Alcune considerazioni sul Presidente di Assemblea come “uomo
Transcript
Alcune considerazioni sul Presidente di Assemblea come “uomo
Alcune considerazioni sul Presidente di Assemblea come “uomo/donna della Costituzione” Emanuele Rossi SOMMARIO: 1. L’evoluzione degli interessi politico-costituzionali del Presidente di Assemblea. – 2. Presidente di Assemblea e Corte costituzionale. – 3. L’alternativa fra la ricostruzione del Presidente come “uomo/donna della Costituzione” e quella di garante dell’indirizzo politico di maggioranza. Il problema dell’elezione. – 4. Criterio di “appartenenza politica” e criterio di “ragionevolezza” nella scelta del Presidente di Assemblea. 1. L’evoluzione degli interessi politico-costituzionali del Presidente di Assemblea Vorrei partire dalla celebre ricostruzione di Andrea Manzella circa il Presidente di Assemblea come «uomo della Costituzione, titolare non di astratti poteri arbitrali ma di precisi interessi politico-costituzionali» (A. Manzella, 2003, 142), per indagarne alcuni possibili sviluppi, anche alla luce delle evoluzioni della recente giurisprudenza costituzionale. Mi pare doveroso, tuttavia, utilizzare il termine di Manzella nella duplicità dei generi, non soltanto per quanto dovuto in ordine al linguaggio, ma anche per rispetto alla esperienza del nostro Paese, ove la presenza di donne alla presidenza di assemblea è stata, a partire dalla fine degli anni Ottanta (vale a dire dopo l’elezione a Presidente della Camera dell’on. Nilde Iotti), sostanzialmente paritaria: sì che mi pare più corretto parlare di “uomo/donna della Costituzione”. In primo luogo credo si debba porre attenzione a quella giurisprudenza che, soprattutto di recente, tende a valorizzare i principi costituzionali sul procedimento. L’esigenza di un più penetrante controllo sull’attività del legislatore, finalizzato a sindacare il rispetto delle regole procedurali poste dalla Costituzione, trova crescente consenso: basti, in dottrina, il riferimento alla relazione di Michela Manetti al Convegno dell’AIC del 2010 (M. Manetti, 2012, 3 ss.); e si consideri inoltre l’attivismo del Presidente della Repubblica nell’indicare in vari modi e con varia intensità al Governo e al Parlamento di 282 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 non travalicare i limiti costituzionali. In questa direzione si è mossa anche la Corte costituzionale, dapprima in forza dell’assunto per cui essa ha il dovere di verificare anche i vizi in procedendo della legge (cfr. Corte cost. nn. 3/1957, 32/1962 e 262/1998), e più recentemente con il pesante intervento in sede di giudizio di legittimità su disposizioni introdotte nella legge di conversione e non omogenee rispetto al contenuto del decreto-legge: con la sentenza n. 22/2012, come noto, essa ha affermato come «l’impossibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, c. 2, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario». Siffatto indirizzo impone di considerare con maggiore intensità il ruolo del Presidente della Repubblica: il quale, tuttavia, ha evidenti e noti limiti nel proprio potere di intervento in materia, data la difficoltà, puntualmente indicata dal Presidente Napolitano in un’occasione, di rinviare al Parlamento una legge di conversione per le ripercussioni che tale rinvio potrebbe avere sul decreto-legge nel suo complesso. Per questo, anche per questo, potrebbero essere i Presidenti di Assemblea a farsi carico dell’esigenza di garantire il rispetto delle norme costituzionali, agendo in sede di ammissibilità degli emendamenti presentati al disegno di legge di conversione dei decreti-legge. Non si tratterebbe ovviamente di porre in discussione il principio dell’emendabilità in generale del decreto-legge, quanto invece limitarne la sua applicazione ritenendo ammissibili, in sede di conversione, soltanto quegli emendamenti che si pongano in stretta connessione con il testo del decreto-legge. L’intervento del Presidente di Assemblea sarebbe, in tal senso, nient’altro che finalizzato a garantire la corretta applicazione dei principi contenuti nei regolamenti parlamentari: come è noto, infatti, l’art. 97, c. 1 reg. Sen. stabilisce che non sono ammissibili emendamenti «relativi ad argomenti affatto estranei all’oggetto della