Non si sevizia un paperino,Il segreto dei suoi

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Non si sevizia un paperino,Il segreto dei suoi
Non si sevizia un paperino
Era il 1972 e, Lucio Fulci aveva alle spalle una carriera
decennale, però ancora non aveva dimostrato il suo talento
visionario. Con il giallo “Non si sevizia una paperino” si
scrolla di dosso le parodie come “002 agenti segretissimi”
(con Franco e Ciccio) e i musicarelli tipo “I ragazzi del
Jukebox” e intraprende i primi passi verso il mondo
dell’horror che lo consacrerà come uno dei registi più
eclettici e truculenti del genere.
Ad Accendura, un anacronistico e immaginario paesino del
meridione, agisce un serial killer di bambini. Dopo la prima
vittima, viene incolpato lo scemo del villaggio, seguiranno
altre due vittime e di conseguenza, il primo sospettato verrà
scagionato. Gli abitanti del borgo esigono un colpevole. I
sospetti si concentreranno sulla “maciara” (Florinda Bolkan),
una sorta di fattucchiera-voodoo. Mentre i carabinieri si
renderanno conto che è innocente, i contadini bigotti, spinti
dall’ignoranza e da un’assurda sete di giustizia, la
uccideranno a bastonate, senza pietà. Proseguiranno le
indagini e questa volta a essere accusata è l’avvenente
Patrizia (Barbara Bouchet), ragazza ricca e viziata, figlia di
un abitante del paese che “ha fatto fortuna al nord”. Con
l’aiuto del giornalista Andrea Martelli (Thomas Milian), la
ragazza riuscirà a far decadere le accuse su di lei e a fare
chiarezza sulla torbida vicenda.
Nel borgo di Sant’Angelo in Puglia, Fulci tesse, in maniera
quasi perfetta, la tela di questo spietato giallo a forti
tinte horror e ultragore. Il regista romano si scatena
esagerando in crudeltà e in politicamente scorretto
soffermandosi spesso e volentieri sullo sguardo di chi subisce
violenza: emblematica e raccapricciante la scena del pestaggio
alla maciara in cui ogni bastonata, ogni colpo di catena,
tutte le ferite e tutti gli schizzi di sangue sono mostrati
con dovizia di particolari e anche ad uno stomaco avvezzo a
simili scene risulta di difficile digestione, in netto
contrasto in questa scena le note di “quei giorni insieme” di
Ornella Vanoni che accompagnano il tutto. Altra scena clou per
violenza splatter è quella finale, dove l’assassino precipita
dalla montagna e il corpo, specialmente la testa, viene
squartato da spuntoni di rocce e quant’altro, addirittura ci
sono improbabili scintille che fuoriescono dal contatto tra il
cranio e le pietre.
La trama ruota attorno alle credenze popolari, alla magia
nera, e all’ignoranza della gente in netta antitesi con il
mondo delle grandi città rappresentato dal lungo cavalcavia
dell’autostrada sul quale sfrecciano le automobili e che sta
distante, ma appiccicato al paese. Oltre al giallo e alle
scene splatter, abbiamo un’attenta analisi antropologica della
gente che abita i piccoli paesi, così radicati nel territorio
da avere paura dell’estraneo e di tutto ciò, come la maciara,
che rompe la routine provocando piccoli cambiamenti.
La netta separazione che c’è tra la campagna e la città è
rappresentata anche dalle due protagoniste: Barbara Bouchet,
che si mostra nuda davanti a bambini, rappresenta il fascino e
l’eccesso borghese e quindi l’inarrivabilità per i contadini,
il proibito; il personaggio di Florinda Bolkan è l’emblema
delle tradizioni e del mondo rurale, ma al tempo stesso si
trova a subire quello stesso mondo che ha deciso, senza motivo
concreto, di emarginarla.
Il thriller di Fulci è, nonostante quasi tutte le scene siano
all’aperto, molto claustrofobico, si discosta veramente di
poco dal condominio di “quer pasticciaccio brutto de via
Merulana” di Gadda, il paese in qualche modo è una prigione
opprimente che fagocita i propri figli e non li fa evolvere.
La pellicola fu censura in maniera pesante, Fulci ebbe guai a
causa della scena in cui Barbara Bouchet nuda adesca un
bambino, molte inquadrature furono tolte perché ritenute
troppo eccessive e violente, anche gli effetti speciali di
Rambladi (il papà di E.T.)
esageratamente realistici.
subirono
modifiche
perché
I fan più sfegatati di Fulci considerano il film come il
capolavoro del maestro romano, e forse è così, comunque è
oggettivamente un ottimo thriller: suspense e particolari
orripilanti catturano lo spettatore e lo fanno entrare in un
mondo che poi non è tanto distante dalla triste realtà della
cronaca.
Il segreto dei suoi occhi
Crimine, amore e mistero. Alla sapiente fusione di questi tre
elementi si deve la riuscita di Il segreto dei suoi occhi,
firmato dal regista argentino Juan José Campanella e vincitore
di un Oscar come miglior film straniero. Dentro una cornice da
legal thriller dall’impianto tradizionale la storia si
arricchisce di tonalità da noir esistenziale e di aperture
romantiche rese con la giusta distanza grazie ad uno sguardo
ironico che sa raffreddare la sostanza drammatica della
narrazione.
Nella sua vita trascorsa il commissario in pensione Esposito
ha mancato due grandi occasioni, una riguardante la sua
dimensione professionale, l’altra quella privata. Venticinque
anni prima, infatti, all’epoca della dittatura dei militari in
Argentina, egli si è lasciato sfuggire il sadico autore
dell’uccisione di una giovane donna, da lui rintracciato dopo
una ingegnosa ricerca ma rimesso in libertà dagli scherani dei
colonnelli. Inoltre, non ha saputo dichiarare il suo amore
alla bella procuratrice Irene, alle cui dipendenze egli
lavorava diviso tra gli obblighi della gerarchia e il sogno di
una impossibile relazione sentimentale. Ma adesso, dopo tanti
anni, Esposito decide di scrivere un romanzo sull’atroce
delitto con la speranza di poterne chiudere i punti irrisolti
guidato da una saggezza che non poteva avere da giovane e
impulsivo funzionario. Le memorie del passato lo aiutano a
mettere ordine nel presente e a scoprire che l’omicida dato
per morto vive tuttora tenuto prigioniero del marito della
defunta e che l’irraggiungibile Irene, ormai divorziata, non
aspetta altro che egli le dichiari il suo amore.
