
questa storiografia “laica” si rileva nei riguardi della religiosità popolare un atteggiamento di critica non
dissimile a quella del XVII e XVIII secolo illuministico, quasi fossero questi intellettuali detentori di un
cristianesimo puro delle origini (posizione giansenizzante). Egli rileva che anche in quei secoli la
religione popolare e quella delle élites credenti non erano in contraddizione. La collettività e
l’intelligenza cattolica avevano in comune (e tuttora hanno), l’apprezzamento positivo per la pratica dei
sacramenti e delle devozioni popolari
Se confrontiamo la religiosità del sud Italia con quella del nord, essa non sembra assumere connotazioni
di differenziazione specifica; possiedono ambedue una uniformità di fondo abbastanza simile. Si
diversificano piuttosto nella fenomenologia della espressione esteriore. Più vistosa, più mossa al sud, ma
insieme anche più corale e totalizzante e più esteriormente sacrale. Tutte le classi sociali vi sono
coinvolte, da quelle pubbliche (autorità civili) a quelle borghesi con il popolo minuto. È festa di tutti nella
visibilità di una civiltà mediterranea anche nella esternazione del sentire sacro, come avviene a Catania
per il patrono sant’Agata. Nel nord l’espressione del religioso popolare sembra coinvolgere di più la
persona-individuo nella consapevolezza di una venerazione contenuta, che sa ancora del tradizionale
controriformista, specie nelle piccole borgate paesane. In queste va assottigliandosi la partecipazione
delle pubbliche autorità, in particolare dopo la dissoluzione del partito d’ispirazione cristiana. Talune
sopravvivenze paganeggianti sembrano più appariscenti nel sud che nel nord, dove l’influenza
dell’autorità ecclesiastica e la secolare formazione sacerdotale dei seminari è stata più incisiva per
incanalarla alla sostanza del dogma cattolico, come nella diocesi di Milano con la cerchia dei santuari
mariani (i Sacri Monti) posti a baluardo del mondo protestante, o come a Padova con il Santo (san
Antonio). Mentre nel sud la forza del tradizionale regge con più pervasività e vischiosità nel sentimento
religioso collettivo, non del tutto immune dalla arcaica “pietas” paganeggiante. Implicitamente lo
suggeriva il De Luca nella sua Introduzione… e Gabriele De Rosa in parallelo con la religiosità prescritta
dall’autorità ecclesiastica ( che nel sud Tirolo, diocesi di Bressanone e Trento, riusciva determinante, per
es. per i santuari à répit diffusi nell’arco alpino di tutto il nord). Senza dire del De Martino che faceva
dell’elemento pagano (magia e superstizione) la chiave di comprensione della religiosità popolare. Dal
mondo pagano al cristianesimo la religiosità popolare ha segnato un processo di purificazione innegabile,
ma il percorso non è ancora arrivato al termine di attingere in pienezza il Cristo e il mistero trinitario
(valore e limiti della religiosità popolare in “Evangelii nuntiandi, 1975).
Fonti e Bibl. essenziale
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950; Id., Quaderni del carcere, a cura di V.
Gerratana, Einaudi, Torino 1975, n. 748-749; 1361; 1378; 2311-2312, 1380-1383, 1398-1399; E. De
Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Miano 1959; Id., La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 1961; G. De
Luca,Introduzione alla storia della pietà, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1962; G. Ginsburg, I
Benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966; Id., Folklore,
magia e religione, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, 603-676; P. Stella, Il
triduo sacro nella pietà popolare del Sette e Ottocento, “Rivista Liturgica” (1968/1) 68-83; Devozioni e
religiosità popolare in Italia (sec. XVI-XX). Interpretazioni recenti, “Rivista Liturgica” (1976/2) 155-173;
Id., Religiosità vissuta in Italia nell’800, in Storia vissuta del popolo cristiano, ed. it. a cura di F. Bolgiani,
SEI, Torino 1985, 753-768; R. Morozzo della Rocca, La religiosità del soldato italiano in guerra, ib., 789808; G. De Rosa, Nicola Monterisi (1867-1944) “Pensieri e appunti”. Magia e popolo nelle esperienze di
un vescovo meridionale, “Archivio Italiano per la Storia della Pietà” (1970/6) 403-491; Id.,Vescovi, popolo
e magia nel Sud, Guida, Napoli 1971; Id.,Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Bari
1978; C. Gallini, Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna, Laterza, Bari 1971; La società religiosa
nell’ età moderna, a cura di F. Malgeri, Guida, Napoli 1974; B. Plongeron, (ed.), La religion populaire
dans l’Occident chrétien. Approches historiques, Beauchesne, Paris 1976; A. Di Nola, Gli aspetti magicoreligiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Torino 1976; S. Marsili, Liturgia e devozioni: tra
storia e teologia, “Rivista Liturgica” (1976/2) 174-198, n. unico su: Devozioni e liturgia; “Ricerche di
Storia Sociale e Religiosa” (1977/ 11) n. unico sulla religiosità popolare con artt. Di J.C. Schmit (rapporti
con il folklore), M. Vovelle (pratica religiosa e livello sociale), G. De Rosa (conclusioni); e sul convegno A.
Ferrari, Religione e religiosità popolare: studiosi italiani e stranieri a confronto a Vicenza, “Vita e
Pensiero” (1976/6) 114-120; C. Prandi, Religioni e classi subalterne, Coines, Roma 1977; V. Fagone,
Gramsci e la religiosità popolare “La Civiltà Cattolica” (1978/3) 119-133; G. Mattai, v. Religiosità
popolare, in Nuovo Dizionario di spiritualità, Città Nuova, Roma 1979, 1316-1331; G. Grampa, Gramsci:
sovrastruttura, ideologia, religione, “Humanitas” (1979/1-2) 47-70; G. De Rosa, Che cos’è la religiosità
popolare?, “La Civiltà Cattolica” (1979/3) 114-130 e altri artt., ib., 1979-1980 ove si trattano i temi della
magia, delle classi subalterne, e la pastorale); B.M. Bosatra, Recenti miscellanee sulla religiosità
popolare, “Scuola Cattolica” (1982/1) 65-84 e ib., 1983; 1985; 1987; 1989; 1992; Id., La religiosità
popolare tra Cinque e Seicento, in La Chiesa nell’età dell’Assolutismo confessionale. Dal concilio di
Trento alla pace di Westfalia (1563-1648), a cura di L. Mezzadri, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1988;
G.Agostino, v. Religiosità popolare, in Nuovo Dizionario di Mariologia, a cura di S.De Fiores e S. De Meo,
Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1986, 1111-1122 (bibl.); P. Zovatto, Il santino tra metafisica e religiosità
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Trieste e l’Istria tra religiosità popolare e folclore, a cura di P. Zovatto, (Centro Studi Storico Religiosi
F.V.G., 22), Trieste 1991, 22-78; Id., Nuove forme di religiosità popolare tra Sette e Ottocento, in Storia
Religiosa, III, G. De Rosa e T. Gregory (ed.), Laterza, Bari 1994, 303-418; M. Lauwers, v. Religion
populaire in Catholicisme, XII, Letouzey et Ané, Paris 1990, coll. 835-848; Fede, pietà, religiosità
popolare e San Francesco di Paola, (Atti Convegno Inter. di Studio, Paola, 7-9 dic. 1990), Curia
Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1992; Santi, culti, simboli, nell’età della secolarizzazione (18151915), a cura di E. Fattorini, Rosenberg & Sellier, Torino 1997; D. Zardin, La “religione popolare”
interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca, “Memorandum” (2000/1) 41-60; V. Bo, La religiosità
popolare. Studi, ricognizione storica, orientamenti pastorali, documenti, Cittadella, Assisi 2002;
Direttorio di pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Congregazione per il Culto Divino e i
Sacramenti, Città del Vaticano 2002; C. Chenis,“Nova et vetera” nella concezione iconografica cristiana.
Il Discorso intorno alle immagini sacre e profane di Gabriele Palleotti, “Rivista Liturgica” (2004/1) 597603.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
RELIQUIE e la Chiesa in Italia
Autore: Cesare Silva
Il culto delle R. dei Santi conosce nella seconda metà dell’Ottocento una nuova stagione. Cresce, in strati
sempre più ampi della popolazione, la diffusione del fenomeno, già sviluppatosi a cominciare dal sec. XVII
della raccolta di piccoli frammenti di reliquie custodite in piccole teche singole o multiple, spesso di
materiale e fattura pregiata, che vengono “collezionati” in “paradisini” da esporre per la devozione
personale o da tenere tra le cose più care.
Con la rinascita degli studi dell’archeologia cristiana promossa dall’impegno anche divulgativo di
Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), si assiste alla nascita di un nuovo gusto per il Cristianesimo
primitivo nello stile architettonico e decorativo delle chiese e delle suppellettili sacre e soprattutto nel
culto e nel decoro dei Martiri delle Catacombe romane. In questo periodo, e fino ai primi decenni del
novecento, riprende il recupero e l’esposizione dei Corpi Santi, provenienti dagli antichi cimiteri, dotando
le chiese e le comunità di nuovi patroni ben esposti e venerati.
A questi si aggiungono le R. di Santi o Beati più recenti, costituite non solo da frammenti ossei ma anche
da porzioni minuscole di abiti o biancherie appartenuti alle figure di riferimento, che vengono spesso
distribuiti e autenticati direttamente dalle Congregazioni religiose o da altri enti ecclesiastici. Le R.
costituiscono un valido strumento per promuovere la devozione ai Santi e a diffondere la loro conoscenza
in vista delle cause di beatificazione che vengono avviate; a partire dagli inizi del Novecento si diffonde
l’uso massiccio di immaginette con incorporate piccole R. (per lo più tessili) munite di sigilli cartacei.
Sotto i pontificati di Pio IX e Leone XIII vengono riprese molte cause di beatificazione e vengono istruite
pratiche per il riconoscimento canonico di quei culti tributati in modo spontaneo o sostenuti solo da
notizie tramandate da tradizioni talvolta dubbie o incoerenti. Accanto all’istruttoria storico-canonistica,
non manca l’attenzione anche per le condizioni materiali delle R. che sono oggetto di ricognizione, studio
scientifico, e nuove collocazioni che ne favoriscano la devozione pubblica.
