ISTITUTO TECNICO per GEOMETRI GUARINO GUARINI di Torino

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ISTITUTO TECNICO per GEOMETRI GUARINO GUARINI di Torino
ISTITUTO TECNICO per GEOMETRI
GUARINO GUARINI
di Torino
CORSO SERALE
a.s. 2006 - 2007
Testo n. 1
In una lettera a Umberto Saba del 1949 Primo Levi scriveva tutta la sua ammirazione per il poeta
triestino, di cui aveva appena letto le Scorciatoie e raccontini, ritrovandovi, scrive, "molto del mio
mondo, non del Lager, voglio dire; meglio, non solo del Lager". E sul finire della lettera aggiunge .
va: "Ma tutto questo mi ha toccato meno di quel Suo coraggio, di quella Sua avidità vigile... di nulla
lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza".
Sollevare la memoria del Lager dal "buio del sottosuolo" sembra essere il compito che si prefiggono
non solo Saba e Levi, ma tutti coloro che, in Italia e in tutta Europa, hanno provato a scrivere poesie
sul tema della deportazione. Da Paul Celan a Vittorio Sereni, da Charlotte Delbo a Salvatore
Quasimodo, molti autori europei nel secondo dopoguerra non si sono arresi all'idea di non poter più
scrivere poesie. Sempre Levi dirà in una famosa intervista che "dopo Auschwitz non si può fare
poesia se non su Auschwitz".
Scegli i componimenti di uno di questi autori, a tua scelta, e svolgi un'analisi critica di questi lavori
inserendola in una più ampia riflessione sul rapporto che, secondo te, può sussistere fra il Lager e la
sua rappresentazione artistica.
Allievi
Giulio Candreva 5a Sirio
Andrea Di Lolli 5a Sirio
Domenico Gerace 5a Sirio
Massimiliano Latorre 4c Sirio
Davide Onida 4c Sirio
Insegnante
Lino Ferracin
Introduzione
Poesia e lager o, forse meglio, poesia e Auschwitz: un tema difficile perché solleva attenzioni e
problemi sui quali non sempre si riflette essendo facile lasciarsi andare alle emozioni e alla
consolazione di un ricordo, emozioni e consolazioni a cui la poesia meno attenta può portare.
Ma il tema della poesia è anche difficile perché obbliga gli studenti a confrontarsi con un genere
letterario non sempre amato, studiando il quale, a scuola, spesso ci si limita a ripetere stancamente
formule metriche o letture critiche lontane dalla sensibilità giovanile, soprattutto perché non ci si
preoccupa di far emergere nell’insegnamento il radicamento che la poesia ha in una personalità, in
una cultura, in una storia precisa e concreta.
In questo lavoro gli allievi che hanno partecipato, tutti adulti e impegnati in una settimana
lavorativa, con pochissime ore quindi da dedicare allo studio, si sono scontrati con il dover cercare,
leggere, rileggere, approfondire, interpretare, riflettere, organizzare pensieri e scrivere; il tutto su
testi che lentamente rivelavano la loro forza, la loro voce, il loro legame con la vita, la loro
"concretezza". Testi non lontani, come quelli letti in aula, ma parole che nate in tempi oscuri, nei
quali l’uomo è stato schiacciato e distrutto. Le personalità degli autori emergevano all’interno della
Storia, delle immagini, voci e testimonianze dello sterminio e questo ha portato a interesse sincero,
a coinvolgimento razionale ed emotivo, a desiderio di sapere e di confrontarsi.
Siamo partiti con una riflessione sul fatto che Auschwitz è stato per la coscienza europea una
“rottura di civiltà” come mai uomo poteva immaginare; sul fatto che l’abisso dei lager nazisti, e in
particolare di quello dei campi di sterminio polacchi, è senza possibilità di risposta e lascia come
storditi, senza più punti di riferimento.
E’ possibile, dunque, esprimere con l’arte il punto più profondo della brutalità umana? E’ giusto?
Il nostro lavoro concreto è iniziato da questa domanda su cui ci siamo confrontati, a partire dalla
affermazione di Primo Levi che abbiamo posto in relazione con quella di Adorno, alla quale in
qualche modo rispondeva.
Abbiamo ritenuto necessario collocare la posizione di Adorno all’interno del suo pensiero,
utilizzando, con un significativo contributo dell’insegnante, alcuni testi scolastici di storia della
filosofia e, a fatica, non essendo la filosofia materia del corso per geometri, abbiamo capito meglio
e in parte ridimensionato il senso della condanna del filosofo tedesco della poesia dopo Auschwitz.
Durante il lavoro su Adorno abbiamo letto altre posizioni e risposte che ci hanno permesso di
scrivere il capitolo introduttivo.
Man mano che il lavoro procedeva ci siamo avvicinati ai poeti indicati dalla traccia e da quelli
siamo passati ad altri meno conosciuti ma sui quali avevamo trovato notizie e giudizi stimolanti.
Abbiamo scelto di lavorare su autori che avessero vissuto la deportazione sulla carne o l’avessero
sperimentata sui loro cari; appartenessero alla prima generazione; discriminati perché ebrei o perché
oppositori del regime nazifascismo; autori poco conosciuti dal mondo giovanile e dal pubblico
adulto e poco letti o commentati dagli studiosi.
La scarsa disponibilità di testi critici ci permetteva di essere meno condizionati da una prelettura e
soprattutto di poterci avvicinare ai testi con più spontaneità; questo naturalmente facendo attenzione
a non diventare banali.
Proprio quest’ultima riflessione ci ha portati a non affrontare autori come Celan o Levi: il primo per
la sua oggettiva difficoltà e quindi per l’obbligo connesso di riferire quello che altri avevano già
detto; il secondo per la sua notorietà che comportava una notevole mole di articoli, studi, interventi
con cui confrontarci.
Partendo comunque dalla traccia che ci è sembrato lasciasse aperta la possibilità di ricerche diverse,
abbiamo individuato quattro poeti con appartenenze, esperienze e caratteristiche specifiche.
Edith Bruck, Nelly Sachs, Yitzhak Katzenelson appartengono al mondo ebraico e hanno
diversamente vissuto la tragedia della Shoah: Edith Bruck ragazzina ad Auschwitz; Katzenelson
padre e uomo di cultura nel ghetto di Varsavia e nel campo di Vittel; Nelly Sachs ragazza matura e
acculturata in esilio in Svezia. Negli stessi anni Quinto Osano, operaio, partigiano deportato politico
a Mauthausen.
2
Due uomini e due donne che hanno radici culturali e linguistiche differenti: Katzenelson, nato in
Russia Bianca, scrive in jiddish, ha alle spalle opere teatrali e testi in prosa e poesia, ha una
profonda cultura religiosa, proviene dal cuore della cultura ebraica dell’Est europeo e si pone come
testimone per tutto il suo popolo; Nelly Sachs è tedesca, appartiene ad una famiglia borghese di alta
cultura, vive lo sterminio in esilio ma con il cuore accanto ad amici e parenti perseguitati; Edith
Bruck ungherese entra in Auschwitz ancora bambina e vive una crudele separazione dalla famiglia e
tutto l’orrore di mesi dentro al cuore dello sterminio, torna lacerata e a fatica imparando l’italiano
dirà la sua storia; Quinto Osano italiano, operaio, arriva a Mauthausen con una coscienza sindacale
e politica e solo dopo più di vent’anni dal ritorno darà spazio ai ricordi in testi poetici.
Scelti gli autori sui quali concentrare il lavoro, ogni allievo ha scelto quello con il quale sentiva un
interesse maggiore e abbiamo iniziato una lettura individuale dei testi. Una volta alla settimana ci
siamo trovati per confrontare le scoperte, le difficoltà, le impressioni. Il lavoro ha così preso poco
alla volta forma; il risultato può sembrare non omogeneo per la diversità delle fonti e per la diversa
sensibilità degli allievi ma l’omogeneità è data dallo stesso metodo tenuto nella elaborazione del
testo. Dopo la lettura di tutta l’opera poetica dell’autore, si sono scelte le poesie nelle quali
emergesse il tema dell’esperienza nel lager e il significato del fare poesia in quel contesto. Ogni
poesia doveva essere presentata prima con una breve sintesi del contenuto, con la evidenziazione
dei passaggi più significativi e terminare con un commento personale.
Il singolo capitolo è organizzato con la presentazione della vita e della personalità dell’autore, segue
una lettura “critica” complessiva dell’opera poetica, infine l’antologia dei testi scelti.
Dopo il primo capitolo pensato e scritto attorno alla affermazione di Adorno sulla poesia come
barbarie dopo Auschwitz, affermazione che abbiamo collocato nel pensiero del filosofo e
confrontato con la posizione di pensatori come la Heller, di scrittori come Levi e di poeti come
Celan, i capitoli che seguono sono dedicati ai singoli poeti da noi presi in considerazione.
Abbiamo posto per primo Quinto Osano, perché piemontese, perché giovane partigiano, perché
uomo così trasparente nella sua umanità ancora sofferente per la tragica esperienza di Mauthausen.
La sua poesia può apparire fragile accanto a quella degli altri, ma nella sua immediatezza e nella sua
semplicità di linguaggio e povertà di espedienti retorici, mantiene la forza della testimonianza che
senti accanto, vera perché accaduta ad un uomo che avresti potuto essere tu stesso.
Dopo i capitoli su Edith Bruck, che abbiamo sentito scrittrice di maggiore considerazione critica per
la sua forza straziata di vittima, bambina e donna, e su Nelly Sachs così spirituale e intensa,
abbiamo posto nell’ultimo capitolo Katzenelson, perché nella sua voce abbiamo sentito migliaia di
anni di storia e spiritualità ebraica e nel suo silenzio il vuoto della ricchezza di milioni di uomini e
donne che non hanno più potuto essere, vivere, inventare, creare.
Ci siamo accorti alla fine che il lavoro era stato impegnativo ma che ci aveva arricchiti.
Abbiamo dovuto cambiare il tradizionale approccio scolastico alla poesia, non si parlava dei soliti
temi poetici tradizionali o classici come l’amore, il dolore, il senso delle cose, la morte…, sui quali
tutto si può dire e tutto è stato detto.
Questo lavoro ha al centro il lager, ha Auschwitz nella sua materialità e storicità. E’ stato necessario
prima conoscerlo e sondarlo e meditarlo, altrimenti la poesia rimaneva spenta, senza significato. I
testi poetici affrontati erano nati all’interno di un fatto storico, di episodi concreti, precisi, vissuti
sulla pelle e a questi elementi devono restare legati, se vogliono diventare voce che grida, che
denuncia e che mette l’uomo di fronte al suo abisso.
La poesia sui lager, quella che non consola, quella che ti ributta addosso ogni tuo tentativo di capire
e superare, non aggiunge nulla, non spiega nulla; Auschwitz resta quello che è, l’indicibile resta
indicibile ma, nonostante questo, si fa ogni volta richiamo, presa per il collo dell’uomo che tenta di
dimenticare e che spera che tutto sia chiuso lì e nulla più sarà mai più come ciò che è avvenuto.
Il lavoro è diventato una esperienza di ricerca, lettura e scrittura con in più la presenza, dentro, delle
voci dei “sommersi e salvati”.
Torino, gennaio 2007
Lino Ferracin
3
INDICE
1. Auschwitz – Adorno – La poesia………………………………pag. 5
2. Quinto Osano ………………………………………………….pag. 13
3. Edith Bruck ……………………………………………………pag. 26
4. Nelly Sachs ……………………………………………………pag. 39
5. Yitzhak Katzenelson …………………………………………..pag. 48
6. Bibliografia ……………………………………………………pag. 61
4
Auschwitz – Adorno – La poesia
Questo capitolo è nato dal lavoro di gruppo, coordinato dall’insegnante, ed è stato raccolto e
scritto da Domenico Gerace
5
“Con il genocidio è accaduto qualcosa al reale. Ed è perciò accaduto qualcosa anche alla
letteratura.”1
“Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse
succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice
molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini.”2
“Non è più possibile, dopo Auschwitz, scrivere poesie come si faceva prima, poiché questa rottura
di civiltà ha cambiato il significato delle parole, ha trasformato la materia stessa della creazione
poetica, il rapporto tra il linguaggio e l'esperienza, e tutto questo ci costringe a ripensare il mondo
moderno alla luce della catastrofe che lo ha sfigurato per sempre.”3
Con il genocidio è accaduto qualcosa al reale e la letteratura che ne è compagna e specchio ha
dovuto tornare a riflettere sul suo scopo e sui suoi strumenti. Il progetto nazista dello sterminio era
nato all’interno della cultura occidentale che aveva nella letteratura uno dei momenti essenziali per
raccontarsi, e ciò che era accaduto era nato all’interno di una nazione che aveva dato, soprattutto
negli ultimi secoli, alcune delle voci più alte e più profonde dell’uomo; una nazione la cui lingua
non si poteva non conoscere, se si voleva balbettare un po’ di filosofia. Una filosofia che aveva
avuto in Hegel il pensatore che con la sua Dialettica aveva spiegata e giustificata la realtà
nell’Essere.
Di fronte alla filosofia hegeliana, che voleva essere definitiva nello spiegare e giustificare il
mondo, e di fronte al pericolo che la ragione tornasse a riflettere su quanto era successo nei campi
di sterminio arrivando a comprendere, a superare il negativo avvenuto, di fronte a questo, Adorno4
scrisse nel 1949: “ La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio della dialettica di
cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa
consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”.5
Come il terremoto di Lisbona, scrisse ancora Adorno nella Dialettica negativa, aveva guarito
Voltaire dalla teoria del filosofo Leibniz6, così dopo Auschwitz la filosofia non ha più nessuna
possibilità di fornire alcun significato a quanto è avvenuto nella storia. “La morte, con l’assassinio
burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non
c’è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come qualcosa che concordi
con il suo corso.”7
“Adorno ritiene infatti che dopo Auschwitz gran parte delle tradizionali visioni del mondo siano
divenute semplice “spazzatura” e che la filosofia, se vuol essere davvero a passo con i tempi, debba
rompere con il proprio passato. Infatti i filosofi anziché criticare la realtà si sono per lo più dedicati
ad elogiarla, sforzandosi di darne una spiegazione coerente e globale. Ma così facendo essi sono
stati costretti a razionalizzare l’irrazionale, a unificare il diverso, ad armonizzare il disarmonico,
1
Catherine Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in Storia della Shoah, La crisi
dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. II, La memoria del XX secolo, UTET, Torino,
2006, pg. 540.
2
Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, pg. 331
3
Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2004, pg. 110
4
Theodor Adorno, (Francoforte sul Meno 1903 - Visp, Vallese 1969), filosofo, sociologo e musicologo tedesco. Studiò
filosofia presso l'Università di Francoforte e musica a Vienna come a allievo di Alban Berg. Nel 1931 ottenne la libera
docenza e cominciò a collaborare con l'Istituto di ricerche sociali, insieme ad altri studiosi che fondarono la Scuola di
Francoforte. Nel 1933, per sfuggire alle persecuzioni antisemitiche del regime nazista, emigrò dapprima in Francia e poi
negli Stati Uniti. Ritornato dopo la guerra ridiede vita all'Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Tra le sue opere più
famose ricordiamo: Dialettica dell'Illuminismo (1947), Minima Moralia (1951), Filosofia della musica moderna (1951),
Dialettica negativa (1966).
5
Theodor W. Adorno, Prismi: saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, pg. 22
6
Nello stesso anno del terremoto di Lisbona, Voltaire scrisse il Poema sul disastro di Lisbona (1755) nel quale
“combatte la massima “tutto è bene” (di Leibniz) considerandola un insulto ai dolori della vita, e le contrappone la
speranza di un migliore avvenire dovuto all’opera dell’uomo.” In Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e
testi della filosofia, volume secondo, Paravia, Torino, 1997, pg. 584. Le stesse critiche alla filosofia dell’ottimismo
saranno espresse nel Candido, pubblicato nel 1759.
7
Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, pg. 327
6
mediante un’operazione chiaramente mistificatrice, e culminata, con l’hegelismo, in una illusoria
fagocitazione dell’oggetto nel soggetto.”8
Diceva Hegel che ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è spiegabile, reso logico, appartiene alla
totalità dell’Essere; in un certo senso tutto ciò che è giustificabile è giustificato.
Il pericolo era dunque per Adorno che la cultura occidentale, dentro alla quale sta Hegel,
razionalizzando e spiegando Auschwitz arrivasse a giustificarlo, a metterlo nell’ordine delle cose,
assorbendo, annullando così tutta la carica di critica totale che sta dentro ad Auschwitz.
La critica negativa di Adorno proponeva allora che tutta la contraddizione di Auschwitz, tutta la sua
indicibilità rimanesse tale, restasse a rimettere continuamente in discussione le nostre certezze, la
nostra “civiltà”.
“Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, perché ucciderebbe di nuovo quei
milioni di morti, rimetterebbe in ordine le cose, tutto sarebbe inutilmente avvenuto. La poesia è
ricerca di ordine, è tentativo di mettere la realtà dentro alla bellezza di una forma. La poesia,
condannata da Adorno in quanto oramai “atto di barbarie”, non può più essere quella che consola,
che solleva, che sposta l'attenzione dal negativo al bello. Nessuna opera d’arte può far più dire “che
bello!” di fronte allo sterminio.
“ Preso alla lettera, questo divieto appare assurdo e inaccettabile. Non bisognerebbe tuttavia
sottovalutarne l'impatto fecondo su tutta una generazione intellettuale apparsa sulla scena tedesca
alla fine della guerra. Interessante e rivelatrice, a questo proposito, è la testimonianza di Gúnther
Grass: se da un lato l'aforisma adorniano gli sembrava «letteralmente contro natura», come se
qualcuno si fosse permesso «come Dío padre di proibire il cinguettio degli uccelli», egli ammetteva
d'altra parte che questo divieto non cessava di interpellarlo e che i suoi primi tentativi poetici non
erano altro che una risposta all'interdizione adorniana.”9
L’affermazione così lapidaria di Adorno, che è divenuto impossibile scrivere oggi poesie, è rimasta
sospesa negli anni seguenti come una domanda che esigeva comunque una risposta.
Adorno stesso anni dopo (il testo tedesco di Dialettica negativa è del 1966) attenuò la sua condanna
sulla poesia, aprendo una breccia nell’impossibilità:” Il dolore incessante ha tanto diritto di
esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si
può più scrivere una poesia.”10 Come il torturato ha diritto di gridare così le vittime dello sterminio
hanno il diritto di gridare il loro dolore.
E le risposte sono arrivate sia nella teoria che nella pratica di chi testimone non ha potuto o non ha
voluto fare a meno di dire, di raccontare, di testimoniare ciò che aveva vissuto e che era l’indicibile,
quasi l’innominabile.
Tra le risposte elaborate dall’affermazione di Adorno, abbiamo trovato interessante quella di Agnes
Heller11 nel suo articolo Scrivere dopo Auschwitz12. La Heller presenta la sua posizione partendo
dalla parziale rettifica di Adorno e scrive: “ Non si può scrivere su Auschwitz dalla posizione di uno
spettatore. […] Adorno reclamò il diritto delle vittime di esprimersi. Ma questo diritto deve essere
riconosciuto solo alle vittime e non ai sopravvissuti. […] L’espressione del sopravvissuto non può
sostituire quella di coloro che morirono in silenzio. E nelle camere a gas non fu scritta nessuna
poesia. Sembra dunque che sull’Olocausto non possa essere scritto nulla, nulla tranne il silenzio.
Quattro generi di silenzio circondano l’Olocausto: il silenzio dell’insensatezza, il silenzio
dell’orrore, il silenzio della vergogna e il silenzio della colpa.
8
Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, volume terzo, Paravia, Torino, 1997, pg. 819
Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2004, pg. 110
10
Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1975, pg. 327
11
Agnes Heller è nata Budapest nel 1929, sopravvissuta alle persecuzioni naziste è stata all'università di Budapest
assistente e collaboratrice di G. Lukács. Molti sono stati, e in tempi diversi, i contrasti con il governo e con il partito
comunista ungherese. Allontanata dall’insegnamento, emigrerà in Australia. Attualmente è tornata a vivere in Ungheria.
Tra le sue opere principali ricordiamo: Dove siamo a casa. Pisan lectures 1993-1998, Angeli, 1999; Filosofia morale, Il
Mulino, 1997; La condizione politica postmoderna, (con Ferenc Fehér), Marietti, 1992; Oltre la giustizia, Il Mulino,
1990; L’uomo del Rinascimento, La Nuova Italia, 1977; La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, 1973
12
Agnes Heller, Scrivere dopo Aushwitz, Lettera Internazionale n. 43/44, 1995.
9
7
Per primo viene il silenzio della colpa. Le vittime dell’Olocausto morirono in silenzio perché il
mondo ebbe la colpa di non alzare la voce in loro difesa. […]
Il secondo silenzio è il silenzio della vergogna. E’ il silenzio che viene dopo. L’olocausto è stato
quasi ovunque (prima di tutto e soprattutto tra gli stessi ebrei) un argomento da evitare a tutti i costi.