L’incastro dei piani temporali è eseguito con una perizia che
ricorda quella mostrata da Losey in Messaggero d’amore e rende
inavvertibili gli slittamenti cronologici con il risultato di
consentire alla narrazione di procedere compatta e lineare
nonostante la continua dialettica tra presente e passato che
connota l’intero film. Il personaggio di Esposito è uno di
quei “lucidi folli” di cui è ricca la letteratura argentina,
un uomo oscillante tra disillusione e impeto vitale (“Non si
può vivere una vita vuota”, ripete spesso all’Irene
ritrovata), un malinconico resistente dinanzi al clima di
corruzione del paese e alla vigliaccheria dei colleghi
d’ufficio. La sua passione per la ricerca della verità è un
sentimento totalizzante che si incrocia con un’altra passione
meno nobile ma altrettanto assoluta, quella calcistica nutrita
dall’omicida, in un serrato pedinamento che conduce
all’arresto dello sconosciuto introvabile in una sequenza
dall’impatto shocker (la carrellata aerea sullo stadio di
Buenos Aires che piomba sui giocatori e devia sulle gradinate
gremite e sui corridoi sottostanti fino a cogliere il giovane
braccato)
Oltre al tema dell’amore perduto e poi ritrovato per Irene, il
regista tratta con grande sensibilità pure il motivo
dell’amicizia virile che lega Esposito al suo aiutante Pablo,
un ubriacone assai perspicace grazie al cui contributo riesce
a risolvere il caso (ma non a impedirne l’uccisione da parte
dei sicari del regime). Anche questo secondo (o terzo) filo
narrativo è condotto con mano sicura da Campanella e dallo
sceneggiatore Eduardo Sacheri ( autore del romanzo La pregunta
de sus ojos da cui il film è tratto) e si inserisce senza
forzature nel contesto della vicenda che scorre avvolgente e
avvincente fino all’atteso ma sempre rinviato bel finale.
Quanto al titolo Il segreto dei suoi occhi, esso ha una
pregnanza che corrisponde alla complessa sostanza narrativa,
visto che gli occhi di cui parla possono essere sia quelli
dell’omicida ritratto in una vecchia foto mentre fissa
adorante la futura vittima sia quelli di Irene che attende da
Esposito le parole che lui tarda troppo a dirle. In questa
ambiguità sta forse il merito maggiore del film, quello di
ricordarci la verità che i film, tutti i film, in fondo altro
non sono che “staffette di sguardi” carichi di significati
inespressi.
Angelo Moscariello
Man
of
Steel
–
L’uomo
d’acciaio o meglio di latta
Ve lo dico subito, prima ancora di ricamarci sopra. A me “Man
Of Steel” non è piaciuto. Così mi sono tolto il dente
dolorante e finalmente rispondo a tutti coloro che me lo hanno
osannato come capolavoro tra i cine-comic. Ragazzi vi voglio
bene, ma questo è un brutto film. C’era un tempo in cui i
lavori di Zack Snyder erano belle pellicole, di quelle che
restano gustose anche alla terza o quarta visione, cavolo, il
ricordo dello zombie che partoriva ne “L’Alba dei Morti
Viventi” me lo porterò nella tomba! L’avanzare degli spartani
guidati da Leonida in “300” è qualcosa che rimane impresso
anche dopo anni. E che dire di “Watchmen”? Sto parlando del
film meno capito della storia dei cine-comic. Una verità su
quel film è che il pubblico e i fan in primis non hanno capito
la possenza di tale adattamento, mi dispiace dirlo. Non hanno
capito che non poteva esser fatto altrimenti. Ci sono scene di
un impatto visivo davvero mostruoso, ma magari ne parleremo
altrove o in seguito… In ogni caso ci sarà sicuramente un
motivo se Terry Gilliam a suo tempo dichiarò che “Watchmen”
era infilmabile, ma se la mia labile memoria non m’inganna,
parlavamo di “Man of Steel – L’Uomo d’Acciaio”. Bene, si,
dunque, accidenti… dannazione a Zack Snyder e ai tempi in cui
i suoi film erano belli!
Un giorno arrivò “Sucker Punch” e tutto cambiò. Era una
certezza che in sala mi sarei divertito, invece mi scontrai
con una dura realtà: ho una tolleranza abbastanza comprovata e
rassicurante nei confronti dell’action e dell’inutile eppure
stavo assistendo a uno dei film più noiosi e parassiti di
sempre. Cazzo (io non dico mai ‘Cavolo’, mi sembrava corretto
chiarire) fatta eccezione per i nazi-zombie rianimati a
vapore, idea a mio avviso veramente superlativa, quel film era
ed è il nulla portato su schermo. Non mi capacitavo di ciò che
stava succedendo. Snyder aveva toppato, e non potevo
difenderlo in nessun modo. Mi aveva messo in difficoltà, però
c’era “Man of Steel” con cui potevo rifarmi. Non poteva
fallire di nuovo. Non doveva. E poi il trailer era talmente
intimista che non si poteva non essere fiduciosi (quando
imparerò che i trailer sono tutti fighi e c’è chi li fa per
lavoro, proprio per far sembrare tutti i film fighi?!?).
Vado al cinema. Mi siedo in sala. “Man of Steel”, cazzo! Il
trailer era fighissimo, sarà un filmone! Dopo due ore Elena,
la mia ragazza, critica cinematografica spontanea da non
sottovalutare, mi guarda. Io la guardo. Lei sa bene quanto
rispetto Zack Snyder e David Goyer (oddio, Goyer un pò meno
dopo “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”, che ha dato inizio
alla sua decadenza come sceneggiatore… Diavolo, hai ideato una
perla televisiva come “Flashforward” e poi mi tiri fuori una
conclusione per l’uomo pipistrello così farlocca? Mah… Anche
di questo parleremo, se ci sarà occasione…). Insomma, lei mi
guarda. Poi, da intelligente qual è, si addormenta. Io
resisto. Resisto a tutto quell’action forzato e sfrenato. Una
palla interminabile di voli, cazzotti ed esplosioni. Una
tristezza infinita di azione a tutti i costi. Ok, tecnicamente
impeccabile, ma pur sempre sfiancante e senza senso, ma
arriviamoci con calma…
Un’altra cosa che non vi ho detto è che io spoilero, quindi
fermatevi qui se il film non l’avete visto. Occhio contiene
spoiler, si scrive così no? SPOILER! Partiamo dall’inizio… Il
padre di Superman (lo so che si chiama Kal-El, ma era per
farvi capire…) Jor-El, interpretato da un Russell Crowe che
recita al minimo sindacale, ha un diverbio con i saggi e con
il villain Generale Zod. Casino. Il buon Russel cavalca anche
una non precisata creatura aliena, come se la fauna locale
fosse l’unico tratto distintivo di Krypton, salva suo figlio,
pianeta distrutto, madre disperata ecc, ecc… Bene, ora tocca a
Superman/Clark Kent, aka Henry Cavill. E’ un vagabondo, un
pescatore barbuto, uno che ogni tanto salva la gente.