Si diffonde infatti a partire da questo periodo l’uso generalizzato di esporre i corpi di Santi in urne
munite di cristallo, componendo le R. in modelli anatomici rivestiti con abiti appropriati e che
riproducono le fattezze in cera, laddove non restino che pochi frammenti ossei. Non mancano i casi di
esposizione di Corpi santi rimasti integri ma usualmente conservati in casse chiuse oppure mostrati ai
fedeli solo in occasioni ed entro riti liturgici particolari Questo modo di presentare le R.,
precedentemente limitato a casi di integrità eccezionale, diventa ormai generalizzato.
Dal punto del culto pubblico alle R., si segnala una particolare attenzione da parte degli Ordinari
diocesani a munire di regolari sigilli e autentiche quanto esposto nelle chiese alla pubblica venerazione, a
cominciare dai reliquiari nelle varie fogge (come busti di Santi e di Vescovi, urne, ostensori ecc.) che a
partire dall’età barocca costituiscono parte integrante dell’ornato festivo degli altari e che si
conserveranno nel rito liturgico, nel gusto e nella produzione fino all’età post-conciliare.
Una rinnovata attenzione all’autenticità storica dei Corpi Santi conservati nelle chiese produce
innanzitutto una importante serie di studi di carattere storico generati nel contesto di moderni criteri
metodologici di analisi scientifica che superano i convincimenti secolari provocando in molti casi uno
scollamento tra la “verità” storicamente accertata e la “verità” sedimentata dalla tradizione. Delicata e
controversa, specialmente in alcuni momenti e contesti, è la relazione tra questi dati e il culto popolare (e
quello ufficiale, nei casi approvati o sanzionati dall’autorità ecclesiastica) nelle sue conseguenze pratiche
specialmente laddove si rischia di urtare la sensibilità e la fede di comunità.
La consulenza di studiosi e archeologici aiuta a integrare e a correggere i dati provenienti dall’indagine
documentaria e dalla tradizione.
In questo periodo inizia, spesso contestualmente, l’applicazione delle metodologie scientifiche anche
all’oggetto materiale delle R., con ricognizioni che vedono la presenza e la consulenza di medici e tecnici
specializzati invitati ad analizzare i reperti ossei con gli strumenti tecnologici disponibili e predisporre
adeguate tecniche di conservazione.
Il rinnovamento conciliare ha modificato in modo sensibile l’approccio alle R. e il loro culto: se assumono
forme più marginali le tradizionali espressioni di devozione (specialmente in ambito privato), si segnala
una attenzione particolare per la custodia regolare di quelle più insigni.
L’impulso straordinario dato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II alla promozione della conoscenza e
del culto dei Santi specialmente contemporanei, induce un nuovo interesse anche per la conservazione e
l’esposizione delle R. che si accompagna allo sviluppo di nuove tecniche per la conservazione e il
mantenimento dei resti corporali.
Fonti e Bibl. essenziale
G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana, XXIX, Roma 1936, 36-38; P. Sejourne’, Reliquie, in
Dictionnaire de Thèologie Catholique, XIII, Paris 1937, coll. 2312-2376; P. Palazzini, Reliquie, in
Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano 1953, coll. 749-761.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
RELIQUIE e la Chiesa in Italia
Autore: Mario L. Grignani
Etimologia. In latino reliquiae e in greco λείψανα, con il significato generale di “ciò che resta”, riferito al
corpo umano o parte di esso. La voce r. « fu usata nell’antichità, secondo il senso etimologico (illa quae
ex aliqua re relicta sunt) anche per designare resti dei corpi dei defunti o le ceneri dei corpi inceneriti »
(Kirsch). Il significato in ambiente cristiano si riferisce, in particolare, ai resti mortali di coloro che sono
riconosciuti come martiri e santi e, più in generale, a quegli oggetti che sono stati a contatto della loro
persona, e che, per la virtus divina in loro presente ed operante, ne sono stati consacrati. Nel caso in cui
le r. si riferiscano all’intero corpo, vengono chiamate reliquiae insignes, se si riferiscono a una parte di
esso si dicono reliquiae non insignes. Le r. inoltre possono essere ottenute in virtù del contatto non solo
con il corpo della persona viva, ma anche post mortem; in questo secondo caso anticamente si
chiamavano brandea, palliora, memoria, pignora, sanctuaria, patrocinia. Infine si conoscono anche le r. di
sangue, conservate nelle ampullae sanguinis.
Fondamento storico e teologico del culto delle r. e magistero della Chiesa. Di natura e origine diversa
sono le fonti che presiedono lo studio delle r. e del relativo culto, connesso alla santità: dalle fonti scritte
alle orali, dalle archeologiche alle iconografiche. Dalla conoscenza di tali fonti, della storia dei martiri, dei
santi e delle relative forme di devozione popolare dipende la comprensione del fenomeno delle r. e del
culto ad esse legato. I primi riferimenti cristiani alle r. si trovano nel Nuovo Testamento: nel Vangelo
secondo Marco si osserva la cura rivolta ai resti di Giovanni Battista martire (6,29), negli Atti degli
Apostoli si riferisce del martirio di Stefano (8,2). Le r. cristiane trovano la loro ragion d’essere nella fede
in Cristo professata dai martiri e nella dottrina della resurrezione dei morti insegnata dalla Chiesa, e si
inquadrano perciò in una dimensione religiosa e cultuale, teologica e antropologica. Negli Acta del
martirio di Policarpo (†155) si trovano espresse la consapevolezza e la cura che cristiani di Smirne
rivolgono al martire e alle sue spoglie mortali: « Noi solo più tardi potemmo raccogliere le sue ossa, più
preziose delle gemme, più insigni e più stimabili dell’oro, e le collocammo in un luogo conveniente. Quivi,
per quanto ci sarà possibile, ci raduneremo nella gioia e nell’allegrezza, per celebrare, con l’aiuto del
Signore, il giorno natalizio del suo martirio, per rievocare la memoria di coloro che hanno combattuto
prima di noi, e per tenere esercitati e pronti quelli che dovranno affrontare la lotta » (Martirio di s.
Policarpo). San Girolamo all’inizio del secolo V, nell’Epistola 109, ricorda che l’onore tributato ai resti dei
martiri ha per fine l’adorazione dovuta a Dio.
Pontefici e concili (ecumenici e provinciali) hanno insegnato, custodito e difeso lungo i secoli la dottrina
della Chiesa sulle r. Nel secolo VIII la minaccia alle r. rappresentata dall’iconoclastia è condannata nel
Concilio di Nicea II (787). Nel secolo XVI, mentre le dottrine protestanti di Lutero e Calvino negano
valore alle r., la Chiesa riunita nel Concilio di Trento, con i suoi prelati e teologi ne approfondisce il
significato ed il valore: se ne presenta la dottrina e si sottolineano le norme per l’istruzione dei fedeli,
stabilendo che nell’invocazione dei santi, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini
deve essere bandita ogni superstizione, eliminata ogni turpe ricerca di denaro e infine evitata ogni
indecenza (sessione XXV, 1563). A sua volta il Catechismo Romano ad uso dei Parroci (1566), nel
commento al primo comandamento, insegna il valore del ricorso ai santi e dà ragione del potere insito
nelle loro r. Sul finire del secolo papa Clemente VIII istituisce la Congregazione delle Indulgenze che
Clemente IX chiamerà Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie (1669); ad essa spetta vigilare
sulle r., stabilirne l’autenticità, combattere gli abusi, le frodi, il commercio e una religiosità a volte
caratterizzata da manie di feticismo, e infine concedere le relative indulgenze legate alle feste religiose
locali ed alla pietà↗ cristiana. Nel secolo XVIII, mentre l’Illuminismo ritiene la fede una superstizione e
combatte le r. ed il loro culto, è fondamentale la sistematizzazione della materia elaborata dal cardinale
Lambertini, futuro Benedetto XIV, nell’opera De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione
(1734-1738).
Tipologia e geografia delle r. nella penisola italiana. La constatazione di Delehaye riguardo dei martiri
romani –«L’hagiographie romaine dépasse en richesse tout ce que la tradition des Églises mous a légué
en ce genre» – può applicarsi anche al caso delle r. in Italia; infatti è straordinaria la presenza delle r.
nella penisola italiana sia per provenienza sia per circolazione, sia per quantità che per qualità. Vi si
trovano r. in nesso a Gesù Cristo, alla Vergine Maria, agli Apostoli e ai Santi, nonché alle tradizioni
relative a manifestazioni di creature angeliche.
Le r. più importanti sono quelle relative alla vita e alla passione di Cristo, nonché ai fatti miracolosi
riguardanti le specie eucaristiche. Rinvenute in Terra Santa e poi portate in Italia, prima da Elena, madre
dell’imperatore Costantino, e poi durante i pellegrinaggi e le crociate, tra di esse troviamo le r. della
croce (il resto più famoso è quello custodito nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, r.
dell’iscrizione posta sopra la testa di Cristo crocefisso; un altro frammento della croce si trova nel
Santuario di San Michele Arcangelo, sul Monte Gargano, portato dall’imperatore Federico II di ritorno
dalla crociata nel 1229); i chiodi (molto conosciuto è quello conservato nel Duomo di Milano); la colonna
della flagellazione (portata da Gerusalemme a Roma nel 1223 dal cardinale Giovanni Colonna e custodita
nella Basilica di Santa Prassede); i resti della mangiatoia in cui venne deposto Gesù Bambino (“la sacra
culla” e il panniculum nella Basilica di S. Maria Maggiore chiamata anticamente ad praesepem); le spine
della corona (Chiesa di S. Maria della Spina a Pisa). A Roma poi, salendo i gradini di un’altra r., la Scala
Santa, quella percorsa da Gesù all’ora di presentarsi dal governatore romano Ponzio Pilato, si accede alla
famosa Cappella del Sancta Sanctorum, dove si trova l’icona del Volto Santo. Certamente però tra le r.
riferite a Cristo la più celebre e universalmente conosciuta è la Sindone (o Santo Sudario) custodita a
Torino dal 1578; studi iconografici collegano alla Sindone un’altra r. venerata a Manoppello ossia il velo
del Volto Santo. Anche la celebrazione liturgica dell’Eucarestia ha consegnato alla storia ed alla fede del
popolo cristiano le r. legate alle specie eucaristiche, a elementi riconosciuti dalla scienza come sangue
e/o carne di natura umana. In Italia sono una trentina i luoghi dei miracoli eucaristici. Esempi di tali “r.
eucaristiche” sono quelle originate dai fatti miracolosi di Lanciano nel secolo VIII e di Bolsena nel 1263.
