Leggi i primi capitoli

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Leggi i primi capitoli
IL ROMANZO
Fedora Milano non sa darsi una spiegazione: il direttore della sua testata l’ha fatta
rientrare dalle ferie per andare a intervistare il direttore di un’antica farmacia
veneziana, fondata cinquecento anni prima. Niccolò Bellavitiis è un uomo tanto colto
ed enigmatico quanto affascinante e il suo racconto sull’arte della cura è ipnotico, ma
perché tanta fretta? Improvvisamente l’attenzione della donna è calamitata da un
misterioso contenitore in peltro. Quello strano recipiente, spiega Bellavitiis, serviva
per trasportare la Theriaca, un composto chimico di origini antichissime la cui
formula nasconde delle proprietà molto potenti in grado di cambiare le sorti
dell’intera umanità, un fluido foriero di una sapienza ambita e pericolosa che
trascinerà Fedora in uno spaventoso tunnel senza fine….
L’AUTORE
Mauro Santomauro è nato nel 1949 ed è stato farmacista della Serenissima, salendo
alla ribalta delle cronache quando rinunciò a trasferire la sua farmacia in terraferma.
Nella sua vita è stato chimico, distillatore, imprenditore e contadino e si è divertito
come giocatore e poi allenatore di baseball, batterista in un settetto jazz, maker ante
litteram come produttore di accessori d’arredo. Ha pilotato aerei da turismo e ha
praticato immersioni subacquee. La sua vera passione è il buon cibo. Vive con la
moglie e i due figli a Treviso.
La congiura dello speziale
di
Mauro Santomauro
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562428
Prima edizione eBook maggio 2014
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volontà dell’autore.
La congiura dello speziale
Un giorno chiesi a una mia cara amica americana, famosa
scrittrice, come si scrivesse un romanzo. Lei mi rispose:
“Just tell the story. Start at the beginning and tell the story,
just as you would tell a friend what happened”.
Raccontare una storia a un amico
è quello che intendo fare.
Capitolo Uno
Venezia, Ponte di Rialto, 4 dicembre 1537
Lodovico scese lentamente i gradini del Ponte, un po’ inquieto al
pensiero che, proprio in quel punto, suo cugino Vincenzo Quadrio
fosse morto nel crollo del precedente viadotto in legno che univa le
due rive del Canal Grande.
Sembrava che un destino beffardo, o forse solo l’imprevidenza e
l’ignavia degli uomini, non volesse che il mercato di Rialto (punto
nevralgico degli affari, dei commerci e cuore politico di Venezia)
avesse il suo ponte: già nel 1310, infatti, il vecchio ponte di barche
venne danneggiato durante una rivolta che minacciò di destabilizzare
la stessa Serenissima; e ancora, nel 1444 quando la struttura in legno
cedette rovinosamente, per la gran folla accorsa ad assistere al
passaggio della sposa del marchese di Ferrara.
Fu nel 1524 che Vincenzo, poco più che sedicenne, figlio di sua zia
Antonia e di un anno più anziano di lui, affogò nelle putride acque del
Canal Grande. Quel ponte di legno, che centinaia di uomini di affari,
servi, banchieri, nobili, funzionari e commercianti attraversavano ogni
giorno, fra botteghe e bacari1 aggrappati pericolosamente ai bordi
esterni, in una mattinata non particolarmente ventosa, schiantò in un
raccapricciante stridio di marcescenti assi divelte e di ferri arrugginiti
dalla salsedine.
Tra le macerie galleggianti, nel bel mezzo di frutta e verdure varie
precipitate, tra quarti di bue e coratelle di agnello rovinate, semi
nascosto dalle pezze di broccato e di mussola provenienti dalle
botteghe ormai sradicate, galleggiava a faccia in giù il corpo di
Vincenzo, apprendista speziale della Serenissima.