E’ vero, d’altra parte, che la riluttanza verbale dei sopravvissuti era dovuta anche all’insormontabile
difficoltà di dire l’indicibile. Ma, prima di tutto, uomini e donne hanno preferito bandire ogni
discorso sull’Olocausto perché si vergognavano del primo silenzio, il silenzio della colpa. Molti si
vergognavano di essere dei sopravvissuti. E non pochi di loro si vergognavano semplicemente di
essere ebrei, il popolo a cui era “accaduto” l’Olocausto. […]
Il silenzio dell’orrore è il silenzio dell’impotenza. […] Gli orrori che siamo in grado di descrivere
possono solo servirci come paragone: sono semplici copie di un originale. Ma l’Olocausto è
l’originale. E’ […] la metafora del penultimo orrore, e, come tale, non può essere nobilitato,
riassunto o arricchito di contenuto da alcun mezzo poetico. Le metafore verbali appaiono come
pallide copie della metafora reale. […]
Il silenzio dell’insensatezza è il più profondo di tutti. L’Olocausto è l’insensatezza assoluta. […]
L’Olocausto non può essere né spiegato né compreso: non è stato un atto di libertà né un anello
nella catena della casualità. E’ impossibile integrarlo retrospettivamente nella storia, neppure come
il suo più terribile episodio. […]
Si possono scrivere poesie dopo Auschwitz? O meglio, si possono scrivere poesie su Auschwitz? La
risposta è inevitabilmente dialettica. No, non è possibile scrivere niente su Auschwitz. Ma sì, è
possibile scrivere qualcosa su tutti i silenzi che circondano Auschwitz: i silenzi della colpa, della
vergogna, dell’orrore e dell’insensatezza. In questo senso non solo possiamo, ma abbiamo il dovere
di scrivere su Auschwitz e sull’Olocausto.”13
L’invito della Heller è allora quello di chiamare la poesia a sondare il silenzio oscuro che ha
circondato lo sterminio mentre si maturava e si esplicava, quel silenzio che ha tentato di nascoderlo
e ancora resiste al suo farsi luce. Non allora una poesia che tenti di riassumere, nobilitare o
arricchire quello che lo sterminio è stato, ma una poesia che metta l’uomo di fronte al suo lato
oscuro, che obblighi l’uomo a guardare dentro ai suoi silenzi sulla morte lucidamente programmata
dal Nazismo, per tutti coloro che erano o volevano essere “altro” dal suo progetto.
Dice Edmond Jabès14: “All’affermazione di Adorno […] che ci invita a riesaminare la nostra
cultura, sarei tentato di rispondere: sì, si può. E anche, si deve. Si deve scrivere a partire da questa
spaccatura, da questa ferita continuamente aperta.”15
Anche Primo Levi in una intervista al Corriere della Sera del 28 0ttobre del 1984 affermò, reagendo
alla frase di Adorno “ che la mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò [parla degli anni
1945-46] che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro.
Dicendo poesia, non penso a niente di lirico. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di
Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz"16.
Per capire il senso delle parole “Dicendo poesia, non penso a niente di lirico”, facciamo riferimento
alla introduzione di Cesare Segre al secondo volume delle opere di Levi. Segre parte dai tre testi
poetici17 che Levi ha inserito in Se non ora quando o anteposto a Se questo è un uomo e a La tregua
13
Ivi, pg.54.
Edmond Jabès, poeta egiziano – francese, di origini ebraiche. Nato al Cairo nel 1932, muore a Parigi in esilio nel
1991.
15
Stefano Raimondi, Interrogare Auschwitz, in “Finisterre”, a cura di Damiano Realini, 22 gennaio 2005. Pg. 28.
16
G. Nascimbeni, Levi: l’ora incerta della poesia, in Corriere della Sera, 2 8 ottobre 1984. Citata in Gabriella Poli,
Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano1992, pg. 315
17
I tre testi a cui fa riferimento Segre sono oramai conosciuti e celebri, ma riteniamo di riportarli in nota per una
migliore comprensione del commento:
Se questo è un uomo. Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e
visi amici: / Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane
/ Che muore per un sí o per un no. / Considerate se questa è una donna, / Senza capelli e senza nome / Senza piú forza di
ricordare /Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d'inverno. / Meditate che questo è stato: / Vi comando
14
8
e afferma “Già questi primi accenni escludono l’ascrizione della poesia di Levi all’ambito della
lirica. Non abbiamo, qui, un poeta che parla con se stesso, un messaggio così rinnovato
formalmente da giungere nuovo al suo stesso emittente. Al contrario, abbiamo un messaggio rivolto
ad altri, o in forma di ammonimento, o in forma di apologo. La novità espressiva non è mai
nell’ambito della parola o della frase, ma in quello del discorso, rivelatore nei suoi accostamenti o
nelle sue implicazioni. Le poesie sono quasi sempre indirizzate a un collettivo voi, che può anche
includere tutti gli uomini, e si articola sul succedersi di parallelismi e anafore, con una solennità
antica.”18
La poesia di Levi è una poesia non “lirica” nel senso che non è semplice discorso interiore, privato,
individuale ma si pone come voce di un testimone, come voce di chi scampato ai campi di sterminio
si è fatto voce di tutto un popolo. Una voce che si fa richiamo a “Voi che vivete nelle vostre tiepide
case” con il tono e la forza di un profeta antico. Una poesia che non può essere che su Auschwitz
sia perchè nella persona di Primo Levi l’esperienza del campo di concentramento ha “risignificato”
il suo mondo, nulla è stato più come prima, sia perchè lo ha legato volente o nolente, come un
profeta antico recalcitrante alla chiamata di Dio, al suo compito di testimone. Che cosa possiamo
pensare se ritorniamo a una delle ultime telefonate di Primo Levi all’amica Edith Bruck in cui
affermò: “ Non riesco a scrivere. E per cosa devo vivere allora?”19; non è forse possibile vedere nel
suo gesto la conseguenza dell’esaurimento dello scopo, dell’unico motivo che lo aveva fatto
ritornare vivo?
Dal dialogo tra due testimoni Elie Wiesel20 e Jorge Semprùn21 nell’ambito del programma
“Entretien”, trasmesso il 1° marzo 1995 alla televisione francese, riprendiamo due battute sul
rapporto vita, morte, scrittura.
queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai
vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi.
La tregua. Sognavamo nelle notti feroci / Sogni densi e violenti / Sognati con anima e corpo: / Tornare; mangiare;
raccontare. / Finché suonava breve sommesso / Il comando dell’alba: / “Wstawać”; / E si spezzava in petto il cuore. /
Ora abbiamo ritrovato la casa, / Il nostro ventre è sazio, / Abbiamo finito di raccontare. / E’ tempo. Presto udremo
ancora / Il comando straniero: / “Wstawać”.
Se non ora, quando? Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, / Tosate per mille anni, rassegnate all'offesa. / Siamo i
sarti, i copisti ed i cantori / Appassiti nell'ombra della Croce. / Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, / Abbiamo
imparato a sparare, e colpiamo diritto. / Se non sono io per me, chi sarà per me? / Se non cosí, come? E se non ora,
quando? / I nostri fratelli sono saliti al cielo / Per i camini di Sobibór e di Treblinka, / Si sono scavati una tomba
nell'aria. / Solo noi pochi siamo sopravvissuti / Per l'onore del nostro popolo sommerso / Per la vendetta e la
testimonianza. / Se non sono io per me, chi sarà per me? / Se non cosí, come? E se non ora, quando? / Siamo i figli di
Davide e gli ostinati di Massada. / Ognuno di noi porta in tasca la pietra / Che ha frantumato la fronte di Golia. /
Fratelli, via dall'Europa delle tombe: / Saliamo insieme verso la terra / Dove saremo uomini fra gli altri uomini. /
Se non sono io per me, chi sarà per me?/ Se non cosí, come? E se non ora, quando?
18
Cesare Segre, Introduzione, in Primo Levi, Opere Volume secondo, Romanzi e poesie, Einaudi Torino 1988, pg.
XXIII
19
Ian Thomson, Primo Levi, Vintage, London, 2003. Pg. 527; nostra traduzione delle parole di Primo Levi: “I can’t
write. What do I have to live for?”
20
Elie Wiesel è con la sua opera La notte una delle più importanti voci della letteratura su Auschwitz. Deportato nel
1944 con la famiglia che fu in parte sterminata all’arrivo a Birkenau, rimase solo al mondo al momento della
liberazione, nel campo di Buchenwald. Dopo la guerra si trasferì a Parigi e nel 1963 prese la cittadinanza statunitense.
La notte (1958) è la prima parte di una trilogia che comprende Alba (1960) e Il giorno (1961). Tra gli altri romanzi, Gli
ebrei del silenzio (1966), Il mendicante di Gerusalemme (1968), Il testamento di un poeta ebreo assassinato (1980) e
L'oblio (1992). Per il suo impegno sul fronte dei diritti umani Wiesel ottenne il premio Nobel per la pace nel 1986.
21
Jorge Semprún è nato a Madrid nel 1923. Durante la guerra civile è costretto a trasferirsi in Francia con la sua
famiglia. Si stabilisce a Parigi, dove studia filosofia alla Sorbona. Membro della Resistenza durante l’occupazione
tedesca, nel 1943 viene arrestato dalla Gestapo e inviato al campo di concentramento di Buchenwald, dove milita
nell'organizzazione comunista clandestina formatasi all'interno del campo, esperienza che racconterà cinquanta anni
dopo in La scrittura o la vita. Dopo la liberazione, ritorna a Parigi e continua la sua intensa attività politica,
coordinando le iniziative clandestine contro la dittatura franchista. Dal 1957 al 1962, sotto lo pseudonimo di Federico
Sánchez, svolge un ruolo importante all’interno del partito comunista spagnolo. Esordisce come autore nel 1963 con Il
grande viaggio, testimonianza delle sue esperienze come deportato, con cui vince il Premio Formentor.
9
“Semprùn: Io parlo del mio rapporto con la scrittura, in quanto scrittore. Per parecchio tempo,
quindici anni, sono stato costretto a tacere per sopravvivere. E’ un’esperienza abbastanza
generalizzata. Altri sono tornati a vivere scrivendo: Primo Levi ad esempio. Altri ancora sono
approdati alla vita perché sono riusciti in fretta a scrivere. Alla vita provvisoriamente.
Wiesel: Credo che Primo Levi si sia ucciso perché era uno scrittore: ne sono convinto. Era mio
amico. L’ho conosciuto dopo la guerra.
Semprùn: Perché il rapporto complesso con la scrittura…
Wiesel: Sono molti gli scrittori che hanno scelto il suicidio.
Semprùn: Améry, Levi, e altri.
Wiesel: Paul Celan.”22
Levi, Celan e Améry sono tornati alla vita scrivendo…. Alla vita provvisoriamente.
Possiamo oggi rileggere con una attenzione diversa le parole di Primo Levi scritte l’11 gennaio
1946, e messe come epigrafe a La tregua:
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawać23”;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawać”.
Tornare è la vita. Mangiare è la vita. Raccontare è la vita. Sognati con tutto l’essere, con l’anima e
con il corpo. L’uno legato all’altro, inseparabili, da viversi insieme sempre. Tornare come tentativo
di liberarsi da quella esperienza, mangiare come ricerca continua di qualcosa che ti dia la forza di
arrivare a domani, raccontare come dovere, come “comando” perché “questo è stato”.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo.
Levi e Celan24, così spesso li abbiamo trovati accostati perché i più grandi nella testimonianza: Levi
nei suoi romanzi, Celan nelle sue poesie, ma soprattutto perché rappresentanti di due modi
radicalmente diversi di fronte alla testimonianza della Shoah. Levi scrittore frutto della sua
formazione scientifica come chimico, Celan così radicalmente ed esclusivamente poeta, “Il più
22
Jorge Semprùn - Elie Wiesel, Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto, Guanda, Parma, 1996. Pg. 21.
Wstawać: Alzarsi!, in polacco.
24
Paul Celan ( il suo vero cognome era Antschel) nacque nel 1920 a Czernowitz in Bucovina da famiglia ebrea. In
seguito alla occupazione nazista i genitori vennero deportati nei campi di concentramento, da cui non tornarono più,
Paul fu invece inviato ai lavori forzati. Dopo la guerra visse a Bucarest, Vienna e poi definitivamente a Parigi. La sua
prima raccolta poetica Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria) uscì nel 1952, seguiranno altre raccolte fino a
Fadensonnen (Filamenti di sole) del 1968. Soggetto a frequenti e gravi crisi psichiche si suicidò gettandosi nella Senna
il 20 aprile 1970.
23
10
grande poeta emerso dalla tragedia della seconda guerra” afferma Ladislao Mittner, studioso di
letteratura tedesca25.
Tra il dicibile e l’indicibile Levi si schiera dalla parte del “dicibile”, si propone una scrittura quanto
più possibile lucida e comunicabile. “Chiarezza: il primo comandamento del suo decalogo di
scrittore”26.
Celan dalla parte dell’ “indicibile”, porta all’estremo quell’elemento “impossibile” da ridurre al
razionale che è sempre presente in un testo poetico.
Quasi in una polemica tra distanti, Levi prese una posizione, in alcuni passaggi durissima, contro
“lo scrivere oscuro”. Citiamo proprio dal suo saggio Dello scrivere oscuro, apparso su La Stampa
l’11 dicembre 1976: “L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non
è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a
distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all'oscurità della loro poetica come
ad un preuccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata
coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro « mugolio animale » era terribilmente motivato: per
Trakl, dal naufragio dell'Impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per
Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall'angoscia
senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro
contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile.
Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata,
non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è disprezzo del
lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un
riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno
al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte
(1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in
pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna come il rantolo di un moribondo, ed infatti
altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che doveva
essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso che Celan poeta debba essere
piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel « rumore
di fondo»: non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al piú è un linguaggio buio e monco,
qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte.
Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una
responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sí
che ogni parola vada a segno. […]
Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale si possa esprimere quell 'altra oscurità di cui
siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere
il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui
siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro. Finché viviamo, e qualunque sia la
sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri
e a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra
comunicazione. Chi non sa comunicare o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi è
infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o
almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all'angoscia o alla noia.”27
La poesia di Celan è, dice Levi, tragica, nobile, confusamente impenetrabile, ma non perché
“riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione” ma, ci verrebbe da dire, per scelta. La
sua poesia è intraducibile perché la parola non è più sovrapponibile ad un reale che dopo Auschwitz
non si può più fare proprio, accettabile, ordinato.
25
Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Torino, Einaudi, 1978. Vol III (2), tomo III, pg. 540.
Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi,
Mursia, Milano, 1992. Pg. 106.
27
Primo Levi, Opere. Volume terzo. Racconti e saggi, Einaudi, Torino, 1990. Pg. 633 – 639.
26
11
E’ questa la risposta di Celan ad Adorno, gli dà ragione ma nello stesso tempo afferma e prova con
il suo lavoro che la poesia è l’unico modo di dire quel fatto estremo di Auschwitz che è stato, e resta
critica radicale di ciò che l’uomo ha fatto a se stesso.
Leggiamo alcuni versi di Celan, non da Todensfuge, la sua raccolta più celebre, ma da Tubinga,
gennaio28 che a noi sembrano dirci l’unico modo per lui possibile di essere testimone della Shoah:
balbettando.
[…]
Venisse,
venisse un uomo,
venisse al mondo un uomo, oggi,
con la barba di luce che fu
dei patriarchi: potrebbe,
se parlasse di questo
tempo, solamente
bal- balbettare
conti- continuamente, mente.
[…]
Piccola riflessione finale: Adorno afferma che dopo Auschwitz la poesia non è più possibile;
correggiamo, come il torturato ha diritto a gridare così il poeta testimone ha diritto al grido. Ma, ci
domandiamo: solo il testimone? Ma non è stato l’uomo torturato in Auschwitz? Non è stata
l’umanità tutta violentata nella sua intimità e dignità più profonda? Non è quindi diritto anche di chi
non è stato testimone ma è uomo, o meglio poeta capace di “sondare sommozzatore” e di tornare a
galla con “schegge di verità”, non è anche diritto quindi del poeta urlare la propria tortura che ha
subito come uomo-umanità? Ricordando e ricordandosi “che questo è stato”.
28
Paul Celan, Poesie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1998. Pg. 381.
12
Quinto Osano
Questo testo è stato redatto da Andrea Di Lolli
13
Il Poeta – Cantore dei Lager29
Quinto Osano è nato a Torino nel 1925, alla Barriera di Nizza. Rimasto orfano in giovanissima età,
lavora come operaio alla Fiat. Di formazione antifascista, dopo l’8 settembre del 1943 invece di
presentarsi alle armi nell’esercito della Repubblica di Salò sale in montagna nella Val di Lanzo con
le formazioni partigiane. E’ catturato durante il rastrellamento del 7 marzo 1944. Portato nelle
scuole di Lanzo e poi incarcerato alle Nuove di Torino, due giorni dopo viene deportato a
Mauthausen, dove giunge il 20 marzo 1944 (N. matricola 59022). Subito trasferito nel sottocampo
di Gusen I, vi rimane fino alla liberazione.30
Amava dire tra i suoi compagni ex deportati che il lager era stato la sua “università del dolore”.
Attualmente vive a Settimo Torinese.
Per molti anni ha accompagnato gruppi di giovani studenti piemontesi nei viaggi studio in Austria e
Germania organizzati dal Consiglio Regionale. Viaggi importantissimi per i giovani e i docenti che
li accompagnano. Profondamente educativi se ad accompagnare i giovani vi è anche un testimone,
che fa in un certo qual modo toccare con mano la storia, la riempie di sentimenti e di “realtà”. Ma
quanto doloroso e faticosa è per il testimone il dire di nuovo, il mettere un privato alle volte
intimissimo in comune con altri, giovani soprattutto, attenti e partecipi ma anche così lontani nel
tempo da tutto quello che è stato. “Quanta dolorosa fatica per vincere questo teso silenzio. La voce
di Quinto esce quasi strozzata sembra che si inceppi: poi, forse anche sorretta dai nostri sguardi, la
poesia fluisce, si fa tenerezza, pietà, grido, rivolta, dolore affranto.”31 Ma nonostante la fatica i
testimoni come Osano hanno continuato e alcuni ancora continuano a stare insieme ai nuovi
“visitatori” di tanta barbarie: “ Questi uomini e queste donne sono maestri del nostro tempo. Sanno
dirci che cosa è stato il Lager dandoci la misura del distacco e insieme dell’indignazione, della
rivolta contro l’intolleranza e le sopraffazioni e insieme della fiducia nell’umanità”32.
L’opera di Quinto Osano, l’unica da lui scritta, si intitola Ricordi e pensieri di un ex-deportato33 e si
presenta come un testo di poesie; in realtà i testi sono una prosa costretta in una forma poetica, lo
stile è semplice, spontaneo, forte della realtà dei fatti che trovano in parole semplici e piane la
strada più sincera per dire la verità del cuore e della memoria. Lui ci parla utilizzando un
fraseggiare semplice e umile; difficilmente la poesia segue la rima, anche se il verso mantiene un
suo ordine e cresce e trasporta il lettore in un viaggio attraverso gli occhi di chi a vissuto quei
“racconti”. Egli ci ha illustrato un “percorso” comune a migliaia di deportati (cattura, trasporto,
arrivo nel Lager, quotidianità di quella irreale vita, liberazione e ritorno) riuscendo a dare voce
anche a compagni sommersi, anonimi e non, che furono con lui in quel cammino.
Osano ha all’origine del suo scrivere il tormento di quei ricordi inespressi, incamerati negli anni
seguenti, ha la ricerca dell’alcool per tentare di dimenticare e poi la lunga strada della guarigione. Il
peso del vissuto lo ha logorato proprio perché lui era tra i fortunati che erano tornati, era uno dei
“testimoni” rimasti con il dovere morale di non dimenticare, e Osano a distanza di anni ha trovato il
coraggio di scrivere, ripercorrendo le sensazioni e i momenti più tragici del suo passato.
Eppure, anche se la strada della testimonianza è stata dolorosa, il suo ricordare non è mai disperato,
ci sono sempre frammenti di dignità, di forza morale, di solidarietà e di coraggio, nonostante lo
scenario violento del lager costruito proprio per sopprimere ogni traccia di dignità o semplicemente
di umanità.
29
Questa definizione di Osano si trova al termine della lettera che Maria Laura Marchiaro scrisse a Bruno Vasari, lettera
riportata in Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato IT 59022, Aned – Edizioni dell’Orso,
Alessandria, 1992. Pg. 16.
30
Da, Anna Bravo e Daniele Jalla, La vita offesa, Franco Angeli, 1988. Pg. 245.
31
Maria Laura Marchiaro, op. cit. pg. 11.
32
Maria Laura Marchiaro, op. cit. pg. 13.
33
Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato IT 59022, Aned – Edizioni dell’Orso,
Alessandria, 1992.
14
L’opera si divide in due parti: la prima porta il titolo Ricordi e pensieri ed è strettamente legata
all’esperienza della deportazione; è quasi un percorso dall’arresto alla liberazione, passando per
l’inferno del lager, raccontato nel rigido susseguirsi dei gesti delle giornate, nel ricordo di amici o
personaggi del campo e nella rievocazione di momenti particolarmente intensi.
La seconda parte ha come titolo Gli anni del silenzio ed è composta di poesie che rivelano
soprattutto la sofferenza della vita e del ricordo dopo il ritorno, sono pagine più intime, mentre
quelle della prima parte sentono maggiormente la scelta di Quinto di essere testimone.
Ho lavorato quasi solo sulle poesie della prima parte e ne ho selezionato i brani più utili e
significativi a ricomporre il percorso di Quinto, riportandole una dopo l’altra accompagnate da mie
riflessioni o reazioni.