Nel primo caso le r., custodite nella stessa città, traggono origine dall’evento occorso durante la
celebrazione della messa da parte di un monaco basiliano. Nel secondo caso l’Ostia, il corporale e i
purificatoi sono conservati nel Duomo di Orvieto, appositamente costruito per tale scopo.
Anche le r. mariane sono presenti nella Penisola e sono meta di pellegrinaggi e di devozione. Famosa è la
Santa Casa di Loreto, ovvero la Casa di Maria a Nazareth, che la tradizione indica essere stata
trasportata nel 1294 dagli angeli, identificabili anche con quei crociati legati alla famiglia Angeli
Comneno. Altra r. mariana è la Cintola (o cintura) di Maria, una sottile striscia di lana di capra portata a
Prato a metà del secolo XII da Michele, un pellegrino pratese di ritorno da Gerusalemme, e poi
conservata nel Duomo di Prato; anch’essa oggetto di devozione mariana e meta di pellegrinaggi. Studi
recenti mostrano il profondo rapporto esistente tra tradizioni civiche e devozioni mariane nelle città
italiane tra medioevo ed età moderna.
Nella storia della Penisola Roma è stata un centro privilegiato, sia perché città del martirio e della
sepoltura degli apostoli Pietro e Paolo, sia per le catacombe, i cimiteri sotterranei che hanno custodito i
“Corpi Santi”. La venerazione delle r. del “Principe degli Apostoli” ha costituito un motivo fondamentale
di pellegrinaggio a Roma da parte di tutta la cristianità latina occidentale, presso la Basilica
Costantiniana prima e nell’attuale Vaticana poi, così come per l’ “Apostolo delle Genti” presso la basilica
di san Paolo fuori le mura. A Roma si trovano inoltre le r. di altri apostoli, come per esempio Filippo e
Giacomo il Minore presso la Basilica dei Santi XII Apostoli, o Bartolomeo presso l’omonima basilica
nell’Isola Tiberina. Nell’Urbe è degna di nota anche la Cattedra di Pietro che rappresenta un esempio di
come un simbolo sia stato trasformato in r., mentre in altri casi siano i reliquiari a parlarci delle r. in essi
custodite (i cosiddetti “reliquiari parlanti”, come nel caso di san Pantaleo nel Duomo di Vercelli).
In Italia esistono anche r. legate a eccezionali manifestazioni angeliche, come nel caso di San Michele
Arcangelo, narrato nel “Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano” (secolo VIII).
Nell’omonimo santuario, anch’esso centro di pellegrinaggio lungo la via che portava alle coste pugliesi e
di lì in Oriente via mare, vi si conserva la pietra nella quale è impressa l’orma del piede attribuita
all’angelo e che perciò funge da r.
Nel complesso intreccio di interessi che ruotavano attorno alle r. si inquadrano le trafugazioni e/o
traslazioni, generalmente dall’Oriente, e i furta sacra, fenomeni da collocare tra gli inizi del IX e quelli del
XII secolo, in coincidenza con la prima fase della rinascita spirituale, economica e commerciale
medievale. Alle iniziative personali volte a proteggere le r. dal pericolo rappresentato dalla espansione e
dominazione islamica, come riportato dalle fonti nel caso dei resti di san Marco che vengono trafugati da
Alessandria d’Egitto nel 828 da due commercianti veneziani e portato alla Serenissima Repubblica, si
accompagnavano interessi economici, politici e di prestigio delle città italiane, come nel caso della
spedizione marittima barese che si impadronisce delle spoglie di san Nicola vescovo di Myra e lo porta a
Bari nel 1087. Le r. ci raccontano dunque le grandezze e le piccolezze degli ideali umani. Mentre la
Cappella dei Martiri nella Cattedrale di Otranto, dove si venerano le r. degli 813 uomini della città
decapitati in odium fidei dai Turchi nel 1480, testimonia un fatto martiriale di proporzioni uniche nella
storia cristiana della Penisola, che se è da ascriversi ai conflitti tra cristiani e mussulmani, deve essere
anche interpretato alla luce della salvaguardia della ’identità locale e financo peninsulare dalle scorrerie
ed invasioni dei Saraceni lungo le coste adriatiche, i furta sacra, ci mostrano l’esistenza di interessi più
mondani ai quali si dedicava per esempio il diacono romano Deusdona, che nel secolo IX era al comando
di una organizzazione di mercanti di r. che da Roma illegalmente riforniva il centro Europa e il sud Italia.
Non trascurabile è infine la notorietà delle r. di taluni santi dovuta all’influsso esercitato dai miracoli
attribuiti alla loro intercessione: tale è il caso delle guarigioni operate da s. Antonio, il cui corpo è
custodito a Padova; della protezione di s. Agata dall’eruzione del vulcano Etna, dalla peste e dalle
incursioni dei mori, a Catania; del taumaturgo s. Rocco, a Venezia. A tale notorietà non si deve solamente
il furto ma anche l’uso di dividere il corpo in pezzi affinché varie città possano beneficiare del potere del
santo.
L’opera pastorale svolta nella penisola da due grandi vescovi di Milano è centrale per la venerazione e la
diffusione delle r. nel territorio, e non solo in Italia. A distanza di secoli l’uno dall’altro ed in circostanze
storiche differenti, sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo sono attivi sostenitori e propugnatori delle r. dei
santi e del rispettivo culto locale; la storia del culto delle r. non può prescindere dal riferimento alla
Chiesa milanese a partire dall’episcopato di s. Ambrogio: « Come l’opera liturgica di Ambrogio assunse le
note di modello e di testimonianza universale, così il suo atteggiamento verso i martiri e le loro r. divenne
emblematico » (Ronchi). Famoso è il ritrovamento (inventio) dei corpi dei martiri Gervaso e Protaso, e
Nazaro e Celso, con il numeroso concorso di popolo durante la loro translatio e depositio, nonché
l’intenso culto popolare. Esaltando le r. Ambrogio ha voluto educare il suo popolo per mezzo dei santi,
additati come modelli, intercessori e difensori della città; lo stesso farà s. Carlo Borromeo in obbedienza
al tridentino, contribuendo al consolidarsi delle identità e tradizioni religiose e civili peninsulari.
Le r. come un significativo aspetto delle identità ecclesiali e civili della penisola italiana. In Italia
l’altissima densità di r. ha contribuito alla nascita e/o sviluppo dell’identità dei centri locali; essa si
manifesta ampliamente nelle devozioni popolari, nelle forme di spiritualità, nei pellegrinaggi, negli edifici
religiosi, nonché nelle opere d’arte cristiana, come i preziosi reliquiari. Possedere una r. celebre, di un
santo famoso per i miracoli operati e ancor meglio se taumaturgo, è considerato segno di protezione e di
benedizione divine, accresce il prestigio e il potere ecclesiastico e politico, sviluppa centri di interesse
religioso, economico ed artistico fino a giungere al caso straordinario del tesoro della “Cappella delle
Reliquie” presso Palazzo Pitti a Firenze.
Particolare espressione del valore universale dell’unità ecclesiale, la capillare presenza delle r., i loro
culti con l’universale messaggio di fede e speranza, ha contribuito alla progressiva costruzione di una
identità territoriale attraverso i diversi modelli ideali rappresentati da santi e sante locali che ispirano la
pietà dei compatrioti e favoriscono l’identificarsi con essi (Ditchfield); universali valori religiosi e civili
erano resi familiari e perseguibili nei particolari esempi delle vite dei santi patroni, nei quali i
concittadini potevano trovare senso alle loro vicissitudini e, certi della protezione dei “loro” santi,
realizzare la sintesi locale di religiosità cristiana e di identità secolare, come narrato nel XIX secolo per il
caso di Napoli dove la venerazione di san Gennaro lo considerava concittadino e figlio prediletto della
« nostra Chiesa, la quale, circondata del suo tutelar presidio, nella duplice annual ricorrenza della
festività di lui, tragge quasi certo pronostico de’ futuri eventi, di prosperità o di sventura, in quel
misterioso liquefarsi del sangue » (D’Aloe).
Studi recenti sui culti orientali in Piemonte mettono in evidenza l’influsso che nel medioevo le r. di santi
hanno avuto nella formazione della religiosità locale della regione; è il caso, tra gli altri, di san Spiridione,
particolarmente venerato dagli imperatori Paleologi, che probabilmente ne introdussero il culto in alcuni
territori di loro dominio nell’attuale Monferrato, o anche del più conosciuto san Biagio al quale si legano
il rito della “Candelora” e la venerazione delle Madonne nere piemontesi.
Le lacune e i problemi che in certi casi la documentazione ha lasciato alla moderna critica storica non
impediscono di costatare che le r. e il culto dei santi rappresentano uno elemento di conoscenza
straordinaria della storia della Chiesa cittadina, della diocesi, della stessa società civile nel corso del
Medioevo, come per esempio è segnalato per il caso di Bologna (Golinelli). Ed è proprio la produzione
storiografica post-tridentina che testimonia il ruolo delle r. e dei loro culti liturgici nella memoria e nella
conservazione delle tradizioni locali italiane, come nel caso di uno storico piacentino, che per situare e
giudicare l’opera di un antico vescovo, narra quanto da lui fatto in rapporto alle r. nel 1369, scrivendo:
« Ma ciò che farà sempre indicio chiaro & eterna testimonianza della di lui [Pietro Vescovo] molta pietà, e
religione, fu che questo sacro Pastore […] arricchì questa Chiesa e segnalò la Città nostra d’una pretiosa
reliquia tra l’altre della medesima Santa Lucia: con cui si eccitò allhora nel Piacentino popolo una tal
divotione che propagata ne’ posteri infin à hoggi vi dura » (Campi).
Fonti e Bibl. essenziale
G.B. Alfano – A. Amitrano, Notizie storiche ed osservazioni sulle reliquie di sangue conservate in Italia e
particolarmente in Napoli, Arti Grafiche “Adriana”, Napoli 1951; P. M. Campi, Dell’Historia Ecclesiastica
di Piacenza, III (Stampa Ducale di Giovanni Bazachi, Piacenza 1662), Tip. Le. Co., Piacenza 1995; A.
D’Alés, Reliques, in Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, IV, Gabriel Beauchesne, Paris 1928,
coll. 909-930; S. D’Aloe, Storia della Chiesa di Napoli, Stabilimento Tipografico, Napoli 1861; H.
Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Société de Bollandistes, Bruxelles 1933, 260-340 (Chapitre
VII: Les principaux centres du culte des martyrs. Rome et l’Italie); S. Ditchfield, La conservazione delle
tradizioni locali in una Chiesa post-tridentina, in Storia della Diocesi di Piacenza. III L’età moderna (a
cura di) P. Vismara, Morcelliana, Brescia 2010, 141-159; F.A. Ferretti, De sacris Sanctorum Reliquiis,
Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1942; P.J. Geary, Furta Sacra. La trafugazione delle reliquie
nel Medioevo, Vita e Pensiero, Milano 2000; A. Giuliani, Le reliquie eucaristiche del miracolo di Lanciano.
Tradizione, storia, culto, scienza, Edizioni S.M.E.L., Lanciano (CH) 1997; P. Golinelli, Santi e culti
bolognesi nel Medioevo, in Storia della Chiesa di Bologna (a cura di) P. Prodi – L. Paolini, II, Edizioni
Bolis, Bologna 1997, 11-37; M. Hutter – A. Angenendt – H. Maritz, Reliquien, in Lexikon für Theologie
und Kirche, VIII, Herder, Freiburg-Basel-Rom-Wien 1999, coll. 1091-1094; E. Josi, Relique, in
Enciclopedia Cattolica, X, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano
1953, coll. 749-757; G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, 29, Istituto
della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1936, 36-38; H. Leclercq, Reliques et
reliquaires, in Dictionnaire d’Arquéologie Chrétienne et de Liturgie, XIV/2, Librairie Letouzey et Ané,
Paris 1948, coll. 2294-2359; A. Lombatti, Antonio, Il culto delle reliquie. Storia, leggende, devozioni,
Sugarco Edizioni, Milano 2007; N. Monelli, La Santa Casa a Loreto. La Santa Casa a Nazareth,
Congregazione Universale della Santa Casa, Loreto 1997; E. Ofenbach, Sulle orme dei santi a Roma:
guida alle icone, reliquie e case dei santi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003; H. Pfeiffer,
L’arte e la Sindone, in Sindone. Cento anni di ricerca, [a cura di] B. Barberis – G. M. Zaccone, Libreria
dello Stato, Roma 1998, 107-122; Reliquia de’ Santi, in G. Moroni Romano, Dizionario di erudizione
storico-ecclesiastica, LVII, Tipografia Emiliana, Venezia 1852, 106-122; A.M. Rocca, Istruzioni popolari
sulle reliquie dei santi, Società Anonima Tipografica, Vicenza 1934; G. Ronchi, Reliquie, in Dizionario
della Chiesa Ambrosiana, V, NED, Milano 1992, 3017-3025; F. Ruggeri, Il Santo Chiodo venerato nel
Duomo di Milano, NED, Milano 1999; P. Séjourné, Reliques, in Dictionnaire de Théologie Catholique,
XIII/2, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1937, coll. 2312-2376; S. Silvestro, Santi, reliquie e sacri furti.
San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni, Liguori, Napoli 2013; P. Tamburini, Bolsena: il miracolo
eucaristico, Bolsena, Città di Bolsena Editore 2005; Sui culti orientali nel Piemonte medievale si vedano
gli articoli di D. Taverna nella rivista «Studi sull’Oriente Cristiano», anni 2008, 2010, 2011, 2013. Sulle
tradizioni civiche e le devozioni mariane nelle città italiane tra medioevo ed età moderna si vedano gli
articoli apparsi in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XLIX (2013).
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
RESISTENZA e la Chiesa in Italia
Autore: Stefano Sodi
Il termine Resistenza venne utilizzato per la prima volta nel giugno 1940 dal generale Charles De Gaulle,
fuggito a Londra, che lanciò un appello ai suoi concittadini per invitarli ad opporsi al governo del
maresciallo Philippe Pétain, che aveva sottoscritto un armistizio che lasciava la maggior parte del suolo
francese in mano ai tedeschi e l’area centro-meridionale, con capitale Vichy, a un governo
collaborazionista. A partire da allora, il termine Resistenza ha designato in tutta Europa i movimenti di
ribellione e di lotta armata contro il regime d’occupazione nazista, configurandosi come espressione ed
anticipazione dei valori che sarebbero divenuti la base ideale dell’Europa democratica.
La Resistenza italiana fu l’ultima a costituirsi in Europa: le sue prime formazioni nacquero nell’Italia
centro-settentrionale ad opera di militanti antifascisti e di soldati che non si consegnarono alle truppe
tedesche né entrarono nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) dopo l’armistizio con gli Alleati
(8 settembre 1943). Da quel momento, il Comitato di liberazione nazionale (Cln), presentatosi come guida
dell’Italia democratica, invitò gli italiani ad unirsi nella lotta contro i nazifascisti. In principio le iniziative
ebbero più un valore politico che militare, ma il movimento partigiano crebbe rapidamente di numero e
fra il 1944 e il 1945 riuscì a costituire numerosi gruppi armati o addirittura piccoli eserciti in grado di
controllare intere aree territoriali (es. la Repubblica dell’Ossola, le Langhe, l’Oltrepo pavese). Nelle città
operavano invece formazioni più esigue, i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), formati prevalentemente da
comunisti.
Recenti stime hanno calcolato che nell’estate 1944 i partigiani in Italia erano 82.000 e raggiunsero il
numero di circa 200.000 al momento dell’insurrezione, nella primavera del 1945. Questa cifra comprende
coloro che parteciparono alla vera e propria “resistenza armata” e non quanti, assai più numerosi,
fornirono loro protezione e supporto (“resistenza civile”). Sul fronte avverso militava un numero
pressoché uguale di italiani, essendo l’esercito della Repubblica di Salò composto da circa 50.000
effettivi, cui si affiancavano le 150.000 unità della Guardia Nazionale Repubblicana, la milizia di partito.
Fin dall’inizio la Resistenza italiana si mostrò divisa in base all’orientamento politico. I partigiani di
ispirazione comunista militavano nelle Brigate Garibaldi, quelli di orientamento socialista in quelle
Matteotti; le formazioni cattoliche, numericamente più consistenti di quanto comunemente si ritenga (in
proposito Lorenzo Bedeschi ha parlato di «daltonismo prospettico»), erano spesso definite Fiamme Verdi
e le brigate di Giustizia e Libertà si rifacevano al Partito d’Azione; vi erano anche brigate di ispirazione
liberale o di orientamento filomonarchico. Non mancarono episodi di scontri tra partigiani, soprattutto in
Friuli e in Venezia Giulia, dove le formazioni garibaldine agivano spesso in collaborazione con i partigiani
comunisti di Tito, la cui intenzione era di annettere Trieste, l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia.
L’episodio più clamoroso avvenne in Friuli, a Malga Porzus, dove nel febbraio 1945 un gruppo comunista
trucidò ventidue componenti della Brigata Osoppo, composta prevalentemente da partigiani cattolici,
accusati ingiustamente di aver trattato con i fascisti e la X Flottiglia Mas.
La divisione tra le varie componenti del mondo partigiano e le vicende postbelliche hanno profondamente
influenzato anche l’interpretazione storica. Una prima fase storiografica ha fornito della Resistenza una
lettura di piena adesione e di incipiente mitizzazione, che enfatizzava due aspetti: da una parte essa
appariva come l’epifenomeno di un intero «popolo in lotta», unito da un comune sentimento antifascista,
dall’altra costituiva il compimento del «secondo Risorgimento», l’ultima guerra di liberazione contro gli
stranieri, dando un nuovo fondamento alla nazione italiana, alternativo all’esperienza fascista (esemplare
R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953). Una svolta radicale nella riflessione
sul fenomeno resistenziale si è sviluppata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso con Claudio
Pavone, secondo cui la Resistenza deve essere letta da tre diversi angoli visuali: quello di una guerra
patriottica, di una guerra di classe, di una guerra civile. Per il movimento partigiano la Resistenza si
configurava come una guerra di liberazione del territorio italiano dall’occupazione tedesca, ma anche
come l’orgogliosa riconquista di un’identità nazionale; per i fascisti, in una logica rovesciata ma
speculare, la prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti rappresentava invece l’unica possibilità di
mantenere intatto l’onore della patria. L’idea di una guerra di classe era invece la speranza di quanti
ritenevano possibile che la rovina dei nazi-fascisti avrebbe dato il via alla lotta di classe, preludio alla
dittatura del proletariato. L’utilizzazione della categoria di guerra civile, fino ad allora lasciata
appannaggio di correnti dichiaratamente vicine all’ultimo fascismo (G. Pisanò, Storia della guerra civile
in Italia (1943-1945), FPE, Milano 1965-1966), significò un cambiamento di prospettiva storiografica, che
pose al centro dell’attenzione, più che gli aspetti politici e militari, le storie individuali, le motivazioni
profonde delle scelte, il quadro di riferimento ‘morale’, non solo di quanti vissero la guerra partigiana
come scelta di vita, ma anche della popolazione civile, di quanti praticarono una “resistenza passiva” o,
più correttamente, “civile”. Riguardo al mondo cattolico e alla sua gerarchia Pavone, nel suo saggio
evidenziò una contraddizione, quasi insanabile, tra la tendenza ad un atteggiamento super partes rispetto
ai conflitti militari e politici e la crescente consapevolezza che fosse invece necessario schierarsi, quanto
meno dalla parte delle proprie comunità colpite dalla violenza (si ricordi che la Santa Sede non riconobbe
mai la Rsi).
In questo rinnovato clima storiografico particolare rilievo hanno assunto nel 1995, in occasione del
cinquantesimo anniversario della Liberazione, nuove ricerche sul ruolo dei cattolici che hanno avuto la
loro massima – ma non unica – espressione in una serie di convegni realizzati in varie parti d’Italia sul
tema Cattolici, Chiesa, Resistenza. Dalla ricerca è emersa con chiarezza la necessità di analizzare
contemporaneamente sia il livello politico-istituzionale sia il vissuto religioso. Se da una parte infatti «la
Chiesa-istituzione si trovò a svolgere un ruolo di supplenza dello Stato, di mediazione fra le parti
combattenti, comandi tedeschi e comandi partigiani per una tregua di armi […] perché uno Stato
legittimato non c’[era] né dall’una né dall’altra parte» (De Rosa, 18-19), dall’altra non poteva essere
misconosciuta quella forma di “resistenza civile” che si manifestò nell’impegno concreto a favore dei
partigiani, ma anche degli sfollati, degli ebrei ricercati, dei renitenti alla leva, dei prigionieri di guerra.
