La trappola globale: crescita senza produttività

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La trappola globale: crescita senza produttività
Bologna, 23 settembre 2016
La trappola globale: crescita senza produttività
In un contesto globale sempre più incerto, molte economie, tra cui Italia, USA e
Germania, potrebbero andare incontro a periodi di crescita senza produttività. Inoltre
aumenta lo scetticismo sull’efficacia delle prossime decisioni delle banche centrali,
lasciate sole dai governi alle prese con le scadenze elettorali. Infine le sempre più
frequenti spinte protezionistiche potrebbero ostacolare la ripresa del commercio
mondiale, già in affanno.
Questi i principali temi del Rapporto di Previsione di settembre 2016.
Previsioni Italia
La ripresa in Italia si conferma tra le più fragili. Tagliate le stime sul Pil 2016
(da +0,8% a +0,7%) e 2017 (da +0,9% a +0,8%). Per gli anni successivi si stima
una crescita media annua vicina all’1%. La stagnazione del secondo trimestre
preoccupa per la sua origine: è stata la domanda interna a deludere le attese
Stance fiscale prevista ancora moderatamente espansiva con la legge di
Bilancio 2017, stop alla discesa del deficit/Pil (2,4% quest’anno, 2,5% l’anno
prossimo) e rientro del disavanzo posticipato al 2018
Le incertezze legate al referendum costituzionale continueranno a pesare, in
Italia e non solo. Un eventuale esito negativo potrebbe avere ripercussioni sulla
stabilità del governo e mettere in discussione l’agenda delle riforme
Previsioni internazionali
Se Donald Trump vincesse le elezioni potrebbe seguire le orme di Ronald
Reagan, riducendo drasticamente le imposte e aumentando il disavanzo. Con
debito/Pil al 100% e liquidità a livelli record, ciò imporrebbe alla Fed una
drammatica svolta. Noto l’esito elettorale di novembre, la Fed riprenderà ad
alzare i tassi a dicembre 2016, senza abbandonare la cautela
Nel 2016 il commercio mondiale vicino alla stagnazione (+1,6%): tasso di
crescita più basso dal 2009
Bce, espansione temporale del Qe e tassi ai minimi fino a tutto il 2019
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La trappola della crescita senza produttività
Il quesito fondamentale per l’economia italiana è come sostenere la crescita della domanda, con risorse fiscali scarse,
senza dimenticare di rilanciare la crescita nel lungo periodo. In altre parole, come uscire dalla trappola della crescita
economica senza produttività. L’aumento di occupazione conseguito in questi ultimi tre anni è, a questo proposito,
emblematico. La strategia di policy adottata è certamente condivisibile: rilanciare l’occupazione con una misura
temporanea (gli sgravi contributivi sui nuovi assunti) per spingere la crescita, associandovi una riforma strutturale (il Jobs
Act), che ha bisogno di tempo per esplicare i suoi effetti positivi, ma che potrà innalzare il prodotto potenziale. Se la
scommessa verrà vinta, il prezzo pagato in termini di riduzione della produttività apparente del lavoro che stiamo
osservando potrà essere compensato da un suo innalzamento strutturale.
Anche in economie più solide il nodo per il medio-lungo termine rischia di essere la produttività. La crescita Usa è stata
un grande assente nel secondo trimestre, ostaggio di un’incertezza diffusa che al momento colpisce soprattutto gli
investimenti. L’apparente contraddizione tra elevato ritmo di espansione dell’occupazione e bassa crescita del Pil implica
una caduta della produttività del lavoro, che potrebbe avere potenziali effetti negativi sulla crescita di lungo periodo. Se
a ciò si aggiunge che il salario orario reale dal 2013 sta crescendo più della produttività oraria, si evince nella crescita
del costo reale del lavoro per unità di prodotto un altro potenziale fattore prospettico negativo. Nel breve periodo
occupazione e salari reali orari in crescita sostengono i consumi ma potrebbero facilmente trasformarsi in un vincolo
prospettico nel medio periodo via peggioramento della competitività. La scommessa per l’economia Usa è dunque
rilanciare la produttività.