Perfetto! Ci Piace l’alieno in mezzo a noi che ci ama e tenta
di salvarci o arrivare dove può, anche se non lo apprezziamo o
non sappiamo che esiste, fico! Poi… Eh?… Poi… L’umanità sarà
pronta ad accettare questo alieno Superdotato?
Un punto a favore va a Kevin Costner, a lui sono affidate le
“bravate” giovanili del nostro supereroe; come attore è sempre
ispirato e a Russell Crowe, come si suol dire, lascia le
scorze. Peccato che l’uomo che ballava coi lupi muoia per
salvare un cane da un dito di dio di tornado e che tutto si
perda in un bicchier d’acqua. Tutto ciò rende bene l’idea di
quanto sia inadeguato Clark, nonostante le sue potenzialità e
la sua voglia di emergere e di salvare il mondo e chi gli sta
vicino… Salvare il mondo… Poi Superman si ritrova, ritrova se
stesso, ritrova la coscienza di sè nell’astronave, ritrova il
padre ridotto a un ologramma attraverso una chiavetta USB a
dir poco imbarazzante, ma anch’essa ritrovata e alla fine si
ritrova addirittura braccato dal Generale Zod -un bravissimo
Michael Shannon- così parte un’infinita battaglia che riesce a
stremare anche il più disposto degli spettatori. Nel frattempo
è stata presentata anche una “grezza” Lois Lane, ma, è il caso
di dirlo, è uno di quei personaggi la cui presenza non fa la
minima differenza, serve talmente a poco… Ah già, Lois
“battezza” Superman, ma stìcazzi!
Che noia! Certo, mi è piaciuta molto la fisicità di questo
Uomo d’Acciaio: quando sullo schermo ci si mena a mani nude,
personalmente non posso resistere. Io adoro il contatto fisico
e in “Men of
Steel” arriva dopo un volo liberatorio di
Superman che fa davvero ben sperare, ma raramente guardo
l’orologio prima di uscire dalla sala e dopo la decima o
quindicesima esplosione, dannazione, boom cazzo, ero davvero
stanco, eppure sono uno sfegatato fan di “Die Hard”,
dannazione due! Stanco… Stanco… Noia… Cazzotto… Azz! Dopo il
cazzotto la scivolata a terra che segna l’asfalto, fico… Noia…
Sonno… Tristezza… Arriva il finale, non ci credo, una
liberazione! E poi Superman spezza il collo del Generale Zod
perchè stava per uccidere tre o quattro sfigati alla stazione
e si dispera. Combattuto a causa del suo animo buono è
costretto alla nefandezza dell’omicidio. <<Che c’è di male?>>
direte voi <<il Superman intimista tipo Batman di Nolan
funziona alla grande!>> Yeah! Tutti felici…
Ma vi siete resi conto che Zod stava praticamente
terraformando l’America e che saranno morte solo durante il
loro interminabile scontro, migliaia e migliaia di persone
delle quali a Superman non è fregato un beneamato cazzo? No?
Beh, riguardate il film. Oppure risparmiate tempo e non
fatelo, guardate altro. La verità è che “Man of Steeel” è un
brutto film. Il finale è una strizzata d’occhio per convincere
ad andare a vedere il seguito che mio malgrado farò (se non
altro per vedere il povero Ben Affleck nei panni di Bruce
Wayne). E Clark Kent? L’impacciato Clark Kent? Il fottuto
Daily Planet? E il kryptoniano di “Superman Returns” insieme
alla nostalgia e la passione di Singer (autore di un
degnissimo omaggio a Richard Donner)? Che finaccia hanno
fatto? Dov’è il film che mi avevano promesso nel trailer?
Fanculo…
In questi giorni io ed Elena guardiamo “Lois & Clark – Le
nuove avventure di Superman”. Ok è uno stupido serial, ma ci
fa sorridere e Lois Lane è davvero azzeccata. Sapete una cosa?
Ci soddisfa come “Man of Steel” non ha saputo fare! Questo è
un peccato perchè Snyder ha diretto “Watchman” e “l’Alba dei
Morti Viventi”, perchè personalmente stimo Snyder e spero che
si riprenda, perchè Goyer era uno sceneggiatore degnissimo e
ora è solo bravo, o meglio bravino. La Marvel vince e tira
fuori una perla da un fumetto complicato come “The Avengers”,
invece la DC è incapace di ridisegnare i propri eroi sulla
pellicola e credo che difficilmente avrà la fortuna di avere
di nuovo un Nolan al timone. Le motivazioni del mio sdegno
sono molteplici. Vediamo cosa accadrà, siamo pronti a vedere
di tutto, o no? Noi i fumetti e i film tratti dai fumetti li
amiamo, nel bene e nel male. Vediamo che succede, GIUDAPORCO!
Emanuele Di Filippo
La horror
storico
comedy:
profilo
Di commedie con un po’ di spavento se ne trovano sin dagli
’20,per esempio in alcune comiche di Buster Keaton come The
haunted house o di Harold Lloyd come Haunted spooks,così come
dai ’30 ai ’70 se ne trovano tante che fanno anche un po’ di
paura,soprattutto nella forma di parodie di veri film
dell’orrore di grande successo ( la serie con Gianni e Pinotto
contro i mostri del cinema classico,Frankenstein Junior di
Brooks) ma anche in storie originali ( quali
Il castello
maledetto di Whale e il successivo Per favore..non mordermi
sul collo di Polanski definito dall’autore
non una parodia dei film di vampiri ma una fiaba). Ma è
soltanto a partire dagli inizi degli anni ’80 che si può
parlare della affermazione della horror comedy intesa come un
nuovo genere autonomo dove la comicità se la batte con
massicce dosi di autentico orrore.
