Non si sevizia un paperino,Il segreto dei suoi
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Non si sevizia un paperino,Il segreto dei suoi
Non si sevizia un paperino Era il 1972 e, Lucio Fulci aveva alle spalle una carriera decennale, però ancora non aveva dimostrato il suo talento visionario. Con il giallo “Non si sevizia una paperino” si scrolla di dosso le parodie come “002 agenti segretissimi” (con Franco e Ciccio) e i musicarelli tipo “I ragazzi del Jukebox” e intraprende i primi passi verso il mondo dell’horror che lo consacrerà come uno dei registi più eclettici e truculenti del genere. Ad Accendura, un anacronistico e immaginario paesino del meridione, agisce un serial killer di bambini. Dopo la prima vittima, viene incolpato lo scemo del villaggio, seguiranno altre due vittime e di conseguenza, il primo sospettato verrà scagionato. Gli abitanti del borgo esigono un colpevole. I sospetti si concentreranno sulla “maciara” (Florinda Bolkan), una sorta di fattucchiera-voodoo. Mentre i carabinieri si renderanno conto che è innocente, i contadini bigotti, spinti dall’ignoranza e da un’assurda sete di giustizia, la uccideranno a bastonate, senza pietà. Proseguiranno le indagini e questa volta a essere accusata è l’avvenente Patrizia (Barbara Bouchet), ragazza ricca e viziata, figlia di un abitante del paese che “ha fatto fortuna al nord”. Con l’aiuto del giornalista Andrea Martelli (Thomas Milian), la ragazza riuscirà a far decadere le accuse su di lei e a fare chiarezza sulla torbida vicenda. Nel borgo di Sant’Angelo in Puglia, Fulci tesse, in maniera quasi perfetta, la tela di questo spietato giallo a forti tinte horror e ultragore. Il regista romano si scatena esagerando in crudeltà e in politicamente scorretto soffermandosi spesso e volentieri sullo sguardo di chi subisce violenza: emblematica e raccapricciante la scena del pestaggio alla maciara in cui ogni bastonata, ogni colpo di catena, tutte le ferite e tutti gli schizzi di sangue sono mostrati con dovizia di particolari e anche ad uno stomaco avvezzo a simili scene risulta di difficile digestione, in netto contrasto in questa scena le note di “quei giorni insieme” di Ornella Vanoni che accompagnano il tutto. Altra scena clou per violenza splatter è quella finale, dove l’assassino precipita dalla montagna e il corpo, specialmente la testa, viene squartato da spuntoni di rocce e quant’altro, addirittura ci sono improbabili scintille che fuoriescono dal contatto tra il cranio e le pietre. La trama ruota attorno alle credenze popolari, alla magia nera, e all’ignoranza della gente in netta antitesi con il mondo delle grandi città rappresentato dal lungo cavalcavia dell’autostrada sul quale sfrecciano le automobili e che sta distante, ma appiccicato al paese. Oltre al giallo e alle scene splatter, abbiamo un’attenta analisi antropologica della gente che abita i piccoli paesi, così radicati nel territorio da avere paura dell’estraneo e di tutto ciò, come la maciara, che rompe la routine provocando piccoli cambiamenti. La netta separazione che c’è tra la campagna e la città è rappresentata anche dalle due protagoniste: Barbara Bouchet, che si mostra nuda davanti a bambini, rappresenta il fascino e l’eccesso borghese e quindi l’inarrivabilità per i contadini, il proibito; il personaggio di Florinda Bolkan è l’emblema delle tradizioni e del mondo rurale, ma al tempo stesso si trova a subire quello stesso mondo che ha deciso, senza motivo concreto, di emarginarla. Il thriller di Fulci è, nonostante quasi tutte le scene siano all’aperto, molto claustrofobico, si discosta veramente di poco dal condominio di “quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda, il paese in qualche modo è una prigione opprimente che fagocita i propri figli e non li fa evolvere. La pellicola fu censura in maniera pesante, Fulci ebbe guai a causa della scena in cui Barbara Bouchet nuda adesca un bambino, molte inquadrature furono tolte perché ritenute troppo eccessive e violente, anche gli effetti speciali di Rambladi (il papà di E.T.) esageratamente realistici. subirono modifiche perché I fan più sfegatati di Fulci considerano il film come il capolavoro del maestro romano, e forse è così, comunque è oggettivamente un ottimo thriller: suspense e particolari orripilanti catturano lo spettatore e lo fanno entrare in un mondo che poi non è tanto distante dalla triste realtà della cronaca. Il segreto dei suoi occhi Crimine, amore e mistero. Alla sapiente fusione di questi tre elementi si deve la riuscita di Il segreto dei suoi occhi, firmato dal regista argentino Juan José Campanella e vincitore di un Oscar come miglior film straniero. Dentro una cornice da legal thriller dall’impianto tradizionale la storia si arricchisce di tonalità da noir esistenziale e di aperture romantiche rese con la giusta distanza grazie ad uno sguardo ironico che sa raffreddare la sostanza drammatica della narrazione. Nella sua vita trascorsa il commissario in pensione Esposito ha mancato due grandi occasioni, una riguardante la sua dimensione professionale, l’altra quella privata. Venticinque anni prima, infatti, all’epoca della dittatura dei militari in Argentina, egli si è lasciato sfuggire il sadico autore dell’uccisione di una giovane donna, da lui rintracciato dopo una ingegnosa ricerca ma rimesso in libertà dagli scherani dei colonnelli. Inoltre, non ha saputo dichiarare il suo amore alla bella procuratrice Irene, alle cui dipendenze egli lavorava diviso tra gli obblighi della gerarchia e il sogno di una impossibile relazione sentimentale. Ma adesso, dopo tanti anni, Esposito decide di scrivere un romanzo sull’atroce delitto con la speranza di poterne chiudere i punti irrisolti guidato da una saggezza che non poteva avere da giovane e impulsivo funzionario. Le memorie del passato lo aiutano a mettere ordine nel presente e a scoprire che l’omicida dato per morto vive tuttora tenuto prigioniero del marito della defunta e che l’irraggiungibile