15
I ricordi e i pensieri di un ex-deportato34
Ho scritto questi miei ricordi, dopo trentadue anni di battaglie contro il mio subcosciente, contro
l’alcool nel quale avevo cercato aiuto, in questi ultimi anni.
Battaglia vinta, un po’ con la mia forza di volontà un po’ con l’aiuto dei dottori, ma soprattutto con
l’aiuto morale, con l’amore datomi da mia moglie e dai miei figli35” Maggio 1977
IT 59022
Questo scrive Quinto Osano nel maggio 1977, come introduzione alla sua raccolta di ricordi sofferti
che trovano spazio dopo tanti anni di “battaglie contro il subcosciente”, e l’alcool dove aveva
cercato rifugio. Sono passati 22 anni dal giorno della liberazione e il poeta-cantore dei Lager
finalmente trova nella poesia quello strumento a lui necessario per uscire dal buio e per farsi
testimone. Il testo dei ricordi infatti è firmato IT 59022, il suo numero di matricola per mesi.
Numero gridato all’alba e alla sera in tedesco da nazisti e kapò; e il numero in tedesco imparato a
memoria è un mezzo importante per evitare botte, punizioni, sofferenze, un piccolo, e forse per noi
banale, mezzo per restare vivo ancora un giorno.
Il racconto di Osano ripercorre la cattura in un rastrellamento
Catturati in un rastrellamento
nell'alta Val di Lanzo, […]
quattro camion con grandi cartelli:
“achtung banditen!”
altre due autoblinde piene di SS
trionfanti cantavano, inneggiavano
come avessimo vinto la guerra:
poveri illusi!!!
Varcato il portone del carcere
sentii subito stringersi il petto […]
Ci rinchiudono allora in tre grandi celle:
è quasi l'alba, comincia così
IL GRANDE CALVARIO.
(Il carcere)36
Il viaggio verso il Lager. E’ notte alle Nuove, le carceri di Torino, dove Quinto è stato rinchiuso
dopo la cattura e l’interrogatorio. E’ notte e comincia il trasferimento sui camion alla stazione di
Porta Nuova. Improvvisamente, per me che vivo a Torino, la realtà entra nella poesia con tutta la
sua forza, Corso Vittorio, Via Sacchi, Porta Nuova, il percorso dei camion. Poi la stazione,
una fila di carri sui quali si legge:
«cavalli 8, uomini 40»
a calci, a pugni, a frustate, ci fanno salire.
La porta si chiude
Il treno si avvia pian piano,
tu tum, tu tum, tu tum, tu tum,
sempre più veloce.
Tu tum, tu tum, tu tum, tu tum,
[…] sempre più lontano
34
Tutti i testi di Osano sotto citati sono ripresi dal suo testo: Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un
ex deportato IT 59022, Aned – Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1992.
35
Op. cit. pg.21.
36
Op. cit. pg. 25
16
dalle nostre case,
dalle nostre famiglie,
dai nostri affetti.
Quegli ottanta uomini compressi e tenuti giorni, lunghi quanto il viaggio a Mauthausen, senza cibo
e costretti per i loro bisogni nello stesso vagone, respirano paura per un destino che non conoscono.
Le parole di Quinto sono le nostre, quelle che usiamo tutti i giorni, anche la costruzione dei versi
non forza la struttura di un parlare semplice, ma dentro c’è la semplicità e la forza delle parole dei
vecchi, che la vita l’hanno vista e vissuta.
E noi seguiamo quegli ottanta con la consapevolezza di chi sa cosa accadde poi, con una
agghiacciante sensazione di impotenza e di paura per loro.
…si fa ancora notte
quando il treno si ferma per l'ultima volta.
Si sente il rumore di porte aperte,
incrocio di ordini in lingua straniera.
Scendendo intravedo,
alla fioca luce di un lume,
scritto sul muro della stazione
Mauthausen ...........
il viaggio è FINITO.
(Il viaggio)37
Si fa ancora notte, ed è la notte del campo; e il viaggio che è finito sembra a me che leggo il viaggio
della vita.
Poi per la prima volta dentro al campo, l’attesa snervante lungo il muro di pietra, la spogliazione, la
rasatura, la disinfezione, la doccia, nudi di corsa alla baracca della Quarantena, la zuppa, distesi sul
pavimento che
fu ricoperto di corpi. […]
stipati come
l’ultimo strato
di una grossa scatola di acciughe salate.
(L’arrivo e le acciughe)38
Mauthausen
Sul tuo alto portone
manca solo la famosa frase di Dante:
“Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”.
Mauthausen:
sei fame, tortura,
svilimento,
sofferenza.
37
Op. cit. pg.27
Op. cit. pg. 30
39
Op. cit. pg. 33
38
17
(Mauthausen)39
Giorni dopo il trasferimento al sottocampo di Gusen I,
A sinistra lunghi viali
affiancati da basse baracche:
i famigerati block con le loro stube
stracolme di sofferenza umana.
All'estremità il crematorio:
un piccolo camino fuma,
lì vicino il revier,
a destra, oltre il filo,
un lungo muro di pietra. […]
e sopra ... il cielo
che, alle prime luci dell'alba,
appare azzurro.
Tutto intorno boschi,
verdi prati declinanti verso il campo:
è mai possibile che una bellezza simile
sovrasti un campo di annientamento?
(Il campo di Gusen)40
Ma non sembrava che tutto il sopportabile fosse già stato vissuto?
Per me l’impatto con la dura realtà,
data la mia giovinezza, è stato
duro, tremendo, spaventoso.
Mi faccio forza, coraggio.
(La quarantena)41
Il quotidiano del campo; ma esiste un quotidiano in un campo di lavoro nazista?
Aufwchen aufwachen
schnell schnell schnell
heraus heraus heraus
appel appel
Voci rauche, gutturali, rompono il silenzio […]
È il risveglio, è il contatto terribile con la realtà dopo, per i fortunati, le fughe nel sogno.
L'appello finisce, le colonne si formano
si muovono ein zwei ein zwei!
ein zwei, ein zwei, ein zwei!
al portone, spavaldo un SS ci guarda
ein zwei ein zwei, mutze ap mutze auf
Si va verso il piazzale, le officine, il lavoro…
E mezzogiorno, arrivano i bidoni fumanti
ma solo calore,
40
41
Op. cit. pg. 34
Op. cit. pg. 36
18
nei bidoni invece acqua e rape.
L'intervallo è finito, riprende il lavoro
lo stomaco ora caldo, se pur non sazio,
lascia modo di pensare. Il tempo passa più in fretta
perché il pensiero è libero
corre nel cielo,
sui bei monti imbiancati
sul grande mare azzurro;
vai pensiero sei libero libero libero
Nessun muro nessun filo spinato
ti può imprigionare.
La sirena suona, le macchine si fermano.
Per un attimo silenzio ... poi ...
nuovamente, urla di kapò: schnell schnell.
handreten handreten appell appell
La lunga colonna si riforma
si muove, è nuovamente notte:
ein zwei ein zwei ein zwei
Si ridiscende la scalinata,
ein zwei ein zwei ein zwei
al portone ancora l'odiato SS
ein zwei ein zwei mutze ap mutze auf42
ein zwei ein zwei ein zwei
Il campo ci inghiotte, la giornata è finita.
(La giornata di lavoro)43
Per sopravvivere, oltre a saper resistere al lavoro, è necessario conoscere la legge del campo, se si
vogliono evitare punizioni e morte.
Nel campo c'è una legge ...
anzi due leggi:
quella raffinata, fine, satanica delle SS
con una giustizia di teutonica barbarie
e quella dei kapò bieca, crudele, torturante ossessiva.
La prima comporta tre soli reati:
fuga, rivolta, sabotaggio;
puniti con la morte per impiccagione o fucilazione
ci pone nell'assurda irrealtà di
essere colpevoli persino nel sonno.
E’ verboten davanti ai kapò:
parlare, tenere il berretto in testa,
guardare, essere sporchi, avere pidocchi
stare male, è verboten44 ... persino pensare
è verboten essere lenti,
fare male le brande,
dialogare, è tutto ... verboten.
Per tutto questo la pena va da
5 a 100 vergate,
42
Mutze ap (ab) mutze auf: berretto giù, berretto su.
Op. cit. pg. 46
44
Vietato, proibito.
43
19
date con forza brutale da un kapò
sadico e ghignante;
il colpevole, chinato su uno sgabello,
con le mani avvinghiate,
stringe i denti, conta, uno, due, tre ...
Qualcuno resta muto, altri emettono brevi gemiti,
altri ancora urlano, svengono, ma ...
i colpi continuano a calare,
la sentenza deve essere eseguita fino in fondo.
I kapò sono ligi al loro .... dovere
alla ferrea e barbara legge del campo.
Poi ... fino a 10 colpi si resiste,
dai 10 in su si finisce al revier
da dove ... pochissimi ritornano al proprio blok.
Questa è ... la civiltà nazista,
la ... giustizia del
CAMPO DI STERMINIO!!!
(La punizione)45
Due le leggi nel campo: quella degli dei, le SS, padroni della vita e della morte, e quella dei kapò,
padroni del dolore e delle urla di sofferenza.
Una legge che giorno dopo giorno, notte dopo notte ti entra dentro e anima anche i tuoi sogni nei
quali sei continuamente sotto il dominio della legge. Nemmeno nel sogno il campo ti lascia
“sognare”, fuggire altrove, crearti uno spazio di cura dal dolore.
Non c’è dignità per chi è colpevole di tutto senza commettere niente: voleva dire dalle 10 alle 100
vergate per il solo
parlare, tenere il berretto in testa,
guardare, essere sporchi, avere pidocchi
stare male, è verboten ... persino pensare
è verboten essere lenti,
fare male le brande,
dialogare, è tutto ... verboten.
e per il resto
fuga, rivolta, sabotaggio
c’era la morte per impiccagione o fucilazione.
Le umiliazioni agli internati erano il “lavoro” giornaliero dei Kapò.
Anche in questa pagina più che di poesia possiamo parlare di cronaca, non c’è nessuno dei “trucchi”
che fanno la poesia, ma la sintesi a cui costringe il verso scolpisce le parole, le fa quasi più
materiali, più vere.
Esiste un qualsiasi metro del tempo che non sia sveglia appello lavoro botte morte gavetta appello
notte sveglia…
Sole
che riscaldi il mondo con i tuoi raggi ardenti
luna
che brilli pallida nel cielo
45
Op. cit. pg. 71
20
dove eravate in quel tempo lontano?
Mi sforzo, mi tormento ma ...
non vi ricordo, non vi ricordo.
Ricordo i compagni caduti, la fame,
il freddo, il vento, la pioggia, la neve.
Ma di voi nulla, nulla, nulla.
Dov'eri sole all'aurora?
Dov'eri sole al tramonto?
Dov'eri luna alla sera?
Dov'eri luna nelle notti chiare?
(Sole e luna)46
Ma nonostante tutto quello che riempie quei giorni, c’è sempre lo sforzo di mantenersi vivi, di
opporsi, di dirsi liberi;
L'autobahn, l'autostrada,
è una lunga striscia rasata tra i folti capelli,
larga due dita, che parte dalla fronte
e finisce sul collo
segno di crudeltà, di spersonalizzazione umana.[…]
Possono raschiare, tagliare, vedere la cute
ma non il cervello, quello che c'è dentro
“la rivolta psicologica, l'irrisione al sistema
la voglia di vincere, la voglia di vivere”.
(L’autobahn)47
c’è sempre la disperata ricerca interiore di qualcosa a cui aggrappare l’anima per sopravvivere
giorno dopo giorno a quell’inferno fatto di torture, umiliazioni, sofferenze, anche solo sognando ali
che portassero il pensiero oltre quelle mura e quel filo spinato, oltre quei cancelli sorvegliati con
tanto rigore, e pregando che il muto grido di disperazione e speranza venga inteso da Dio.
Ma c’era Dio nel campo di Gusen I dove la violenza dei kapò irride, stronca, uccide il corpo e
l’anima e stravolge ogni valore fino ad allora vissuto?
Sei stato il più terribile,
feroce, crudele, sanguinario
dei kapò di Gusen I
"Tempo" è il soprannome, che
ti è stato dato da noi italiani,
quando correvi instancabile e con gioia satanica,
opprimevi, bastonavi,
e con la tua gola maledetta
urlavi ...
"Tempo italiano, tempo, tempo".
Tu sei stato il boia di
molti, troppi italiani;
sguazzavi nel sangue,
il sangue per te era ragione di vita.
Ti saziavi, come un barbaro,
alla vista dei morti, alla vista
46
47
Op.cit. pg.63
Op. cit. pg. 44
21
di chi soffriva, di chi languiva.
Sei stato odiato
persino dai tuoi compatrioti.
Sei stato la vergogna
del popolo polacco.
Io ebbi, poi, la fortuna di vederti solo da lontano
durante gli appelli;
altero, impettito, sempre
con lo stesso sguardo feroce.
Fu lì che ti vidi per l'ultima volta
con la tua ridicola divisa color cachi,
colto impreparato, di sorpresa,
dalla voce dell'altoparlante
che annunciava... che eravamo ...
LIBERI, LIBERI, LIBERI!
Fu un attimo, un solo attimo,
di silenzio, di commozione;
poi, in un lampo,
gli uomini del tuo blok
ti accerchiarono
e in un baleno ti sbranarono.
Venni a vedere e, incredulo, felice,
vidi, là in terra, solo brandelli di membra, di visceri,
e ... una gran pozza di sangue, che
si allargava smisuratamente.
Giustizia era stata fatta;
maledetto, maledetto, maledetto tu
e quella tua pozza di sangue.
("Tempo" - Il kapo')48
Tempo, il kapò così soprannominato dagli internati italiani di Gusen I49, fu una figura che sparse
terrore per la sua inumanità. Non era il kapò di Quinto, che per fortuna lo vedeva solo di lontano
durante gli appelli e anche di lontano lo vide quella mattina per l’ultima volta mentre l’altoparlante
annunciava “LIBERI, LIBERI, LIBERI”, vide la sua sorpresa e poi fu accerchiato e sbranato dagli
uomini del suo blok.
A fine racconto Quinto descrive la felicità e l’incredulità nel vedere il corpo di questo uomo privo
di vita, smembrato dalla folla, giacere a terra in una pozza di sangue nella quale per anni aveva
sguazzato e nella quale ora moriva. La violenza genera violenza e giustizia era stata fatta.
In questa pagina sembra di vedere Quinto che guarda negli occhi il kapò, ora che può parlare e
pensare, ora che giustizia è fatta. Ma la giustizia non sembra bastare a chi è stato calpestato, punito
per niente, ucciso, fatto fumo ed allora si alza il grido, la vendetta “maledetto, maledetto, maledetto
tu / e quella tua pozza di sangue.” E’ una pagina amara, che lascia silenzio dentro, ma è una pagina
vera come tutte quelle di Quinto.
48
Op. cit. pg. 38
Gusen I, insieme a Gusen II e III, Linz e Melk ( e altri) era uno dei sottocampi che dipendeva da quello centrale di
Mauthausen. I deportati prima arrivavano a Mauthausen e poi erano smistati nei vari sottocampi a seconda delle
richieste di lavoratori.
49
22
Ma c’era Dio nel campo di Gusen I dove la violenza, come in quel giorno di Pasqua, viene come
celebrata in un rito di morte? Da una parte il silenzio, per alcuni preghiera, dei compagni spettatori
atterriti, dall'altra il potere che si rivela essere solo portatore di morte.
Dov'eri buon Dio?
quel giorno di Pasqua
quando i compagni, di ritorno dal lavoro,
trascinando per le braccia
un informe fagotto,
lo posarono sulle nude pietre
del cortile del blocco di quarantena.
[…]
Dov'eri buon Dio?
quando i compagni, in un macabro girotondo
continuarono a camminare attorno
a quel povero corpo,
accompagnati dalla voce
rauca, gutturale dei kapò
che, come una cantilena, ripeteva:
“Questa è la fine di chi tenta la fuga…”
[…]
Dov'eri buon Dio?
quando i kapò con botte,
tentarono, urlando minacce,
“italiani fahnenfluter morgen crematorium50”,
di farcelo affogare in quel grosso barile?
Dov'eri buon Dio?
quando i kapò, visti inutili
i loro tentativi con noi,
lo presero e gli misero la testa sott'acqua?
[…]
Dov'era il tuo buon Dio quel giorno di Pasqua?
Forse era a Belsen o forse ad Auschwitz?
Oppure a Buchenwald o forse a Ravensbruk?
Magari a Mauthausen o forse a Dachau?
Di una cosa sono certo
quel giorno di Pasqua,
il tuo buon Dio non era con noi.51
(Il martire di Pasqua)52
Nella poesia di Quinto si avverte, più che in quelle degli altri autori da noi esaminati, la dimensione
della sua testimonianza di uomo che è stato deportato da solo, senza la sua famiglia (come invece
era per gli ebrei). In conseguenza di ciò il suo ricordo non si carica del volto di un padre o di una
50
Italiani fahnenfluter ( fahnenfluchtigen) morgen crematorium: italiani, disertori, domani al crematorio.
Quinto Osano ricorda in queste pagine il terribile episodio avvenuto nel giorno di Pasqua ( alcuni testimoni
sostengono di Pasquetta) del 1944. Episodio raccontato tra gli altri da Pio Bigo nel suo Il triangolo di Gliwice. Memoria
di sette lager, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1998. Pg. 40-41 e da Ferruccio Maruffi in Codice Sirio, edizione a cura
dell’autore, 1992 Tipografia C2- Trofarello. Pg. 24. Luigi Nada, che aveva tentato la fuga ed era stato ritrovato fu
portato di fronte ai compagni, bastonato e poi soffocato nell’acqua di un barile. Le sue ultime parole furono secondo
Quinto: “Mio Dio, i miei figli.”
52
Op. cit. pg. 40
51
23
madre che gli è stato strappato dalle camere a gas e la sua “famiglia” diventano i compagni. Sono
quelli arrestati come lui, con il fucile in mano o per uno sciopero alla FIAT e che come lui hanno in
testa un motivo per “essere contro”.
La nota ritornante delle testimonianze dei deportati di Mauthausen è quella del ricordo dei
compagni morti, di quelli che non sono tornati: perché io sì e loro no?
Il ricordo di Quinto si riempie ancora di volti (Aldo, il comunista di Sesto San Giovanni, il
compagno polacco impiccato, l’operaio della Breda, il piccolo Juden, l’herr docktor, Josè lo
spagnolo, il giovane siciliano, Alfonso) tutta una umanità, uomini in quel luogo costruito per
disumanizzare. Nel ricordo di quei volti c’è affetto, nostalgia, rimorso, domanda di perdono,
desiderio di nuovi incontri.
Ti ricordo sempre Aldo:
eri alto, robusto, coraggioso
ed io vicino a te
sembravo un bimbo sperduto, lontano dalla mamma.
Ricordo la cattura
le angherie dei nazi-fascisti.
Ricordo gli interrogatori,
il carcere di Torino.
Ricordo l'allucinante viaggio
rinchiusi nei carri bestiame.
Ricordo l'arrivo in quel famigerato campo:
Mauthausen.
Ricordo la dura lotta per la vita,
la nostra grande forza d'animo.
Ricordo poi il tuo lento declino fisico,
il tuo ricovero al revier.
Ricordo le sere che venivo a trovarti,
i tuoi cenni di saluto.
Ricordo il tuo sorriso sempre più triste,
il tuo corpo sempre più debole.
Ricordo poi quella sera in cui
tu dietro alla finestra
non c'eri più.
Ora mi chiedo .........
E non sapendo rispondermi
piango.
(Ricordo di un partigiano deportato)53
Tutto ripassa, tutto ritorna nel ricordo di Aldo, alto e forte, coraggioso compagno di cattura, viaggio
e prigionia. Strano è il passaggio nelle parole di Quinto che si sente debole ed indifeso davanti alla
figura robusta e coraggiosa dell’amico, come un bimbo accanto non a un padre forte, ma accanto ad
una mamma lontana. E poi la delicata descrizione invece di una decadenza fisica, il ricovero e le
visite effettuate dalla finestra del revier54 fino alla morte di Aldo.
Quel continuo ripetersi di “Ricordo” non è semplicità poetica ma è chiodo che ribatte, che si “ficca”
dentro. La semplicità della descrizione rende il racconto tenero, sensibile, trasmette quelle emozioni
di solidarietà e compassione, contrastanti con la continua ferocia della normale giornata nel Gusen I
e crea un spazio di calore e presenza dell’anima umana.
E poi la fine dei tormenti per Aldo ed il compagno che piange non sapendosi rispondere.
53
Op. cit. pg. 48
Il revier era la cosidetta infermeria, il luogo dove finivano i prigionieri che ormai non avevano più alcuna possibilità
di sopravvivere. Era un luogo di morte, non di guarigione.
54
24
C’è sempre la domanda di tutti i sopravvissuti, domanda insistente, feroce, crudele, umana..
Perchè?
Voi no e io sì.
Eppure la fame, gli stenti, il freddo, le sofferenze
erano uguali per tutti
Allora? perchè voi no e io sì?
Perchè voi non siete tornati e io sì?
Perchè voi siete stati privati
dei vostri affetti più cari
Perchè io li ho ritrovati?
Perchè voi no e io si?
Perchè a voi la morte e a me la vita?
Forse io ero migliore di voi ... No.
Eravamo uguali, uguali le torture
uguale la fame, il freddo, gli stenti
E allora perchè voi no e io sì?
Perchè a voi la morte e a me la vita?