La sua sfortuna era stata quella di essersi alzato più presto del solito
per aprire di buon mattino la bottega ai piedi del ponte di Rialto,
l’antica spezieria2 Alla Testa d’Oro, ove prestava la sua opera come
studente praticante di farmacia in attesa di ottenere l’attestato che gli
avrebbe permesso di aprirne una tutta sua.
Il destino volle, quel giorno, che Vincenzo, provenendo da Campo
San Bartolomio, giungesse alla sommità del ponte nel momento
esatto in cui questo crollò e venisse trascinato nella rovinosa caduta
che lo tramortì prima e l’affogò poi, consegnandolo infine al canale
che divenne la sua ultima dimora.
Soltanto nel 1591 i veneziani si decisero finalmente, dopo crolli e
incendi, a sostituire il loro ponte più importante, ma più indecente,
con uno fatto finalmente in pietra, disegnato da Antonio da Ponte, un
architetto svizzero che soffiò l’incarico al nostrano e più famoso
Andrea Palladio, progettandolo ad arcata unica con negozi su entrambi
i lati, ospitati ciascuno in un porticato coperto e poggiato, come una
palafitta, su migliaia di pali in legno d’olmo piantati sulle opposte
rive del canale a fargli da fondamenta.
Splendida opera di architettura e ingegno rivestita di elegante Pietra
d’Istria che avrebbe resistito fino ai giorni nostri, affinché milioni di
turisti provenienti da tutto il mondo potessero fotografarlo e mostrarlo
come trofeo digitale ad amici e parenti.
Ovviamente tutto ciò non avrebbe consolato il povero Vincenzo.
Come pure il sapere che l’essere meno solerte e mattiniero gli avrebbe
salvato la vita.
Ma allora non avremmo potuto raccontare e leggere questa storia.
Di buon passo, facendosi strada e destreggiandosi tra i mercanti e i
compratori, Lodovico attraversò l’Erbaría,
la Casaría, la
Naranzaría, la Beccaría e la Pescaría (nell’ordine: il mercato di erbe,
formaggi, agrumi, carne e pesce) i cui prodotti provenienti dalla
laguna e dalla terraferma, ma anche da lidi lontani ed esotici,
riempivano l’aria di afrori stimolanti e di ammorbanti fetori, tra grida
e richiami in veneziano e in idiomi foresti.
In quel momento, i barcaioli delle peate e delle batéle3 stavano
scaricando le merci appena trasportate dalle navi provenienti
dall’Oriente, dall’Occidente e dalle città della terraferma, domini di
Venezia: zucchero di Candia, pepe, comino da Malta, noci di galla e
moscate, scorpioni vivi dal Marocco, balsamo del Perù, canfora,
oppio, benzoino, muschio, incenso, pietre preziose e persino vipere
dei Colli Euganei, destinate certamente a qualche spezieria.
Scese lungo la ruga degli Oresi e si diresse verso il Palazzo del
Magistrato dei Dieci Savi, dove si pagavano le Decime, cioè le tasse o
gravezze, che colpivano le rendite sugli immobili situati nel Dogado.
Allo scoccare del mezzogiorno si sarebbe dovuto incontrare con il
N.H. Domenico Bembo con il quale avrebbe stipulato, davanti al
notaro Candiani, il contratto di affitto per dei locali in San Luca,
adibiti a bottega e sovrastante abitazione, per quarantaquattro ducati
l’anno. Un buon prezzo per una zona così centrale, a metà strada tra
Rialto e San Marco. Lodovico era eccitato pensando che, dopo,
avrebbe fatto una capatina nella zona delle Carampane, fino al Ponte
delle Tette a far visita a quella nuova ragazza, Veronica, dagli
splendidi capelli rosso Tiziano (come si usava tra le meretrici
dell’epoca) che trovava così belli i suoi grandi e penetranti occhi
neri...
Faceva freddo quella mattina di dicembre e Lodovico si strinse nel
suo ferariol de budrato fodrà de ormesin4 ovvero un tabarro foderato
della seta proveniente dalla città di Ormus, che la Vecchia gli aveva
finito di cucire per l’occasione.