Irene, ormai divorziata, non aspetta altro che egli le dichiari il suo amore. L’incastro dei piani temporali è eseguito con una perizia che ricorda quella mostrata da Losey in Messaggero d’amore e rende inavvertibili gli slittamenti cronologici con il risultato di consentire alla narrazione di procedere compatta e lineare nonostante la continua dialettica tra presente e passato che connota l’intero film. Il personaggio di Esposito è uno di quei “lucidi folli” di cui è ricca la letteratura argentina, un uomo oscillante tra disillusione e impeto vitale (“Non si può vivere una vita vuota”, ripete spesso all’Irene ritrovata), un malinconico resistente dinanzi al clima di corruzione del paese e alla vigliaccheria dei colleghi d’ufficio. La sua passione per la ricerca della verità è un sentimento totalizzante che si incrocia con un’altra passione meno nobile ma altrettanto assoluta, quella calcistica nutrita dall’omicida, in un serrato pedinamento che conduce all’arresto dello sconosciuto introvabile in una sequenza dall’impatto shocker (la carrellata aerea sullo stadio di Buenos Aires che piomba sui giocatori e devia sulle gradinate gremite e sui corridoi sottostanti fino a cogliere il giovane braccato) Oltre al tema dell’amore perduto e poi ritrovato per Irene, il regista tratta con grande sensibilità pure il motivo dell’amicizia virile che lega Esposito al suo aiutante Pablo, un ubriacone assai perspicace grazie al cui contributo riesce a risolvere il caso (ma non a impedirne l’uccisione da parte dei sicari del regime). Anche questo secondo (o terzo) filo narrativo è condotto con mano sicura da Campanella e dallo sceneggiatore Eduardo Sacheri ( autore del romanzo La pregunta de sus ojos da cui il film è tratto) e si inserisce senza forzature nel contesto della vicenda che scorre avvolgente e avvincente fino all’atteso ma sempre rinviato bel finale. Quanto al titolo Il segreto dei suoi occhi, esso ha una pregnanza che corrisponde alla complessa sostanza narrativa, visto che gli occhi di cui parla possono essere sia quelli dell’omicida ritratto in una vecchia foto mentre fissa adorante la futura vittima sia quelli di Irene che attende da Esposito le parole che lui tarda troppo a dirle. In questa ambiguità sta forse il merito maggiore del film, quello di ricordarci la verità che i film, tutti i film, in fondo altro non sono che “staffette di sguardi” carichi di significati inespressi. Angelo Moscariello Man of Steel – L’uomo d’acciaio o meglio di latta Ve lo dico subito, prima ancora di ricamarci sopra. A me “Man Of Steel” non è piaciuto. Così mi sono tolto il dente dolorante e finalmente rispondo a tutti coloro che me lo hanno osannato come capolavoro tra i cine-comic. Ragazzi vi voglio bene, ma questo è un brutto film. C’era un tempo in cui i lavori di Zack Snyder erano belle pellicole, di quelle che restano gustose anche alla terza o quarta visione, cavolo, il ricordo dello zombie che partoriva ne “L’Alba dei Morti Viventi” me lo porterò nella tomba! L’avanzare degli spartani guidati da Leonida in “300” è qualcosa che rimane impresso anche dopo anni. E che dire di “Watchmen”? Sto parlando del film meno capito della storia dei cine-comic. Una verità su quel film è che il pubblico e i fan in primis non hanno capito la possenza di tale adattamento, mi dispiace dirlo. Non hanno capito che non poteva esser fatto altrimenti. Ci sono scene di un impatto visivo davvero mostruoso, ma magari ne parleremo altrove o in seguito… In ogni caso ci sarà sicuramente un motivo se Terry Gilliam a suo tempo dichiarò che “Watchmen” era infilmabile, ma se la mia labile memoria non m’inganna, parlavamo di “Man of Steel – L’Uomo d’Acciaio”. Bene, si, dunque, accidenti… dannazione a Zack Snyder e ai tempi in cui i suoi film erano belli! Un giorno arrivò “Sucker Punch” e tutto cambiò. Era una certezza che in sala mi sarei divertito, invece mi scontrai con una dura realtà: ho una tolleranza abbastanza comprovata e rassicurante nei confronti dell’action e dell’inutile eppure stavo assistendo a uno dei film più noiosi e parassiti di sempre. Cazzo (io non dico mai ‘Cavolo’, mi sembrava corretto chiarire) fatta eccezione per i nazi-zombie rianimati a vapore, idea a mio avviso veramente superlativa, quel film era ed è il nulla portato su schermo. Non mi capacitavo di ciò che stava succedendo. Snyder aveva toppato, e non potevo difenderlo in nessun modo. Mi aveva messo in difficoltà, però c’era “Man of Steel” con cui potevo rifarmi. Non poteva fallire di nuovo. Non doveva. E poi il trailer era talmente intimista che non si poteva non essere fiduciosi (quando imparerò che i trailer sono tutti fighi e c’è chi li fa per lavoro, proprio per far sembrare tutti i film fighi?!?). Vado al cinema. Mi siedo in sala. “Man of Steel”, cazzo! Il trailer era fighissimo, sarà un filmone! Dopo due ore Elena, la mia ragazza, critica cinematografica spontanea da non sottovalutare, mi guarda. Io la guardo. Lei sa bene quanto rispetto Zack Snyder e David Goyer (oddio, Goyer un pò meno dopo “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”, che ha dato inizio alla sua decadenza come sceneggiatore… Diavolo, hai ideato una perla televisiva come “Flashforward” e poi mi tiri fuori una conclusione per l’uomo pipistrello così farlocca? Mah… Anche di questo parleremo, se ci sarà occasione…). Insomma, lei mi guarda. Poi, da intelligente qual è, si addormenta. Io resisto. Resisto a tutto quell’action forzato e sfrenato. Una palla interminabile di voli, cazzotti ed esplosioni. Una tristezza infinita di azione a tutti i costi. Ok, tecnicamente impeccabile, ma pur sempre sfiancante e senza senso, ma arriviamoci con calma… Un’altra cosa che non vi ho detto è che io spoilero, quindi fermatevi qui se il film non l’avete visto. Occhio contiene spoiler, si scrive così no? SPOILER! Partiamo dall’inizio… Il padre di Superman (lo so che si chiama Kal-El, ma era per farvi capire…) Jor-El, interpretato da un Russell Crowe che recita al minimo sindacale, ha un diverbio con i saggi e con il villain Generale Zod. Casino. Il buon Russel cavalca anche una non precisata creatura aliena, come se la fauna locale fosse l’unico tratto distintivo di Krypton, salva suo figlio, pianeta distrutto, madre disperata ecc, ecc… Bene, ora tocca a Superman/Clark Kent, aka Henry Cavill. E’ un vagabondo, un pescatore barbuto, uno che ogni tanto salva la gente. Perfetto! Ci Piace l’alieno in mezzo a noi che ci ama e tenta di salvarci o arrivare dove può, anche se non lo apprezziamo o non sappiamo che esiste, fico! Poi… Eh?