discussione», mentre più puntualmente quello della Camera (art. 96-bis, c. 7) ritiene inammissibili emendamenti «che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge». E se è vero che non è facile individuare e conseguentemente sanzionare la “stretta attinenza”, è però altrettanto vero che EMANUELE ROSSI 283 non tutto può considerasi “strettamente attinente”, pena l’inutilità della stessa previsione regolamentare. Per quanto riguarda più specificamente il ruolo del Presidente di Assemblea, l’art. 89 reg. Cam. stabilisce che «il Presidente ha facoltà di negare l’accettazione e lo svolgimento di ordini del giorno, emendamenti o articoli aggiuntivi (…) relativi ad argomenti affatto estranei all’oggetto della discussione»; analogamente l’art. 97 reg. Sen. stabilisce l’improponibilità di «emendamenti e proposte che siano estranei all’oggetto della discussione», attribuendo al Presidente la decisione inappellabile. La circostanza nella quale vengano presentati in sede di conversione «emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario» del decreto-legge rientra dunque a pieno titolo nella fattispecie indicata nelle norme regolamentari, giacché con la sanzione della non accettazione il Presidente garantisce il rispetto dell’art. 77, c. 2, Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale. 2. Presidente di Assemblea e Corte costituzionale. Un altro versante del ruolo di garante della Costituzione da parte del Presidente di Assemblea potrebbe essere rinvenuto nell’obbligo sancito dall’art. 136, c. 2, Cost.: il quale impegna le Camere, ove lo ritengano opportuno, a provvedere con riguardo alle decisioni della Corte costituzionale. Al seguito delle sentenze della Corte sono dedicati, rispettivamente, l’art. 108 reg. Cam. e 139 reg. Sen.: quest’ultimo, in particolare, stabilisce che il Presidente deve provvedere a comunicare al Senato le decisioni di accoglimento, ed al comma successivo stabilisce che «Sono parimenti trasmesse alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che il Presidente del Senato giudichi opportuno sottoporre al loro esame». È a tutti noto come le sentenze della Corte, pur concludendosi con dispositivi di infondatezza, contengano talvolta richiami o moniti al legislatore affinché questi intervenga a modificare specifici contenuti delle disposizioni sottoposte al proprio esame: alcuni di questi casi sono stati recentemente oggetto di un forte richiamo da parte del Presidente della Corte costituzionale nella Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2012. In tale occasione il Presidente Gallo ha lamentato la difficoltà a dialogare «proprio con il soggetto che della Corte dovrebbe essere il naturale interlocutore, e cioè il legislatore», difficoltà 284 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 che «emerge, in particolare, nei casi in cui essa solleciti il legislatore a modificare una normativa che ritiene in contrasto con la Costituzione. Tali solleciti non possono essere sottovalutati. Essi costituiscono, infatti, l’unico strumento a disposizione della Corte per indurre gli organi legislativi ad eliminare situazioni di illegittimità costituzionale che, pur da essa riscontrate, non portano ad una formale pronuncia di incostituzionalità». Tali esortazioni, ha proseguito il Presidente, «non equivalgono al mero auspicio ad un mutamento legislativo, ma costituiscono l’affermazione – resa nell’esercizio tipico delle funzioni della Corte – che, in base alla Costituzione, il legislatore è tenuto ad intervenire in materia. È accaduto spesso che il Parlamento non abbia dato séguito a questi inviti». Tra i casi rilevanti in cui il Parlamento si è mostrato sordo ai richiami della giurisprudenza costituzionale il Presidente Gallo ha indicato la sentenza (n. 113 del 2011) con cui la Corte ha pronunciato l’incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non contemplava la revisione di quelle sentenze penali che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, erano state emesse in violazione del principio dell’equo processo; nonché il caso della sentenza n. 138 del 2010, con cui è stata esclusa l’illegittimità costituzionale delle norme che limitano l’applicazione dell’istituto matrimoniale alle unioni tra uomo e donna, ma nella