La Vecchia era sua zia Antonia (la madre dello sfortunato cugino
Vincenzo) che nel Sestiere di San Marco, da tempo, tutti conoscevano
con quel nomignolo. Non era un inelegante epiteto riferito alla sua età
(aveva “ solo” quarantacinque anni, tuttavia non pochi per quell’epoca)
o agli abiti sempre scuri e dimessi che abitualmente indossava, ma
piuttosto un’amara allusione all’aura di annientamento che la
permeava, allo sguardo anzi tempo avvizzito e stanco di chi ha visto
la speranza e l’illusione della gioventù, ma che troppo precocemente
ne ha visto morire i frutti. E uno di quei frutti, il miglior virgulto cui
affidare il perpetuare della sua linfa, suo figlio Vincenzo, giaceva
nell’umida terra del Campo Santo della parrocchia di San Paterniano.
Ma il Cupo Mietitore aveva già maramaldeggiato sulla sua
famiglia.
Alvise, il marito di Antonia, della Vecchia insomma, per anni era
stato pratico di bottega presso la spezieria Alla Testa d’Oro fino a
quando morì precocemente.
La causa della sua morte era dovuta, quasi certamente,
all’avvelenamento da arsenico e mercurio contenuti nel cinabro nativo,
un minerale che si credeva curasse l’epilessia e la sifilide e che a lungo
(anche se già alla fine del Duecento le leggi ne proibissero la
lavorazione a Rialto)5 egli aveva macinato nei pesanti mortai del
laboratorio, assorbendone quantità alla fine letali.
Aveva lasciato la moglie, un figlio quindicenne e un piccolo
gruzzolo che sarebbe dovuto servire, un giorno, ad aprire una bottega
da speziale se e quando il suo giovine erede avesse avuto la capacità,
l’energia e la costanza per ottenere il Privilegium in Arte Aromataria.
Questa era la certificazione che la Serenissima concedeva a chi volesse
esercitare l’arte tramandata da Galeno e da Dioscoride6. Sino al
Settecento a Venezia non esistevano insegnamenti strutturati come i
moderni corsi universitari, ma erano gli stessi speziali, riuniti in
Fraglie o Collegi, che sottoponevano gli aspiranti futuri colleghi a un
severo e spossante esame, previo un tirocinio di ben otto anni presso
una spezieria, prima di assegnare il titolo di Maestro in Farmacia.
Infine lo Speziale diveniva tale solo dopo aver recitato il
Capitolare degli Speziali7 che dal 1258, forse il più vecchio al
mondo, costituisce per i farmacisti l’equivalente del giuramento di
Ippocrate e che, ancora sorprendentemente attuale, così inizia: “ Giuro
davanti ai Santi Vangeli di Dio che preparerò e farò in modo che
siano preparati tutti i medicamenti, elettuari 8 e sciroppi, sia gli
unguenti che gli empiastri e tutte le medicine onestamente e senza
frode con le usuali spezie e se non potrò trovarne alcune, invece di
quelle metterò solo altre spezie... neppure venderò, né permetterò sia
venduta alcuna cosa se non col suo nome, e inoltre non stringerò
accordi o farò società con nessun medico al fine di ingannare i
compratori, naturalmente nelle medicine, negli elettuari, nelle polveri
e negli sciroppi... e così pure curerò secondo legge e con discrezione
tutti gli ammalati e i feriti e gli affetti da altre malattie che avrò
incominciato a curare e li consiglierò secondo la loro infermità e
non prolungherò con la frode la loro malattia... e così pure non
somministrerò né permetterò venga somministrata né consiglierò ad
alcuno di somministrare qualsivoglia medicina velenosa o
abortiva...”