Perchè a voi il dolore dei vostri cari e
a me la gioia dei miei?
Allora, perchè voi no e io sì?
Tormento, dolore, angoscia, per questo interrogativo
fino all'ultimo dei miei giorni
fino all'ultimo alito di vita.
Perchè voi no e io sì?
(Tormento)55
Finalmente il ritorno a casa.
Ma non basta tornare a casa, bisogna trovare anche la forza di ritornare a vivere.
In questi versi c’è la fatica di un uomo tornato alla vita, di un uomo tormentato dai ricordi, talvolta
incubi; c’è tutto lo sforzo per diventare la voce di tutti quelli che ha amato, che gli sono anche solo
passati accanto e che non sono tornati.
Notte buia, fredda silenziosa
ansia tormento: sonno senza riposo
vi vedo; macilenti scarni
teste insaccate sulle spalle
visi senza volto.
Uno, dieci, cento, mille:
nudi, fantasmi nella notte
braccia abbassate, mani a
difesa di dignità mai sopita
camminate lungo il viale, in fondo
il crematorio, la ... libertà.
Io, fermo come statua di gelo
inerme impotente, guardo;
camminate sempre più lentamente, ombre nella notte
vivi già morti
55
Op. cit. pg. 83
25
Uno, dieci, cento mille
alla fine del viale, vi
voltate, guardate nella notte fonda
portate dal vento sento:
fievoli voci ripetere, ossessive insistenti
coraggio, forza, non cedere, combatti,
non ci tradire!
(Sogno)56
E Quinto non li ha traditi, quando faticosamente e con lacrime e dolore, ogni anno accompagnava i
ragazzi nel “suo” lager e parlava di loro, dei suoi compagni.
Ora Quinto è anziano e stanco; non si sente più di testimoniare. A dicembre ci ha detto al telefono, a
noi che gli chiedevamo di raccontarci il perché della sua poesia: “La mia testimonianza è finita!”.
Ma poi ha subito aggiunto, “forse tra qualche mese…starò meglio. Allora, ci risentiamo”. Non
tradisce Quinto i compagni, ci parlerà ancora di loro.
56
Op. cit. pg. 79
26
Edith Bruck
Questo capitolo è stato raccolto e redatto da Giulio Candreva
27
Nata nel 1932, in una famiglia di ebrei poverissimi, nel villaggio ungherese di Tiszabércel vicino al
confine ucraino, Edith Bruck subì la deportazione all’età di 12 anni. Era il maggio del ’44 quando
lei e la sua famiglia vennero deportati ad Auschwitz.
Sopravvissuta al lager, dove vide morire i suoi genitori e alcuni parenti (di una ventina solo in
cinque tornarono), vagò tra l’Ungheria, Israele e l’Italia, dove si stabilì definitivamente nel ’54.
Dai suoi sedici anni Edith ha lavorato come contadina, cameriera, operaia, ballerina, modella per
cartoline illustrate, cuoca.
Fin da bambina attratta dalla poesia e dalla letteratura, “…invece di pregare la sera a letto leggevo
le poesie che ho imparato nei banchi della scuola elementare…”57, ebbe finalmente l’occasione di
compiere gli studi che il nazismo le aveva impedito.
Dopo la guerra scoprì i grandi poeti ungheresi e, giunta in Italia, frequentò i circoli letterari dove
strinse presto rapporti di amicizia con Montale, Ungaretti, Luzi e, in particolare, con Primo Levi al
quale la legava la comune esperienza passata e le comuni difficoltà a riabilitarsi e vivere il
presente.58 E’ proprio da questa amicizia che giunsero per la Bruck le sollecitazioni a dare sfogo
all’impellente bisogno di testimoniare. Così incominciarono le sue peregrinazioni per le scuole
italiane ed europee, portate avanti non senza fatica per la difficoltà e il dolore che genera il
rievocare il ricordo di un esperienza terribile come quella del lager.
Sono fragile
come l’ultimo respiro
non guardatemi così
nei vostri occhi
anche quando sono buoni
c’è qualcosa d’assassino
non mi fido più
sono guardinga
faccio solo un passo avanti
e due indietro
come fossi in una gabbia
da cui hanno tolto
le sbarre di difesa
prematuramente
prima che si civilizzasse
l’uomo.59
57
Edith Bruck, Il tatuaggio, Guanda, Milano, 1975 pg. IX
Troviamo traccia dell’intenso rapporto di amicizia e confidenza con primo Levi in alcune pagine di Lettera alla
madre, dalle quali riportiamo alcuni passaggi: “A volte mi invade la felicità senza nessuna ragione, a volte, nei momenti
in cui sono più sola, mi invade un’onda nera in un pomeriggio assolato, quando sembra che abbia tutto, non mancanze
urgenti, allora come l’amico scrittore suicida penso che non c’è più speranza, non c’è mai stata, non ci sarà mai. “Non
c’è più speranza” mi aveva detto l’amico scrittore per telefono e dalla sua bocca mi pareva vero. “Era meglio ad
Auschwitz” aggiunse e mi pareva che bestemmiasse. “Almeno allora ero giovane e credevo, capisci?” mangiava le frasi
che devono avere turbato anche lui. […] Non avrei mai immaginato che di lì a poco, al primo giorno della Pasqua,
sarebbe volato via dal terzo piano [...] se ne volasse via come un angelo stanco a tu per tu con quell’istante fatale che ha
vinto sulla ragione l’uomo della ragione. [...] Da quale fantasma stava fuggendo forse pensando di sopravvivere ancora
una volta? Ed è sopravvissuto di nuovo. Ci è riuscito. E’ vivo. […] gli dissi una serie di banalità: “noi non dobbiamo
cedere. Non possiamo. Vivere è un dovere per noi, noi dobbiamo vivere sempre, dovremmo essere immortali, siamo
immortali e indistruttibili, no?” Dall’altra parte del filo deve aver fatto un sorrisino suo, dolceamaro, restando in
silenzio sospeso, allarmante, freddo, frettoloso. “Vorrei tanto vederti” cercai di scusarmi per avergli ricordato il nostro
dovere che lui conosceva anche troppo. Era vissuto nel dovere con una coscienza sempre all’erta per tutto ciò che
accadeva nel mondo. E’ proprio dei doveri che voleva liberarsi con il suicidio? Di che cosa voleva liberarsi? Perché?”
da Edith Bruck, Lettera alla madre, Garzanti, Milano, 1988, p. 71 – 73.
59
Edith Bruck, In difesa del padre, Guanda, Milano, 1980, p.51
58
28
Ma per quanto tormentato e intervallato da necessari periodi di allontanamento, il lavoro di
scrittrice di Edith Bruck continua con regolare frequenza. Aveva iniziato, a soli quattro anni dal suo
arrivo in Italia senza conoscere una parola della nostra lingua, nel 1958 quando Lerici pubblicava il
suo primo romanzo in italiano, Chi ti ama così, subito accolto positivamente dalla critica.60
Accanto alle varie opere narrative, nelle quali già emerge con forza la vena poetica tagliente che la
caratterizza, della Bruck abbiamo numerose poesie pubblicate in raccolte che si inseriscono
cronologicamente tra il ’75 e il ’90 e in cui la scrittrice concretizza con estrema efficacia le sue
aspirazioni poetiche covate fin da ragazzina.
E’ questo il caso de Il Tatuaggio, del 1975, libro che raccoglie, come ci sottolinea la stessa autrice
in un testo introduttivo, componimenti scritti in corrispondenza e in risposta di un periodo
particolarmente difficile della sua vita61.
Una vita e un passato difficili quelli di Edith Bruck, in cui alla terribile esperienza della
deportazione è legata anche la brusca interruzione, operata dalla selezione all’arrivo, di un rapporto
problematico con i suoi genitori.
“«Obbedisci! Obbedisci!» gridavi lasciando la mia mano, il mio corpo, anzi, spingendomi via da te,
consegnandomi al soldato, alle sue botte per mandarmi dall’altra parte, nella direzione opposta alla
tua.
Né tu né io sapevamo che tu andavi nel gas e io ai lavori forzati, verso una probabile sopravvivenza
che chissà come e perché si è avverata.
“Per volonta di Dio” è pronta la tua risposta ma io non te la lascerò dire perché non voglio litigare
con te subito, è la pace che cerco! E’ dal 28 maggio 1944! Eppure me lo ricordo quel giorno come
fosse oggi, un giorno eterno, senza tempo, racchiude tutti i tempi. Io mestruavo. Ero al quarto
giorno mamma, come il nostro unico viaggio insieme.”62
Il fantasma di una questione irrisolta con la madre è presente in numerose opere della scrittrice:
“Quante volte ho cominciato a scriverti! Cento, mille? Non so. So solo che scrivevo e buttavo via i
fogli l’uno dietro l’altro, come quando si incomincia una lettera a qualcuno che si ama molto senza
la sicurezza di essere riamati.”63
La scrittrice conserva l’eredità di questo rapporto fatto di amore-odio e delle dinamiche che lo
hanno interrotto, eredità che è inevitabilmente presente nella sua vita privata e sociale. La sindrome
dell’abbandono di una Edith bambina, costretta nel lager ad affrontare precocemente una realtà
disumana a cui nessuno avrebbe potuto comunque prepararla, da parte di una madre che l’aveva
educata all’ubbidienza e alla sopportazione della volontà divina, contribuisce alla formazione della
Bruck adulta che si è allontanata dalla fede religiosa e che ha maturato una forte “spiritualità laica”e
un credo nella libertà ed indipendenza del pensiero, al di là delle appartenenze culturali, religiose o
geografiche. Un distacco netto dunque rispetto alla rigida osservanza dei precetti e all’assoluta fede
nell’onnipresenza e nell’onnipotenza di Dio che caratterizzavano la vita della madre e il tipo di
educazione che essa cercava di infondere ai propri figli.
Del padre64 le resta invece il ricordo che può lasciare un uomo schivo, chiuso in se stesso, spesso
lontano da casa alla ricerca di un qualche lavoro o di un affare che gli permettessero di portare a
casa un po’ di soldi, mai sufficienti a soddisfare le esigenze, a volte nemmeno quelle primarie, della
60
Seguiranno i racconti di Andremo in città, Lerici, 1962, il romanzo Le sacre nozze, 1969, i racconti di Due stanza
vuote, 1974, un romanzo breve Transit, Bompiani, 1978; il romanzo Mio splendido disastro, Bompiani 1979; Lettera
alla madre, Garzanti, 1988, Nuda proprietà, Marsilio, 1993; L' amore offeso, Marsilio, 2002;
61
Dalla lettura dei testi poetici della raccolta si può pensare che il momento difficile corrisponda all’abbandono della
persona amata che si aggiunge al tema dell’”abbandono” dei genitori che le sono stati strappati nel lager.
62
Edith Bruck, Lettera alla madre, Garzanti, Milano, 1988, p.8
63
Edith Bruck, Lettera alla madre, Garzanti, Milano, 1988, p.1
64
“Suo padre, Sandor Steinschreiber, lavorava come garzone di macellaio, ma non riuscì mai a coronare il sogno della
sua vita: avere una macelleria. Fece anche il cavallante e trasportò grano, galline e pecore. Non era capace di mantenere
la numerosa famiglia: la miseria, i malanni e la prigionia durante la prima guerra mondiale lo spinsero a bere e
all’ateismo. Per questo, nonostante fosse generoso, era mal sopportato in casa.” Dalla pagina di presentazione di Chi ti
ama così, Lerici, Milano, 1959.
29
sua povera e numerosa famiglia. I continui rimproveri65 e i sospetti che la madre riservava al padre,
la sua continua assenza anche quando era fisicamente presente in casa, l’averlo perso
prematuramente e in modo così violento sono elementi di un’immagine in parte idealizzata che di
lui Edith Bruck conserva consapevolmente; il ricordo del padre, forse più che per ogni altro caro
perso, genera sempre in lei tormento e rabbia, rabbia per non aver avuto tempo e modo di
sviluppare un rapporto con lui degno di un padre e di una figlia.
Oggi Edith Bruck vive a Roma. A volte rifiuta gli inviti per i sempre tormentati incontri con i
giovani nelle scuole pur considerandola una missione irrinunciabile, poiché tali incontri la
sottopongono ad una sofferenza spesso insopportabile:
Posso fare l’amore
magiare bere dormire
sentire suoni
vedere gente vivere
non posso far tacere
o non forzare un contenitore
già colmo di crepe che chiede
con ragione
la parola fine.66
O ancora:
E quando avrà termine
questa missione?
Sono stanca della mia presenza accusatrice,
il passato è un’arma
a doppio taglio
e mi sto dissanguando.
Quando verrà la mia ora
lascerò in eredità
forse un’eco all’uomo
che dimentica e continua e ricomincia…67
Ciò non di meno, sostiene che ne valga sempre la pena, finché c’è anche solo una persona che ha la
sensibilità di capire cosa ha significato vivere la terribile esperienza del lager e cosa significa
esserne testimoni. Esemplificativa di tale opportunità e dell’efficacia di tale missione è la lettera che
una studentessa ha scritto a Edith Bruck, in seguito ad uno di questi incontri, chiedendole di aiutarla
a non dimenticare, lettera che la scrittrice ha inserito nel suo ultimo libro Signora Auschwitz, il cui
stesso titolo non è nient’altro che un appellativo al quale una studentessa ricorse durante il
colloquio, non ricordandosi il nome Bruck. “Nonostante le testimonianze mi pesassero e avvertissi
una certa resistenza, da reduce coscienziosa, a ogni nuovo invito, scattava in me una sorta di
obbligo interiore e, armata di medicinali contro gli spasmi addominali, continuavo come una
Giovanna d’Arco che si avvia al rogo. E mi bruciavo. Mi lasciavo bruciare, e non mi meravigliai
per niente quando un’impacciata studentessa, rivolgendomi una domanda mi chiamò “signora
Auschwitz”, luogo che abitava il mio corpo e che mi sentivo anche addosso, come una camicia di
forza sempre più stretta, che negli ultimi due anni mi stava letteralmente soffocando, senza che fossi
65
La dedica di Andremo in città, Lerici, 1962, recita così: “A mio padre, che dalla vita non ebbe mai niente e da noi
immeritati rimproveri.”
66
Da Edith Bruck, Il tatuaggio, p. 58
67
Da Perché sarei sopravvissuta?, Il tatuaggio, op. cit. p. 68
30
capace di liberarmene. Ero convinta che dire di no alla testimonianza, separarmi da Auschwitz, da
me stessa, dal mio essere, mi avrebbe fatto più male che continuare”68.
Della terra di origine le rimane la mancanza ma anche il rancore per averla “gettata in pasto ai
leoni”, ma in fondo nessun legame profondo poiché “chi ha perso anche le tracce dei propri morti è
privato di una terra che possa dire sua”.69
Le Poesie
A vent’anni di distanza dal suo approdo in Italia ,e dopo la pubblicazione dei suoi primi quattro
libri, Edith Bruck si cimenta con successo nella stesura delle sue prime poesie nel 1974, poi raccolte
ne Il Tatuaggio, edito da Guanda nel ’75. Poesie scritte, come ci dice la stessa autrice, in un paio di
mesi e “in corrispondenza di uno dei periodi più disastrosi” della sua vita e in cui le erano
necessarie “come ancora di salvezza”, finalmente degne d’essere pubblicate dopo i vari tentativi
fatti fin da ragazza di scrivere versi giudicati però “scarabocchi giovanili”70. Nel 1980 viene
pubblicata dalla stessa casa editrice la seconda raccolta di poesie In difesa del padre, mentre nel ’90
Garzanti pubblica Monologo, ultima opera di testi poetici dell’autrice. I temi della persecuzione e
della realtà nel lager, l’abbandono e la perdita dei propri genitori, il bisogno-dovere di testimoniare
caratterizzano buona parte dei componimenti molti dei quali però affrontano un altro abbandono,
quello di una storia d’amore finita o di rapporti famigliari intaccati o interrotti nel corso di una vita
mai del tutto appagante.
Nella poesia della Bruck c’è sempre spazio per l’autobiografia e per la trattazione dei sentimenti e
dell’amore affrontate attraverso l’indagine introspettiva e il confronto con le proprie esperienze, i
propri disagi e il proprio malessere interiore.
Non mi riconosco più
io che sotto i fari
avanzavo rasente i muri
io che per un pugno
di pane rischiavo la vita
io che mi riscaldavo
con l’ultimo fiato
di chi mi fu vicino
io che dormivo nelle stalle
nella neve, non mi riconosco
oggi che ho tutto e niente
senza di te. …71
I testi poetici di Edith Bruck non parlano solo del lager ma presentano le tematiche incrociate del
difficile rapporto con la madre, della particolare figura del padre e della ferita lacerante di un amore
perduto; alcune poesie hanno un unico tema, in altre invece si avverte la compresenza, la
sovrapposizione e la fusione delle tematiche sopra accennate.
Non è quindi possibile parlare di poesie solo sul “lager” perché la vita dell’autrice, dalla bambina
alla donna, è sempre presente, infatti la caratteristica della poesia della Bruck non è quella di
dividere l’esperienza del lager dalle altre ma è invece quella di fondere e soffrire tutti i suoi dolori
in una sola voce.
68
Edith bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Marsilio, Venezia, 1999. Pg. 13.
Maria Teresa Cinanni, Olocausto, il peso della testimonianza. Intervista concessa da Edith Bruck. In
www.nonluoghi.info
70
Edith Bruck, Il tatuaggio, Guanda, Milano, 1975 p. IX
71
da Non mi riconosco più, Edith Bruch, Il tatuaggio, p.59
69
31
Ogni tema non solo è compresente ma trae forza e significato dagli altri: ad esempio la sensazione
di rifiuto da parte della madre si carica e si confonde di ricordi di persecuzione e terrore:
“Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue labbra stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio
dalle sagome umane che colpivano nel buio
dai cani aizzati…”72
Nelle pagine che seguono verranno prese in esame alcune delle poesie a nostro avviso più
significative dell’opera di Edith Bruck.73
Il criterio che ci ha guidato nella scelta dei testi che seguono è stato quello di privilegiare le poesie
nelle quali il tema del lager è dominante o facilmente individuabile.
La povertà di testi critici sull’autrice fa sì che la lettura e l’interpretazione delle poesie sia frutto di
riflessioni strettamente personali e del gruppo di lavoro e che quindi non abbia il supporto di note
riferentesi a testi critici e non vuole avere altro valore del lavoro di un gruppo di studenti.
Nascita
( da Il tatuaggio)
Mia madre sentendo lo stimolo
raggiunse il gabinetto in fondo al cortile
e spinse spinse sempre più forte
data la sua tortuosa stitichezza.
“E’ come partorire” ripeteva a se stessa
e spinse spinse sempre più forte
e con la fronte larga grondante di sudore
con gli occhi verdeazzurri in lacrime
con le vene gonfie sul collo
mai sfiorato da gioielli o affini.
Il fazzoletto dal capo le scivolò dietro
lasciando intravedere i suoi capelli neri,
con le mani teneva il ventre grosso con me dentro,
per riaggiustare il fazzoletto sul capo
da buona ebrea ortodossa abbandonò il ventre
e intanto spinse spinse sempre più forte,
ne seguì un grido un lamento prolungato
mentre la mia testa sfiorava il pozzo pieno di merda.
Per gli zingari m’attendeva un futuro fortunato
per mio padre ero un’altra bocca da sfamare
72
da Infanzia, Edith Bruch, Il tatuaggio, p.10
Mancano in questo lavoro poesie tratte dal terzo libro di poesie della Bruck Monologo, Garzanti, Milano, 1990,
perché non è stata possibile recuperarne alcuna copia, non essendo disponibile in nessuna delle biblioteche piemontesi
ed essendo da tempo esaurita la stampa e non più disponibile nel catalogo della casa editrice.
73
32
per mia madre una disgrazia inevitabile
per i poveri coniugi religiosi che fanno l’amore
un segno di pace dopo mesi e mesi di liti
per i miei cinque fratelli non sette
(fortunatamente due erano morti piccolissimi)
un giocattolo vero che strillava
succhiava i capezzoli grinzosi
s’aggrappava alla pelle dei seni vuoti della mamma
una madre sottoalimentata come le madri
d’Asia d’Africa d’India d’America
del Sud o del Nord, di ieri di oggi di domani …
Questa è la poesia con cui si apre la prima raccolta Il tatuaggio ed ha un forte valore rappresentativo
di quello che è lo stile dell’autrice, del tema centrale del suo rapporto conflittuale con la madre e del
ricordo sanguinante dell’esperienza del lager.
Un linguaggio crudo, tagliente e sfrontato, efficace nel rappresentare e trasmettere la sofferenza
inguaribile, seppur consapevole, della Bruck.
In questo testo l’autrice sfrutta il ricordo improbabilmente vero della propria nascita per descrivere
il clima di miseria in cui ha vissuto l’infanzia e per tracciare in sintesi il profilo del suo rapporto con
la madre: la totale subordinazione di quest’ultima all’osservanza dei precetti religiosi che la porta ad
allontanare la figlia, è qui metaforicamente rappresentata dal gesto del togliere le mani dal ventre,
all’interno del quale vi era la piccola Edith, per riaggiustarsi il fazzoletto tenuto sul capo per coprire
i capelli, così come vuole l’ortodossia ebraica, rischiando però che la piccola sfiori la possibilità di
finire nel fondo di una latrina, come fosse anch’essa un escrezione fecale.