A inaugurare la serie è nel 1981 John Landis con Un lupo
mannaro americano a Londra,film che riprende in
chiave
“antiromantica” il tema della licantropia inaugurato nel 1941
da Waggner con il suo L’uomo lupo e lo fa non già nella forma
di un tradizionale horror comico
bivalente ma in quella
originale di un film “bifronte” dove orrore e umorismo
instaurano un “passo a due” nel pieno rispetto dei rispettivi
statuti semantici. Allo spettatore abituato al salto di
qualità compiuto dal new-horror anni ’70 rispetto a quello
classico il film di paura con momenti divertenti non basta
più,ora egli vuole un vero film dell’orrore che sia anche un
vero film divertente e in questo Landis ha risposto alla sua
attesa con un’opera che innesca sentimenti contastanti ma non
scade mai nel ridicolo. Per Un lupo mannaro americano a Londra
valgono le parole dette da Prawer a proposito del nuovo genere
della horror comedy : “ Siamo qui in presenza dell’arte del
grottesco,in cui gli impulsi alla ripugnanza inorridita
nascono insieme come impulsi al riso;le due cose si inibiscono
a vicenda e il risultato è una risposta caratteristica e
complessa”(1).
Una volta aperta la strada gli schermi saranno invasi da
decine di film orribilmente divertenti come il comico-macabro
Creepshow di George A. Romero, lo splatterstick Re-animator
di Stuart Gordon,il surreale Society di Brian Yuzna,il barocco
mostruoso Splatter-Gli schizzacervelli di Peter Jackson su su
fino all’orgiastico Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino
e allo slasher metafilmico Scream di Wes Craven.Non solo, ma
nell’arco del decennio nuove variazioni del genere si
aggiungono
a quelle esistenti ,tra le quali la commedia sexy-horror tipo
Una strega chiamata Elvira e la commedia macabra per famiglie
come La famiglia Addams,mentre dal canto suo la parodia si
scatena tra orrori naturali e soprannaturali con l’irriverente
farsa Il ritorno dei morti viventi e con i vomiti verdi di
Riposseduta. Negli anni Duemila il genere si afferma con
ottimi risultati anche in Spagna da dove giunge La notte dei
morti dementi di Miguel Lamata e persino in Norvegia dove
Tommy Wirkola gira l’insolito nazi-zombie Dead snow.Intanto il
cinema Usa non si mostra da meno e allinea prima due gioielli
come Benvenuti a Zombieland del giovane Ruben Fleischer e
Ladri di cadaveri- Burke & Hare del veterano John Landis e poi
,infine ,nel 2013 sorprende con la romantica horror comedy di
Jonathan Levine Warm bodies , divertente versione della storia
di Romeo e Giulietta ambientata tra gli zombi.
1) Prawer S.,I figli
Riuniti,Roma,1981,pag.62
del
dottor
Caligari,Editori
Angelo Moscariello
Spring breakers spettatoriali
contro la noia.
Affermare che i migliori film in assoluto delle ultime due
stagioni sono Spring breakers e Killer Joe potrebbe sembrare
una provocazione e invece è soltanto una constatazione
oggettiva motivata dalla qualità media dell’odierna produzione
cinematografica.Parliamo di quella americana,l’unica davvero
contemporanea capace pur sempre di coinvolgerci ancora in modo
non regressivo( tanto con gli assalti in stile action alla
Casa Bianca tipo White House down quanto con la fantascienza
simbolica in chiave di suspence tipo Gravity ),l’unica che
non dimentica mai che il cinema è in primo luogo un grande
spettacolo popolare che deve far passare il “discorso”
attraverso l’intrattenimento intelligente ( e quindi non
parliamo
ovviamente
del
cinema
italiano
ininfluente,irrilevante e vecchio nel suo provincialismo
romanocentrico che non va oltre il famigerato- disgraziato
Gra,un cinema che non sa scuoterci né nelle sue pratiche alte
né in quelle basse come almeno un tempo sapeva fare diviso tra
Antonioni e Pasolini da una parte e Corbucci e Fulci
dall’altra) . Nell’odierno cinema Usa tra tanti discreti
horror e tante godibili commedie post-Apatow
sono stati
soltanto il film
di Korine e quello di Friedkin a
sorprenderci,il primo per come ha saputo rivitalizzare
in
forma
di scorretto e sconcatenato delirio pop
la teen comedy ,il secondo per averci
dato l’equivalente di un romanzo di
Lansdale nella forma di una delle più
strepitose commedie nere mai apparse
sullo schermo ed entrambi perché sono
due film shocker densi e divertenti che
hanno in se la memoria di tutto il
precedente cinema classico e anche
postmoderno. Esclusi
autentici
“spring
questi due
breakers”
spettatoriali, tutto il resto è noia,o
quasi (Kim Ki Duk compreso) e allora due ragazze gioiose ma
anche molto cattive e un killer spietato ma anche molto umano
sono ciò che ci resta nella memoria filmica grazie
all’originale lavoro intertestuale compiuto sui generi dai
rispettivi registi. E
dunque non resta che dar ragione a
Carlo Freccero quando dice che “oggi per capire il cinema ci
vuole un’anima da cinefilo in un corpo da cultore”.
Angelo Moscariello
L’età del muto (1895-1929)
Nel cinema delle origini venivano chiamate “vedute” le scene
di vita quotidiana girate con una sola inquadratura con la
macchina fissa e senza variazione di asse. Si trattava di
riprese della durata di 50 secondi circa effettuate en plein
air in varie località di Parigi con pellicole di 17 metri e
con luce naturale, messe in commercio dai fratelli Lumière
differenziandole dai “quadri” che erano invece brevi scene
girate interamente in interni. Le vedute si estesero ben
presto anche a documentare la vita in paesi lontani e, come
tali, restano ancora oggi un prezioso documento geografico e
antropologico del mondo nel primo quindicennio del ‘900. Per
questa loro funzione, le vedute riscossero lo stesso successo
che nel ‘700 arrise alle analoghe vedute pittoriche di città
europee eseguite da Canaletto e da Bellotto.
La più famosa di queste “vedute in movimento” è quella del
treno che arriva alla stazione della Ciotat, che fu proiettata
il 28 dicembre 1895 al Café des Capucines e che segna la
nascita ufficiale del cinematografo. La posizione diagonale
della cinepresa rispetto al binario produce una profondità di
campo in virtù della quale la locomotiva in arrivo sembra
davvero piombare addosso agli spettatori sconcertati e
impauriti. Il fatto che la prima immagine del cinema
rappresenti un treno non è casuale. Infatti, anche la
pellicola scorre trascinata dai dentini di un rocchetto, anche
essa segue dei binari lungo i quali corre avanti, un
particolare che farà stabilire a Wenders una equazione tra
motion ed emotion.