… Poi… L’umanità sarà pronta ad accettare questo alieno Superdotato? Un punto a favore va a Kevin Costner, a lui sono affidate le “bravate” giovanili del nostro supereroe; come attore è sempre ispirato e a Russell Crowe, come si suol dire, lascia le scorze. Peccato che l’uomo che ballava coi lupi muoia per salvare un cane da un dito di dio di tornado e che tutto si perda in un bicchier d’acqua. Tutto ciò rende bene l’idea di quanto sia inadeguato Clark, nonostante le sue potenzialità e la sua voglia di emergere e di salvare il mondo e chi gli sta vicino… Salvare il mondo… Poi Superman si ritrova, ritrova se stesso, ritrova la coscienza di sè nell’astronave, ritrova il padre ridotto a un ologramma attraverso una chiavetta USB a dir poco imbarazzante, ma anch’essa ritrovata e alla fine si ritrova addirittura braccato dal Generale Zod -un bravissimo Michael Shannon- così parte un’infinita battaglia che riesce a stremare anche il più disposto degli spettatori. Nel frattempo è stata presentata anche una “grezza” Lois Lane, ma, è il caso di dirlo, è uno di quei personaggi la cui presenza non fa la minima differenza, serve talmente a poco… Ah già, Lois “battezza” Superman, ma stìcazzi! Che noia! Certo, mi è piaciuta molto la fisicità di questo Uomo d’Acciaio: quando sullo schermo ci si mena a mani nude, personalmente non posso resistere. Io adoro il contatto fisico e in “Men of Steel” arriva dopo un volo liberatorio di Superman che fa davvero ben sperare, ma raramente guardo l’orologio prima di uscire dalla sala e dopo la decima o quindicesima esplosione, dannazione, boom cazzo, ero davvero stanco, eppure sono uno sfegatato fan di “Die Hard”, dannazione due! Stanco… Stanco… Noia… Cazzotto… Azz! Dopo il cazzotto la scivolata a terra che segna l’asfalto, fico… Noia… Sonno… Tristezza… Arriva il finale, non ci credo, una liberazione! E poi Superman spezza il collo del Generale Zod perchè stava per uccidere tre o quattro sfigati alla stazione e si dispera. Combattuto a causa del suo animo buono è costretto alla nefandezza dell’omicidio. <<Che c’è di male?>> direte voi <<il Superman intimista tipo Batman di Nolan funziona alla grande!>> Yeah! Tutti felici… Ma vi siete resi conto che Zod stava praticamente terraformando l’America e che saranno morte solo durante il loro interminabile scontro, migliaia e migliaia di persone delle quali a Superman non è fregato un beneamato cazzo? No? Beh, riguardate il film. Oppure risparmiate tempo e non fatelo, guardate altro. La verità è che “Man of Steeel” è un brutto film. Il finale è una strizzata d’occhio per convincere ad andare a vedere il seguito che mio malgrado farò (se non altro per vedere il povero Ben Affleck nei panni di Bruce Wayne). E Clark Kent? L’impacciato Clark Kent? Il fottuto Daily Planet? E il kryptoniano di “Superman Returns” insieme alla nostalgia e la passione di Singer (autore di un degnissimo omaggio a Richard Donner)? Che finaccia hanno fatto? Dov’è il film che mi avevano promesso nel trailer? Fanculo… In questi giorni io ed Elena guardiamo “Lois & Clark – Le nuove avventure di Superman”. Ok è uno stupido serial, ma ci fa sorridere e Lois Lane è davvero azzeccata. Sapete una cosa? Ci soddisfa come “Man of Steel” non ha saputo fare! Questo è un peccato perchè Snyder ha diretto “Watchman” e “l’Alba dei Morti Viventi”, perchè personalmente stimo Snyder e spero che si riprenda, perchè Goyer era uno sceneggiatore degnissimo e ora è solo bravo, o meglio bravino. La Marvel vince e tira fuori una perla da un fumetto complicato come “The Avengers”, invece la DC è incapace di ridisegnare i propri eroi sulla pellicola e credo che difficilmente avrà la fortuna di avere di nuovo un Nolan al timone. Le motivazioni del mio sdegno sono molteplici. Vediamo cosa accadrà, siamo pronti a vedere di tutto, o no? Noi i fumetti e i film tratti dai fumetti li amiamo, nel bene e nel male. Vediamo che succede, GIUDAPORCO! Emanuele Di Filippo La horror storico comedy: profilo Di commedie con un po’ di spavento se ne trovano sin dagli ’20,per esempio in alcune comiche di Buster Keaton come The haunted house o di Harold Lloyd come Haunted spooks,così come dai ’30 ai ’70 se ne trovano tante che fanno anche un po’ di paura,soprattutto nella forma di parodie di veri film dell’orrore di grande successo ( la serie con Gianni e Pinotto contro i mostri del cinema classico,Frankenstein Junior di Brooks) ma anche in storie originali ( quali Il castello maledetto di Whale e il successivo Per favore..non mordermi sul collo di Polanski definito dall’autore non una parodia dei film di vampiri ma una fiaba). Ma è soltanto a partire dagli inizi degli anni ’80 che si può parlare della affermazione della horror comedy intesa come un nuovo genere autonomo dove la comicità se la batte con massicce dosi di autentico orrore. A inaugurare la serie è nel 1981 John Landis con Un lupo mannaro americano a Londra,film che riprende in chiave “antiromantica” il tema della licantropia inaugurato nel 1941 da Waggner con il suo L’uomo lupo e lo fa non già nella forma di un tradizionale horror comico bivalente ma in quella originale di un film “bifronte” dove orrore e umorismo instaurano un “passo a due” nel pieno rispetto dei rispettivi statuti semantici. Allo spettatore abituato al salto di qualità compiuto dal new-horror anni ’70 rispetto a quello classico il film di paura con momenti divertenti non basta