L’immagine della latrina non può non ricondurci a quelle di Auschwitz e così la bambina che nasce
è già nell’abisso del lager. La testolina di questa neonata che sfiora le immonde latrine dà il tono
della crudezza che a volte raggiunge il testo della Bruck. E’ possibile che dall’inconscio della
scrittrice emerga il ricordo tremendo e agghiacciante delle SS che annegavano i neonati nelle
latrine?
La forza delle parole della Bruck sembrano arrivare al limite dell’indicibile di Auschwitz.
Altri due temi sono presenti nella poesia.
Quello della povertà della famiglia è suggerito dal collo bianco della madre “mai sfiorato da gioielli
o affini”e il sentirsi, da parte di Edith, per il padre “un’altra bocca da sfamare”: la Bruck calca la
dose quando, menzionando i propri fratelli, per cui si descrive come un “giocattolo vero che
strillava”, precisa che sono “cinque non sette” perché “fortunatamente due erano morti
piccolissimi”.
Nell’altro tema, quello della fame, si può leggere una traccia dell’esperienza del campo di
concentramento, dove i seni delle madri erano secchi e raggrinziti. E nell’attualizzazione
avvertiamo la sensibilità nei confronti di tutte le madri che oggi nel mondo non sanno come sfamare
i propri figli aggrappati “alla pelle dei seni vuoti della mamma / una madre sottoalimentata come le
madri / d’Asia d’Africa d’India d’America / del Sud o del Nord, di ieri di oggi di domani…”
Arrivo
(Il tatuaggio)
Il grembo del sistema di colpo ha partorito
gemelli a milioni.
Le sue ruote gonfie di odio e di obbedienza
urlano ordini.
Sbucano dalle nebbie e le palandrane grige
come impazzite si spostano in continuazione
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ci colpiscono alla cieca rompendo la fila
guadagnata con pugni e calci e colpi di fucile.
Le orecchie sono sorde, le parole
le inghiotte il vento
che dalle fabbriche di morte
porta odore di carne bruciacchiata e cenere
sulle nostre teste calve di colpe non commesse.
L’impatto con l’assurda realtà di Auschwitz è violento e dirompente. La moltitudine di prigionieri
disumanizzati in tutto, anche nell’aspetto fisico, dal sistema nazista è qui descritta molto
efficacemente nel primo verso in cui “Il grembo del sistema ha partorito gemelli a milioni”.
Emerge di nuovo l’immagine del parto che abbiamo già visto nella poesia precedente, ma in questo
caso è la bestia immonda del nazismo che partorisce uomini e donne tutti uguali, tutti gemelli, nella
loro disumanizzazione. Numeri, stuck.
La stessa forza si sprigiona anche nei versi successivi in cui compaiono termini incisivi come odio,
urla, colpi di fucile, pugni e calci. Un caos infernale fatto di guardie “che sbucano dalle nebbie e le
palandrane grige come impazzite” che governano disordinatamente i prigionieri come fossero bestie
e in cui, con un forte gioco di contrasti, “le orecchie sono sorde, le parole le inghiotte il vento”,
versi questi che vogliono racchiudere in sé tutti gli insostenibili rumori dell’arrivo nel campo.
Quando la Bruck parla dell’odore acre di “carne bruciacchiata”, usa un’espressione fuori dal coro
per descrivere l’odore nauseabondo che avvolgeva chi arrivava a Birkenau e di cui parlano tutti i
testimoni: notiamo quasi un’irreverenza, un prendere le distanze, quasi uno stridore forte con la
tragedia che si consumava ad Auschwitz. E’ un altro “pugno nello stomaco” come quello della
poesia precedente.
Auschwitz è l’inferno in terra, toccato però a chi non ha commesso colpe tali da meritarlo, se non
quella di essere nato al di là di un confine, in una famiglia di un’altra religione.
Immagini omicide
(Il tatuaggio)
Immagini omicide attraverso gli occhi
hanno soppresso la mia anima,
non ho più debiti con il Signore.
Il corpo-macchina resiste a tutto
i guasti forse saranno riparabili
un giorno forse anche con pezzi di ricambio!
Il cuore s’illude, spera e spia la guardia
incantata dal sole che fa capolino
dietro le nuvole nere che scendono compatte.
Approfitto per rubare un ciuffo d’erba
un fiore vivo tra stivali e zoccoli,
tento di leggere un pezzo di giornale,
Martha sviene sempre più spesso vuole morire
fissa il filo spinato dove come spaventapasseri
stanno aggrappate due sorelle.
In questa poesia della Bruck si coglie uno degli aspetti più drammatici della vita nel lager: le
atrocità, che gli occhi dei vivi sono costretti a vedere, sono tali da annientare l’anima. Solo chi
riesce a pensare freddamente alla propria sopravvivenza può farcela, senza lasciarsi assoggettare
dalle violenze psicologiche, oltre che da quelle fisiche, inferte dalle guardie.
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Monito per tutti sono gli spaventapasseri aggrappati al filo spinato, corpi di due sorelle che hanno
cercato in un ultimo gesto disperato una morte rapida, una via di fuga estrema dalla lenta condanna
imposta dai nazisti.
In questo scenario l’unico modo per sopravvivere è negarsi alla propria anima ormai soppressa, già
restituita a Dio non attraverso la morte fisica bensì attraverso una morte spirituale. E’ necessario
sopravvivere alla propria anima rifiutando ogni cedimento alla sensibilità e a ogni debolezza morale
che possano intaccare la continua attenzione e la lucidità necessarie per cogliere ogni occasione
buona per guadagnarsi del cibo74, fosse anche un semplice filo d’erba, raccolto approfittando della
distrazione momentanea di una kapò. Sono comunque due sorelle quelle appese come
spaventapasseri al filo spinato: erano tra di loro sorelle? Forse, ma certamente a noi sorelle.
Intanto la speranza che tutto questo abbia termine, la speranza di tornare alla vita, non finiscono.
C’è “un fiore vivo tra stivali e zoccoli”. C’è ancora un po’ di fiducia in un futuro riparatore in cui a
tutto si potrà porre rimedio; un futuro in cui qualcuno venga a liberare i prigionieri; un futuro che si
spera prossimo, acceso dalle notizie colte su pezzi di giornale fortuitamente a portata di sguardo.
Tra non molto
( da In difesa del padre)
Tra non molto
quando dalla bocca
di un esperto di quiz
la gente sentirà parlare d’Auschwitz
si chiederà se avrebbe indovinato
quel nome
commenterà il campione di turno
che non sbaglia mai le date
e azzecca sempre il numero dei morti.
In uno stanco sbadiglio
dirà che forse preferiva
la storia greco-romana
a questi ebrei…
hanno fatto sempre parlare di sé
attirano proprio la persecuzione.
L’esperienza del lager è passata da tempo e ora, a distanza di 35 anni, in quel 1980 in cui Edith
Bruck scrive questa e altre poesie pubblicate da Guanda nell’opera In difesa del padre, compito di
ogni sopravvissuto è quello di ricordare, di non lasciare che la morte di milioni di uomini finisca
archiviata in quel dimenticatoio in cui spesso per molti la storia si tramuta. La testimonianza è
anche il tentativo di risarcire un debito nei confronti di chi è morto al posto tuo, di chi, esalando
l’ultimo respiro, ha lasciato come testamento la richiesta di raccontare ciò che è accaduto, affinché
le coscienze del mondo venissero scosse e non si potesse più ripeter un orrore simile. Ma il rischio è
che a distanza di tanto tempo tutto cada nella banalità, che al più la Memoria si riduca a facili
momenti di catarsi cinematografica o televisiva in cui la commozione provata per qualche attimo
basti ad alleggerire il peso delle nostre coscienze inquiete.
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L’immagine del prigioniero che si guarda continuamente intorno per cercare qualcosa per sopravvivere, è ricordata
come istintiva ancora dopo la liberazione da Primo Levi: “Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di
camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vender per
pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti ora radi, un sogno pieno di spavento” Primo Levi, La tregua,
Torino, Einaudi, 1996, p. 324.
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A tutto questo sottende questa poesia della Bruck in cui il quiz televisivo si presenta come elemento
simbolizzante la massificata banalizzazione e l’appiattimento culturale che contraddistinguono la
società contemporanea, nella quale tutto diventa spettacolo fine a se stesso, forma senza contenuto.
L’uguaglianza padre!
(da Il tatuaggio)
L’uguaglianza padre! Il tuo sogno s’è avverato
ti intravedo ti vedo ancora stai camminando
accanto a Roth il possidente che ci negò
un po’ di ricotta per le feste,
Klein il calzolaio che a credito non risuolò
le tue uniche scarpe, Goldberg il macellaio
con la barba da capra tagliata che ti trascinò
in tribunale quando vendevi carne senza licenza,
Stein il maestro che ci diede lezioni di ebraico
in attesa di un compenso divino ci dirigeva
come un direttore di orchestra indemoniato
rompendo dozzine di bacchette sulle nostre teste
figli tuoi in ebraico analfabeti destinati all’inferno.
E tu, il più povero, il più riconoscibile
da quelle natiche magre! Il più agile, più
sfruttabile per lavori forzati.
Avanti padre! Sei collaudato a ogni evenienza
armato di esperienza
conosci la prima linea, i fucili, le trincee
anche la lotta quotidiana in tempi di abbondanza.
Conosci la prigionia, l’asse dura della cella buia
dove ti spidocchiavi, ti leccavi le ferite,
srotolavi le cicche.
Conosci il sapore del sangue nella bocca
per un dente guasto
per il pugno d’un gendarme
per la pallottola
nel difendere la patria, ostinandoti a crederla tua.
Conosci la morte in agguato
la meschinità degli uomini
il gioco dei potenti
lo sfruttamento dei padroni.
Conosci tutta la scala dell’umiliazione
le strade oscure con l’ombre minacciose
con i lupi famelici i cavalli imbizzarriti
in notti insonni nei tuoi viaggi solitari
nell’illusione di affari
fallimentari,
le promesse non mantenute
eccetto l’ira di Jehova!
Avanti padre conosci le marce
il gelo la fame! Su la testa!
non devi più nasconderti dai creditori
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sono tutti lì nudi!
Ah, ti volti? Non mi riconosci,
sono cresciuta ho i seni duri
una peluria tenera pura
come aveva la mamma quando te la portarono
in sposa. Prendimi padre!
Ti darò piacere non figli,
amore non doveri,
amore non rimproveri,
amore da te sconosciuto
da me immaginato, corri
è tempo d’Apocalisse!
Commettiamo un peccato mortale
per meritare la morte.
E’ questa una delle poesie più intense tra quelle contenute ne Il tatuaggio e forse nell’intera opera
poetica della Bruck. Dedicatario è il padre della poetessa che qui ne descrive i caratteri e la vita
sfruttando l’efficace sintesi di cui è capace la poesia.
L’uguaglianza, che per il padre rappresentava un principio fondamentale di parità di diritti e di
trattamento per tutti, trova compimento nei primi versi, ma in una forma oscura. Il tema ricorda La
livella pirandelliana pur non potendone condividere l’aspetto ironico, poiché qui il contesto in cui si
concretizza è quello irrimediabilmente drammatico del lager, dove la morte, che tutti mette sullo
stesso piano, perde la sua caratteristica fatalità sotto il controllo di una logica del terrore che ha il
nome di Soluzione Finale. E’ infatti ad Auschwitz che egli rincontra, ora condannati al suo stesso
tragico destino, coloro che gli fecero torto, gli negarono aiuto, gli infersero colpi bassi e lo
disprezzarono. La Bruck ricorda quelle persone con una cadenza quasi liturgica che contribuisce a
far crescere la tensione per poi tornare a parlare del padre. Sempre si rivolge a lui in prima persona,
descrivendolo come un uomo costretto dalle umili condizioni ad una vita di stenti, sfruttato per il
suo buon cuore e per le sue capacità racchiuse in un corpo magrissimo, un patriota che ha servito il
Paese che poi lo ha tradito, che già aveva conosciuto la prigionia per reati veniali commessi spinto
dalla fame, a cui più volte aveva tentato di sottrarre la propria famiglia anche attraverso affari
rivelatisi sempre fallimentari. Un uomo insomma a cui la vita aveva sempre negato tutto e a cui
neanche la morte ha concesso nulla.
In un crescendo emotivo appare come un grido il finale del componimento, in cui la Bruck usa
l’immagine dell’incesto per trasmettere sul lettore la sensazione di disagio che ella vive, per
rivendicare un’infanzia privata dell’affetto paterno, ma anche quasi sostituzione della madre e atto
di accusa contro di lei incapace, prigioniera del dovere, di amare quel uomo. Un grido,
un’invocazione disperata di una giustizia che non dà tracce di sé.
Quel pensiero
( da Il tatuaggio)
Quel pensiero di seppellirti
te l’hanno tolto con almeno trentanni di anticipo!
Abbiamo avuto una lunga festa d’addio
nei vagoni stipati dove si pregava dove si facevano
i bisogni in fila dentro un secchio
che non profumava del tuo lillà di maggio
e anche il mio Dio Sole ha chiuso gli occhi
in quel luogo di arrivo il cui nome
oggi irrita le coscienze, dove io e te
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rimaste sole dopo una selezione
mi desti la prova d’amore
sfidando i colpi di una belva umana
anche tu madre leonessa a carponi
per supplicare iddio maligno di lasciarti almeno l’ultima
la più piccola dei tuoi tanti figli.
Senza sapere la tua e la mia destinazione
per troppo amore volevi la mia morte
come la tua sotto una doccia
da cui usciva un coro di topi
chiusi in trappola.
Hai pensato alla tua piccola con quel frammento
di coscienza risvegliata dal colpo
del portoncino di ferro
con te dentro mio pane amato mio pane bruciato!
O prima ancora
sapone paralume concime
nelle mani parsimoniose di cittadini
che amano i cani i poeti la musica
la buona letteratura e hanno nostalgia
dei familiari lontani.
La mia memoria è meno organizzata
della tua morte
i ricordi sono pazzi
la rabbia sta per sopprimere
le gioie della vita della mia infanzia
le tue carezze la vista dei fiori gialli
delle patate nel tuo piccolo orto.
Ti ho sopravvissuto quasi trent’anni
di vita privilegiata in confronto alla tua
e oso sperare in una fine più umana
più vicina a te anche per l’età
(che ho saputo solo dopo la tua morte)
ti riconosco nei miei occhi
che sanno di pianto
nel mio viso tondo dagli zigomi alti
nei fili bianchi tra i capelli su una testa micragnosa
nelle pieghe amare intorno alla mia bocca
nella mia nuca rigida e artritica
nei miei seni vuoti
nel mio cuore che si spaventa per un nonnulla
nelle mie braccia mature e tenere
nei miei fianchi pieni di smagliature
nel mio ventre martoriato da operazioni non figli
nelle mie cosce larghe
nelle mie gambe robuste
nei miei piedi piatti che fanno male
nelle mie scarpe storte
nel vomitare bile tra le lacrime
nell’abitino di flanella paesana
nella mia stitichezza
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nell’annodare un fazzoletto sul capo
nella mia voce quando t’invoco
nei miei sentimenti ebraici!
nella mia stanchezza
nell’attesa della morte non liberatrice
no, madre nella fede non mi riconosco in te.
La separazione dalla madre, violenta e traumatica, avviene nel lager, sotto le percosse delle guardie
naziste che smistano l’ennesimo carico di prigionieri reduci da un lungo viaggio in condizioni
disumane, stipati nei vagoni per il bestiame. Come migliaia di altre donne, di anziani e di invalidi,
la madre di Edith Bruck viene subito condotta nelle camere a gas. Il corpo incenerito o sfruttato per
la saponificazione, mentre all’esterno il mondo assiste con assurda indifferenza o apparente
incredulità.
Il dolore e l’orrore sono tali che l’autrice ne risente consapevolmente, non riuscendo ancora oggi a
riordinare i ricordi della propria infanzia spezzata irreparabilmente da Auschwitz. Ciò nonostante
l’autrice riconosce in sé i caratteri somatici della madre e alcuni aspetti della sua personalità: la
propria stanchezza per il peso di una vita da sopravvissuta assomiglia alla stanchezza della madre
per il peso di una famiglia numerosa da condurre in condizioni di miseria, così come la facilità allo
spavento di chi ha vissuto nel terrore della morte, per mesi, in un campo di sterminio in cui ti
uccidevano per un non nulla, è la stessa di chi ha dovuto accudire, quasi sempre sola, sei figli in un
clima di intolleranza e di persecuzione. E’ nel rapporto con la fede che esiste in realtà l’unica grossa
differenza tra Edith e la madre, poiché la fede smisurata di quest’ultima appare agli occhi della
figlia tradita da una realtà, come quella del lager, incompatibile con l’esistenza di un Dio che veglia
sul suo fedele e timorato popolo eletto.
Carnale quel rapporto con la madre come nell’immagine del portoncino della camera a gas che si
chiude “con te dentro mio pane amato mio pane bruciato!” Si capovolge la frase detta frequente
dalle madri ai neonati: “Ti mangerei”, per intendere un amore di identificazione assoluta, così qui
nell’immagine della figlia Bruck emerge il desiderio di rapporto totale e in quel bruciato tutto
l’orrore di quei corpi amati e desiderati divenuti solo cenere, nemmeno più corpi su cui poter
piangere.
Tristemente sarcastica quella festa sul vagone che portava in “quel luogo di arrivo il cui nome / oggi
irrita le coscienze”.
Durissima l’accusa ai cittadini “che amano i cani i poeti la musica”…
Intensissimo il lungo elenco finale dove il corpo di una figlia, sopravvisutale di trentanni, e quello
di una madre ad ogni immagine si fondono sempre più.
Note finali:
1. Il commento di alcuni testi è stato anche arricchito dalle parole dell’autrice stessa, ricavato dalla
registrazione della lettura pubblica tenuta da Edith Bruck nel teatro di Carpi il 2 dicembre 2005
e registrato dalla Fondazione Fossoli in un DVd dal titolo Edith Bruck Il peso della
testimonianza.
2. Nella piccola scelta di testi poetici della Bruck non si è fatto riferimento alla sua terza e ultima
opera poetica Monologo, pubblicata dalla Garzanti nel 1990 perché il volume non è più in
distribuzione e non è presente in nessuna biblioteca della città di Torino né della Regione
Piemonte.
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NELLY SACHS
Questo capitolo è stato redatto da Davide Onida
40
Nelly Sachs nasce a Berlino nel 1891, è figlia unica di un commerciante ebreo, dedica la sua
infanzia, oltre che agli studi, alla danza classica, incoraggiata dal padre che l’accompagna al
pianoforte. La passione per la danza verrà più tardi completamente sostituita dall’amore per la
scrittura, per le ragioni che ella stessa spiega: “La danza fu il mio modo di esprimermi ancor prima
della parola, il mio elemento più intimo. Solo tramite la gravità del destino che mi ha colpita sono
passata da questa a un’altra forma di espressione”75.
Nel 1921 scrive il libro Leggende e racconti e lo dedica all’ammirata scrittrice svedese Selma
Lagerlof, con la quale manteneva una corrispondenza fin dal 1907.
Nel 1930 muore il padre. Dal 1929 al 1938 scrive diverse liriche, pubblicate da varie case editrici
tedesche.
Nel frattempo la persecuzione nazista si intensifica e nel 1940 si rifugia a Stoccolma insieme a sua
madre, grazie ad un permesso di residenza procuratole da Selma Lagerlof. Durante l’esilio si
occuperà quasi esclusivamente di poesie sull’olocausto.
Nel 1943 esce la raccolta di poesie Nelle dimore della morte; nel 1944 scrive Eli, un dramma in
versi ambientato in una città polacca occupata dai tedeschi. Nel 46 esce il volume di poesie Le stelle
si oscurano, il tema è ancora il Lager. Nel 1957 viene pubblicato E nessuno sa continuare, dove la
morte è descritta come una fuga dalla prigione (il lager). La raccolta La morte festeggia ancora la
vita risale invece al 1961 e racconta la sua esperienza di ricovero in ospedale, a causa di una
malattia. Enigmi roventi esce invece tra il 1962 e il 1966 ed è un ciclo di poemi diviso in quattro
parti che prosegue nel racconto dell’esperienza della malattia. Nel 1966 pubblica una serie di liriche
dal titolo La cercatrice, una sorta di biografia spirituale. Tra i numerosi testi teatrali ricordiamo: Un
mistero nel dolore d’Israele (1951), Solo un minuto nel mondo (1968).
Nelly Sachs guadagnò molta considerazione tra i critici per le sue ottime traduzioni dallo svedese al
tedesco.
La sua poesia però fu anche giudicata negativamente da parte della critica, a causa del suo
“ermetismo”, della difficoltà cioè ad una piena e chiara comprensione.
In Germania restò, per molto tempo, quasi sconosciuta e solo a partire dalla fine degli anni ’50 si
riconobbe la sua grandezza. In Svezia invece, fu molto stimata fin dalle prime pubblicazioni, grazie
alle traduzioni di noti autori lirici svedesi del ‘900.
Tra il 1961 e il 1965 i suoi scritti vennero tradotti in Francia, Italia, Spagna, Bulgaria, Finlandia,
Israele, Cecoslovacchia e Stati Uniti. I critici che analizzarono lo stile della Sachs erano convinti
che le sue poesie non potessero mai raggiungere una diffusione di massa, ed è per questo che molti
rimasero stupiti quando le venne assegnato il premio Nobel nel 1966.
Nelly Sachs morì nel 1970 nella sua casa di Stoccolma.