Al di là della partecipazione diretta alla “resistenza armata” da parte di cattolici, singolarmente o in
gruppi organizzati, che necessita comunque di essere ancora messa in piena luce, è necessario
evidenziare quegli episodi di impegno e quotidiana disobbedienza rispetto all’occupante che sempre di
più emergono dalla ricerca storica. Passando, come osserva Maurilio Guasco, dallo studio della
«resistenza dei cattolici al modo di essere cattolici nella Resistenza», valutando la «qualità della
partecipazione», il «vissuto etico che viene prima delle scelte politiche» (M. Guasco, I cattolici e la
resistenza, 305-306) si è potuto verificare sempre più puntualmente come, davanti ad una situazione di
ingiustizia nei confronti della popolazione civile, la maggior parte dei vescovi, del clero, dei membri
dell’associazionismo cattolico abbiano scelto di mettersi dalla parte delle vittime, qualunque esse fossero,
con un atteggiamento di condivisione considerata doverosa, sulla base di un ethos maturato non tanto sul
terreno politico o ideologico, quanto in virtù di un universo di valori umani e religiosi, assumendo spesso i
caratteri della martyrìa cristiana.
Fonti e Bibl. Essenziale
F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Studium, Roma 1980; C. Pavone, Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; M. Guasco, I
cattolici e la resistenza: ipotesi interpretative e percorsi di ricerca, in B. Gariglio (ed.), Cattolici e
resistenza nell’Italia settentrionale, Il Mulino, Bologna 1997, 305-317; G. De Rosa (ed.), Cattolici, Chiesa,
Resistenza, Il Mulino, Bologna 1997; B. Bocchini Camaiani – M.C. Giuntella (edd.), Cattolici, Chiesa,
Resistenza nell’Italia centrale, Il Mulino, Bologna 1997.
Immagini:
1) Don Redento Bello (nome da partigiano “Candido”), sfuggito per caso alla strage di Porzus, officia nel
1946, circondato dai partigiani dell’Osoppo, la Messa commemorativa per i caduti dell’eccidio [Biblioteca
Seminario Arcivescovile “B. Luigi Scrosoppi”, Udine].
2) Don Innocenzo Lazzeri, medaglia d’oro al valor civile, ucciso il 12 agosto 1944 durante la strage
nazista di Sant’Anna di Stazzema, mentre prestava aiuto alla popolazione inerme.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
RESTAURAZIONE e la Chiesa in Italia –
in preparazione
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
RIFORMA PROTESTANTE e la Chiesa
in Italia
Autore: Stefano Cavallotto
Già al concilio di Costanza (1415-1418) era risuonato l’accorato appello per una Reformatio ecclesiae in
capite et in membris; un invito più volte ripetuto sino agli inizi del ‘500, ma rimasto inascoltato a causa di
una gerarchia e di un papato per molti versi non all’altezza delle sfide religiose del tempo. Sfide che in
Germania trovano terreno fertile, anche sul piano politico e sociale, per uno scontro con Roma e non solo
sulla questione delle indulgenze, il cui esito sarà la Riforma protestante e la divisione della cristianità
occidentale. A Wittenberg con Lutero (†1546), come a Zurigo con Zwingli (†1531), a Ginevra con Calvino
(†1564) e a Strasburgo con Bucer (†1551) viene elaborandosi un modello di riforma della chiesa che, oltre
a modificare aspetti pastorali, disciplinari e liturgici, tocca punti decisivi della teologia e della dottrina
nel tentativo di riportare la compagine ecclesiale alle sue origini evangeliche, riscoprendo e sostenendo
la centralità del solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide; una riforma, però, che Leone X
rigetta come “eretica” (Lutero è scomunicato il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem
ed è bandito dall’Impero con l’editto di Worms dell’8 maggio 1521), sovversiva ed esiziale per l’assetto
religioso e politico/finanziario della chiesa tardo-medievale e rinascimentale, innescando così un conflitto
nell’impero di Carlo V, ben presto trasformatosi in scontro armato tra protestanti e cattolici che solo nel
cuius regio, eius et religio della dieta di Augusta del 1555 troverà una soluzione politica, ancorché
insufficiente a garantire la pace nella tolleranza. Non solo in Germania, in Svizzera, in Francia, in Olanda,
in Inghilterra, dove vengono a costituirsi stati confessionali e chiese evangeliche, ma anche in Italia – ed
è il territorio che qui ci interessa in modo particolare – il disagio profondamente avvertito da non pochi
ecclesiastici, intellettuali e gente del popolo di fronte ad un cristianesimo per molti versi “esteriorizzato”,
“mondanizzato” e con una struttura di potere autoritaria e clericale, alimenta un dissenso ora esplicito
ora più prudentemente “nascosto” (“Nicodemismo”), che si incanala concretamente o nell’adesione alla
Riforma d’Oltralpe oppure nell’evangelismo degli «spirituali», in ambedue i casi perseguitato e represso
dall’Inquisizione romana. In concreto, le idee di rinnovamento religioso che attraversano l’Europa nella
prima metà del ‘500 giungono anche in Italia, prendendo forme molto diverse, dal movimento valdesiano
al «cattolicesimo evangelico», dalla Riforma zwingliana, calvinista e luterana al radicalismo anabattista,
alle posizioni eterodosse degli «eretici» e degli antitrinitari. E’ difficile, quindi, se non vano cercarvi un
denominatore comune. Occorre dire inoltre che tale fermento riformatore diffuso nell’intera penisola
trova promotori convinti soltanto in alcuni circoli, città e personalità prima di scomparire del tutto nella
seconda metà del XVI secolo – ad eccezione delle comunità valdesi del nord-ovest d’Italia – sotto i colpi
della censura controriformistica.
A Napoli intorno a Juan de Valdés (†1541) si crea negli anni Quaranta-Cinquanta un cenacolo di
«spirituali», a cui appartengono nomi illustri come le nobildonne Vittoria Colonna (†1547), Giulia
Gonzaga (†1566), Isabella Bresegna (†1567), l’agostiniano fiorentino Pier Martire Vermigli (†1562) e il
vicario generale dei cappuccini Bernardino Ochino (†1564), entrambi passati successivamente alla
Riforma protestante, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi (†1567), finito nelle mani
dell’Inquisizione, processato e giustiziato a Castel Sant’Angelo come eretico, l’umanista Marcantonio
Flaminio (†1550), i patrizi Bartolomeo Spadafora (†1566), Mario Galeota (†1585) e Galeazzo Caracciolo
(†1586), divenuto quest’ultimo calvinista e rifugiatosi a Ginevra nel 1551. Nei suoi interventi formativi e
negli scritti pubblicati postumi – tra i maggiori si ricordano l’Alfabeto Cristiano e le Cento e dieci divine
considerazioni – il cavaliere e filosofo spagnolo fa proprie alcune posizioni di Lutero (l’uomo è giustificato
soltanto per la giustizia di Cristo mediante la fede; l’arbitrio dell’uomo non è libero; il peccatore riceve il
perdono non in forza della confessione, ma perché crede in Cristo redentore), mentre se ne allontana a
favore di uno spiritualismo evangelico che tende a svalutare l’aspetto esteriore del cristianesimo,
compresi i sacramenti, e a negare ogni principio dogmatico di verità, per cui l’illuminazione interiore è
preminente rispetto alla funzione “magisteriale” della Parola scritta, giacché non è la “lettera” a
condurre il credente verso la verità, ma lo Spirito che la vivifica; e ancora: è lo Spirito e non la Scrittura
l’unico maestro per i credenti “progrediti”. Fautore di una concezione a-gerarchica della chiesa, Valdés si
astiene dall’attaccare direttamente la struttura del papato. E con lui i suoi discepoli, che in definitiva non
vogliono causare rotture laceranti all’interno della compagine cattolica. Di forte ispirazione valdesiana è
la predicazione a Napoli e in molte altre città italiane di Bernardino Ochino (†1564). Avvicinatosi col
tempo sempre più alle posizioni “riformate”, l’ex frate cappuccino è costretto nel 1542 a fuggire a
Ginevra, dove riceve asilo presso Calvino e aderisce pienamente alla dottrina protestante. E sono ancora i
discepoli di Valdés a diffonderne il pensiero e la spiritualità a Roma, Firenze, Padova, Venezia e in
particolare a Viterbo tramite Flaminio e Carnesecchi col coinvolgimento e sotto la protezione del
cardinale inglese Reginald Pole (†1558) aperto alla riforma della chiesa e alla giustificazione per fede. E’
nell’Ecclesia Viterbiensis che Flaminio matura nel 1541-43 la revisione “riformata” del Trattato utilissimo
del Beneficio di Gesù Cristo di Benedetto da Mantova (†1556); un’opera molto apprezzata da uomini
come i cardinali Morone e Pole, ma ben presto accusata di “eterodossia” e messa all’Indice, e che
costituisce in realtà il documento letterario più importante, seppure con linguaggio velato, del passaggio
dall’evangelismo al calvinismo.