più,ora egli vuole un vero film dell’orrore che sia anche un vero film divertente e in questo Landis ha risposto alla sua attesa con un’opera che innesca sentimenti contastanti ma non scade mai nel ridicolo. Per Un lupo mannaro americano a Londra valgono le parole dette da Prawer a proposito del nuovo genere della horror comedy : “ Siamo qui in presenza dell’arte del grottesco,in cui gli impulsi alla ripugnanza inorridita nascono insieme come impulsi al riso;le due cose si inibiscono a vicenda e il risultato è una risposta caratteristica e complessa”(1). Una volta aperta la strada gli schermi saranno invasi da decine di film orribilmente divertenti come il comico-macabro Creepshow di George A. Romero, lo splatterstick Re-animator di Stuart Gordon,il surreale Society di Brian Yuzna,il barocco mostruoso Splatter-Gli schizzacervelli di Peter Jackson su su fino all’orgiastico Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino e allo slasher metafilmico Scream di Wes Craven.Non solo, ma nell’arco del decennio nuove variazioni del genere si aggiungono a quelle esistenti ,tra le quali la commedia sexy-horror tipo Una strega chiamata Elvira e la commedia macabra per famiglie come La famiglia Addams,mentre dal canto suo la parodia si scatena tra orrori naturali e soprannaturali con l’irriverente farsa Il ritorno dei morti viventi e con i vomiti verdi di Riposseduta. Negli anni Duemila il genere si afferma con ottimi risultati anche in Spagna da dove giunge La notte dei morti dementi di Miguel Lamata e persino in Norvegia dove Tommy Wirkola gira l’insolito nazi-zombie Dead snow.Intanto il cinema Usa non si mostra da meno e allinea prima due gioielli come Benvenuti a Zombieland del giovane Ruben Fleischer e Ladri di cadaveri- Burke & Hare del veterano John Landis e poi ,infine ,nel 2013 sorprende con la romantica horror comedy di Jonathan Levine Warm bodies , divertente versione della storia di Romeo e Giulietta ambientata tra gli zombi. 1) Prawer S.,I figli Riuniti,Roma,1981,pag.62 del dottor Caligari,Editori Angelo Moscariello Spring breakers spettatoriali contro la noia. Affermare che i migliori film in assoluto delle ultime due stagioni sono Spring breakers e Killer Joe potrebbe sembrare una provocazione e invece è soltanto una constatazione oggettiva motivata dalla qualità media dell’odierna produzione cinematografica.Parliamo di quella americana,l’unica davvero contemporanea capace pur sempre di coinvolgerci ancora in modo non regressivo( tanto con gli assalti in stile action alla Casa Bianca tipo White House down quanto con la fantascienza simbolica in chiave di suspence tipo Gravity ),l’unica che non dimentica mai che il cinema è in primo luogo un grande spettacolo popolare che deve far passare il “discorso” attraverso l’intrattenimento intelligente ( e quindi non parliamo ovviamente del cinema italiano ininfluente,irrilevante e vecchio nel suo provincialismo romanocentrico che non va oltre il famigerato- disgraziato Gra,un cinema che non sa scuoterci né nelle sue pratiche alte né in quelle basse come almeno un tempo sapeva fare diviso tra Antonioni e Pasolini da una parte e Corbucci e Fulci dall’altra) . Nell’odierno cinema Usa tra tanti discreti horror e tante godibili commedie post-Apatow sono stati soltanto il film di Korine e quello di Friedkin a sorprenderci,il primo per come ha saputo rivitalizzare in forma di scorretto e sconcatenato delirio pop la teen comedy ,il secondo per averci dato l’equivalente di un romanzo di Lansdale nella forma di una delle più strepitose commedie nere mai apparse sullo schermo ed entrambi perché sono due film shocker densi e divertenti che hanno in se la memoria di tutto il precedente cinema classico e anche postmoderno. Esclusi autentici “spring questi due breakers” spettatoriali, tutto il resto è noia,o quasi (Kim Ki Duk compreso) e allora due ragazze gioiose ma anche molto cattive e un killer spietato ma anche molto umano sono ciò che ci resta nella memoria filmica grazie all’originale lavoro intertestuale compiuto sui generi dai rispettivi registi. E dunque non resta che dar ragione a Carlo Freccero quando dice che “oggi per capire il cinema ci vuole un’anima da cinefilo in un corpo da cultore”. Angelo Moscariello L’età del muto (1895-1929) Nel cinema delle origini venivano chiamate “vedute” le scene di vita quotidiana girate con una sola inquadratura con la macchina fissa e senza variazione di asse. Si trattava di riprese della durata di 50 secondi circa effettuate en plein air in varie località di Parigi con pellicole di 17 metri e con luce naturale, messe in commercio dai fratelli Lumière differenziandole dai “quadri” che erano invece brevi scene girate interamente in interni. Le vedute si estesero ben presto anche a documentare la vita in paesi lontani e, come tali, restano ancora oggi un prezioso documento geografico e antropologico del mondo nel primo quindicennio del ‘900. Per questa loro funzione, le vedute riscossero lo stesso successo che nel ‘700 arrise alle analoghe vedute pittoriche di città europee eseguite da Canaletto e da Bellotto. La più famosa di queste “vedute in movimento” è quella del treno che arriva alla stazione della Ciotat, che fu proiettata il 28 dicembre 1895 al Café des Capucines e che segna la nascita ufficiale del cinematografo. La posizione diagonale della cinepresa rispetto al binario produce una profondità di campo in virtù della quale la locomotiva in arrivo sembra davvero piombare addosso agli spettatori sconcertati e impauriti. Il fatto che la prima immagine del cinema rappresenti un treno non è casuale. Infatti, anche la pellicola scorre trascinata dai dentini di un rocchetto, anche essa segue dei binari lungo i quali corre avanti, un particolare che farà stabilire a Wenders una equazione tra motion ed emotion. Da notare che le riprese per le vie parigine delle “vedute” non erano occultate, ma avvenivano con la consapevolezza dei passanti, i quali spesso si fermavano a salutare in