quale la stessa Corte ha affermato che due persone dello stesso sesso hanno comunque il «diritto fondamentale» di ottenere il riconoscimento giuridico, con i connessi diritti e doveri, della loro stabile unione, affidando «al Parlamento la regolamentazione della materia nei modi e nei limiti più opportuni». E ancora, sono state richiamate alcune pronunce relative alla legge elettorale vigente, per quanto riguarda in particolare «l’attribuzione di un premio di maggioranza (…) senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o di seggi». In tutte queste circostanze, secondo il Presidente Gallo, la Corte ha invitato il Parlamento ad intervenire, ma tale invito non ha trovato un ascolto adeguato: mi chiedo pertanto se il ruolo di “uomo/donna della Costituzione” del Presidente d’Assemblea possa e debba indurre quest’ultimo (in stretta collaborazione con il suo omologo dell’altra Camera) ad attivarsi, sollecitando con tutti gli strumenti a sua disposizione l’assemblea a legiferare in modo da dare risposta ai moniti della Corte. EMANUELE ROSSI 285 La sede nella quale poter svolgere in modo adeguato tale compito è senz’altro la Conferenza dei Presidenti dei gruppi parlamentari, in particolare nell’ambito della programmazione dei lavori: sede nella quale, come ricorda ancora Manzella, il Presidente svolge la sua funzione più “politica”, quale “soggetto di indirizzo politico” (A. Manzella, 2003, 148). Mi pare pertanto che tale indirizzo non possa che riguardare, in primo luogo, le esigenze di adeguamento della legislazione alla Costituzione: e sebbene possa risultare oggettivamente impraticabile la via di un adeguamento di tutta la legislazione al dettato costituzionale, sicuramente praticabile ed anzi doverosa dovrebbe risultare la più limitata prospettiva di rispondere ai precisi e puntuali richiami della giurisprudenza costituzionale, come – ad esempio – nelle ipotesi appena richiamate. Ovviamente potrebbero essere altri gli ambiti nei quali il ruolo del Presidente di Assemblea come garante della Costituzione potrebbe realizzarsi: sempre con riguardo al procedimento legislativo potrebbe richiamarsi l’esigenza di garantire il rispetto dei principi costituzionali relativi alla legge di delega (ad esempio nell’ipotesi di leggi di delega prive di principi e criteri direttivi; ovvero nel caso di principi e criteri insufficienti o indeterminati); esigenza finalizzata, come indicato da Marco Ruotolo, anche «a tutelare il Parlamento contro gli abusi che eventualmente provengano dalla stessa maggioranza parlamentare e perciò a difesa dell’istituzione» (M. Ruotolo, 2009, 41 ss.). Così come si potrebbe dire della prassi dei maxi-emendamenti e di altre distorsioni della produzione legislativa, rispetto alle quali un maggior livello di sorveglianza da parte del Presidente potrebbe garantire, sia per le istituzioni che per tutti i cittadini, una più adeguata tutela della Costituzione. 3. L’alternativa fra la ricostruzione del Presidente come “uomo/donna della Costituzione” e quella di garante dell’indirizzo politico di maggioranza. Il problema dell’elezione. Un secondo aspetto che vorrei sinteticamente richiamare riguarda l’annosa questione del Presidente di Assemblea come espressione e garante dell’attuazione del programma legislativo della maggioranza (secondo la celebre tesi avanzata in dottrina per primo da Gianni Ferrara) ovvero come garante dell’istituzione e quindi come “arbitro”, in quanto tale per lo più eletto tra coloro che apparten- 286 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 gono alle fila dell’opposizione. Non mi soffermo su quale tra le due possibili opzioni sia quella preferibile (né sul problema se ne esista una in astratto), quanto sulla forse ovvia considerazione – avallata dalla prassi più recente – della difficoltà di sciogliere questa opzione nel momento dell’elezione. Mi spiego meglio. L’elezione del Presidente di Assemblea è uno dei primi adempimenti cui ciascuna camera è tenuta, subito dopo il suo insediamento. Essa precede la formazione del governo, ed anche l’avvio delle procedure per la sua costituzione da parte del Presidente della Repubblica. Pertanto, quando si procede a eleggere il Presidente, ancora il governo non è formato (rimane in carica il governo