Alla Riforma protestante sia nella versione luterana che riformata aderiscono gruppi diversi in varie parti
del paese sotto la guida di leaders convinti e combattivi. I valdesi, la cui presenza si concentra nelle Valli
del Pinerolese, col Sinodo generale di Chanforan del 1532, dominato dalla figura di Guillaume Farel
(†1565), passano al protestantesimo svizzero, divenendo così un canale di diffusione, soprattutto
attraverso la stampa, delle nuove dottrine non soltanto in Piemonte, ma nel Delfinato e nel Marchesato di
Saluzzo, oltre che in Calabria e nelle Puglie. Idee evangeliche si fanno strada negli anni Trenta-Quaranta
nella Repubblica di Lucca e nel ducato di Ferrara. Nella città toscana predica nel 1538 Ochino, ma
soprattutto vi giunge nel 1541 l’agostiniano Pier Martire Vermigli (†1562). Discepolo di Valdés e passato
alle tesi calviniste, questi istituisce per i novizi del suo ordine e per i giovani intellettuali lucchesi una
scuola di bibbia con corsi di latino, greco ed ebraico e, facendo leva sulle sue doti di scrittore, si mette al
servizio della propagazione della fede evangelica, aiutato peraltro da alcuni collaboratori, tra cui Celio
Secondo Curione (†1569). L’anno dopo, però, è costretto ad espatriare e rifugiarsi a Strasburgo presso
Bucer e da qui ad Oxford, chiamato da Cranmer per sistemare la dottrina, il diritto e la liturgia della
chiesa anglicana. Orientatosi progressivamente in senso zwingliano (dopo il 1553 si stabilisce a Zurigo)
con una forte coloritura anti-luterana (è convinto che sia meglio nessun battesimo piuttosto che riceverlo
dai predicatori luterani, visto anche che il battesimo non è necessario alla beatitudine eterna), Vermigli è
uno tra gli uomini più eruditi del suo tempo e il più dotto dei protestanti italiani. Anche dopo la sua
partenza, nel 1542, Lucca continua ad essere per qualche tempo centro di diffusione della Riforma, basti
ricordare l’opera di Girolamo Zanchi (†1590), obbligato a lasciare la città nel 1551 per trasferirsi come
professore prima a Strasburgo e poi ad Heidelberg, o l’attività delle famiglie dei Diodati e dei Turrettini,
costretti ad espatriare a Ginevra, dove assumeranno ben presto posizioni di rilievo nel governo e
nell’accademia della città lemana, o anche l’insegnamento dell’umanista Aonio Paleario, che dopo essere
emigrato a Milano nel 1556 per coprire la cattedra di studi umanistici, nel 1568 viene preso
dall’Inquisizione romana, processato, condannato come eretico impenitente e giustiziato a Castel
Sant’Angelo nel 1570.
Non meno vivo che in Toscana è il movimento evangelico a Ferrara e a Modena. Nella città estense
numerose famiglie accettano la fede riformata, non ostacolati peraltro dal vescovo locale, il card, Morone,
promotore dell’evangelismo e ammiratore e diffusore de Il beneficio di Cristo, e nasce l’«Accademia» di
Giovanni Grillenzoni (sarà sciolta dal Duca di Ferrara nel 1543) come cenacolo per discutere il
rinnovamento della chiesa, questioni teologiche e morali e per promuovere attività in vista della
propagazione della cultura umanistica e del pensiero protestante. Allo stesso scopo sono orientati anche
le iniziative di due grandi protagonisti del protestantesimo a Modena, il letterato Ludovico Castelvetro
(†1571), studioso attento degli scritti dei riformatori e traduttore delle opere di Melantone (Loci
communes), e il predicatore itinerante Bartolomeo della Pergola († ?), discepolo di Valdés. L’evangelismo
modenese si presenta in concreto orientato in varie direzioni: alla componente valdesiana, si affiancano
orientamenti luterani e riformati e fermenti di matrice anabattista. Attiva sostenitrice della fede
calvinista a Ferrara è Renata di Francia (†1575), moglie del duca Ercole II. Con Calvino mantiene una
fitta corrispondenza dopo la visita di questi alla città nel 1536 e si prodiga nell’accoglienza degli ugonotti
esuli dalla Francia e degli altri dissenzienti perseguitati nel territorio italiano. La città stessa con la
presenza di studenti stranieri, a volte protestanti, che frequentano l’università, rivela aperture ed
interessi verso le idee nuove, ma è anche teatro negli anni Cinquanta di processi ed esecuzioni capitali di
dissidenti come i casi del fornaio Fanino Fanini, condannato nel 1550 con l’accusa di propagare eresie, e
del visionario catanese Giorgio Rioli, detto il Siculo, amico di Benedetto da Mantova e “nicodemita”,
spiritualista radicale e antiprotestante (cfr. Epistola alli cittadini di Riva di Trento contra il mendacio di
Francesco Spiera et falsa dottrina d’ Protestanti), giustiziato per le sue dottrine eversive nel 1551, e dello
stesso processo del 1554 al gruppo calvinista della corte ferrarese con a capo Renata di Francia.
Ma è specialmente la Repubblica veneta ad essere centro di confluenza degli scritti e delle dottrine
protestanti, sia perché la Serenissima è crocevia di scambi commerciali e culturali con Svizzera e
Germania meridionale e leader dell’editoria europea con i suoi 500 editori e tipografi, ma anche per il
potere limitato che l’Inquisizione vi esercita. Tra gli anni Quaranta-Settanta Venezia gioca un ruolo
determinante per l’irradiazione delle nuove idee per tutta la penisola e, come avviene in altri Stati
italiani, nella città lagunare sono membri di ordini religiosi ad accogliere con favore le dottrine della
Riforma e spesso nella loro formulazione più radicale, vicina all’anabattismo e al ribellismo sociale. A ciò
si aggiunga l’apporto degli esuli dallo Stato della Chiesa e dalla Toscana, spesso anticlericali,
savonaroliani e filoprotestanti. Così i francescani conventuali Girolamo Galateo (†1541) e Bartolomeo
Fonzio (†1562) predicano a Venezia e Padova le tesi di Lutero, subendo per questo persecuzione e morte.
Non meno pesante è la sorte di coloro che viceversa, convertiti dapprima al protestantesimo, finiscono
per abiurare sotto il peso della persecuzione, dei processi e delle torture, cadendo nella disperazione e
nel tormento interiore del rimorso; ed è il caso di Francesco Spiera (†1548) e del biblista Antonio Brucioli
(†1566). Altri invece, come l’ex-benedettino Francesco Negri da Bassano (†1563) autore della Tragedia
del libero arbitrio, preferiscono la fuga, aggiungendosi alla schiera di esuli per fede che in vari posti
dell’Europa, specialmente a Ginevra, costituiscono l’ecclesia peregrinorum degli italiani. Il calvinismo
arriva a Vicenza per iniziativa del nobile veneto Alessandro Trissino (†1609?). E, contemporaneamente
sorgono a Padova, Venezia e Vicenza comunità anabattiste tra artigiani, salariati e piccola borghesia,
spesso con venature di antitrinitarismo e i caratteri del radicalismo religioso e sociale. Anche lo Stato di
Milano registra sin dagli anni Venti la presenza di nuclei evangelici di rilievo sia calvinisti che luterani.
Cremona raccoglie la comunità protestante più consistente ed organizzata, dopo Lucca, fra tutte le città
d’Italia, e dà il maggior numero di esuli a Ginevra. Pavia si accosta alla “nuova comprensione del
vangelo” tramite l’insegnamento di Celio Secondo Curione e la predicazione dell’agostiniano Agostino
Mainardo (†1563). L’influenza della Riforma arriva pure alla porta orientale dell’Italia, in Dalmazia e in
Istria, ad opera dei due fratelli Vergerio. Pier Paolo (†1565), vescovo di Capodistria, rimane così
affascinato dal pensiero protestante che, una volta scomunicato da Roma nel 1549, lascia la diocesi e da
semplice pastore evangelico di Vicosoprano si dedica a creare collegamenti tra gli evangelici italiani esuli
e i riformati svizzeri e nel 1553 diventa consigliere del luterano duca Cristoforo del Württemberg.
È di tutta evidenza da questo quadro sintetico che il moto riformatore italiano si caratterizza per una
dimensione quasi esclusivamente urbana, se si eccettuano i territori in cui si concentrano le comunità
valdesi; comunità peraltro che in seguito al Trattato di Cavour del 1561 costituiranno per molto tempo
l’unico baluardo del protestantesimo in Italia. In effetti, la repressione controriformistica ben presto fa
piazza pulita dei vari gruppi di dissidenti italiani e i pochi sopravvissuti si disperdono in Svizzera, Polonia,
Germania, Francia, Boemia, Transilvania. Di questa “diaspora” fanno parte, tra gli altri, quei protestanti
definiti «eretici» o anche «antitrinitari», in ultima analisi “ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiale”
(Cantimori). Tra i nomi più noti giova menzionare: Celio Secondo Curione (†1569), Lelio (†1562) e Fausto
Sozzini (†1604) e Giorgio Biandrata (†1588). Il primo, autore del Pasquillus extaticus (una feroce satira
anticlericale e antipapale di grande successo), rifugiato a Losanna e a Basilea (1546), insegna una
dottrina fortemente individualista e basata sulla tolleranza religiosa. I due Sozzini, lo zio Lelio e
soprattutto il nipote Fausto, entrambi umanisti senesi ed approdati in Polonia e in Transilvania (dove la
presenza di antitrinitari e di unitariani è molto forte), si fanno propagatori di una sorta di cristianesimo
«liberale» lontano dagli assunti protestanti («socinianesimo»), basato su un approccio razionalistico alla
dogmatica (Gesù non è Dio, ma divino; Gesù non salva l’uomo morendo sulla croce, ma attraverso
l’esempio e la predicazione lo aiuta a salvarsi) e su una visione positiva dell’essere umano naturale, ed
organizzano concretamente la cosiddetta ecclesia minor o chiesa unitariana; chiaramente le loro posizioni
saranno duramente combattute da tutte le Ortodossie secentesche. Il medico saluzzese Biandrata,
rifugiatosi in Transilvania, è il predicatore più esplicito dell’antitrinitarismo con l’opera del 1568 De falsa
et vera unius Dei Patris, Filii et Spiritus Sancti cognitione.
In definitiva, però, tutti i vari tentativi di introdurre in Italia la Riforma e ancor prima i fermenti
dell’evangelismo scompaiono alla fine del Cinquecento sotto l’attacco della Controriforma senza lasciare
traccia. Rimarrà soltanto la presenza, seppure ghettizzata, dei valdesi che dopo il «Glorioso rimpatrio»
(1689) verranno ad abitare nuovamente nei territori delle Valli, mentre all’estero nella diaspora
continueranno a sopravvivere le comunità protestanti degli esuli italiani. Sarà il grande moto
risorgimentale nell’Ottocento a fare uscire dal ghetto le chiese evangeliche e a facilitare il ritorno nella
penisola di un protestantesimo, ormai plasmato in vari e nuovi modelli dal Pietismo, dal Metodismo, dal
Battismo e ultimamente dal movimento del «Risveglio».
Fonti e Bibl. essenziale
Eresia e Riforma nell’Italia del Cinquecento. Miscellanea I, Firenze – De Kalb-Chicago 1974; D.
Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento,
(1949), a cura di A. Prosperi, Einaudi, Torino 2002; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del
Cinquecento, Claudiana, Torino 1997; S. Caponetto, Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante
in Toscana, Torino 1979; M. Firpo, Tra alumbrados e “spirituali”. Studi su Juan de Valdés e il
valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990; M. Firpo, Riforma protestante ed
eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Laterza, Roma-Bari 2008; Istituto Storico Lucchese,
I lucchesi a Ginevra da Giovanni Diodati a Jean Alphonse Turrettini, Lucca 1993; A. Jacobson Schutte,
Pier Paolo Vergerio: The Making of an Italian Reformer, Genève 1977; S. Peyronel Rambaldi, Speranze e
crisi nel ’500 modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano 1979; A.
Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000; A. Stella,
Dall’anabattismo veneto al «Sozialevangeliums» dei fratelli hutteriti e all’illuminismo religioso sociniano,
Roma 1996; V. Vinay, La Riforma protestante, Paideia, Brescia 21982.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma
RIFORMA CATTOLICA CONTRORIFORMA e la Chiesa in Italia
Autore: Angelo Turchini
Sulle categorie storiografiche di Riforma cattolica e Controriforma, molto si è discusso, in un dibattito
appassionato ed approfondito, attento a cogliere le caratteristiche distintive di una realtà decisamente
complessa, arricchito di nuove categorie utili a cogliere gli elementi di un passaggio fra un prima e un
dopo, come ad esempio confessionalizzazione e disciplinamento sociale, ma occorre andare oltre,
guardando ad un contesto più ampio, pur nell’assenza di accordo su un unico termine atto a comprendere
la realtà. In tale senso non è però inutile ripercorrere alcune tappe di un dibattito, puntualizzare le
modalità del superamento di un concetto come Controriforma, spesso ideologicamente ed astrattamente
inteso al di là del richiamo alle controversie religiose e agli effetti della loro durezza sino alla ferocia,
limitato ma non stemperabile sino all’insignificanza, e valorizzare ulteriormente altre letture.
Già nel considerare le due categorie interpretative nel quadro di una progressiva modernizzazione, e sui
tempi lunghi del moderno, in un contesto sociale, politico e culturale nuovo, si ha un quadro concettuale
di riferimento entro il quale perde valore il binomio Riforma cattolica – Controriforma, tanto da
permettere l’ipotesi se non di una abolizione totale di quest’ultima quanto meno di un suo uso prudente e
circoscritto, senza dimenticare che i termini hanno alle spalle una storia (e una tradizione storiografica),
corrispondendo ad alcune precise domande e al tempo stesso, e che nessuna è esauriente nel
comprendere la realtà, soprattutto se cambiano i metri di riferimento, tenendo peraltro conto che l’uso
del termine e del concetto di Controriforma non si ha prima del secolo XVIII. Naturalmente ciò non
pregiudica nulla, ma è significativo che la categorizzazione sia stata adottata per la prima volta da un
giurista di Göttingen, J.S. Pütter, solo nel 1776 in relazione al forzato ritorno alla confessione cattolica di
un territorio protestante e al plurale: controriforme, utilizzata poi anche da L. Ranke per compendiare
unitariamente un movimento religioso che dietro i rigori restaurativi lasciava intravvedere elementi di
rinnovamento spirituale ed organizzativo.
V’è qualche consonanza con la ri-cattolicizzazione più o meno forzata (Rekatholisierung) di un territorio;
M. Ritter fu il primo ad utilizzare il concetto di Controriforma nella sua Deutsche Geschichte im Zeitalter
der Gegenreformation I-III (Stuttgart 1889-1908). Il termine, la categoria storiografica nasce in area
tedesca ed è una parola composta: gegen+Reformation: se il significato è nuovo, come il neologismo,
l’orizzonte di riferimento originario è però preciso, puntuale e denso di contenuti: Reformation,
designante il complessivo movimento di riforma. Il nesso fra Reformation e Gegenreformation verrà
sottolineato da K. Brandi nella sua opera Die deutsche Reformation und Gegenreformation.
La Controriforma corrisponde come reazione alla Riforma, anche da un punto di vista politico e militare,
con una disciplinata riforma della Chiesa controllata dal centro (papato e curia romana), con
puntualizzazioni dogmatiche e organizzative, con la repressione interna ad opera dell’Inquisizione. I
fenomeni variamente compendiati in Controriforma sono diversamente scanditi nelle varie realtà
territoriali, sia a livello diacronico che sincronico; ad esempio la realtà tedesca e quella italiana sono
fortemente differenziate nel loro insieme, ma se si guarda ad ambiti regionali emergono ulteriori ritmi di
sviluppo: così il Ducato di Baviera non è la Stiria, come lo Stato della Chiesa non è il Ducato di Milano o
la Repubblica di Venezia e Milano non è Pavia. Al pluralismo dei ritmi temporali e degli intrecci tra
momento teoretico (o dibattito culturale) e istituzionale, fra ordinamento giuridico e realtà effettiva è
stata prestata scarsa attenzione; d’altra parte la periodizzazione è sempre risultata problematica.
A puro titolo esemplificativo per L. Ranke esistono due fasi secche e rigide (1563-1589, 1590-1630), per
altri si va dalla pace di Augusta (1555) fino alla guerra dei Trent’anni (Schmidlin) oppure fino alla pace di
Westfalia (1648); Cantimori distingue tre cicli (sino al 1543, sino al 1580-1590, da quella data in poi)
attraverso i quali si passa da momenti di rinnovamento a momenti di irrigidimento della vita religiosa, ma
senza distinzioni nette. Per H. Jedin si può giungere dalla crisi conciliarista ovvero dall’inizio del XV
secolo sino al XVIII: parlando di Riforma cattolica e Controriforma per quest’ultima propone come più
giusto inizio l’ultima sessione del concilio tridentino (1563) per finire senza dubbio con Westfalia, ma
senza escludere ulteriori parziali sviluppi; si può parlare di un generale rinnovamento cattolico compreso
fra 1540-1770 (Po-chia Sia), senza escludere peraltro aspetti di Riforma tridentina giungere alla metà del
XX secolo.
Nel corso del XVI e XVII secolo si preferisce però adottare il termine di reformatio, perfettamente
coerente con l’uso della cultura ecclesiastica di tutto il tardo medioevo, volendo così indicare il
rinnovamento della chiesa. “Lutero stesso e, in grado ancora maggiore, Melantone volevano in origine
solo riformare la chiesa cattolica e passò molto tempo prima che si facesse strada la persuasione che la
loro opera non significava rinnovare, ma costruire dalle fondamenta”(Jedin). Il comune uso abbisogna di
specificazioni fornite allora da aggettivi: “vera” o “falsa” riforma, reciprocamente e inversamente detti e
scritti da una confessione religiosa contro l’altra (o le altre); in altri termini la categoria della reformatio
è originaria e coerente, anche se il volersene attribuire la validità suscita non pochi problemi. Con
Riforma cattolica si fa riferimento non solo a sensibilità ed esigenze anche diffuse in alcuni ambienti, ma
anche ad una serie di tentativi di rinnovamento della vita della Chiesa, a partire dalla prima metà del XV
secolo. Jedin ha il merito di aver fatto il punto sulla questione; a partire dalla nascita e diffusione delle
categorie di Controriforma e Riforma cattolica, come due termini e due concetti distinti e collegati,
superando secoli di storiografia controversistica e confessionale, ne ha puntualizzato senso e significato,
ed il loro rapporto, sottolineando il ruolo e la “funzione centrale” del papato. Il binomio Riforma cattolica
e Controriforma: “La Riforma cattolica è la riflessione su di sè attuata dalla Chiesa in ordine all’ideale di
vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno; la Controriforma è l’autoaffermazione
della Chiesa nella lotta contro il protestantesimo” (Jedin). Ma tanto l’uno che l’altro sono stati intesi
spesso non in simbiosi, bensì in parallelo o in successione e senza tener conto dell’interattività con la
Riforma che ne condiziona modalità, forme, anche scansioni, o senza individuare le continuità pur
presenti nel mutamento complessivo del lungo periodo.
Il parallelismo fra Riforma e Riforma cattolica/Controriforma è interessante. I due concetti non sono
antitetici o due fasi storiche “susseguenti”, sono invece strettamente connessi quanto alle origini che
affondano in un bisecolare passato comune segnato da tentativi di reformatio e quanto al carattere. La
modernità della prima è stata ridimensionata accentuando la spinta innovativa e modernizzante del
momento carismatico originario, mentre la seconda risulta da molti punti di vista recuperata al moderno;
inoltre una volta costituitisi i gruppi confessionali si nota l’adozione di soluzioni “coincidenti” rispetto a
problemi comuni (soprattutto nella difesa dell’identità) in un processo plurisecolare. Il parallelismo mette
in risalto il valore della reformatio come punto centrale in quelli che saranno i vari ambiti confessionali
ed in tempi comparabili, anche se talora sfasati; mentre sottolinea l’aspetto carismatico originale della
Riforma nei primi decenni del XVI secolo, quando affronta gli esiti istituzionali non può che notare
analogie fra campo protestante e campo cattolico: in altri termini, dopo un secolare periodo di
incubazione, il problema della riforma giunge a maturare e, in fase critica, ad esplodere dando luogo, sia
pur con travaglio ed in modo non lineare, a soluzioni speculari (anche se con uno specchio deformato ed
irregolarmente diseguale) in campi diversi, distanti, ma sostanzialmente con molteplici omologhi punti di
contatto e correlati ad un ideale piano sociale, politico, istituzionale (a più dimensioni).
Il parallelismo giunge così a salvare, parzialmente, la specificità della Riforma in quel breve lasso di
tempo, e contemporaneamente ad annullare la concettualizzazione tradizionale introducendo o meglio
presentando la dimensione della confessione religiosa come quella più consona a comprendere
unitariamente il complessivo campo religioso entro cui si situano domande e risposte, carismatici
sussulti, fondazioni ed incanalamenti istituzionalmente accettati. Le differenze sono misurabili e rilevanti,
ma pur sempre all’interno del campo. Quindi Jedin ha delimitato le due categorie, esaminandone il valore
in rapporto alla periodizzazione della storia della chiesa, ma senza dimenticare tutta una serie di “nuove
forze” (diremmo di modernizzazione, comunque proprie dell’età moderna) emergenti nel mondo e nella
società con cui fare i conti; e a questo punto valorizza il ruolo del concilio di Trento, punto d’incontro fra
Riforma cattolica e Controriforma, agente riformatore a cavallo fra due epoche, fra medioevo ed età
moderna.