Da notare che le riprese per le vie parigine delle “vedute”
non erano occultate, ma avvenivano con la consapevolezza dei
passanti, i quali spesso si fermavano a salutare in direzione
dell’obiettivo, tanto che esse possono considerarsi anche come
una “auto-rappresentazione” degli abitanti di Parigi
dell’epoca, i quali poi correvano nei cinema per rivedersi sul
grande schermo.
Louis Lumière girò anche delle brevi scene a soggetto spesso
divertenti basate su trovate o gag di facile comprensione,
come nel caso di L’innaffiatore innaffiato. Non mancavano
momenti di vita familiare, come quello della coppia di
genitori con bebè a tavola intitolato Le repas de bebè, un
idillico quadretto che stupì gli spettatori non tanto per la
presenza del neonato imboccato dal padre, quanto per le foglie
dell’albero agitate dal vento sullo sfondo con un effetto
realistico mai visto prima.
Il
cinematografo
diventa
più
sofisticato
rispetto
al
naturalismo dei Lumière con l’arrivo dei trucchi elaborati da
Georges Méliès. Quest’ultimo si serve delle risorse ottiche
che possono essere utilizzate dal nuovo mezzo per produrre
meraviglia e stupore. Le sue prime opere sono vere
“attrazioni” che consistono in effetti illusionistici basati
su sparizioni e metamorfosi ottenute con procedimenti tecnici
quali le sovrimpressioni, l’arresto della ripresa e lo
spostamento della cinepresa avanti o indietro per alterare le
dimensioni degli oggetti, cosa che si vede, ad esempio, in
L’uomo con la testa di caucciù. Ben presto dai film
consistenti in un solo “quadro”, Méliès passò a realizzare
opere composte di più quadri, articolandole grazie a un
montaggio magari ancora ingenuo, ma senza dubbio efficace.
Questo progresso gli consente di costruire una forma primitiva
di “racconto”, come dimostra l’avventura fantastica narrata in
Il viaggio nella Luna, progenitore storico datato 1902 del
futuro cinema di fantascienza. La rappresentazione è ancora di
impianto teatrale e si basa sui fantasiosi fondali dipinti e
sui numeri derivati dal music-hall ma presenta,comunque,un
arco narrativo compiuto che unifica l’insieme delle scene
“meravigliose”,ciascuna autonoma nel suo svolgimento.
Il dualismo Lumière-Méliès esprime le due anime del cinema,
quella documentaria e quella visionaria. In realtà, bisogna
dire che le due dimensioni del cinema sono sempre intrecciate,
anche se a volte prevale l’una e altre volte l’altra. Se è
vero che-come ha osservato Godard- “Lumière ha scoperto lo
straordinario nell’ordinario, mentre Méliès ha trovato
l’ordinario nello straordinario”, la conclusione è che il
cinema parte sempre dal realismo per giungere all’irrealismo,
e in questo consiste il suo fascino esclusivo.
Angelo Moscariello
Bling ring
La pellicola che ha aperto la sezione “Un certain regard” a
Cannes 2013, porta la firma di Sofia Coppola. La regista
italoamericana dirige la sua quinta opera dal titolo “Bling
ring” partendo da una storia vera.
Un gruppo di teenager di Los Angeles, perversamente attratti
dal jet-set e dal glamour più patinato, penetra nelle
abitazioni private dei divi hollywoodiani per appropriarsi di
abiti e accessori costosi. I furti hanno cadenza quasi
quotidiana e i bottini rappresentano a pieno le estreme
conseguenze del desiderio emulativo perpetuato attraverso
l’appropriazione degli oggetti status symbol delle star.
Avendo svaligiato abitazioni famose per un totale di quasi tre
milioni di dollari, i cinque ragazzini vengono individuati e
fermati dalle autorità.
La Coppola, quasi come caratteristica autoriale, torna a
occuparsi di adolescenza con particolare attenzione al
delicato passaggio all’età adulta. Con pellicole come “Il
giardino delle vergini suicide” o “Somewhere”, la regista
esponeva un qualche punto di vista personale in materia,
questa volta invece tende semplicemente a descrivere le
vicende riportando gli avvenimenti in maniera puntuale, senza
mai interrogarsi sulle cause.
La cosa che sconvolge è il desiderio costante dei giovani
protagonisti di conformarsi al mondo degli adulti, attraverso
quegli oggetti così costosi e inarrivabili per un ragazzino, e
non di ribellarsi ad esso.
Il messaggio evidente che la regista di “Marie Antoinette” ha
voluto lanciare è che ormai gli adolescenti hanno perso tutti
i valori perché l’avere ha surclassato l’essere, quindi
apparire e ostentare sono l’unica via per affermare la propria
personalità.
La visione corre veloce come un servizio televisivo sulla moda
– Sofia Coppa non nega di essersi avvicinata alla vicenda
attraverso un articolo di cronaca di “Vanity fair”- abbandona
i lunghissimi e dilatatissimi tempi di narrazione dei
precedenti film, realizza un film a tratti quasi nevrotico,
che annoia poco e dove il ritmo è incalzante. Abbandonando i
tempi allungati e quasi noiosi la regista accantona anche i
movimenti di macchina e i virtuosismi stilistici, per una
regia di stampo più televisivo.
Dopo la visione del film si rimane quasi basiti difronte a
come argomenti interessanti e importanti a livello sociale
vengano trattati con troppa leggerezza, senza mai soffermarsi
su nulla, addirittura le fasulle dichiarazioni dei teenager
sono solo abbozzate, come se ci sia la voglia e la paura di
chiudere in fretta la narrazione per non annoiare. La
frivolezza dei teenager, della storia e dello stile è ben
sottolineata anche da un tappeto musicale composto da
chiassosa musica “house” ed elettronica, che si sposa bene con
la storia, ma fa pregare che in sala il volume si abbassi.
L’elemento che maggiormente fa giudicare negativamente il film
è la recitazione: la banda di ragazzini, capitanati da Emma
Watson (Hermione della saga di Harry Potter) non è capace di
fare espressioni: le urla, i pianti, le risate sembrano sempre
forzati e mai genuini.