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La solitudine delle banche centrali
Le banche centrali sono divise tra di loro e al loro interno: avviare la normalizzazione dei tassi di interesse nonostante
gli obiettivi enunciati non siano stati ancora raggiunti? Il tema sottostante è la percezione che le politiche monetarie,
lasciate nella loro solitudine, abbiano ormai il fiato corto: la Bce stenta a trovare un modo praticabile per rafforzare
ulteriormente la politica espansiva; la BoJ sembra procedere a zig-zag; la Fed non potrà che rialzare i tassi entro l’anno
per non perdere totalmente di credibilità. La BoE ha riallargato la politica monetaria e sembra ritrovarsi un governo
collaborativo nel rivedere i piani di restrizioni fiscali precedenti.
Difficilmente l’Europa deciderà di affiancare misure espansive di bilancio europeo e, soprattutto, indicarle per i bilanci
nazionali. Analogamente, negli Usa, ora che l’elezione di Trump non è più un “evento di coda”, è meno probabile che vi
sia cauto sostegno della politica fiscale mentre la Fed fa qualche passo avanti verso la ri-normalizzazione.
Se le politiche fiscali rimangono ingessate nel perseguimento dell’obiettivo di sostenibilità dei debiti pubblici, le politiche
monetarie finiscono per essere utilizzate, senza poterlo dichiarare, come strumento per controllare in ultima istanza il
tasso di cambio. Ma la rincorsa tra le valute non sortirebbe effetti apprezzabili, confermando bassa crescita del Pil, della
produttività, tassi di interesse reale e nominale bassi, senza che la stabilizzazione dei debiti pubblici sia garantita, anzi.
In ogni caso, il passaggio a un policy mix appropriato a una fase di stentata ripresa, in cui le politiche monetarie sono in
difficoltà, risulta molto complesso e generatore di rischi, se ciò dovesse destabilizzare le aspettative degli operatori,
conducendo a una vera e propria fase di deflazione. Ancora più concreto e ravvicinato il rischio che gli esiti delle scadenze
politiche nei diversi paesi, il nostro non escluso, possano determinare una concentrazione di eventi negativi con effetti
sinergici tali da provocare un rallentamento nell’attività economica più marcato di quanto prevediamo. Situazione nella
quale la nostra economia difficilmente eviterebbe altri trimestri a crescita zero.
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AAA commercio mondiale cercasi
Il sospetto sulla tenuta della ripresa si fonda sulla bassa crescita del commercio mondiale che quest’anno sta sfiorando
la stagnazione. Sono molteplici i motivi di questo andamento: bassa elasticità di assorbimento dei paesi emergenti coniugato alla loro accresciuta rilevanza negli scambi mondiali, accorciamento delle catene del valore. Aggiungiamo ora anche
l’osservazione di un numero crescente di provvedimenti in odore di protezionismo. A differenza del passato, tuttavia, non
si fa ricorso all’applicazione o all’aumento di dazi e tariffe ma si stanno utilizzando soprattutto barriere non tariffarie, in
grado di sfuggire più agilmente agli accordi Wto.
Sebbene a livello mondiale sia cresciuto anche il numero di atti di liberalizzazione, il numero di quelli protezionistici lo ha
soverchiato in un rapporto di 3 a 1. Nuove folate protezionistiche che, come sempre nelle fasi di crisi, vengono indicate
come rimedio per salvare produzione e lavoro nazionali. Dal 2008 ai primi mesi 2016, oltre 3.500 provvedimenti legislativi
sono riconducibili alla definizione di protezionismo: restrizioni dirette delle importazioni, tasse alle esportazioni, quote,
sussidi, discriminazioni negli appalti pubblici contro le aziende estere, oltre a bailout e Local Content Requirement. Nel
solo 2015 sono cresciuti del 50% e il quadro dei primi mesi 2016 è altrettanto negativo. Dal 2008 il paese che ha introdotto
più norme distorsive del commercio sono stati gli Usa, anche se in realtà da inizio 2016 la crescita di provvedimenti
protezionistici ha riguardato la gran parte dei paesi del G20.
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