Non v’è dubbio che il binomio jeniniano, un’endiadi complessa di relazioni interne, sia stato “ripudiato”
per una Controriforma senza tempo “come espressione immobile della repressione e del potere”(Prodi)
lungo tutto il XVI secolo, un incastellamento inutile se scisso e distinto dalla geografia e dalla storia in
omaggio a definizioni e categorie suscettibili di impedire la comprensione dei fenomeni oppure per una
controriforma annullata in una riforma cattolica onnicomprensiva: in pratica si tende a leggere una realtà
complessa sotto una medesima luce: o tutta Controriforma o tutta riforma cattolica, a seconda della
prospettiva; l’una e l’altra versione risulta fortemente condizionata da precomprensioni culturali talora
non esplicitate.
Jedin costruisce il binomio, avendo presente la storia della Chiesa ad intus et ad extra, coniugando altresì
storia politica ed ecclesiastica, istituzionale e costituzionale. Ma proprio qui sta il problema di fondo: una
prospettiva comunque intra-ecclesiale è sufficiente a sorreggere un binomio indagato piuttosto nelle sue
dinamiche interne che nelle più generali interazioni? Spostando l’obiettivo dalla Chiesa al mondo, vale a
dire dalla specifica storia ecclesiastica alla magmatica storia istituzionale e costituzionale della società di
cui fa parte, ovvero reinserendo la teologia nella storia è possibile ridefinire il campo, sgombrandolo delle
incrostazioni e delle superfetazioni? Non v’è dubbio che la Chiesa sia non solo agente, ma anche oggetto
di cambiamento, come illustrano significativi cambiamenti nelle istituzioni ecclesiastiche (non solo come
reformatio in membris), e soprattutto una nuova autopercezione da parte della chiesa chiesa medesima,
con una attenzione nuova alla cura animarum, come alla professionalizzazione del clero, in un ampio
programma di riforma che lo coinvolge direttamente e, indirettamente, il corpo sociale dei fedeli affidato.
A questo punto torniamo al concetto di Controriforma; ovviamente la parola ha storicamente assunto un
senso ed un significato preciso che va, ristretto in un ambito delimitato ed identificabile come “il
prevalere rigoroso delle correnti più intransigenti più propense alle formulazioni monolitiche, al ritorno e
all’avviamento a posizioni assolutistiche ed esclusive”(Cantimori). È interessante notare come il termine
sia stato assunto per definire l’opera di coagulazione e di chiusura dogmatica, insomma di delimitazione
confessionale nei modi precedentemente formulati, verificatasi anche in ambito protestante sicché si può
parlare di una duplice controriforma protestante. Se la parola (soprattutto l’aggettivo) è ancora
utilizzabile, bisogna ponderarla con misura, essendo stata concettualmente controversa, da definire, e
per nulla scontata.
Solo in questa più generale cornice e per i motivi precedentemente enunciati è possibile sbarazzarsi
senza troppi problemi di una categoria ormai entrata (in modi diversi) a far parte della storiografia; non è
una operazione ideologica, ma logica, per la quale non si danno sostituti o alternative, poiché i problemi
religiosi vanno affrontati in altro ambito e prospettiva, all’interno e in relazione con più ampie
concettualizzazioni, come quelle della confessionalizzazione e del disciplinamento sociale ad esempio
(che vede ricomporre la frattura dell’unità religiosa precedente su nuove basi delle strutture
ecclesiastiche) e soprattutto della modernizzazione, tenendo conto dei tempi lunghi della storia, senza
dimenticare aspetti di continuità e di mutamento o l’importanza degli avvenimenti e delle relative
contingenze. Questi concetti fanno i conti con la resistenza di vecchi steccati storiografici, in cui i termini
portano con sé un’eredità di conflitti anche ideologici, magari calati in un periodo relativamente breve,
senza la prospettiva naturale di un lungo periodo, ed in un ambito spazialmente limitato (non tanto
singole diocesi, quanto realtà minori) con l’esame di realtà localisticamente focalizzate.
La confessionalizzazione vede processi similari nelle varie chiese, nuova fondazione identitaria
confessionale fra chiesa e stato, ruolo giocato nelle società e nei rapporti con lo stato e tocca molti
elementi, anche la prassi liturgica e sacramentale, e la catechesi; porta al disciplinamento sociale,
attraverso cui consegue una estesa cristianizzazione delle masse, soprattutto nelle campagne, aperte a
nuove dinamiche culturali indotte al compattamento confessionale; del resto chiesa e stato, per via di
interazioni dinamiche, si influenzano a vicenda ed esercitano il loro influsso sul complesso della società di
riferimento. Confesionalizzazione e disciplinamento sono categorie utili ed efficaci strumenti di analisi, in
un dinamico processo di modernizzazione che vede tendenze ad un maggiore accentramento, costruzione
di istituzioni ed organismi giuridici, con razionalizzazione delle procedure, con crescente
burocratizzazione, risultato e specchio di quanto si verifica nella costruzione degli stati moderni: il fedele
è disciplinato suddito della chiesa, orientato a nuovi modelli di comportamento, mentre lo stato ricerca
un suddito fedele in cui la disciplina è anche come autodisciplina. È così agevole rileggere la stessa
“attuazione romana del Tridentino” e soprattutto il medesimo “sistema tridentino”, un impasto di
elementi culturali, di abitudini e comportamenti, di prassi organizzative e di forze istituzionali
attivamente impegnate nel processo di confessionalizzazione e nel disciplinamento sociale del proprio
ambito religioso, con una duplice azione svolta sia a livello dottrinale che disciplinare, e la figura e
l’attività di C. Borromeo a Milano, come di L. Paleotti a Bologna, ne sono testimoni esemplari; e non è
mancata attenzione per “una ripresa del tridentino” a partire dal concilio romano di papa Benedetto XIII,
tenendo conto peraltro della sua precedente esperienza diocesana.
È stato usato il termine di età confessionale, ma limitato al tempo, per età della controriforma, connessa
con età del disciplinamento; così si usa anche Riforma cattolica, a volte indicata come riforma tridentina –
e non v’è dubbio che riforma e concilio siano importanti nel corso di un processo di trasformazione “sia
nel nuovo rapporto dell’individuo con Dio, sia nel rapporto tra il sacro e il potere, tre le chiese e lo stato”
(Prodi), anche come riforma disciplinare, centralizzazione del comando, standardizzazione nella prassi e
così via. Ma un uso meramente cronologico del concilio di Trento (pre-post), usato come indicatore
(peraltro importante per l’influenza esercitata come applicazione normativa), può essere fuorviante se si
applica il modello post-tridentino alla realtà anteriore, meno fosca di quanto si possa immaginare, anche
se non così luminosa o omogenea come sarà successivamente.
Riforma cattolica e Controriforma, indicano allora esiti diversi di una generale aspirazione alla riforma o
rigenerazione religiosa presente nel XV e nella prima metà del XVI secolo, permettendo di parlare di una
fase tridentina della storia della chiesa, come la risposta storicamente data dalla chiesa romana alla sfida
della modernità, al rapporto con la modernità, in un arco temporale che giunge sino al Vaticano II con
elementi di continuità nella lunga stagione tridentina, con atttenzione agli sviluppi dottrinali, alla storia
delle istituzioni a partire dalla riforma della curia romana, e al popolo cristiano sui più diversi piani: da
quello culturale, dell’umanesimo, della nuova spiritualità, della devotio moderna nel XV secolo sino agli
illuministi cristiani, a quello politico ed economico, fra cambiamento e continuità, fra XV, XVIII secolo e
ben oltre.
Si ha una nuova organizzazione ecclesiastica a partire dalla residenza dei vescovi e del clero, con una
presenza capillare delle parrocchie, ovvero valorizzazione di una rete atta alla conquista, al
coinvolgimento, alla protezione e guida delle coscienze; il controllo ed intervento delle istituzioni è volto
ad uniformare ed educare come a controllare la popolazione, diffondendo i modelli della disciplina
religiosa; si evidenzia una nuova professionalità del clero secolare, con l’istituzione dei seminari partita
nella seconda metà del XVI secolo e realizzata nel XVIII, e regolare; si punta ad una nuova partecipazione
dei fedeli ai riti di passaggio, al tempo di festa ed ai sacramenti, dal battesimo al matrimonio tridentino
(modalità conservate a tuttoggi, con una nuova valorizzazione della donna), dalla confessione (con
sollecitazione allo sviluppo della coscienza individuale) alla comunione annuale, né manca una attenzione
alla storia vissuta dei fedeli, ai problemi di interazione fra religione popolare e ufficiale.
La chiesa nel mondo moderno, in cui il termine di modernità si coniuga anche con l’amministrazione ed
esercizio di una sovranità spirituale, deve fare i conti con il cambiamento dello stato, al di là dei rapporti
fra chiesa e stati (O’Malley), lo sviluppo sociale (anche demografico) ed economico, l’espansione
extraeuropea, nuove correnti culturali con la scoperta del mondo e dell’uomo e l’accrescimento e la
necessaria divulgazione della conoscenza, con attenzione ad una nuova evangelizzazione e
cristianizzazione, da conseguire con una educazione religiosa diffusa nelle Indias de aca, per un
cattolicesimo moderno (definizione ampia).
Fonti e Bibl. essenziale
H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul
concilio di Trento, Brescia 1967 (ed. or. 1946); P. Prodi, Controriforma e/o Riforma cattolica.
Superamento di vecchi dilemmi nei nuovi panorami storiografici, “Roemische historiche Mitteilungen”,
31, 1989, 227-237; W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un
discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo
ed età moderna, a c. di P. Prodi, C. Penuti, Bologna 1994, 101-123; R. Po-Chia Sia, La Controriforma. Il
mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna 2001; J.W. O’ Malley, Trento e ‘dintorni’. Per una
nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna, Roma 2004 (ed. or. 1999); E. Bonora, La
Controriforma, Roma-Bari 2001; A. Prosperi, Disciplinamento, in Historia. Saggi presentati in occasione
dei vent’anni della Scuola superiore di studi storici, a c. di P. Butti de Lima, San Marino 2010, 73-88; R.
Bireley, Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova-Milano
2010.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, completamenti, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Basilica superiore di San Francesco d’Assisi, affresco di Cimabue, particolare: la scritta
“Italia” compare sopra la città di Roma