dimissionario nominato prima della scadenza della legislatura), e non è quindi ancora definita la maggioranza di governo (che si forma, è bene ricordare, soltanto con il voto di fiducia). In forza di tale situazione, potrebbe verificarsi la situazione in cui la maggioranza, ancorché non formalmente determinata, sia però sostanzialmente definita con l’esito delle elezioni, e perciò al momento in cui si procede all’elezione dei Presidenti: ciò vale in generale ed ancor più si potrebbe ritenere (recte: si poteva ritenere) nel caso di legge elettorale che per il sistema adottato induce alla formazione di una maggioranza “direttamente espressa dalle urne”. Tuttavia possono verificarsi casi in cui tutto questo non avviene: ciò che è accaduto all’inizio della XVII legislatura nonché nella seconda parte della XVI sta infatti a dimostrare il contrario. Nella presente legislatura, infatti, la coalizione Pd-Sel (presentatasi come tale alle elezioni) ha ottenuto la maggioranza dei seggi alla Camera ma – come noto – non al Senato, dove nessuna delle coalizioni ha ottenuto la maggioranza assoluta. Alla Camera è stata eletta Presidente, con i voti della maggioranza Pd-Sel, l’on. Laura Boldrini, eletta al Parlamento nelle liste di Sel; al Senato è stato eletto il sen. Pietro Grasso – anch’egli esponente della medesima coalizione ma eletto nelle liste del partito maggiore, cioè il Pd – grazie anche ad alcuni voti provenienti da senatori di altri gruppi. Quando poi, qualche settimana dopo, si è formato il governo e con il voto di fiducia si è definita la maggioranza, si è verificato il caso che Sel non facesse parte della maggioranza: quindi abbiamo oggi una Presidente della Camera che proviene da un partito di opposizione, ma che è stata eletta da una maggioranza di parlamentari composta in EMANUELE ROSSI 287 larga misura da esponenti della maggioranza di governo (Pd, appunto), mentre gli altri parlamentari che sostengono il governo hanno votato per altri candidati. È difficile inquadrare, in questa situazione, la Presidenza Boldrini negli schemi sin qui noti: non può dirsi un Presidente “della maggioranza”, ma neppure è facilmente inquadrabile nella tipologia dei presidenti “di opposizione”. Dirò subito quale conseguenza mi pare si debba trarre da questa circostanza. Il secondo caso si riferisce a quanto avvenuto nella passata legislatura: in essa alla presidenza della Camera era stato eletto un Presidente espressione della maggioranza, votato dagli stesi parlamentari che hanno subito dopo espresso la fiducia al Governo Berlusconi. E tuttavia, come tutti ben sanno, i rapporti tra il Presidente Fini e il suo partito di appartenenza si sono andati complicando, fino a giungere ad una risoluzione dell’ufficio di Presidenza del PdL con il quale tale partito considerò “le posizioni dell’on. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà, con gli impegni assunti con gli elettori e con l’attività politica del Popolo della Libertà”. Tutto ciò non determinò tuttavia una pronuncia di espulsione, o a una proposta agli organi competenti di dichiararla, ma ebbe come effetto il venir meno della fiducia del PdL nei confronti di Fini quale Presidente della Camera (mediante una richiesta implicita di dimissioni, data l’impossibilità di un voto di sfiducia, non previsto nel nostro ordinamento). Al contempo, l’ufficio di presidenza «ha condiviso la decisione del Comitato di Coordinamento di deferire ai Probiviri gli onorevoli Bocchino, Granata e Briguglio», membri del partito legati a Fini, al fine evidente di chiederne l’espulsione dal partito stesso (su queste vicende, volendo, E. Rossi, 2011, 10 ss.). La vicenda in questione si concluse dapprima con la formazione di un nuovo gruppo parlamentare alla Camera, denominato “Futuro e Libertà. Per l’Italia” (successivamente rinominato “Futuro e Libertà per il Terzo Polo”), cui aderirono i tre parlamentari deferiti e di lì a poco lo stesso on. Fini. Parallelamente fu costituito un analogo gruppo parlamentare al Senato e nel giro di qualche mese si tenne l’assemblea costituente per la nascita di un nuovo partito. A tale situazione tuttavia non seguirono le dimissioni dell’on. Fini da Presidente della Camera, malgrado le ripetute richieste in tal senso provenienti dalle