La Coppola si allontana dal suo terreno cinematografico, si
spinge verso nuovi lidi annaspando in un mare di glitter ed
accessori a la page e, priva di qualsiasi appiglio narrativo o
stilistico, non riesce a convincere ed appassionare. Purtroppo
con Bling Ring cade proprio in quella rete che i suoi
detrattori più accaniti le tendono ormai da tempo: il
detestato raffronto con il padre Francis, che quarantuno anni
fa realizzava “Il Padrino” mentre Sofia, all’età di
quarantadue anni, è ancora alla ricerca di un linguaggio
narrativo che risulti tanto convincente da tenerla a galla.
Mood indigo – La schiuma dei
giorni
Un romanzo di culto, un regista di culto, un film così così.
Michel Gondry porta sullo schermo il celeberrimo romanzo di
Boris Vian “La schiuma dei giorni”: Colin (Romain Duris) vive
in una strana casa nel cuore di Parigi, con un minuscolo topo
antropomorfo e con il suo Chef personale, non che assistente,
Nicolas (Omar Sy). Durante una festa Colin conosce Chloè
(Audry Tautou): tra i due nasce la passione che li porterà
dopo sei mesi a sposarsi. Pazzo di gioia, Colin suggerirà a
Chick (Gad Elmalesh), amico fraterno e compagno di “pianococktail”, di sposare la sua ragazza storica Alise e vivere
felice come lui. Colin donerà all’amico un’ingente somma di
denaro per organizzare il matrimonio, ma Chick spenderà tutto
nell’acquisto di opere di Jean Sol Patre, filosofo
esistenzialista, chiara parodia di Jean Paul Sartre. Le nozze
di Chick saranno rimandate, ma parteciperà attivamente allo
sposalizio dell’amico. L’idillio amoroso di Chloè e Colin è
interrotto dalla curiosa malattia della ragazza: una ninfea le
cresce nel petto e l’unico modo per tenere a bada il
progredire di questo strano morbo è quello di coprire
costantemente il corpo della ragazza con fiori freschi. Per
curare la ragazza Colin spenderà tutti i suoi averi e una
volta finiti i soldi farà ogni sorta di lavoro.
Gondry, attraverso svariate tecniche cinematografiche che
vanno dallo stop-motion a semplici sovrimpressioni, costruisce
un universo parallelo e surreale con strane invenzioni,
pazzesche dimore, cibo animato, e oggetti vivi. L’effetto
fiabesco è sicuramente ottenuto e riuscito e a tratti
affascina anche, ma alcune cose, come le gambe che si
allungano a dismisura durante i balli (lo “strusciastruscia”), o le scene del pattinaggio sul ghiaccio, fanno
storcere il naso anche allo spettatore più coinvolto.
La parte più interessante della pellicola è quella che verte
verso il dramma, veramente bella e dolce l’immagine del fiocco
di neve che, ingerito nel sonno da Chloè, le ammala il cuore.
La parabola discendente della salute della ragazza è ben resa
dall’immagine dei fiori, unica salvezza per lei, ma destinati
miseramente ad appassire. La malattia stravolge le vite di
Colin e Chloè, trasforma non solo i loro corpi, ma anche la
loro abitazione che sfiorisce insieme a loro, fino a ridursi
alle dimensioni di un topo, testimone impotente della rovina
economica del suo amico-padrone e della caducità dei corpi.
Lo stile di Gondry in questo film è particolarmente barocco,
troppo ricco visivamente e a volte ridondante, sembra che il
cineasta transalpino si sia chiuso in una ricerca spasmodica e
schizofrenica di immagini oniriche e surreali che soffocano
gli attori tanto quanto gli inermi spettatori. Gondry ha, in
certo senso, perso il modo di narrare fluido e convincente di
film come “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” o di “Be
kind rewind” in favore di un personale surrealismo fatto di
effetti speciali e di immagini curiose.
“Mood indigo” appassiona: è piacevole, struggente, ma forse
troppo carico visivamente, fino a disturbare lo spettatore:
così come la ninfea distrugge l’amore di Colin e Chloe la
ricerca convulsiva dello stile distrugge un film sicuramente
romantico e delicato ma, come l’amore, a volte solo illusorio.
Il futuro racconta il futuro
C’era una volta la fantascienza, quella vera. Quella dei super
computer impazziti che attentano alle vite di astronauti in
rotta verso Giove. Quella dei trekkies e degli Jedi. Quella
degli alieni buoni, che comunicano attraverso luci colorate e
suoni, e di quelli cattivi che escono dalle fottute pareti.
Quella degli androidi che hanno visto cose che voi umani non
potreste neanche immaginare o di quelli venuti dal futuro per
salvare John Connor. Quella dei, citando Ridley Scott, “Bmovie girati con i soldi” ma anche di chi, come mastro
Carpenter insegna, ha quasi sempre dovuto arrabbatarsi con due
lire. Quella di Fritz Lang, che ha inventato il robot prima
che esistesse la parola Robot, o del maestro russoTarkovskij.
Quella dell’eletto e della matrice, che sembrava suggerire una
new wave di genere e che invece è sfociata in due seguiti
decisamente brutti.
Quella, insomma, che noi cinefili senza età, abbiamo imparato
ad amare, che sfruttava l’elemento fantascientifico per
rispondere a domande esistenziali o, più semplicemente, a
porne nuove. Quella che però sembrava sepolta dalle logiche
del marketing, dalla penuria di idee del patinato mondo di
Hollywood, da prequel da sequel e da midquel e da qualsiasi
cosa finisca con -quel, da effetti speciali sempre più
preponderanti rispetto al significato, da robot che si
trasformano diretti da registi mediocri e da invadenti
supereroi.
No, non si tratta della solita rubrica lamentosa dell’ennesimo
nostalgico che ogni tre frasi deve ricordare a tutti quanto si
stesse meglio quando si stava peggio. Qui si parla di giovani
autori, di talentuosi registi nati dopo gli anni 70 del secolo
scorso che solo ora si stanno facendo un nome affacciandosi
alle luci della ribalta. Si tratta di nomi importanti,
impressi sulla carta d’identità di gente che rappresenta il
presente e il futuro del cinema (in questo caso di
fantascienza, quella vera però) e che se ne frega delle mode e
delle tendenze di Hollywood ad omologare ed appiattire. Due
nomi, per incassi e responso della critica, sembrano spiccare
su tutti: Neill Blomkamp e Duncan Jones.
Neill Blomkamp ha tanto talento quanta determinazione, del
resto ce ne vuole a palate per rifiutare la regia del settimo
episodio di Star Wars e del seguito di District 9, il film che
lo ha reso famoso incassando la bellezza di 211 milioni di
dollari dopo esserne costati appena 30.