direzione dell’obiettivo, tanto che esse possono considerarsi anche come una “auto-rappresentazione” degli abitanti di Parigi dell’epoca, i quali poi correvano nei cinema per rivedersi sul grande schermo. Louis Lumière girò anche delle brevi scene a soggetto spesso divertenti basate su trovate o gag di facile comprensione, come nel caso di L’innaffiatore innaffiato. Non mancavano momenti di vita familiare, come quello della coppia di genitori con bebè a tavola intitolato Le repas de bebè, un idillico quadretto che stupì gli spettatori non tanto per la presenza del neonato imboccato dal padre, quanto per le foglie dell’albero agitate dal vento sullo sfondo con un effetto realistico mai visto prima. Il cinematografo diventa più sofisticato rispetto al naturalismo dei Lumière con l’arrivo dei trucchi elaborati da Georges Méliès. Quest’ultimo si serve delle risorse ottiche che possono essere utilizzate dal nuovo mezzo per produrre meraviglia e stupore. Le sue prime opere sono vere “attrazioni” che consistono in effetti illusionistici basati su sparizioni e metamorfosi ottenute con procedimenti tecnici quali le sovrimpressioni, l’arresto della ripresa e lo spostamento della cinepresa avanti o indietro per alterare le dimensioni degli oggetti, cosa che si vede, ad esempio, in L’uomo con la testa di caucciù. Ben presto dai film consistenti in un solo “quadro”, Méliès passò a realizzare opere composte di più quadri, articolandole grazie a un montaggio magari ancora ingenuo, ma senza dubbio efficace. Questo progresso gli consente di costruire una forma primitiva di “racconto”, come dimostra l’avventura fantastica narrata in Il viaggio nella Luna, progenitore storico datato 1902 del futuro cinema di fantascienza. La rappresentazione è ancora di impianto teatrale e si basa sui fantasiosi fondali dipinti e sui numeri derivati dal music-hall ma presenta,comunque,un arco narrativo compiuto che unifica l’insieme delle scene “meravigliose”,ciascuna autonoma nel suo svolgimento. Il dualismo Lumière-Méliès esprime le due anime del cinema, quella documentaria e quella visionaria. In realtà, bisogna dire che le due dimensioni del cinema sono sempre intrecciate, anche se a volte prevale l’una e altre volte l’altra. Se è vero che-come ha osservato Godard- “Lumière ha scoperto lo straordinario nell’ordinario, mentre Méliès ha trovato l’ordinario nello straordinario”, la conclusione è che il cinema parte sempre dal realismo per giungere all’irrealismo, e in questo consiste il suo fascino esclusivo. Angelo Moscariello Bling ring La pellicola che ha aperto la sezione “Un certain regard” a Cannes 2013, porta la firma di Sofia Coppola. La regista italoamericana dirige la sua quinta opera dal titolo “Bling ring” partendo da una storia vera. Un gruppo di teenager di Los Angeles, perversamente attratti dal jet-set e dal glamour più patinato, penetra nelle abitazioni private dei divi hollywoodiani per appropriarsi di abiti e accessori costosi. I furti hanno cadenza quasi quotidiana e i bottini rappresentano a pieno le estreme conseguenze del desiderio emulativo perpetuato attraverso l’appropriazione degli oggetti status symbol delle star. Avendo svaligiato abitazioni famose per un totale di quasi tre milioni di dollari, i cinque ragazzini vengono individuati e fermati dalle autorità. La Coppola, quasi come caratteristica autoriale, torna a occuparsi di adolescenza con particolare attenzione al delicato passaggio all’età adulta. Con pellicole come “Il giardino delle vergini suicide” o “Somewhere”, la regista esponeva un qualche punto di vista personale in materia, questa volta invece tende semplicemente a descrivere le vicende riportando gli avvenimenti in maniera puntuale, senza mai interrogarsi sulle cause. La cosa che sconvolge è il desiderio costante dei giovani protagonisti di conformarsi al mondo degli adulti, attraverso quegli oggetti così costosi e inarrivabili per un ragazzino, e non di ribellarsi ad esso. Il messaggio evidente che la regista di “Marie Antoinette” ha voluto lanciare è che ormai gli adolescenti hanno perso tutti i valori perché l’avere ha surclassato l’essere, quindi apparire e ostentare sono l’unica via per affermare la propria personalità. La visione corre veloce come un servizio televisivo sulla moda – Sofia Coppa non nega di essersi avvicinata alla vicenda attraverso un articolo di cronaca di “Vanity fair”- abbandona i lunghissimi e dilatatissimi tempi di narrazione dei precedenti film, realizza un film a tratti quasi nevrotico, che annoia poco e dove il ritmo è incalzante. Abbandonando i tempi allungati e quasi noiosi la regista accantona anche i movimenti di macchina e i virtuosismi stilistici, per una regia di stampo più televisivo. Dopo la visione del film si rimane quasi basiti difronte a come argomenti interessanti e importanti a livello sociale vengano trattati con troppa leggerezza, senza mai soffermarsi su nulla, addirittura le fasulle dichiarazioni dei teenager sono solo abbozzate, come se ci sia la voglia e la paura di chiudere in fretta la narrazione per non annoiare. La frivolezza dei teenager, della storia e dello stile è ben sottolineata anche da un tappeto musicale composto da chiassosa musica “house” ed elettronica, che si sposa bene con la storia, ma fa pregare che in sala il volume si abbassi. L’elemento che maggiormente fa giudicare negativamente il film è la recitazione: la banda di ragazzini, capitanati da Emma Watson (Hermione della saga di Harry Potter) non è capace di fare espressioni: le urla, i pianti, le risate sembrano sempre forzati e mai genuini. La Coppola si allontana dal suo terreno cinematografico, si spinge verso nuovi lidi annaspando in un mare di glitter ed accessori a la page e, priva di qualsiasi appiglio narrativo o stilistico, non riesce a convincere ed appassionare. Purtroppo con Bling Ring cade proprio in quella rete che i suoi detrattori più accaniti le tendono ormai da tempo: il detestato raffronto con il padre Francis, che