forze di maggioranza (maggioranza che tale nella sostanza è rimasta, essendo stati sostituiti i fuoriusciti con altri parlamentari, acquisiti alla maggioranza stessa con mezzi di convin- 288 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 cimento vari e sui quali è in corso anche un’inchiesta giudiziaria). Si è perciò avuto il caso di un Presidente della Camera che, dopo tali vicende, non è stato più qualificabile come “Presidente di maggioranza”, e neppure come espressione dell’opposizione (che non lo aveva votato ed in esso non riconosceva un “proprio” esponente): si potrebbe definire come un “Presidente di ex-maggioranza” ovvero come un “Presidente separato dalla maggioranza”. Da queste due vicende, peraltro assai diverse tra loro, può trarsi tuttavia un’indicazione comune: e cioè che al momento dell’elezione la scelta di eleggere un Presidente di maggioranza o di opposizione si basa su una sorta di “pronostico” (riprendendo la felice espressione di Pizzorusso riferita alle decisioni del Presidente della Corte costituzionale di assegnare una causa alla camera di consiglio qualora egli ritenga che essa possa essere risolta con una pronuncia di manifesta inammissibilità o di manifesta infondatezza), perché in quel momento la maggioranza non è certa (caso Boldrini) o perché nel corso della legislatura la stessa può cambiare (caso Fini). Un “pronostico” che può essere supportato da percentuali più o meno ampie di probabilità (come tutti i pronostici), ma che tuttavia tale rimane, ed il cui esito può rivelarsi errato di lì a poco (come nel caso dell’elezione della Presidente Boldrini), ovvero in una fase successiva, a seguito delle vicende che possono investire le forza politiche coinvolte. Tutto ciò non ha ovviamente nulla a che vedere con il ruolo del singolo Presidente e con la sua capacità di svolgere le proprie funzioni in modo imparziale, garantendo la piena funzionalità dell’assemblea, e così via: da quanto si è detto è evidente che il discorso si riferisce, e si limita, a considerare il problema della “provenienza” del Presidente rispetto alle forze politiche che compongono l’assemblea, e conseguentemente a relativizzare di molto la stessa concezione del Presidente come espressione della maggioranza o dell’opposizione. 4. Criterio di “appartenenza politica” e criterio di “ragionevolezza” nella scelta del Presidente di Assemblea. Un’ulteriore considerazione vorrei svolgere circa i criteri in base ai quali viene di norma scelto il Presidente d’Assemblea. Sulla scorta di una logica che non mi parrebbe scorretta, si potrebbe sostenere che ad orientare la scelta dovrebbe essere la capacità dell’eligendo di dirigere con competenza e capacità una struttura EMANUELE ROSSI 289 complessa come è ciascun ramo del Parlamento e che pertanto uno dei criteri preliminari dovrebbe essere costituito dall’aver già fatto parte dell’assemblea, magari anche con qualche ruolo di responsabilità, insieme ad una storia ed una legittimazione politica che ne garantiscano autorevolezza e capacità di mediazione, come anche di rappresentazione all’esterno della posizione e del ruolo dell’assemblea. A tale criterio dovrebbero combinarsi, come è ovvio per un organo politico quale il Parlamento, appartenenza politica e specifiche qualità politiche della persona: elementi che tuttavia dovrebbero essere complementari ai primi e non sostitutivi di essi. Mi pare che questo criterio di ragionevolezza non sia sempre applicato, almeno negli ultimi decenni, nei quali l’appartenenza politica non è un criterio che si aggiunge all’altro, ma diventa l’elemento assolutamente prioritario di valutazione. Per quanto riguarda infatti lo “schema” che viene applicato a partire dalla XII legislatura si osserva che una delle due presidenze viene affidata di norma ad un parlamentare appartenente, secondo la felice espressione utilizzata da Carlo Fusaro, al “partito-cadetto”: partito che perlopiù ha un numero di parlamentari abbastanza ridotto, ed all’interno del quale talvolta viene scelto direttamente il leader (Casini per l’Udc, Bertinotti per Rifondazione comunista) ed altre volte un esponente di non primo piano (Pivetti per la Lega Nord, Boldrini per Sel). La scelta di Fini mi pare ascrivibile alla prima ipotesi: sebbene