Vuole concentrarsi sui suoi progetti originali, dice lui, e
infatti durante le interviste della campagna promozionale del
suo ultimo film, Elysium, ha detto di essere già a lavoro
sulla prossima pellicola fantascientifica, che ha già un nome
e una data di uscita: “Chappie”, 27 marzo 2015.
Classe ‘79, sudafricano di Johannesburg, enfant prodige
cresciuto a pane e Blade Runner, il giovane Neill ha visto con
i suoi occhi sia le efferatezze dell’apartheid che il picco di
criminalità che scaturì dal suo smantellamento nel ‘94.
Esasperati dal clima di puro terrore, i genitori decisero di
trasferirsi in Canada: fu la madre di Neill, spaventata dalle
intenzioni del figlio di tornare in patria, a portare a sua
insaputa un video in computer grafica realizzato dal figlio
alla Vancouver Film School che gli valse l’assunzione presso
lo studio Rainmaker Digital Effects.
E’ stato proprio quel cortometraggio, “Alice in Joburg”, a
farlo notare da Peter Jackson che prima ha tentato di fargli
dirigere la trasposizione cinematografica del videogioco Halo
e poi lo ha fatto incontrare con sua moglie, Fran Walsh, per
convincerlo a trasformare quel corto in lungometraggio: nacque
così “District 9”. Il resto è storia nota a tutti: successo
interplanetario di pubblico e critica, che ha inneggiato al
capolavoro, forse prematuramente, trascinata dall’entusiasmo
del momento.
In realtà, il cinema di Blomkamp ha ancora bisogno di
cristallizzarsi in qualcosa di più concreto e meno
discontinuo. I più esigenti direbbero che, sebbene l’idea di
fondo delle sue opere sia sempre suggestiva, il buon Neill non
sappia concludere una storia. E in parte hanno anche ragione,
del resto “District 9” e il recentissimo “Elysium” hanno
esattamente lo stesso difetto: nel secondo tempo una buona
trama di ampio respiro, piena di interessanti sottotesti, si
trasforma in un action appena sufficiente, saturo di
situazioni icongruenti e improbabili deus ex machina.
Ed è un peccato perché i mondi messi in piedi dall’autore
sudafricano sono affascinanti distopie che hanno il sapore
dell’apartheid e della ghettizzazione. Universi sporchi, pieni
di tecnologia “vissuta” e dal background solido. La sua è la
poetica del disperato, di chi non ha più nulla da perdere e,
spinto da intenti egoistici, finisce per fare il bene di
molti. La presa di coscienza dei protagonisti non è mai
completa e definitiva, piuttosto lascia spazio ad ambiguità e
chiaroscuri che rendono i personaggi vivi e tridimensionali.
Forse il finale di “Elysium” è troppo conciliante, agli
antipodi rispetto al cinismo messo in mostra nelle battute
conclusive della precedente opera, ed è per questo che molti
hanno parlato di passo indietro rispetto a “District 9”;
tuttavia sorprende come Blomkamp nonostante la giovane età
abbia già un’idea di cinema così precisa e forte e questo è
più importante di tutti i difetti che deve ancora correggere.
Il cineasta sudaafricano dichiara sulla nuova fantascienza di
Hollywood: “C’è solo merdaccia che esplode e navi spaziali e
cose del genere” e continua sornione e divertito: “i miei film
non hanno un messaggio”, ma è la saggia ironia (o la falsa
modestia) di chi sa che quando l’allegoria è forte ed efficace
non ha bisogno di nessuna autocelebrazione.
Radicalmente diverso è Duncan Jones: lui è uno che ama il
bianco asettico, che cita Stanley Kubrick e dimostra di aver
imparato la lezione dei maestri del passato. Un tipo più
raffinato del suo collega sudafricano, meno grounded (“terra
terra” se siete allergici agli inglesismi), che preferisce
temi alti e domande sulla condizione umana, senza comunque
disdegnare lo strumento della metafora.
Sarà che, se hai un
genio in famiglia, l’amore per la cultura e l’arte ti viene
inculcato, come se impresso nel tuo DNA: è probabile che
mentre il piccolo Duncan consumava a furia di visioni la
videocassetta di “2001: Odissea nello spazio”, nella stanza
accanto il paparino strimpellava “Space Oddity” o “Life on
Mars”. Eh si, perché il papà del piccolo Duncan è David Robert
Jones, in arte David Bowie.
Il suo film d’esordio è “Moon” che, senza usare la dovuta
cautela quando si parla di esordienti, è un capolavoro
assoluto.
Girato con 5 milioni di dollari (ne ha incassati 10 in tutto
il mondo), l’opera prima dell’autore britannico si nutre
dell’ottima prestazione di Sam Rockwell, unico protagonista
insieme al computer GERTY – un’intelligenza artificiale di
kubrickiana memoria doppiata da Kevin Spacey – che si muove
allucinato e disorientato nel freddo e impersonale ambiente di
una stazione sulla superficie lunare.
Di primo acchito
potrebbe sembrare un’opera derivativa e poco originale, come
del resto – perdonate il paragone fuori contesto – una
pellicola qualsiasi di Tarantino; ma proprio come nel caso del
regista di Pulp Fiction, l’occhio più smaliziato noterà come
gli elementi saccheggiati dalle opere originali collimano in
uno stile personale e riconoscibile persino in un lavoro “su
commissione” quale è il successivo “Source Code”: il
claustrofobico isolamento in uno scenario alieno, il gioco di
cloni e realtà parallele, la diffidenza nei confronti di una
tecnologia usata quasi sempre in una maniera malvagia e
contorta.
Ma, più importanti di tutto il resto, sono due le idee che
sembrano caratterizzare al meglio l’impronta di Jones. In
primis, un’etica del sacrificio distorta e malsana: i
protagonisti dei suoi film sono eroi controvoglia, costretti
da entità superiori e intangibili in un loop senza fine a
ripetere azioni logoranti e a mettere a repentaglio la propria
vita per un “bene di molti” di cui non hanno la minima
percezione.
In secondo luogo, il buon Duncan ha fatto sua la lezione
formale di Sir Alfred Hitchcock.