quarantuno anni fa realizzava “Il Padrino” mentre Sofia, all’età di quarantadue anni, è ancora alla ricerca di un linguaggio narrativo che risulti tanto convincente da tenerla a galla. Mood indigo – La schiuma dei giorni Un romanzo di culto, un regista di culto, un film così così. Michel Gondry porta sullo schermo il celeberrimo romanzo di Boris Vian “La schiuma dei giorni”: Colin (Romain Duris) vive in una strana casa nel cuore di Parigi, con un minuscolo topo antropomorfo e con il suo Chef personale, non che assistente, Nicolas (Omar Sy). Durante una festa Colin conosce Chloè (Audry Tautou): tra i due nasce la passione che li porterà dopo sei mesi a sposarsi. Pazzo di gioia, Colin suggerirà a Chick (Gad Elmalesh), amico fraterno e compagno di “pianococktail”, di sposare la sua ragazza storica Alise e vivere felice come lui. Colin donerà all’amico un’ingente somma di denaro per organizzare il matrimonio, ma Chick spenderà tutto nell’acquisto di opere di Jean Sol Patre, filosofo esistenzialista, chiara parodia di Jean Paul Sartre. Le nozze di Chick saranno rimandate, ma parteciperà attivamente allo sposalizio dell’amico. L’idillio amoroso di Chloè e Colin è interrotto dalla curiosa malattia della ragazza: una ninfea le cresce nel petto e l’unico modo per tenere a bada il progredire di questo strano morbo è quello di coprire costantemente il corpo della ragazza con fiori freschi. Per curare la ragazza Colin spenderà tutti i suoi averi e una volta finiti i soldi farà ogni sorta di lavoro. Gondry, attraverso svariate tecniche cinematografiche che vanno dallo stop-motion a semplici sovrimpressioni, costruisce un universo parallelo e surreale con strane invenzioni, pazzesche dimore, cibo animato, e oggetti vivi. L’effetto fiabesco è sicuramente ottenuto e riuscito e a tratti affascina anche, ma alcune cose, come le gambe che si allungano a dismisura durante i balli (lo “strusciastruscia”), o le scene del pattinaggio sul ghiaccio, fanno storcere il naso anche allo spettatore più coinvolto. La parte più interessante della pellicola è quella che verte verso il dramma, veramente bella e dolce l’immagine del fiocco di neve che, ingerito nel sonno da Chloè, le ammala il cuore. La parabola discendente della salute della ragazza è ben resa dall’immagine dei fiori, unica salvezza per lei, ma destinati miseramente ad appassire. La malattia stravolge le vite di Colin e Chloè, trasforma non solo i loro corpi, ma anche la loro abitazione che sfiorisce insieme a loro, fino a ridursi alle dimensioni di un topo, testimone impotente della rovina economica del suo amico-padrone e della caducità dei corpi. Lo stile di Gondry in questo film è particolarmente barocco, troppo ricco visivamente e a volte ridondante, sembra che il cineasta transalpino si sia chiuso in una ricerca spasmodica e schizofrenica di immagini oniriche e surreali che soffocano gli attori tanto quanto gli inermi spettatori. Gondry ha, in certo senso, perso il modo di narrare fluido e convincente di film come “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” o di “Be kind rewind” in favore di un personale surrealismo fatto di effetti speciali e di immagini curiose. “Mood indigo” appassiona: è piacevole, struggente, ma forse troppo carico visivamente, fino a disturbare lo spettatore: così come la ninfea distrugge l’amore di Colin e Chloe la ricerca convulsiva dello stile distrugge un film sicuramente romantico e delicato ma, come l’amore, a volte solo illusorio. Il futuro racconta il futuro C’era una volta la fantascienza, quella vera. Quella dei super computer impazziti che attentano alle vite di astronauti in rotta verso Giove. Quella dei trekkies e degli Jedi. Quella degli alieni buoni, che comunicano attraverso luci colorate e suoni, e di quelli cattivi che escono dalle fottute pareti. Quella degli androidi che hanno visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare o di quelli venuti dal futuro per salvare John Connor. Quella dei, citando Ridley Scott, “Bmovie girati con i soldi” ma anche di chi, come mastro Carpenter insegna, ha quasi sempre dovuto arrabbatarsi con due lire. Quella di Fritz Lang, che ha inventato il robot prima che esistesse la parola Robot, o del maestro russoTarkovskij. Quella dell’eletto e della matrice, che sembrava suggerire una new wave di genere e che invece è sfociata in due seguiti decisamente brutti. Quella, insomma, che noi cinefili senza età, abbiamo imparato ad amare, che sfruttava l’elemento fantascientifico per rispondere a domande esistenziali o, più semplicemente, a porne nuove. Quella che però sembrava sepolta dalle logiche del marketing, dalla penuria di idee del patinato mondo di Hollywood, da prequel da sequel e da midquel e da qualsiasi cosa finisca con -quel, da effetti speciali sempre più preponderanti rispetto al significato, da robot che si trasformano diretti da registi mediocri e da invadenti supereroi. No, non si tratta della solita rubrica lamentosa dell’ennesimo nostalgico che ogni tre frasi deve ricordare a tutti quanto si stesse meglio quando si stava peggio. Qui si parla di giovani autori, di talentuosi registi nati dopo gli anni 70 del secolo scorso che solo ora si stanno facendo un nome affacciandosi alle luci della ribalta. Si tratta di nomi importanti, impressi sulla carta d’identità di gente che rappresenta il presente e il futuro del cinema (in questo caso di fantascienza, quella vera però) e che se ne frega delle mode e delle tendenze di Hollywood ad omologare ed appiattire. Due nomi, per incassi e responso della critica, sembrano spiccare su tutti: Neill Blomkamp e Duncan Jones. Neill Blomkamp ha tanto talento quanta determinazione, del resto ce ne vuole a palate per rifiutare la regia del settimo episodio di Star Wars e del seguito di District 9, il film che lo ha reso famoso incassando la bellezza di 211 milioni di dollari dopo esserne costati appena 30. Vuole concentrarsi sui suoi progetti originali, dice lui, e infatti durante le interviste