infatti egli appartenesse (al momento dell’elezione) allo stesso partito del leader della coalizione, quello stesso partito era – come tutti sanno – frutto della fusione di due precedenti partiti, di uno dei quali (quello minore, pertanto definibile come “cadetto”) l’on. Fini costituiva il leader. Dunque, nelle ipotesi descritte, l’appartenenza politica sembra costituire il primo criterio ad essere utilizzato, mentre l’altro (quello dell’esperienza e conoscenza dell’istituzione) è talvolta considerato in funzione subordinata e talvolta del tutto trascurato: se infatti già nel corso della XII legislatura i due Presidenti avevano alle spalle un’esperienza parlamentare assai ridotta (ciascuno di essi fu eletto Presidente all’inizio della propria seconda legislatura, ma la prima era durata soltanto due anni), con la presente legislatura il criterio della seniority è completamente saltato, essendo stati eletti due presidenti del tutto privi di esperienza parlamentare. 290 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 Ciò induce a ritenere quanto detto, ovvero l’assoluta preminenza che ha assunto il criterio dell’appartenenza politica rispetto a quello della conoscenza del Parlamento e della sua prassi (prassi che assume un ruolo di assoluto rilievo, come noto, nel diritto parlamentare): si giustifica pertanto e si comprende quella tendenza che mira a “conteggiare” la presidenza d’Assemblea nell’ambito della distribuzione delle cariche proprie della maggioranza di governo (come segnala A. Pertici, 2009, 35). Situazione che solleva perplessità ed anche preoccupazioni nella dottrina italiana, ma che invece è la norma in Spagna (come mostra la relazione di I. Torres Muro, in questo Quaderno). In certa misura connesso a tali aspetti è il tema del ruolo “politico” svolto dal Presidente durante il proprio mandato presidenziale: che un ruolo di tal genere egli debba esercitare non vi è dubbio, stante la natura politica (e politica per eccellenza) dell’istituzione che rappresenta. Tuttavia tale ruolo può essere esercitato in modi assai diversi, come è evidente. Può trattarsi infatti di un ruolo “politico non di parte”, ovvero come rappresentante della camera di appartenenza, al fine di sostenerne all’esterno le ragioni, di garantirne l’autonomia, e così via: su questo punto non vi è alcun dubbio di sorta. Vi può essere poi un’altra declinazione del ruolo: ovvero il Presidente come espressione dell’indirizzo politico di maggioranza. In questo caso si tratta di una connotazione diversa dalla precedente: il Presidente non parla a nome di tutti ma a nome della maggioranza. Si tratta anche in questo caso di un ruolo possibile, ed accentuato ovviamente dai criteri e dalle modalità di elezione appena considerati: su questo molto è stato scritto e non vi è bisogno di tornarvi. C’è però un terzo potenziale profilo che merita di essere considerato: il ruolo “di parte” del Presidente d’Assemblea, ovvero quale espressione di posizioni diverse da quelle della maggioranza parlamentare o magari con esse drasticamente contrastanti, come esponente politico di una determinata forza politica (magari minoritaria). È il caso che si è posto in maniera eclatante con la presidenza Fini, dopo la sua uscita dal PdL e la costituzione di FLI, e che ha portato una parte consistente delle forze politiche a chiedere le sue dimissioni dal ruolo di Presidente, ritenuto incompatibile rispetto a tale attivismo politico. EMANUELE ROSSI 291 Al riguardo, ed astraendo dal caso specifico e contingente dell’on. Fini, mi pare si debba riconoscere che ciascun Presidente gode, in quanto persona, del diritto alla libera manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 Cost., ed inoltre, in quanto parlamentare, è tenuto ad esercitare il proprio mandato, per il quale è stato eletto dagli elettori: i quali elettori lo hanno eletto perché egli svolga le funzioni di parlamentare, non di Presidente dell’Assemblea. Ed anzi si potrebbe configurare una sorta di “tradimento” del mandato ricevuto se il Presidente/parlamentare, per svolgere la prima funzione cessasse di esercitare la seconda. Ma come è possibile combinare i due ruoli senza che essi risultino conflittuali? Credo che per rispondere a questa domanda sia opportuno distinguere