I titoli rilasciati nelle terre della Serenissima erano così ambiti che,
per conseguirli, accorrevano a Venezia studenti da mezza Europa. A
quest’ultimi, la pragmatica Repubblica Serenissima faceva pagare una
cospicua tassa maggiorata. Nel tempo, gli Speziali di Venezia
accumularono tanta benemerenza e fama ‒ acquisite anche all’estero
nell’ideare e allestire medicamenti ‒ che nel 1706 la loro fu definita
dal Consiglio dei Dieci (uno dei massimi organi di governo) “ Nobile
Arte” e come somma ricompensa veniva concesso, a chi la esercitava,
il diritto di sposare una nobile.
Un non disprezzabile incentivo, a prescindere dall’aspetto e
dall’indole della futura sposa! Per comprendere meglio il livello di
grado sociale ed economico raggiunto
dagli speziali veneziani, basti sapere che essi consentivano a tutti i
loro clienti, a esclusione dei poveri che non pagavano nulla, il
pagamento dilazionato dei farmaci dispensati, cioè un terzo alla
consegna e il resto ad avvenuta guarigione del malato. Il che può voler
dire delle due cose l’una: o lo speziale riponeva un’estrema fiducia
nell’efficacia delle medicine da lui preparate, o il prezzo dei farmaci era
così elevato che ci si poteva permettere anche la prematura e
infruttuosa dipartita del cliente debitore.
Alvise aveva sempre anelato al prestigio che si stava creando
intorno agli speziali e ai privilegi conseguenti; non per sé ‒ non se ne
sentiva degno ‒ ma per il suo giovine figlio. E si adoperò sino allo
stremo perché questi venisse accettato come apprendista presso la
rinomata spezieria Alla Testa d’Oro sul Ponte di Rialto.
Tutto ciò che guadagnava Alvise lo consegnava nelle mani della
moglie Antonia, sparagnina e attenta ad amministrare il denaro con
oculatezza e a non dissipare neanche un bagattin, moneta allora
appena sufficiente a comperare beni di uso comune come il pane, da
cui il termine “ bagatella”.
E quando le monete avevano raggiunto un certo numero, Antonia le
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cambiava in pezzi di maggior valore, i bessi di rame, che a loro volta
venivano convertiti in soldi, poi in gazzetee infine in lired’argento
che erano ciascuna l’equivalente di ben duecentoquaranta bagattini.
Quest’accurata e quasi ossessiva operazione di economia domestica,
protrattasi negli anni, aveva prodotto un discreto patrimonio.
All’insaputa dei suoi familiari, Antonia teneva tutte quelle monete in
casa. Non sotto il proverbiale materasso, ma cucite astutamente e con
perizia tra la fodera e il tessuto di un vecchio e liso tabarro che
nascondeva tra gli stracci nella parte più dimenticata della soffitta. La
sua bravura di sarta, occupazione che intratteneva per incrementare il
bilancio familiare, le fu di grande aiuto nel dissimulare alla perfezione
il denaro meglio che non in una cassaforte. Qualche malalingua nel
Sestiere diceva in giro che la Vecchia prestasse anche soldi a interesse
e questo spiegherebbe la rapida crescita del suo capitale. A ogni modo
qui narreremo, più che l’origine, la destinazione del denaro tanto
caparbiamente accumulato dalla vecchia Antonia. E della bizzarria
della sorte che, per il tramite dell’ingenua generosità del figliolo
Vincenzo, stava per giocarle un ennesimo brutto scherzo.
Dopo la morte del padre,Vincenzo aveva intrapreso gli studi e
l’apprendistato per diventare speziale, più per onorare la memoria e i
desideri in vita del genitore, che per reale vocazione. Essendo di
buona indole, altruista e volonteroso, si era tuttavia guadagnato la
benevolenza e la simpatia del suo maestro e datore di lavoro.
Una fredda mattina invernale ‒ la madre era uscita per andare a
messa nella parrocchia vicina ‒ Vincenzo stava ancora sotto le coltri
calde a godersi il suo meritato giorno di riposo, quando un concitato
scampanio al portone lo ridestò bruscamente.