della campagna promozionale del suo ultimo film, Elysium, ha detto di essere già a lavoro sulla prossima pellicola fantascientifica, che ha già un nome e una data di uscita: “Chappie”, 27 marzo 2015. Classe ‘79, sudafricano di Johannesburg, enfant prodige cresciuto a pane e Blade Runner, il giovane Neill ha visto con i suoi occhi sia le efferatezze dell’apartheid che il picco di criminalità che scaturì dal suo smantellamento nel ‘94. Esasperati dal clima di puro terrore, i genitori decisero di trasferirsi in Canada: fu la madre di Neill, spaventata dalle intenzioni del figlio di tornare in patria, a portare a sua insaputa un video in computer grafica realizzato dal figlio alla Vancouver Film School che gli valse l’assunzione presso lo studio Rainmaker Digital Effects. E’ stato proprio quel cortometraggio, “Alice in Joburg”, a farlo notare da Peter Jackson che prima ha tentato di fargli dirigere la trasposizione cinematografica del videogioco Halo e poi lo ha fatto incontrare con sua moglie, Fran Walsh, per convincerlo a trasformare quel corto in lungometraggio: nacque così “District 9”. Il resto è storia nota a tutti: successo interplanetario di pubblico e critica, che ha inneggiato al capolavoro, forse prematuramente, trascinata dall’entusiasmo del momento. In realtà, il cinema di Blomkamp ha ancora bisogno di cristallizzarsi in qualcosa di più concreto e meno discontinuo. I più esigenti direbbero che, sebbene l’idea di fondo delle sue opere sia sempre suggestiva, il buon Neill non sappia concludere una storia. E in parte hanno anche ragione, del resto “District 9” e il recentissimo “Elysium” hanno esattamente lo stesso difetto: nel secondo tempo una buona trama di ampio respiro, piena di interessanti sottotesti, si trasforma in un action appena sufficiente, saturo di situazioni icongruenti e improbabili deus ex machina. Ed è un peccato perché i mondi messi in piedi dall’autore sudafricano sono affascinanti distopie che hanno il sapore dell’apartheid e della ghettizzazione. Universi sporchi, pieni di tecnologia “vissuta” e dal background solido. La sua è la poetica del disperato, di chi non ha più nulla da perdere e, spinto da intenti egoistici, finisce per fare il bene di molti. La presa di coscienza dei protagonisti non è mai completa e definitiva, piuttosto lascia spazio ad ambiguità e chiaroscuri che rendono i personaggi vivi e tridimensionali. Forse il finale di “Elysium” è troppo conciliante, agli antipodi rispetto al cinismo messo in mostra nelle battute conclusive della precedente opera, ed è per questo che molti hanno parlato di passo indietro rispetto a “District 9”; tuttavia sorprende come Blomkamp nonostante la giovane età abbia già un’idea di cinema così precisa e forte e questo è più importante di tutti i difetti che deve ancora correggere. Il cineasta sudaafricano dichiara sulla nuova fantascienza di Hollywood: “C’è solo merdaccia che esplode e navi spaziali e cose del genere” e continua sornione e divertito: “i miei film non hanno un messaggio”, ma è la saggia ironia (o la falsa modestia) di chi sa che quando l’allegoria è forte ed efficace non ha bisogno di nessuna autocelebrazione. Radicalmente diverso è Duncan Jones: lui è uno che ama il bianco asettico, che cita Stanley Kubrick e dimostra di aver imparato la lezione dei maestri del passato. Un tipo più raffinato del suo collega sudafricano, meno grounded (“terra terra” se siete allergici agli inglesismi), che preferisce temi alti e domande sulla condizione umana, senza comunque disdegnare lo strumento della metafora. Sarà che, se hai un genio in famiglia, l’amore per la cultura e l’arte ti viene inculcato, come se impresso nel tuo DNA: è probabile che mentre il piccolo Duncan consumava a furia di visioni la videocassetta di “2001: Odissea nello spazio”, nella stanza accanto il paparino strimpellava “Space Oddity” o “Life on Mars”. Eh si, perché il papà del piccolo Duncan è David Robert Jones, in arte David Bowie. Il suo film d’esordio è “Moon” che, senza usare la dovuta cautela quando si parla di esordienti, è un capolavoro assoluto. Girato con 5 milioni di dollari (ne ha incassati 10 in tutto il mondo), l’opera prima dell’autore britannico si nutre dell’ottima prestazione di Sam Rockwell, unico protagonista insieme al computer GERTY – un’intelligenza artificiale di kubrickiana memoria doppiata da Kevin Spacey – che si muove allucinato e disorientato nel freddo e impersonale ambiente di una stazione sulla superficie lunare. Di primo acchito potrebbe sembrare un’opera derivativa e poco originale, come del resto – perdonate il paragone fuori contesto – una pellicola qualsiasi di Tarantino; ma proprio come nel caso del regista di Pulp Fiction, l’occhio più smaliziato noterà come gli elementi saccheggiati dalle opere originali collimano in uno stile personale e riconoscibile persino in un lavoro “su commissione” quale è il successivo “Source Code”: il claustrofobico isolamento in uno scenario alieno, il gioco di cloni e realtà parallele, la diffidenza nei confronti di una tecnologia usata quasi sempre in una maniera malvagia e contorta. Ma, più importanti di tutto il resto, sono due le idee che sembrano caratterizzare al meglio l’impronta di Jones. In primis, un’etica del sacrificio distorta e malsana: i protagonisti dei suoi film sono eroi controvoglia, costretti da entità superiori e intangibili in un loop senza fine a ripetere azioni logoranti e a mettere a repentaglio la propria vita per un “bene di molti” di cui non hanno la minima percezione. In secondo luogo, il buon Duncan ha fatto sua la lezione formale di Sir Alfred Hitchcock. Avete familiarità con la regola della bomba? Si tratta di filmare la sequenza di un’esplosione in un tranquillo bar dove i protagonisti stanno prendendo il thè delle cinque. Mostrare la deflagrazione senza rivelare l’esistenza dell’ordigno genera uno shock improvviso quanto breve, mentre invece rendere lo spettatore consapevole dell’imminente disastro e filmare