Di Nelly Sachs esistono in italiano tre volumi che in gran parte riproducono gli stessi testi:
il primo fa parte della collana Collezione di poesia di Einaudi: Nelly Sachs, Al di là della polvere,
traduzione di Ida Porena, prefazione di Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino, 1966. Si tratta
di un’antologia di poesie scelte nelle raccolte della Sachs.
Il secondo è Nelly Sachs, Poesie, a cura e con prefazione di Ida Porena, Einaudi, Torino, 1971.
Questo volume amplia la scelta di poesie del precedente volume e presenta tre lavori teatrali.
Il terzo è un volume che fa parte della collana Scrittori del mondo: I Nobel della UTET: Shemuel
Josef Agnon – Nelly Sachs – Premi Nobel 1966, a cura di Roberto Fertonani, UTET, Torino, 1972.
Il volume della UTET contiene tutti i testi di Poesie di Einaudi più il ciclo Apriti notte, tradotto da
Roberto Fertonani.
75
Roberto Fertonani, Nelly Sachs, in Shemuel Josef Agnon – Nelly Sachs – Premi Nobel 1966, UTET, Torino, 1972, p.
501.
41
RIFLESSIONI
L’autrice ebro-tedesca Nelly Sachs scrive in tedesco e racconta dei Lager, immergendosi
interamente col pensiero, l’immaginazione e la disperazione di chi sa di non poter rivedere più i
propri amici, i propri cari, il proprio popolo.
Nel corso della ricerca di notizie che potessero riguardare Nelly Sachs, ho capito che soltanto
tenendo conto delle sue origini si può intendere la sua opera. I primi anni del suo esilio, passati al
capezzale della madre inferma, saranno per lei i più drammatici. A turbarla non sono soltanto le
sofferenze della madre ma c’è anche la consapevolezza che, nel frattempo, parenti ed amici ebrei si
trovano nei campi di sterminio. La vita in esilio, la separazione dalla vita precedente, la malattia
della madre la segneranno per sempre: in questa esperienza di dolore si fonda la sua poesia.
Abbandona lo stile e i contenuti dei primi tempi per raccontare la buia realtà dei suoi stati d’animo,
del suo quotidiano, del suo pensiero, che corre fino alle “dimore della morte”; espressione che
l’autrice usa per definire, in una triste e precisa descrizione della loro realtà, i campi di sterminio
nazisti.
Forse Nelly Sachs tentava con la poesia di avvicinarsi a quel destino al quale era riuscita a sfuggire
e che la inseguirà ogni giorno, torturandone i pensieri e ispirandola nella scrittura, una scrittura
complessa, profonda e convinta, grazie al forte radicamento nella religione.
Analizzando le poesie delle diverse raccolte mi ha colpito in particolare, quella dal titolo Al di là
della polvere che comprende sei gruppi di poesie, riportate in ordine cronologico per far capire
meglio la strada seguita dall’autrice attraverso gli anni del genocidio. Ho trovato molto interessanti i
temi che si ripetono nei versi di Nelly Sachs: la natura, la descrizione precisa e molto toccante dei
volti degli anziani internati nei lager, degli amanti, dei bambini, e questo continuo riferimento alle
sacre scritture. Ho capito che Nelly Sachs utilizza un linguaggio con molti riferimenti alla fede e
alla Bibbia, a volte chiuso e di difficile interpretazione, e che utilizza uno stile ricco di metafore per
le sue poesie dedicate ai lager, forse perché quanto accadeva al suo popolo era impossibile da
narrare, nel senso che parole troppo vicine ad un significato preciso e reale avrebbero corso il
rischio di tradire, di sminuire, di nascondere la terribile ma umanissima esperienza di quei milioni
di uomini, donne e bambini che soffrivano e morivano nei campi di concentramento e di sterminio.
La sua scelta di essere una poetessa “ermetica” ha fatto sì che alcuni critici giudicassero
negativamente le sue produzioni.
Penso che le poesie di Nelly Sachs non possano essere considerate singolarmente ma che tutte
insieme partecipano alla composizione di un lungo “percorso” seguito dall’artista, i cui pensieri si
concentrano nei luoghi della “distruzione” del proprio popolo, nel periodo più triste della storia
dell’uomo. Un percorso di grande dolore, perciò che stava avvenendo nel mondo per mano
dell’uomo, ma che è anche un cammino di speranza, sostenuto dalla fede, unico rifugio sicuro per il
popolo ebreo.
Il tema che spesso ritorna nelle sue raccolte è la vita dei deportati immaginata all’interno delle
orribili prigioni. In diversi modi, nei suoi versi l’autrice trasforma la morte in “fuga” dalla prigione,
attraverso le ciminiere dei forni crematori che fungono da scappatoia per il popolo d’Israele, che
torna in cielo, dove i sofferenti avranno nuova vita.
Ho notato che ci sono spesso, in contrapposizione con i luoghi di morte, riferimenti alle meraviglie
della natura e dell’universo creato da Dio, come nella poesia “Protetti sono gli amanti”. Molte le
metafore, che si sostituiscono ad una cruda descrizione e che aiutano forse a far meglio “sentire” il
dolore e lo strazio dello sterminio, come nella poesia Si metta una lanterna di misericordia,
chiaramente riferita alle camere a gas.
Mi ha colpito molto la prima parte della raccolta Al di là della polvere dove la Sachs riesce con la
poesia a vivere in maniera profonda la realtà dei lager. Sono convinto che la sua opera non può
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essere definita una semplice testimonianza ma un riferimento chiaro ai sentimenti di tutto popolo
ebreo, cosi come penso che proprio l’opera della nostra poetessa sia un chiaro esempio di come la
poesia sull’olocausto non possa essere interdetta o condannata.
Oh i camini
( da Nelle dimore della morte)
E quando questa mia pelle sarà dilaniata
contemplerò Dio senza la mia carne.
Il libro di Giobbe
Oh, i camini
sulle ingegnose dimore della morte,
quando il corpo di Israele si disperse in fumo
per l'aria e lo accolse, spazzacamino, una stella
che divenne nera
o era forse un raggio di sole?
Oh, i camini!
Vie di libertà per la polvere di Job e Geremia chi vi ha inventato e, pietra su pietra, ha costruito
la via per i fuggiaschi di fumo?
Oh, le dimore della morte,
invitanti per la padrona di casa
altrimenti ospite –
Oh, dita
che posate la soglia
come un coltello tra la vita e la morte –
Oh, camini,
oh, dita,
e il corpo di Israele in fumo per l'aria!
Una delle poesie più significative di tutta la raccolta.
Per l’autrice le dimore della morte sono i campi di concentramento nazisti, nei quali trovarono la
morte milioni di ebrei. In quelle dimore la morte è la padrona, non è ospite momentanea come
quando un uomo muore nella sua casa.
Quale cervello ha costruito così ingegnosamente quelle fabbriche di morte?
Su queste dimore come dita stanno le ciminiere dei forni crematori (i camini) attraverso le quali
passa il fumo dei corpi bruciati. L’autrice le definisce una “via per la libertà”, vie di fuga per i
prigionieri del campo, per il popolo d’Israele che si disperde nell’aria, dove li accoglie una stella
che diviene nera per il fumo che la copre? O forse è il sole che si fa nero in quelle giornate che
sembrano notte?
Ritorna spesso in Sachs la parola “polvere”, che chiaramente fa riferimento alle parole della Genesi
( cap. 2,7), quando racconta la creazione di Adamo che Dio plasma “con polvere del suolo”
In questa raccolta sarà ricorrente il tema della fuga spirituale attraverso la morte come unico modo
per eludere il boia e raggiungere l’eternità. Contro la volontà del carnefice, il popolo d’Israele
scappa, attraverso le ciminiere, per raggiungere la vita eterna. Come suggerisce chiaramente la
citazione tratta dal libro di Giobbe (Job) e posta in testa alla poesia “E quando questa mia pelle sarà
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dilaniata contemplerò Dio senza la mia carne”. Intensissimo nella sua cruda verità storica quel
“senza la mia carne”.
Oh notte dei bimbi piangenti
( da Nelle dimore della morte)
Oh, notte dei bimbi piangenti!
Notte dei bimbi chiamati alla morte!
Il sonno non può più entrare.
Orribili guardiane
hanno sostituito le madri,
nei muscoli delle mani tendono la falsa morte,
la spargono sui muri e sulle travi,
tutto fermenta nei nidi dell'orrore.
Paura allatta i bimbi e non la madre.
Appena ieri la mamma chiamava il sonno
su loro, come una bianca luna,
in un braccio era la bambola –
con le guance lavate dai baci,
nell'altro una bestia di pezza
resa viva dall'amore –
Soffia ora il vento della morte,
solleva le camicie sui capelli
che nessuno più pettinerà.
Già tutto è nel primo verso.
E’ la lucida e immaginaria descrizione della situazione dei bambini deportati, del loro terrore, dei
loro lamenti, dei pianti, del sonno che hanno ormai perduto. Neanche la loro innocenza è bastata a
fermare le ferocia dell’uomo.
Non ci sono più le madri a badare a loro ma “orribili guardiane”, termine che indica la
“trasformazione” subita dall’essere umano all’interno del lager, dove l’uomo non è più uomo, dove
non sono più le madri ad allattare i bimbi, ma è la paura.
Vediamo e sentiamo in quel “tutto fermenta nei nidi dell'orrore” la morte di milioni di persone,
morte sparsa da mani assassine e che ha infettato per sempre quelle pareti. Quelle baracche non
sono più nidi di vita ma nidi di orrore.
Nella seconda strofa la poetessa si china su quei bimbi soli: c’è un baratro tra l’appena ieri dove le
braccine stringevano bambole e animaletti di pezza e l’adesso con il vento della morte che soffia.
“Stringono le mani i bambini, stringendo tra le mani la morte nei loro “nidi dell’orrore”. Solo da
poco le madri avevano smesso di cullarli, di accarezzarli, di coccolarli con bambole o animaletti di
pezza che l’amore rendeva vivi. E adesso più niente, soltanto un vento di morte soffia su loro, sui
loro capelli che più nessuno potrà pettinare.
E’ questo uno dei testi che più colpisce
Protetti sono gli amanti
( da Le stelle si oscurano)
Protetti sono gli amanti
sotto il cielo murato.
Un elemento misterioso gli dà il fiato
e fanno vivere le pietre
e tutto ciò che cresce
44
trova ormai una patria solo in loro.
Protetti sono gli amanti
e solo per loro gli usignoli continuano a cantare
e non sono morti nella sordità
e le quiete leggende del bosco, i caprioli,
soffrono per loro in mansuetudine.
Protetti sono gli amanti,
vedono il dolore nascosto del tramonto
sanguinare sul ramo di un salice –
e di notte si esercitano sorridendo alla morte,
la quieta morte,
con ogni fonte che stilla in nostalgia.
La poesia afferma che anche se sotto un cielo murato “protetti sono gli amanti” all’interno delle
orribili prigioni perché hanno, come unica fortuna, l’amore, una forza misteriosa che dà loro
respiro, speranza; la forza misteriosa potrebbe anche essere, tenendo conto della forte ispirazione
religiosa dell’autrice, l’amore di Dio.
Il cielo che sta sopra il lager è un cielo “murato” e secondo la poetessa tutto ciò che di più bello
continua a crescere al di fuori di quel mondo di morte è dedicato a loro, perché è per loro che gli
usignoli cantano, perché è per loro che le creature del bosco soffrono mansuete.
Gli usignoli cantano mentre molti uomini, al di fuori di quel cielo murato, sono morti nella loro
anima perché hanno voluto essere sordi e non ascoltare le grida di dolore di un popolo che moriva.
Nonostante la buia prigione gli amanti sorridono alla morte: vedono tutto il dolore che sanguina
loro intorno e soffrono insieme a quel tramonto che finisce ma rimangono protetti, nonostante ciò
che li aspetta. La forza dell’amore protegge gli amanti, così che anche la morte può sembrare amica,
un sorriso da ricambiare davanti a un tramonto, un racconto di amanti da scambiarsi prima di
morire, con nostalgia.
Anche in questa poesia è particolarmente bello il primo verso che riesce a dare un tono intimo a
tutte le parole che seguono. Cariche di bellezza quelle due scene con gli usignoli che cantano e i
caprioli che soffrono in mansuetudine.
“Tutto ciò che cresce / trova una patria solo il loro”, solo nell’amore dei due amanti mantiene il suo
senso la vita di tutto il mondo.
Vecchi
( da Le stelle si oscurano)
Stanno lì,
nelle pieghe di questa stella,
coperti da un brandello di notte,
e attendono Dio.
Una spina gli ha serrato la bocca,
la parola gli si è persa negli occhi
che parlano come fontane
in cui è affondato un cadavere.
Oh, i vecchi,
che portano negli occhi, unico avere,
la loro bruciata discendenza.
45
I versi di questa poesia sono dedicati ai vecchi deportati nei campi di sterminio, che attendono di
tornare a Dio, immobili nel loro già fragile corpo, disperati ed esausti, persi in una dimensione che
chiama pietà e non parlano più, le loro bocche sono serrate da una spina di dolore e di pena; l’orrore
del presente ha tolto loro ogni ricordo del passato, ogni parola. Sono solo i loro occhi a svelare tutto
e soltanto nei loro occhi, scrive l’autrice, si può leggere ciò che hanno dentro: l’essere già morti,
prima di morire . Attraverso le loro espressioni si può capire quanta verità i loro sguardi sappiano
raccontare a chi li guarda, quanto avrebbero ancora da raccontare, se ne avessero la forza. Ora
quegli occhi non fanno altro che piangere e nel fondo di quelle fontane di lacrime puoi vedere un
cadavere, un figlio forse, un erede, il loro futuro.
Non c’è che un cadavere, sola eredità della discendenza del popolo ebraico, l’unica cosa che ora
possiedono veramente, l’unica cosa in cambio di tutto, perché a quei vecchi tutto è stato tolto: anche
la loro discendenza ormai bruciata.
Si metta una lanterna di misericordia
( da E nessuno sa continuare)
Si metta una lanterna di misericordia
dove sono i pesci
qua e là, dove l'amo
viene inghiottito
o dove si pratica l'asfissia.
Là è matura ormai
per la redenzione
la stella dei tormenti.
Oppure là
dove gli amanti si fanno del male,
gli amanti,
che pure sono sempre vicini alla morte.
Le vittime dello sterminio, i caduti nella trappola, sono come pesci, presi all’amo, asfissiati e sparsi
“qua e là” nelle camere a gas dopo l’esecuzione. La realtà delle pratiche di morte, benché nascosta
nelle metafore, si fa sempre più forte.
Il tormento può quindi finire, soltanto con la morte.
Con i pensieri costantemente rivolti a quei campi di morte e orrore, l’autrice trasforma i suoi versi
in preghiera, affinché venga messo un lume di misericordia in quei luoghi, dove la stella delle
sofferenze è pronta per la redenzione, affinchè la misericordia non abbandoni mai i condannati.
Là dove gli innocenti vengono ingannati, splenda un lieve che allievi ogni tormento. Là dove
l’inganno nasconde la morte, ci sia luce.
La stella dei tormenti è forse quella stella gialla di stoffa che il popolo ebraico era costretto ad
indossare come segno di discriminazione e presagio di morte? Ecco quella stella è pronta per la
redenzione, per la salvezza.
E sia misericordia anche là dove gli uomini invece di amarsi si fanno del male, e si fanno del male
nonostante siano vicini alla morte, mentre dovrebbero essere ancor più motivati a scambiarsi solo
amore, quell’amore che nella poesia di prima li proteggeva “sotto il cielo murato”.
Quest’ultima strofa sembra un invito della poetessa agli uomini a dimenticare il male sempre, in
qualunque momento e contesto della vita.
Anche qui un inizio di poesia tanto intenso che potrebbe dire tutto da solo.
46
Farfalla
( da E nessuno sa continuare)
Un altro mondo
è dipinto nella tua polvere.
Attraverso il nucleo infuocato della terra
attraverso il suo involucro petroso
sei stata offerta,
trama d'addio nella misura del finito.
Farfalla,
buona notte di tutte le creature!
I pesi della vita e della morte
si calano con le tue ali
sulla rosa
che sfiorisce col maturo rientrare della luce.
Un altro mondo
è dipinto nella tua polvere.
Un segno regale
nel mistero dell'aria.
La poesia Farfalla esprime il mondo interiore dell’autrice. Nelle ali della farfalla c’è il disegno
dell’altra vita, quella eterna, nonostante il suo destino sia uguale a quello di tutte le creature:
ritornare polvere. Nata in un paesaggio pietroso (riferimento alla realtà del mondo crudele), nata
nella misura del finito la farfalla è segno di altro, è rivelatrice di una trama diversa dal nucleo
infuocato della terra.
La farfalla che vive un solo giorno e in quel solo giorno suggerisce alla terra un altro mondo. E’ una
buona notte, è morte come passaggio alla bellezza. Anche i pesi pietrosi della vita e della morte
sembrano alleggerirsi su quelle ali che si posano sulla rosa che sfiorirà al caldo sole della maturità.
L’autrice termina ricordando la supremazia della natura (divina), sulla condizione umana, un segno
evidente della certezza di un Dio e della certezza che ci sarà un nuovo mondo, “dipinto” nella
polvere della farfalla.
La farfalla potrebbe essere la poesia stessa della Sachs che si alza in volo dal cuore e si posa sulle
cose più belle che la natura ha creato. La bellezza morirà in quel paesaggio petroso e infuocato ma
il posarsi della farfalla sulla rosa, anche se morente, sottolinea l’esistenza di un modo altro, un
segno di vita nel mistero che ci circonda.
Nella fuga
(da Fuga e metamorfosi)
Nella fuga
che grande accoglienza
lungo il cammino Avvolta
nel panno dei venti
i piedi nella preghiera della sabbia
che non può mai dire Amen
47
perché deve andare
dalla pinna all'ala
e oltre La farfalla malata
presto saprà di nuovo il mare –
Questa pietra
con l'impronta della mosca
sì è offerta alla mia mano Invece della patria
stringo le metamorfosi del mondo.
La poesia della Sachs spesso si nasconde dietro alle sue immagini, ma possiamo tentare di cogliere
almeno alcune suggestioni, anche se non tutto è trasparente di senso come quel “perché deve andare
/ dalla pinna all'ala / e oltre”.
La farfalla è la poesia di Sachs, è la Sachs stessa, la fuga è la sua dalla Germania, dove la morte per
il suo popolo stava crescendo, verso un paese libero la Svezia e quanta accoglienza e amore ha
incontrato lungo il cammino.
Tutto è però per lei ebrea incerto, senza radici sicure, il vento avvolge ma passa e non si può
fermare e la sabbia non dà quella sicurezza necessaria per dire alla terra (?) a Dio (?) la parola finale
di ogni preghiera Amen, così è, così sia.
Nonostante tutto la farfalla saprà, conoscerà di nuovo il mare infinito. E ciò avverrà presto perché il
mondo è sotto la legge del cambiamento, come la goccia di resina ha imprigionato la mosca e si è
fatta pietra fossile così l’ebreo errante, in fuga e senza patria troverà, nel suo continuo doversi
adattare, la nuova vita.
48
YITZHAK KATZENELSON
Questo capitolo è stato redatto da Massimiliano Latorre
49
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886, in una piccola città della Russia Bianca, Karelicz, da Jacob
Benjiamin Katzenelson e da Hinda Davidson. A Karelicz il piccolo Yitzhak trascorse i suoi primi
otto anni in una famiglia radicata nella tradizione ebraica (i genitori erano entrambi di famiglie
rabbiniche) e ricca di cultura, la madre era maestra e il padre era scrittore ed erudito, un “maskilim”,
un sapiente.
Dopo il trasferimento a Lodz in Polonia, Yitzhak Katzenelson, terminati gli studi, si dedicò
all’insegnamento della lingua ebraica nel locale ginnasio.
Nella scuola fu un innovatore, introducendo nuovi metodi di insegnamento dell’ebraico negli asili e
nelle scuole elementari.
Scrisse in ebraico e in yiddish: a dodici anni compose il suo primo poema drammatico, Dreyfus e
Esterhazy; fondò nel 1912 un teatro in lingua ebraica; fu autore di numerose opere e suoi testi
furono rappresentati anche all’estero.
Fu poeta ammirato e stimato, alcune sue poesie messe in musica, diventarono canti popolari in
Israele; tradusse in ebraico le poesie di Heinrich Heine.
Katzenelson dedicò molta della sua produzione letteraria all’infanzia, settore tradizionalmente poco
curato all’interno della letteratura in ebraico.
Fin da giovane fu attento e partecipe agli avvenimenti politici: ancora diciannovenne fu costretto
alla fuga a Varsavia in seguito al suo entusiastico sostegno ai rivoluzionari russi che nel 1905
entrarono nella città di Lodz. Convinto sostenitore del Sionismo76, lavorò e si impegnò per questa
causa con numerosi viaggi in Europa, Stati Uniti e diversi soggiorni in Palestina.
Al momento dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939, si trovava a Lodz e, quando otto giorni
dopo i tedeschi entrarono nella città, Katzenelson fu costretto a nascondersi per sottrarsi alla caccia
che subito la Gestapo organizzò contro gli intellettuali ebrei. Rifugiatosi a Varsavia, fu in seguito
raggiunto dalla moglie Hanna e dai tre figli.