i piani: quello interno del dibattito parlamentare da quello esterno ad esso. Per quanto riguarda il primo, a me pare che la soluzione adottata dal Parlamento europeo meriti di essere considerata con attenzione: in quell’istituzione, infatti, ai sensi dell’art. 19, par. 3 del Regolamento, il Presidente può prendere la parola in una discussione soltanto per esporre lo stato della questione e richiamare alla medesima, ma se intende partecipare al merito della discussione egli può farlo abbandonando il seggio presidenziale, che può riassumere soltanto al termine della discussione sulla questione (su tale previsione v. A. Scrimali, 2009, 52). Potrebbe essere esportabile questa soluzione al Parlamento nazionale? A mio avviso sì, ma a condizione che il Presidente non ne faccia uno strumento di utilizzo frequente e quasi di routine, ma mediante un atteggiamento di self-restraint possa ad esso ricorrere in casi particolari e quasi eccezionali: ciò in quanto nei parlamenti nazionali la dinamica contrappositiva maggioranza/opposizione è sicuramente più accentuata rispetto al Parlamento europeo, e tale dinamica richiede una maggiore distanza del Presidente dal merito dei dibattiti, in modo che ne sia più adeguatamente assicurato il ruolo di garanzia. Con questa attenzione, personalmente ritengo che quella prospettata costituisca una soluzione in grado di consentire al Presidente di svolgere i diversi ruoli senza pericolo di sovrapposizione né rischi di delegittimazione dell’incarico ricoperto. Più complessa mi pare la soluzione al secondo profilo, ovvero con riguardo all’esterno dell’attività parlamentare (assumendo come “esterno” un concetto di massima, ad evitare di doverci confrontare 292 IL FILANGIERI - QUADERNO 2012-2013 con la delimitazione dell’esercizio delle funzioni di parlamentare…). In questo caso, infatti, si dovrebbe valutare se sia possibile scindere il ruolo, e quindi immaginare un Presidente che si comporti o che parli “come parlamentare” e non come Presidente: tema che fu a lungo dibattuto alcuni anni addietro, allorché un Presidente del consiglio in carica rispose alle reazioni che alcune sue frasi avevano provocato tra gli alleati della maggioranza affermando che ciò che aveva detto lo aveva detto non in quanto Presidente del consiglio ma in quanto parlamentare o addirittura segretario di partito. Considerazioni che furono oggetto di molte e fondate critiche, e che dovrebbero indurre a molta cautela, anche in relazione ad un ruolo diverso come quello di Presidente d’Assemblea (che costituisce, va ricordato, la seconda e la terza carica dello Stato). Per questo, mi parrebbe più piana l’idea di aprire qualche spazio per un’azione “politica di parte” del Presidente all’interno dell’istituzione parlamentare, sulla scorta di quanto previsto per il Parlamento europeo, e consigliare massima cautela per le sue esternazioni all’esterno di essa: sebbene infatti sia stata osservata anche nel recente passato una tendenza ad accompagnare «all’imparzialità interna una forte politicità esterna» (L. Ciaurro, 2009, 45), forse è il caso di non abusare. Riferimenti bibliografici L. CIAURRO, Il ruolo del Presidente di Assemblea nella programmazione dei lavori, tra realizzazione del programma di governo e diritti delle minoranze, in E. ROSSI (cur.), Studi pisani sul Parlamento, III, Pisa, 2009, 43 ss. M. MANETTI, Procedimenti, controlli costituzionali e conflitti nella formazione degli atti legislativi, in Decisione conflitti controlli. Procedure costituzionali e sistema politico. Annuario AIC 2010, Napoli, 2012, 3 ss. A. MANZELLA, Il Parlamento3, Bologna, 2003. A. PERTICI, Il Presidente d’Assemblea nei rapporti tra assemblee elettive ed esecutivi: considerazioni introduttive, in E. ROSSI (cur.), Studi pisani sul Parlamento, III, Pisa, 2009, 31 ss. E. ROSSI, La democrazia interna nei partiti politici, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 1, 2011. M. RUOTOLO, I limiti della legislazione delegata integrativa e correttiva, in La delega legislativa, Milano, 2009. A. SCRIMALI, Il ruolo del Presidente di Assemblea nella programmazione dei lavori, tra realizzazione del programma di governo e diritti delle minoranze, in E. ROSSI (cur.), Studi pisani sul Parlamento, III, Pisa, 2009, 49 ss.