i personaggi ignari di tutto ciò costruisce una tensione più duratura ed efficace. Sia Moon che Source Code hanno uno sconvolgente colpo di scena, di solito verso la fine del primo tempo, ma non dipendono da esso, sopravvivono e, anzi, migliorano ad ogni visione rivelando ogni volta sfaccettature inedite e dettagli fino ad allora ignorati. Quel che più impressiona di Jones è proprio questa consapevolezza narrativa. Il suo è un cinema pulito, senza sbavature o elementi superflui, snello e concreto; è il cavallo vincente su cui puntare per il futuro del genere. Peccato che attualmente si sia orientato verso altri lidi: il nostro è stato assunto dalla Blizzard per la trasposizione del celebre videogioco World of Warcraft. Peccato, speriamo che presto torni ad occuparsi di quello che sembra il suo genere più congeniale. Alessandro Di Romolo “Viva la Vida”: Frida Kahlo Le proiezioni di genere biografico, in particolare quelli che raccontano gli artisti, fanno sempre tremare lo spettatore critico e appassionato prima ancora di dedicarsi alla visione della pellicola: questo perché l’artista e la sua opera o si amano o si odiano e ci si aspetta dal film proprio l’intimità poetica del processo di creazione dell’opera che porta il fruitore all’ammirazione o alla negazione di esso. Da qui molti film diventano “piccoli” di fronte alla “grandezza” del personaggio invece altri ripropongono quasi pienamente l’enfasi straordinaria trasmessa dalle opere stesse. Di quest’ultima categoria fa parte il film della regista statunitense Julie Taymor, dedicato alla pittrice messicana Frida Kahlo. La pellicola del 2002 è l’adattamento cinematografico del libro “Frida: A Biography of Frida Kahlo” di Hayden Herrera. Il film ripercorre dettagliatamente l’esistenza passionale e sofferente della pittrice e insieme l’ascesa artistica: l’incidente che le sconvolse la vita a diciotto anni, l’amore passionale e sofferente con Diego Rivera (pittore e muralista messicano) e la militanza politica. Temi dai quali la sua opera nasce, si sviluppa e si esalta verso una visione reale, ma non terrena, piuttosto surreale e intima, che Frida vive e percepisce lungo tutta la sua vita. Dedicando particolare attenzione ai risvolti privati di Frida, il film è un ottimo strumento di comprensione intima di come i suoi dipinti diventano una sorta di vita parallela che la affianca in ogni momento: sono profondamente dolorosi, sofferenti e tristi ma contemporaneamente vivi, popolari, folcloristici, colorati e bizzarri, straordinariamente moderni e attuali. ma anche La tecnica cinematografica, attraverso la fotografia, soprattutto con le tonalità di colore, e la musica, risulta impregnata della personalità di Frida Kahlo: i rossi sono spesso presenti nelle sue opere, come nel film, che vira in alcuni casi verso i blu e i verdi, caratteristici della casa paterna dell’artista. I tipici costumi messicani e le pittoresche tradizioni popolari vengono incluse dalla Taymor nel film così come Frida le rappresentava sovente nei quadri, dimostrando la fierezza culturale dello spirito indigeno e dei peones. Il film risulta un percorso profondo ed intenso di due ore che sicuramente dà allo spettatore quasi le stesse emozioni che susciterebbe la visione delle pitture: la Kahlo è la protagonista del film e delle sue tele, prevalentemente autoritratti, visioni di un’altra Se, proiezioni di attimi e situazioni vissuti, quasi dettati da una coscienza automatica che la guida a metabolizzare la vita. S’instaura così una piacevole corrispondenza tra la reale produzione della Kalho e “Frida” di J. Taymor. Sono presenti anche le vicende che accompagnano la protagonista verso nuovi slanci artistici come l’arrivo di Frida in Europa, a Parigi, dove entra in contatto con il mondo intellettuale del periodo rimanendone colpita solo per il carattere decadente e in America, nei lunghi periodi che vi trascorre per stare al fianco di Rivera, impegnato nella sua ascesa artistica. Fuori dal Messico Frida entra in contatto con ma non abbraccia questa corrente infatti rimarranno sempre originali e uniche. Il suo, è autodidatta che nasce con le sue prime opere il surrealismo le sue opere un surrealismo e si sviluppa prendendo spunto dalle sue esperienze di vita. Unico riferimento e forse omaggio al genio “daliliano” lo si riscontra nella trasposizione surreale e visionaria dell’opera “What the water gave me” con immagini di paura e dolore che galleggiano nell’acqua di una vasca da bagno, emblematico come il processo di creazione del dipinto viene descritto nella pellicola. Il film è infine portavoce della natura culturale messicana viva in Frida, fiera della tradizione del suo paese, attiva nella lotta della rivoluzione messicana che rivive in tutta la pellicola attraverso gli amici e colleghi Compañeros, irrefrenabili militanti di una lotta giusta contro la dittatura. La visione è sempre appassionata e incita alla vita, proprio quello che Frida voleva dalle sue opere, sempre gioiose e colorate dalla vitalità spiazzante negli amori e nelle gioie, ma contemporaneamente crude nel raccontare l’amarezza della sua esistenza; il tutto è divinamente interpretato nella pellicola da una Salma Hayek coinvolta e coinvolgente, anche autrice di alcuni dipinti presenti nel film. Chi tra gli spettatori, dopo la visione, sentirà il desiderio di conoscere più a fondo questa magica pittrice avrà modo di entrare in contatto con le sue opere in una personale a lei dedicata che si terrà a Roma, alle Scuderie del Quirinale, nella primavera 2014. Un appuntamento esclusivo per vedere le opere provenienti dalle più importanti collezioni d’arte internazionali, piene del vitalismo estetico e culturale ribadito in tutto il suo lavoro. Un “Viva la Vida” costante, come quello che impresse nella sua ultima e rossa opera, dipinta prima di morire nel 1954, dove lei non è più protagonista e lascia spazio a frutti succosi quasi emblema della pienezza del suo trascorso. VALENTINA TERRIBILE