Nel ghetto della capitale polacca Katzenelson si dedicò all’attività didattica e ad animare la vita
culturale, organizzando serate di letture poetiche e bibliche e scrivendo per il giornale del
movimento clandestino Dror. Compose testi poetici e teatrali, di questi ricordiamo La strada mi
attira, scritto per i bambini orfani e da loro recitato all’interno dell’ospizio diretto da un amico.
Il 26 novembre 1940 (il giorno seguente il ghetto fu definitivamente chiuso) Katzenelson pubblicò
il dramma biblico Giobbe, figura dell’ebreo giusto, perseguitato da Dio e che nonostante tutto cerca
tenacemente un senso alla sua disgrazia.
Il 14 agosto 1943 la moglie e i due figli più piccoli di Katzenelson furono deportati a Treblinka
dove morirono nelle camere a gas. Da quel giorno il poeta, con accanto il figlio maggiore Zvi,
assistette alla lenta agonia del ghetto e ai suoi tragici avvenimenti. Non partecipò all’ultima grande
rivolta del ghetto perché i suoi amici, che ritenevano importante che la sua “voce” si salvasse, lo
nascosero nella parte ariana di Varsavia; il 22 maggio del ’43 Katzenelson entrato in possesso di
passaporti falsi dell’Honduras fu trasferito nel campo di Vittel77 in Francia, punto di partenza per
l’estero per gli ebrei in possesso di passaporti stranieri.
76
Katzenelson aveva fatto richiesta di emigrare in Palestina e il suo nome risultava tra i primi nell’elenco; aveva già
spedito i bagagli e versato una grossa somma di danaro. Nell’aprile del 1940 i Tedeschi bloccarono ogni partenza per la
Palestina, sequestrando anche i soldi versati.
77
Il campo di Vittel, in Francia, oltre a quello di Drancy, non era costituito da baraccamenti, ma occupava alcuni
alberghi della omonima stazione termale francese. Vi furono deportati i prigionieri civili con passaporto di paesi nemici
della Germania o neutrali, in vista di uno scambio con cittadini tedeschi civili, detenuti in quei paesi. Un primo gruppo
di 200 ebrei polacchi arrivò a Vittel il 20 gennaio 1943. Un secondo gruppo di 60, il 22 maggio 1943. Katzenelson
ricevette la stanza n.107 dell'Hotel Providence, insieme a suo figlio Zwi. I tedeschi interpellarono i paesi sud-americani
sul riconoscimento dei passaporti, tramite anche la mediazione della Santa Sede. Haiti e il Perù risposero che non si
potevano riconoscere questi passaporti, perché illegali. Cuba rifiutò allo stesso modo. L'Uruguay si dichiarò disposto a
considerare caso per caso, isolatamente. Il Guatemala e il Salvador risposero negativamente. Solo il Paraguay accettò di
riconoscere i passaporti. Il Nicaragua dichiarò che poteva accettare non più di otto famiglie, ma con l'assicurazione che,
se non erano agricoltori o industriali, dovevano tornare in patria alla fine della guerra. Anche il Costa Rica si accodò al
Nicaragua dichiarando che accettava lo stesso numero di famiglie . Il Cile disse che i suoi rappresentanti a Berna
50
Il 17 marzo 1944 Katzenelson ed il figlio, insieme agli altri ebrei in possesso di passaporti per il
Sudamerica, furono trasferiti nel campo parigino di Drancy. Malgrado i documenti che avrebbero
dovuto garantire loro la libertà, il 29 aprile partirono con altri 173 ebrei in un trasporto per
Auschwitz, dove morirono al loro arrivo78 nelle camere a gas. Quindici giorni dopo giunse da parte
tedesca il riconoscimento dei loro passaporti.
Presentazione de Il canto del popolo ebreo massacrato
Durante la prigionia a Vittel Katzenelson scrisse Il Diario di Vittel e il 3 ottobre 1943 iniziò la
composizione del Canto. La stesura del testo durò tre mesi e mezzo e terminò il 17 gennaio 1944.
“Il mondo deve conoscere il più presto possibile la nostra terribile tragedia, nemmeno una goccia
della nostra sofferenza deve andare perduta, bisogna gridare, accusare!”79 disse a Miriam Novitch80,
sua amica; così per salvare da ogni pericolo il suo grido disperato decisero di chiudere il testo del
Canto in tre bottiglie e di sotterrarlo “là dove si esce, vicino al sesto palo che aveva una sporgenza a
mezz’asta, sotto le radici intrecciate del vecchio albero”81. Il campo fu liberato il 12 settembre
1944; nel 1945 Miriam Novitch dissotterrò l’opera (insieme a Il Diario di Vittel) che fu pubblicata
nell’originale yiddish nello stesso anno a Parigi82.
Il canto del popolo ebreo massacrato fu composto da Katzenelson per far conoscere al mondo la
tragedia vissuta dal popolo ebraico. Così annota il 20 agosto nel suo diario: “Chi scriverà il Musa
Dagh [sic] ebraico? Quando furono massacrati gli armeni un ebreo li ha pianti in un libro, ma
quando è stato massacrato il popolo ebraico – chi lo piangerà? Chi piange gli ebrei?”83
avevano già ricevuto istruzioni per casi come questi. Alcune organizzazioni ebraiche si mossero per fare pressioni
presso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, perché prendessero posizione sulla questione, a favore degli ebrei di Vittel. Il
31 maggio 1944 i passaporti furono ufficialmente riconosciuti, ma la sorte dei deportati di Vittel era già stata decisa.
Erano stati spostati a Drancy il 18 aprile 1944 e da lì ad Auschwitz il 29 aprile 1944. Alla selezione 900 furono subito
gassati (fra di essi i due Katzenelson), 52 donne e 48 uomini furono immessi nel campo il primo maggio 1944.
In Adam Rutkowski, Le camp d'internament et d'échange pour Juifs de Vittel. In Le mond Juif, Paris, aprile-giugno
1981. Citazione trovata nel sito www,santamelania.it.
78
“30 aprile 1944. Arriva trasporto da Parigi con 1655 detenuti tra i quali intellettuali, politici, alti ufficiali, membri
della Resistenza francese e anche un piccolo gruppo di emigranti polacchi.” Danuta Czeh, Kalendarium, gennaio –
giugno 1944, pg. 58. Aned – www.deportati.it
79
Citazione in Alberto Cavaglion (a cura di), Dal buio del sottosuolo. Poesia e lager, Franco Angeli, Milano, 2007, pg.
37.
80
Miriam Novitch, polacca, era studentessa in Francia durante l’attacco tedesco alla Polonia, entrata nella resistenza, fu
arrestata nel 1943 e trasferita a Vittel e poi ad Auschwitz. Delle molte sue pubblicazioni, ricordiamo quelle sulla
deportazione degli ebrei di Salonicco e sul genocidio degli zingari. Bruno Vasari, in occasione della morte di Miriam
Novitch nel 1990, così la ricorda: “Abbiamo appreso con dolore della scomparsa di Miriam Novitch nel Kibutz
Lohamei Haghettaoth in Israele dove ritornava sempre dai suoi innumerevoli viaggi in Europa e in America per
raccogliere testimonianze per tenere viva la memoria degli eroismi dei combattenti del Ghetto di Varsavia, del massacro
insensato e del martirio degli ebrei nei Lager, dell'annientamento della civiltà Yiddisch, universo culturale scomparso.”
Bruno Vasari, Ricordo di Miriam Novitch, in Triangolo rosso, giugno 1990, n. 5-6.
81
Dalla prefazione di Sigrid Sohn a Yitzhak Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Giuntina, Firenze,
1998, pg. 12. Copie del Canto uscirono da Vittel, tramite Miriam Novitch che li consegnò alla sig.ra Francoise
Rabichon che veniva a fare la lavandaia a Vittel. In Adam Rutkowski, op. cit.
82
Il libro venne pubblicato in lingua tedesca a Zurigo nel 1951, in lingua inglese nel 1955 e nel 1966 in italiano
(traduzione dallo yiddish a cura di Fausta Feltrami Segrè e di Miriam Novitch) a Nizza per conto di “Amici di Lohamei
Haghettaoth”. L’edizione oggi disponibile è quella della Giuntina, Firenze, seconda edizione del 1998, con introduzione
e note di Sigrid Sohn. La versione poetica è di Daniel Vogelmann dalla traduzione dallo yiddish di Sigrid Sohn.
83
Op. cit. pg.12. Il poeta fa riferimento all’opera I quaranta giorni del Mussa Dagh, scritto nel 1934 da Franz Werfel
ebreo austriaco, nato a Praga nel 1890, deportato e fuggito da un campo di concentramento in Francia, deceduto nel
1945 in California. Il romanzo, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1935 dall’Arnoldo Mondadori editore,
racconta la resistenza opposta alle truppe turche tra il luglio e il settembre 1915 da circa cinquemila armeni tra cui
donne, vecchi e bambini, rifugiatisi sul massiccio del Mussa Dagh, la “Montagna di Mosè, a nord della baia di
Antiochia.
51
L’opera è composta di 15 canti, ognuno dei quali è strutturato in 15 strofe di quattro versi.
Nell’originale in yiddish, i versi rimano secondo lo schema ABAB, mentre nella versione italiana
non vi è rima.
La struttura così precisa non riesce però a controllare l’urgenza di ogni canto che è come un grido
soffocato che esplode senza controllo di fronte a ciò che gli occhi vedono, anzi hanno visto. Alle
volte sembra (noi naturalmente abbiamo letto solo la traduzione italiana) che alcune immagini siano
trascritte così come sorgono senza la revisione e la limatura del poeta; in alcuni passaggi i versi
sono prosaici, ancora in attesa di sintesi. A conferma di questa nostra impressione ci sembra la
constatazione che le date apposte dall’autore al fondo di ogni canto, date corrispondenti alla stesura,
non hanno un corrispettivo ordine cronologico nella storia complessiva che l’opera racconta. Vi era
in lui un’urgenza a testimoniare i fatti dello sterminio che lo portò a interrompere la scrittura di un
testo su Annibale per concentrarsi sulla memoria per i posteri.
I fatti vengono gettati sulla carta come emergono dalla sua memoria, senza un preciso ordine
cronologico. Lo studioso Noah H. Rosenbloom ha riordinato cronologicamente gli eventi, a cui i
diversi canti fanno riferimento. Ecco la sua proposta di ricostruzione:
- introduzione: canto primo e secondo
- conseguenze dell’invasione nazista in Polonia: canto settimo ed ottavo
- la città del poeta nei primi giorni dell’occupazione: canto decimo
- il suicidio di A. Czerniakow e l’inizio della soppressione degli ebrei di Varsavia: canto
quinto
- la polizia ebraica durante un’azione: canto terzo
- le deportazioni: canto quarto
- l’agonia dei bambini negli orfanotrofi: canto sesto ed undicesimo.
- la deportazione degli ebrei protetti dai permessi di lavoro: canto dodicesimo
- le prime manifestazioni di resistenza nel ghetto di Varsavia: canto tredicesimo e
quattordicesimo
- il ghetto di Varsavia in fiamme dopo la rivolta: canto quindicesimo
Riportiamo qui una nostra breve sintesi dell’opera nell’ordine cronologico sopra suggerito.
Il poeta dopo essersi rifiutato di “cantare”, perché troppo grande è la sua tragedia familiare e quella
del suo popolo, si costringe semplicemente a “suonare” accompagnando, registrando quasi, le voci
dei perseguitati. Inizia così la rievocazione del terrore che colpì la popolazione polacca nelle prime
repressioni naziste, la costituzione del ghetto-lager di Varsavia da parte dei nazisti e l’episodio a lui
toccato di un incontro con un ufficiale tedesco che, non sicuro della sua ebraicità e di quella della
moglie, semplicemente sparò al primo passante dalle sembianze fisiche più ebraiche. Nel ghetto
cominciano le selezioni per i trasporti verso i campi di sterminio, i numeri degli ebrei convogliati
sui treni cresce di giorno in giorno fino a portare al suicidio di Adam Czerniakòw, capo dello
Junderat84, che scelse la morte per non firmare l’ordine che portava il numero dei deportati da sei a
diecimila al giorno. La tragedia dei bambini e degli orfani, che il poeta aveva personalmente seguito
nei giorni della sua vita nel ghetto, si accentua nel ricordo dei due figlioletti perduti, fino a portarlo
quasi alla disperazione. Come hanno potuto i cieli non oscurarsi di fronte a tanto dolore? L’episodio
del raduno in via Mila di tutti gli ebrei per essere selezionati e caricati sui carri è descritto con
ricordi precisi e terribili: 54.000 furono i deportati di quell’operazione. Il terrore e la violenza
esplodono nella disperata resistenza armata dei giovani ebrei. A nulla serve e il canto termina con
un lamento funebre per se stesso e per il suo popolo.
Tre sono i temi che continuamente incontriamo nella lettura di questo canto: lo strazio per la perdita
della moglie e dei due figli più piccoli; la tragedia dello sterminio del proprio popolo ed infine il
84
Consiglio ebraico. Era l’organismo, creato dai nazisti e composto da personalità ebraiche, che dirigeva il ghetto,
mettendo in atto le direttive naziste. I membri dello Judenrat speravano certamente di salvarsi la vita e forse anche di
attenuare le violenze nel ghetto; erano comunque disprezzati per la collaborazione che prestavano. Sul ruolo avuto dagli
Judenrat nei ghetti il giudizio degli storici è oggi discorde.
52
rapporto di Dio con tutto quello che sta succedendo nel ghetto, nei campi, in Europa. Il volto
scomparso dei piccoli ebrei dell’orfanotrofio è quello dei figli e la loro fame, sofferenza,
desolazione, morte diventa grido a Dio, senza risposta. Katzenelson sembra un profeta antico che
tenendo tra le braccia i figli del suo popolo diventa profeta che richiama Dio ai suoi doveri nei
riguardi del popolo eletto, ma i cieli si fanno neri e la disperazione rischia la strada della
maledizione.
Nel presentare Il canto del popolo ebraico massacrato, ci è sembrato importante ricordare i brani
per noi più significativi della prefazione che Primo Levi scrisse alla prima edizione italiana85.
Innanzitutto Levi si dichiara “turbato e reverente” di fronte a quest’opera, che non ritiene
paragonabile a nessun’altra perché è “la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di
morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del
destino lontano ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta dal mezzo della strage, la morte
tedesca […] sta per colpire ancora […] fino alla fine di tutto.”
“Queste sono poesie necessarie, se mai altre ce ne sono state.”
“Al di sopra dell’orrore […] non possiamo reprimere un moto di stupore ammirato per la purezza e
la forza di questa voce. […] La voce di un popolo che piange se stesso.”
Levi sottolinea come la voce di Katzenelson sia quella “in cui rivive tutto il mondo culturale
dell’ebraismo d’oriente.” Una cultura in lingua yiddish “schiettamente popolare. […] Una
letteratura varia e viva, ricca di spiritualità, di una triste comicità sue proprie, e di una umile e forte
volontà di vita.”
“Anche Katzenelson […] è poeta popolare. […] Perciò non stupisce di ritrovare nel disperato e
talora grezzo lamento di Katzenelson, l’eco di parole eterne, la continuità e l’eredità legittime di
Ezechiele, Isaia, di Geremia e di Giobbe; né stupisce che egli stesso ne sia fiero e conscio: «… in
ogni Ebreo grida un Geremia, si lamenta un Giobbe in preda a sofferenze atroci».” Ma mentre alle
domande del Giobbe antico erano arrivate risposte di consolatori e quella stessa di Dio, “alle
domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine.”
Di seguito abbiamo provveduto ad analizzare l’opera strutturando i commenti ai singoli canti in una
prima parte di citazione delle strofe che più ci hanno colpito, in una seconda di breve sintesi del
contenuto e in una terza parte di riflessioni personali.
Lettura antologica e commento de Il canto del popolo ebreo massacrato
-canto primo e secondo
“CANTA!” – “IO SUONO”
“Gridate dalle viscere delle bestie nella foresta, dei pesci nell’acqua –
vi hanno divorati. Gridate dai forni. Gridate, piccoli e grandi.
Voglio sentire le vostre grida, le vostre voci, i vostri singhiozzi.
Grida, popolo ebraico massacrato, grida, grida più forte!” (strofa 10)
“Non evocare Ezechiele, non evocare Geremia… non ho bisogno di loro!
Eppure li ho chiamati: aiutatemi, venite in mio soccorso!
Ma non li attenderò col mio ultimo canto –
Essi rimarranno con le loro profezie, io con la mia grande pena.” (strofa 15)
I primi versi invitano l’autore a cantare verso il Signore “l’ultimo canto degli ultimi ebrei in terra
d’Europa”, ma anche Katzenelson, come i suoi avi sulle rive dei fiumi di Babilonia non vuole dare
85
Op. cit., Nizza, 1966. La prefazione di Primo Levi è anche presente nella edizione della Giuntina.
53
ascolto a queste voci, anche se poi in realtà non si tratta di veri e propri canti, ma di grida laceranti e
disperate; solo nella parte finale il poeta, dopo aver raggruppato intorno a sè il suo popolo, lo invita
ad una triste danza, ricordando gli ultimi momenti prima della morte.
Si prosegue poi con la descrizione di un canto, tradizionalmente recitato nella cerimonia per la
commemorazione dei morti, tra cui ci sono anche i suoi cari.
Ci sono degli espliciti riferimenti a fatti biblici, dovuti ai trascorsi di Katzenelson come insegnante
di materie bibliche; più precisamente quando cita “che del suo popolo non è rimasto neanche un
osso”, ricordando la storia di Ezechiele nella Valle di Babilonia.
Indubbiamente sin dalle prime righe di quest’opera emerge la triste consapevolezza dell’autore di
non avere più futuro, di dover fare i conti con la morte del suo popolo, tra cui c’è anche la sua
famiglia. È incredibile come ogni singola parola letta sia piena di angoscia e impotenza, sentimenti
che immediatamente mi sconvolgono e mi colpiscono nell’animo, anche se mi rendo conto di aver
appena percepito quanto avvenuto con l’olocausto, ma è proprio per questi motivi che ritengo di
enorme importanza valorizzare tutta la letteratura scritta sui Lager, sia da chi li ha vissuti e sia da
chi li racconta solo per non dimenticare.
Già, proprio questo è il punto, non dimenticare, fare in modo che certi errori commessi dall’uomo
non si ripetano, che la dignità, il rispetto e la libertà siano i pilastri della convivenza dei popoli, ma
ovviamente è tutto inutile, la realtà quotidiana ci fa intuire che purtroppo tutti gli errori commessi
fino ad oggi non siano serviti a nulla: razzismo, denaro e potere rimangono l’unico obiettivo dei
governanti moderni.
-canto terzo
“O MIEI TORMENTI!”
“Ho guardato dalla finestra e ho visto i picchiatori – mio Dio!
Ho osservato i picchiatori e anche i picchiati –
Mi sono torto le mani dalla vergogna. Che ignominia, che infamia:
hanno usato degli ebrei per ammazzare altri ebrei” (strofa 5)
L’autore in questo canto prima ricorda gli ebrei che vivevano dall’altra parte dell’oceano, ignari di
quanto stesse accadendo in Europa, poi fa riferimento ai propri tormenti, che se potessero parlare
sicuramente arriverebbero molto lontano, fino a rendere pubblico lo sterminio del popolo ebraico.
Questi tormenti sono nutriti da quanto l’autore fu in grado di vedere con i suoi occhi, bambini
caricati su carri come fossero pietre, donne, giovani e anziani picchiati e coperti d’insulti senza
pietà.
Katzenelson racconta di aver visto i cosiddetti “picchiatori”, cioè soldati ebrei reclutati dai tedeschi,
tirare fuori dalle case altri ebrei, sfondando porte, distruggendo abitazioni intere.
Tutti messi in fila per essere caricati sui carri in direzione dei lager.
Questi veri e propri saccheggi venivano chiamati dai tedeschi “Aktion”.
L’orrore continua, si aggiungono particolari che rendono ancora più irreale la situazione in cui si
trovava l’autore del canto. La ferocia di queste figure che sicuramente corrotte, o probabilmente
senza possibilità di scelta, si scagliavano contro i propri fratelli sottolineano ancor di più, qualora ce
ne fosse bisogno, di quanta ferocia ci fosse nell’animo dei tedeschi, perché tali atteggiamenti sono
caratteristici di chi non possiede alcun sentimento.
Deve essere stato dolorosissimo assistere a questi crimini, sofferenza che ha segnato
spaventosamente l’animo dell’autore, il quale totalmente sconvolto scrive e allo stesso tempo prega,
invocando i cieli e la terra, invocando Dio pur sapendo che non servirà a fermare l’orribile
sterminio in atto.
54
-canto quarto
“I VAGONI SONO TORNATI”
“Altri ebrei hanno già riempito quei vagoni fino a soffocare,
ebrei morti incastrati fra i vivi stupefatti,
morti che stanno in piedi, non potendo cadere in quella calca,
morti che nessuno potrebbe distinguere dai vivi.” (strofa 5)
È incredibile, il racconto si arricchisce di un nuovi particolari, tutti con lo stesso finale: le
deportazioni.
Questi treni che partono colmi di persone e tornano il giorno dopo vuoti: i portelloni d’ingresso
vengono paragonati a delle fauci di qualche animale affamato, che non è mai sazio di inghiottire
ebrei. C’è la descrizione agghiacciante di bambini che chiedono acqua a mamme già morte;
bambini che chiedono ai papà di portarli via da quell’inferno, senza accorgersi di parlare con
cadaveri; di persone morte che oscillano in piedi (non cadono in terra perché troppo poco è lo
spazio disponibile) e persone vive da cui cola il “sudore della morte”.