Avete familiarità con la regola della bomba? Si tratta di
filmare la sequenza di un’esplosione in un tranquillo bar dove
i protagonisti stanno prendendo il thè delle cinque. Mostrare
la deflagrazione senza rivelare l’esistenza dell’ordigno
genera uno shock improvviso quanto breve, mentre invece
rendere lo spettatore consapevole dell’imminente disastro e
filmare i personaggi ignari di tutto ciò costruisce una
tensione più duratura ed efficace. Sia Moon che Source Code
hanno uno sconvolgente colpo di scena, di solito verso la fine
del primo tempo, ma non dipendono da esso, sopravvivono e,
anzi, migliorano ad ogni visione rivelando ogni volta
sfaccettature inedite e dettagli fino ad allora ignorati.
Quel che più impressiona di Jones è proprio questa
consapevolezza narrativa. Il suo è un cinema pulito, senza
sbavature o elementi superflui, snello e concreto; è il
cavallo vincente su cui puntare per il futuro del genere.
Peccato che attualmente si sia orientato verso altri lidi: il
nostro è stato assunto dalla Blizzard per la trasposizione del
celebre videogioco World of Warcraft. Peccato, speriamo che
presto torni ad occuparsi di quello che sembra il suo genere
più congeniale.
Alessandro Di Romolo
“Viva la Vida”: Frida Kahlo
Le proiezioni di genere biografico, in particolare quelli che
raccontano gli artisti, fanno sempre tremare lo spettatore
critico e appassionato prima ancora di dedicarsi alla visione
della pellicola: questo perché l’artista e la sua opera o si
amano o si odiano e ci si aspetta dal film proprio l’intimità
poetica del processo di creazione dell’opera che porta il
fruitore all’ammirazione o alla negazione di esso.
Da qui molti film diventano “piccoli” di fronte alla
“grandezza” del personaggio invece altri ripropongono quasi
pienamente l’enfasi straordinaria trasmessa dalle opere
stesse.
Di quest’ultima categoria fa parte il film della regista
statunitense Julie Taymor, dedicato alla pittrice messicana
Frida Kahlo. La pellicola del 2002 è l’adattamento
cinematografico del libro “Frida: A Biography of Frida Kahlo”
di Hayden Herrera.
Il film ripercorre dettagliatamente l’esistenza passionale e
sofferente della pittrice e insieme l’ascesa artistica:
l’incidente che le sconvolse la vita a diciotto anni, l’amore
passionale e sofferente con Diego Rivera (pittore e muralista
messicano) e la militanza politica. Temi dai quali la sua
opera nasce, si sviluppa e si esalta verso una visione reale,
ma non terrena, piuttosto surreale e intima, che Frida vive e
percepisce lungo tutta la sua vita.
Dedicando particolare attenzione ai risvolti privati di Frida,
il film è un ottimo strumento di comprensione intima di come i
suoi dipinti diventano una sorta di vita parallela che la
affianca in ogni momento: sono profondamente dolorosi,
sofferenti e tristi ma contemporaneamente vivi, popolari,
folcloristici,
colorati
e
bizzarri,
straordinariamente moderni e attuali.
ma
anche
La tecnica cinematografica, attraverso la fotografia,
soprattutto con le tonalità di colore, e la musica, risulta
impregnata della personalità di Frida Kahlo: i rossi sono
spesso presenti nelle sue opere, come nel film, che vira in
alcuni casi verso i blu e i verdi, caratteristici della casa
paterna dell’artista. I tipici costumi messicani e le
pittoresche tradizioni popolari vengono incluse dalla Taymor
nel film così come Frida le rappresentava sovente nei quadri,
dimostrando la fierezza culturale dello spirito indigeno e dei
peones.
Il film risulta un percorso profondo ed intenso di due ore che
sicuramente dà allo spettatore quasi le stesse emozioni che
susciterebbe la visione delle pitture: la Kahlo è la
protagonista del film e delle sue tele, prevalentemente
autoritratti, visioni di un’altra Se, proiezioni di attimi e
situazioni vissuti, quasi dettati da una coscienza automatica
che la guida a metabolizzare la vita.
S’instaura così una piacevole corrispondenza tra la reale
produzione della Kalho e “Frida” di J. Taymor.
Sono presenti anche le vicende che accompagnano la
protagonista verso nuovi slanci artistici come l’arrivo di
Frida in Europa, a Parigi, dove entra in contatto con il mondo
intellettuale del periodo rimanendone colpita solo per il
carattere decadente e in America, nei lunghi periodi che vi
trascorre per stare al fianco di Rivera, impegnato nella sua
ascesa artistica.
Fuori dal Messico Frida entra in contatto con
ma non abbraccia questa corrente infatti
rimarranno sempre originali e uniche. Il suo, è
autodidatta che nasce con le sue prime opere
il surrealismo
le sue opere
un surrealismo
e si sviluppa
prendendo spunto dalle sue esperienze di vita. Unico
riferimento e forse omaggio al genio “daliliano” lo si
riscontra nella trasposizione surreale e visionaria dell’opera
“What the water gave me” con immagini di paura e dolore che
galleggiano nell’acqua di una vasca da bagno, emblematico come
il processo di creazione del dipinto viene descritto nella
pellicola.
Il film è infine portavoce della natura culturale messicana
viva in Frida, fiera della tradizione del suo paese, attiva
nella lotta della rivoluzione messicana che rivive in tutta la
pellicola attraverso gli amici e colleghi Compañeros,
irrefrenabili militanti di una lotta giusta contro la
dittatura.
La visione è sempre appassionata e incita alla vita, proprio
quello che Frida voleva dalle sue opere, sempre gioiose e
colorate dalla vitalità spiazzante negli amori e nelle gioie,
ma contemporaneamente crude nel raccontare l’amarezza della
sua esistenza; il tutto è divinamente interpretato nella
pellicola da una Salma Hayek coinvolta e coinvolgente, anche
autrice di alcuni dipinti presenti nel film.
Chi tra gli spettatori, dopo la visione, sentirà il desiderio
di conoscere più a fondo questa magica pittrice avrà modo di
entrare in contatto con le sue opere in una personale a lei
dedicata che si terrà a Roma, alle Scuderie del Quirinale,
nella primavera 2014. Un appuntamento esclusivo per vedere le
opere provenienti dalle più importanti collezioni d’arte
internazionali, piene del vitalismo estetico e culturale
ribadito in tutto il suo lavoro. Un “Viva la Vida” costante,
come quello che impresse nella sua ultima e rossa opera,
dipinta prima di morire nel 1954, dove lei non è più
protagonista e lascia spazio a frutti succosi quasi emblema
della pienezza del suo trascorso.
VALENTINA TERRIBILE