Nella parte finale si ricorda anche chi, spinto dalla disperazione, tenta una fuga fermata però dallo
sparo di qualche soldato “l’ucraino sta sparando dal tetto”: immagine accompagnata dal rispetto
dello scrittore per chi decide di morire libero invece di attendere passivamente il giungere della
morte.
A volte sembra quasi irriverente commentare quanto letto, l’unica osservazione possibile, a mio
parere, è espressa sotto forma di domanda : ma c’è un limite alla crudeltà dell’uomo?
In questo canto si leggono versi di una crudeltà inaudita, è difficile credere che un uomo sia in
grado di compiere tanto male, eppure è proprio così, uomini che picchiano altri uomini come se
fossero bestie, un odio ingiustificato che inspiegabilmente si è impossessato di queste persone che
non si fermano davanti a nulla, nulla li impietosisce …nulla li commuove.
-canto quinto
“LA SEDUTA DEL KEHILE-RAT86 PER LA QUESTIONE DEI DIECIMILA…”
“ Perché piangi? Bè, dopotutto sei un brav’uomo… Detto fra noi,
non ti sento poi tanto ebreo… Cosa sono diecimila? Per seimila eri d’accordo?
Sei un po’ arrabbiato – con chi? Dillo! Ah, con te stesso… Sei pentito?
Ti vuoi avvelenare… Allora affrettati, presto…tra poco arriverà il kheile-rat!” (strofa 9)
Lo scrittore immagina prima una conversazione con quei vagoni che trasportano, come bare, il suo
popolo verso la morte, chiedendo loro di raccontare cosa accade una volta in marcia, di quale sia la
loro effettiva destinazione.
Successivamente racconta della morte del presidente della Casa della Comunità, l’anziano
Czerniakow, il quale ricevuto l’ordine di aumentare il numero degli ebrei da caricare sui treni, da
seimila persone il numero viene portato fino a diecimila, non trova il coraggio di scrivere il
proclama da diffondere e decide di avvelenarsi per mettere fine alle sue sofferenze.
Il canto termina con una scena surreale, i membri dello judenrat entrano nella sala e trovano il
suicida/presidente “che siede morto sulla sua sediae aspetta”, non sanno cosa fare poi decidono di
far “finta che sia vivo” e “qualcuno prende la parola […] tutti ascoltano … e il presidente morto
presiede – come se fosse vivo”.
86
Kehile-rat parola yiddish che significa judenrat, vedi nota 8.
55
Dopo aver letto questo verso si aggiunge angoscia all’angoscia; la morte di Czerniakow è il segnale
più evidente della sofferenza presente nell’animo delle persone, che pur di sopravvivere, avallavano
le richieste dei tedeschi, però tutto ha un limite e il suicidio del presidente ne è la prova più
evidente.
-canto sesto
“I PRIMI”
“Sono stati i primi a morire, i bambini ebrei, tutti quanti,
poveri orfanelli rosi dal freddo,dalla fame e dai pidocchi,
tanti santi messia, santificati dalla sofferenza… Ma perchè questa punizione?
Perché nei giorni del massacro sono stati loro i primi a pagare al male il prezzo più alto?”
(strofa 14)
Questo canto è dedicato ai bambini e agli orfani del ghetto.
Si legge nelle righe l’enorme sofferenza dell’autore nell’essere testimone a quanto accade, in
particolar modo il trattamento riservato ai bimbi, anche per la sensibilità particolarmente sviluppata
negli anni dedicati all’insegnamento nelle scuole.
Sono i bimbi i primi ad essere ammazzati; Katzenelson continua con il narrare episodi a cui fu
presente in un orfanotrofio alla fine dell’anno ’42. Il poeta presenta alcuni di questi che hanno al
centro un bambino: ricorda una bambina che sembrava dall’aspetto una nonna, un piccolo essere
indifeso che aveva visto cose di un’assurdità tale che sua nonna non poteva nemmeno immaginare
tanta crudeltà; il secondo ricordo ha al centro la bimba che si prendeva cura del proprio fratellino,
cibandolo e rassicurandolo con le parole, con amore infinito, tanto da spingere l’autore a fare un
paragone con la propria mamma,che per quanto splendida sia stata non esprimeva così tanto affetto
e amore come quella bimba nel compiere quei gesti. L’ultimo ad essere ricordato è un bimbo che, in
una stanza scaldata da una piccola stufa e alla presenza di altri bambini infreddoliti, raccontava una
storia “no, non una storia: una grande fiammata di collera”. Un bimbo che gli appare più grande, più
eloquente, buono, vero e fedele dello stesso profeta Isaia
Questo è un altro canto difficile da commentare, l’atrocità e la crudeltà mostrata nel trattamento dei
bambini è inimmaginabile per i tempi nostri. Questo è uno dei canti più significativi dell’opera,
racchiude al suo interno gesti feroci dei tedeschi, la sensibilità dell’autore e la sofferenza dei
bambini.
-canto settimo
“TROPPO TARDI”
“ Alla radio un tedesco ha detto in polacco: «Eccoci! Stiamo arrivando!
Nessuno deve avere paura di noi, nessuno!
Non intendiamo far alcun male alla tranquilla popolazione civile…
Ma l’ebreo - ha aggiunto strillando - l’ebreo tremi!”». (strofa 12)
In questo canto l’autore racconta la paura e la sensazione di distruzione che aleggiava nell’aria, sin
dall’inizio della guerra, ancora prima della formazione dei ghetti; la sensazione che avevano avuto
gli ebrei di Varsavia era una premonizione di quello che poi sarebbe avvenuto, nessuno aveva il
56
coraggio di esternare, di pronunciare alcuna parola in merito, ma senza proferir parola il tutto si
trasmetteva con una semplice stretta di mano all’amico incontrato per strada.
L’autore inoltre racconta il tentativo di fuga che gli ebrei polacchi tentavano di organizzare,
tentativi di fuga senza una meta fissa o un percorso sicuro, come dice l’autore nel titolo era già
troppo tardi per prendere contromisure opportune.
Quali sensazioni incredibili e impossibili da immaginare per noi oggi, noi che viviamo sicuri nelle
nostre tiepide case.
-canto ottavo
“UNA CASA MORTA, DISTRUTTA”
“Siamo tornati indietro… O triste cammino del ritorno, o Dio!
Lo stesso inferno, la stessa desolazione, lo stesso pericolo –
ma siamo a casa! Se si deve morire, meglio morire nella propria città,
nella propria strada, nella propria camera, nel proprio letto… a casa! A casa nel dolore.”(strofa 3)
“Dimmi, tu che il terrore ha fatto fuggire, perché sei tornato?
Perché non sei rimasto a soffrire in terra straniera!
Non avresti visto la tua casa nella sua grande pena, nel suo grande dolore,
e come sanguina, torturata a morte senza ragione, come viene coperta di vergogna.” (strofa 14)
Ci troviamo a metà dell’opera, qui l’autore concentra la sua attenzione sulle conseguenze di quanto
sta accadendo nel suo paese e conclude i suoi discorsi con l’affermazione “Troppo tardi!”. “Torno
ora da casa mia… ahimè – una casa morta, distrutta”. Katzenelson racconta di città vuote, persone
che non hanno più nulla e quel poco che hanno viene distrutto e bruciato. Il canto continua con un
episodio subito da un vecchio rabbino, il quale decide di tornare a morire nella propria terra invece
di continuare a scappare, durante il tragitto incontra delle guardie tedesche che lo deridono e lo
umiliano.
Vergognoso nel profondo l’episodio finale dell’inserviente costretto a sputare nella bocca aperta del
suo venerato rabbino, mentre la sinagoga brucia con dentro l’Arca santa e i rotoli sacri della Torà.
In questo canto esplode l’inumanità del soldato tedesco, persona normale che in quel contesto è
accecato dall’odio e spinto da un assurdo senso del dovere nei confronti di un regime che lo ha
completamente e intimamente corrotto.
-canto nono
“AI CIELI”
“ E così avvenne … e questo fu l’inizio…Cieli, ditemi perchè,perchè!
Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo?
La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi… Ma voi cieli,
voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna !” (strofa 1)
Rallegratevi, cieli, rallegratevi! Eravate poveri, ma ora siete ricchi:
che raccolto benedetto, che fortuna vi è concessa: un popolo, tutto un popolo!
Rallegratevi, cieli, lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco salga dalla terra fino a voi, e un fuoco scenda da voi fin sulla terra. (strofa 15)
57
Questo canto è una riflessione che Katzenelson fa nei confronti dei cieli e della terra, li accusa di
non aver fatto nulla per impedire quanto stava succedendo, di non essersi oscurati, ma di avere
invece chiuso gli occhi e proseguito il cammino. Al contrario dei suoi avi, Katzenelson ha solo
parole di disprezzo nei loro confronti, rei di averlo tradito.
È abbastanza evidente che la disperazione intacca anche la fede del poeta, il quale dopo aver visto
morire, oltre a tutto il suo popolo, anche la moglie ed il figlio, reagisce incolpando il cielo di non
aver dato alcun segno di dissenso, di non essere all’altezza di essere considerato la casa di Dio.
-canto decimo
“L’INIZIO DELLA FINE”
“ Noi! Noi! È noi che voleva uccidere, Hànele, me e te. Cercava un ebreo,
ma di noi non era sicuro… Hai visto come ci ha guardato quella canaglia?
Noi non abbiamo accelerato né rallentato il nostro passo sicuro
dalla vita alla morte… uno palesemente più ebreo è caduto in mano alla bestia.” (strofa 4)
Ci troviamo in Polonia, a Lodz, sono iniziate le perquisizioni nelle case, gli ebrei cominciano ad
essere ricercati, il terrore prende il sopravvento e diventa compagno quotidiano di ogni polacco
ebreo, compagno con cui convivere fino alla morte.
Katzenelson racconta di un incontro avuto con un tedesco smanioso di voler uccidere qualcuno,
dopo averli fissati per qualche minuto per strada, decide di sparare ad un uomo in transito poco più
avanti, il quale presentava segni evidenti della sua ebraicità, mentre l’incertezza mostrata nei
confronti del poeta e di sua moglie erano nati dal dubbio della loro effettiva appartenenza alla
religione ebraica.
L’autore rimane sconcertato da quell’incontro, dagli occhi di quel militare, occhi pieni di odio
ingiustificato.
“Poco meno di due mesi dopo vi hanno cacciato da casa, te e i nostri figli.
Allora siete fuggiti da me a Varsavia, e tu con me hai visto
l’inizio della fine… Alla vera fine tu, Benzìon e Yòmele non c’eravate più… io sono
rimasto solo con Zvi a guardare la fine di tutti noi nel fuoco e nelle fiamme. (strofa 15)
E tra la prima e l’ultima strofa, tutto lo strazio dei ricordi legati alla moglie e ai due figlioletti,
ricordi di gesti minimi, di parole, di vita. E alla fine i tre amori di Yitzhak che vanno nel fuoco e
nelle fiamme, ed è la fine di tutti noi (del poeta e del terzo figlio) anche loro nel fuoco e nelle
fiamme.
Ma quel “noi” non possiamo essere noi, qui, oggi, anche noi finiti con tutta l’umanità in quel fuoco
e che da lì dobbiamo ripartire, perché più nulla di così inumano succeda agli uomini?
“Miseri noi che vediamo… beati voi, bambini ebrei, che siete ciechi…”
-canto undicesimo
“RICORDI ?”
58
“Ho rovistato in quel mucchio di fogli… Che le mie opere siano gettate nel fuoco,
ma in cambio salvatemi un orfanello, uno di quei cinquanta bambini a me così cari!
Hànele, ricordi? Invece di un orfanello, da via Twarda ho portato a casa un quaderno:
il secondo atto de «La strada mi chiama !», un tronco senza testa né gambe.” (strofa 15)
L’autore in questi versi vuole, con un velo di rassegnazione, raccontare degli episodi vissuti in
passato nell’orfanotrofio di via Twarda, momenti teneri legati ai bambini, i soggetti più indifesi e
coloro che hanno pagato il prezzo più alto.
Katzenelson descrive una serie di piccoli particolari (abiti,fogli,aule) appartenenti a quei bimbi di
cui non rimane più nulla. Anche lui è come la sua opera teatrale, che proprio quei bambini avevano
recitato nell’orfanotrofio: ha trovato nel vuoto silenzio di quei locali, una volta pieni di vita, solo il
secondo atto e si sente come “un tronco senza testa né gambe”.
Nel racconto si sente la disperazione interiore del poeta e mi giunge diretta fino al cuore, nuda e
cruda come se fossi io a rivivere quegli atroci momenti.
-canto dodicesimo
“VIA MILA”
“Allora ho visto come hanno strappato un sacco dalle magre spalle di un ebreo,
e il sacco si è messo a piangere… un bimbo! Un bimbo ebreo! Il gendarme s’infuria:
cerca il padre…urla al bambino: qual è tuo padre! Il bambino guarda il padre,
lo guarda e non piange… lo guarda e non lo tradisce.” (strofa 14)
A questo punto si narra della famigerata Via Mila87, via all’interno della quale dovevano recarsi
tutti gli uomini, marchiati dalla fascia al braccio, e con una sola valigia di effetti personali, prima di
essere selezionati e poi smistati nei vari lager.
L’autore chiede di non fare domande di ciò che avvenne in via Mila, perchè ogni parola usata non
rende giustizia all’immane tragedia compiuta in quella strada; unico vero particolare è il racconto
del coraggio di un piccolo bimbo, che sorpreso dentro uno zaino, a fatto finta di non riconoscere il
proprio papà per non farlo condannare a morte.
Diventa sempre più difficile trovare un commento a quanto si è letto fino ad ora, credo che le parole
di Katzenelson rendono abbastanza chiara la dimensione del massacro, della sofferenza e
dell’ingiustizia presente in quel tratto di storia……incredibile.
-canto tredicesimo e quattordicesimo
“CON I CHALUTZÌM” – “LA FINE”
“Non lo sapevano, non se lo aspettavano. «Gli ebrei sparano!» ho sentito dall’odiosa
voce di quella canaglia /
prima che la sua anima impura lasciasse il corpo. Non era una esclamazione, ma un’espressione
di meraviglia – possibile?!
Un senso confuso di stupore, strano e soprattutto inaspettato: «Gli ebrei sparano!».
87
L’episodio di via Mila ricordato da Katzenelson ebbe inizio il 6 settembre 1942 alle 6 del mattino. L’ordine era che
tutti gli abitanti del ghetto si trovassero in quella strada entro le ore 10 per essere registrati. Verso le ore 11 iniziò la
selezione di tutti coloro che non avevano la tessera (il numerino) che li autorizzava a lavorare in una delle fabbriche
tedesche e di coloro che avevano tessere illegali. Tutto durò fino al 12 settembre, una settimana durante la quale la
gente fu costretta a rimanere in via Mila, aspettando la propria sorte. 54.000 ebrei furono selezionati e deportati a
Treblinka tra di loro moltissimi bambini strappati ai genitori e vecchi.
59
Ma non era solo suo lo stupore;
tutto un popolo di assassini, ottanta milioni di tedeschi si stupivano: «Anche gli ebrei sono capaci
di sparare, come noi, come ogni tedesco».” (strofa 1)
Nei due canti il poeta ricorda episodi di rivolta all’interno del ghetto.
Il ghetto di Varsavia è ormai quasi disabitato, sono rimasti in pochi e in una situazione al limite
della sopravvivenza. L’autore vaga nella notte per vie e palazzi assolutamenti e deserti e svuotati di
nomi e volti che lui ben conosceva e che ora ricorda con forte nostalgia.
Ora i rimasti, in attesa di essere massacrati, cercano di nascondersi in qualsiasi posto o buco, basta
non essere scoperti, ma è inutile dire che la maggior parte vengono trovati e portati alle selezioni.
Vi sono nascosti anche i chalutzìm88, ma non solo loro, che si organizzano per resistere alla nuova
deportazione.89
E la sorpresa dei tedeschi di fronte agli spari dei resistenti ebrei è grande, perché si trovano di fronte
a uomini come loro.
Nel canto quattordicesimo l’autore racconta della resistenza che gli ebrei sono decisi a fare nei
confronti dei tedeschi. Ci sono i primi scontri, ci sono uomini disposti a morire liberi piuttosto che
sottostare allo sterminio: è un primo tentativo di resitenza all’interno del ghetto di Varsavia,
avvenuto nel gennaio 1943 e vi partecipa anche l’autore che per un istante si illude di aver
riacquistato la sua dignità di uomo, ma alla fine si rivela tutto inutile, la differenza dei due gruppi
armati è palesemente smisurata e a favore dei tedeschi, che in poco tempo scovano tutti i resistenti
armati.
-canto quindicesimo
“ALLA FINE DI TUTTO”
La fine. Di notte il cielo è incandescente. Di giorno si copre di fumo, e di notte torna ad accendersi. Orrore!
Come ai tempi del nostro inizio nell'arido deserto: di giorno una colonna di nubi e di notte una colonna di fuoco.90
Allora il mio popolo, forte della sua fede, camminava gioioso incontro a una nuova vita, e ora - la fine, l'ultimo passo...
Ci hanno massacrati tutti qui sulla terra, piccoli e grandi; ci hanno sterminati tutti. (Strofa I)
Non domandate, non domandate perché! Tutti lo sanno, dal più buono al più malvagio dei goyìm91,
il più malvagio ha dato una mano ai tedeschi, il più buono è stato a guardare con gli occhi socchiusi
facendo finta di dormire. (II) Da noi hanno ucciso i bambini nelle culle, perfino quelli nel grembo
materno. Ci hanno portato tutti a Treblinka. (III) E mille sono spinti in una grande stanza... e mille
aspettano nudi che ì primi mille siano gassati. (IV) E se rimarrà un ebreo nella lontana America o
nel vicino Eretz Israel, che reclami anche quei bambini al tribunale del mondo, che reclami quelli
non ancora nati e già uccisi, che reclami quelli asfissiati ancora nel ventre delle loro madri. (V)
Perché? Nessuno sulla terra se lo chiede, eppure tutto domanda perché. Ascoltate, ascoltate! (VI) Il
sole, levandosi sugli shtetlekh92 di Lituania e di Polonia, non incontrerà più un vecchio ebreo
raggiante intento a recitare alla finestra un salmo. (VII) Mai più un ebreo vi porterà la sua allegria,
la sua vita, il suo spirito. (VIII) E i bambini ebrei non si sveglieranno più al mattino dai loro sogni
d'oro. (IX) Non ci sono più! Non chiedete, voi dall'altra parte del mare, non chiedete di Kasrilevke o
di Yehupetz... lasciate perdere! (X) Non risuonerà più la voce della Torà dalle yeshivòt93 e dalle
88
I chalutzìm erano giovani pionieri socialisti che preparavano in campi agricoli i giovani che chiedevano di emigrare
in Palestina.
89
Il 18 gennaio 1943 i tedeschi avevano previsto una nuova grande liquidazione dal ghetto ma si trovarono di fronte
alla resistenza di quattro gruppi di armati.
90
Il riferimento è all’attraversamento che il popolo ebraico in fuga dall’Egitto fece del Mar Rosso e alla protezione che
Dio gli diede con le nubi e la colonna di fuoco.
91
I non ebrei.
92
I villaggi ebraici dell’Europa orientale.
93
E’ la scuola religiosa per i maschi ebrei.
60
sinagoghe. (XI) Nessuna mamma ebrea cullerà più il suo bimbo. (XII) E gli ebrei non
combatteranno più nelle città, non si sacrificheranno più per il bene del prossimo. (XIII) Oh se
poteste litigare ancora ed essere vivi! (XIV)
“Ahimè, non c’è più nessuno…c’era un popolo, e ora non c’è più… c’era un popolo… e ora è scomparso!
Che storia. Cominciò nella Bibbia e durò fino a oggi… Una storia ben triste – chi dice che è bella?
Una storia che va da Amalek94 a uno peggiore di lui, al tedesco… O lontano cielo, o vasta terra, o immensi mari,
non complottate fra voi per annientare i malvagi della terra, lasciate che si annientino da soli.”
(XV)
15 – 17 gennaio 1944
E’ l’ultimo canto, è la parola fine al suo testimoniare.
Credo ormai di averlo ripetuto più volte che la lettura di questo testo è stata per me molto
importante, oltre ad uno strumento per non dimenticare; testi come questo sono di massima
importanza in quanto inducono ad un esame di coscienza, ad una riflessione interiore sulla dignità
dell’uomo, sulla violenza gratuita, sull’indifferenza per chi soffre.
È incredibile come sono stati inanellati una serie di avvenimenti tragici, crudeli, come sono stati
commessi omicidi, infanticidi, torture immensamente ingiuste che hanno fatto scomparire un’intera
popolazione.
“Perché? Nessuno sulla terra se lo chiede, eppure tutto domanda perché.”
94
Amalek, capo e progenitore degli Amaleciti, tribù nemica di Israele, rappresenta da sempre per gli ebrei il nemico
costantemente alla ricerca della perdizione per il popolo di Dio. “Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalek… Non
dimenticare.” (Deuteronomio, 25, 17-19)
61
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Il Dvd ci è stato gentilmente inviato dalla Sig.ra Silvia Mantovani, Segretaria della Fondazione Fossoli, che
qui ringraziamo per la sua disponibilità.
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