Sportosi ancora insonnolito dal balcone sovrastante l’ingresso di
casa, il ragazzo vide un vecchio mendicante male in arnese che,
tremante per il freddo, gli chiedeva la carità.
Mosso a compassione per lo sfortunato cristiano, ma non
disponendo di denari,Vincenzo si ricordò di un vecchio tabarro
appartenuto al padre che aveva visto una volta in soffitta e, sicuro che
non sarebbe servito a nessuno in famiglia e di non aver bisogno del
permesso della madre per un cappotto così stracciato, si risolse a farne
dono al questuante.
Di lì a poco la madre fece ritorno. Salì in soffitta, ma quasi subito
ne ridiscese, pallida e tremante.
Con voce flebile Antonia chiese conto al figlio del cappotto
scomparso e, alla conseguente risposta di questi, la Vecchia se ne uscì
con un terribile gemito colmo d’angoscia. In italiano sintetizzeremmo
così il suo dire, estrinsecando il rimprovero della genitrice nei
confronti dello stolto rampollo per aver disperso il peculio e aver
incalzato anzitempo la di lei dipartita. Ma per chi è più ferrato
nell’ostica lingua veneta, riportiamo qui le sue esatte parole: “ Ti me
gà sassinà! Ah, poareta mi, che desgrassià... i schei de na vita.
Cossa ti gà fato, mona d’un fiolo!”
Buono sì, ma non privo di una certa inventiva, Vincenzo non si
perse d’animo e, confortata la madre che forse non tutto era perduto,
indossò il suo cappotto più nuovo e uscì di casa. Procuratosi da un
suo amico tessitore un naspo di quelli che servono ad avvolgere le
matasse di filato, si diresse verso Rialto.
Giunto nei pressi del Ponte si sedette in un cantone e, fingendosi
debole di mente, prese a cantilenare mentre rigirava tra le mani
l’arcolaio, ammiccando e sorridendo ai passanti con l’occhio vacuo
del minus habens. Oggi, nella nostra più sensibile società, si direbbe
“ diversamente intelligente”.
Passò l’intera giornata e, quando ormai sul far della sera credette
vani i suoi sforzi, ecco comparire il mendicante con il prezioso
cappotto. Avvicinatolo, con un largo sorriso lo apostrofò: “ Fratello,
non posso vedere un cristiano sopportare i rigori dell’inverno con un
così misero tabarro. Accetta di scambiare il tuo vecchio con il mio,
perché l’anima mia te ne sarà grata!”
Naturalmente al poveraccio non sembrò vero di aver avuta, per ben
due volte in una giornata, tanta fortuna. Ringraziò quello che credeva
essere un pio veneziano un po’ tocco e se ne andò felice per la sua
strada. E così pure Vincenzo che, restituito l’aspo all’amico, tornò
trionfante a casa per comunicare all’angosciata madre che il tesoro era
stato ricuperato.
Tesoro di cui, come sappiamo,Vincenzo non avrebbe goduto.
Dopo la tragica scomparsa del ragazzo, alla Vecchia non era rimasto
alcun motivo per continuare a vivere: con il figlio se ne era andata la
sua stessa ragione di esistere e con lui anche la possibilità di onorare
le ultime volontà del marito defunto. Fu sua cognata, madre di
Lodovico che, un po’ per pietà nei confronti della Vecchia, ma
soprattutto per favorire il proprio figlio, un giorno le propose un patto
scellerato: occuparsi del nipote come fosse la sua vera madre.
Sul momento la Vecchia rifiutò, inorridita al pensiero di poter
sostituire nel suo cuore il figlio morto con il nipote: era affezionata a
Lodovico, ma il suo affetto per lui non era che un pallido simulacro a
confronto con l’amore materno.
I giorni, le settimane e i mesi passarono e nell’animo esacerbato
della Vecchia l’istinto di conservazione e il desiderio mai sopito di
ritrovare, dopo tanto dolore, il calore di una presenza viva fra quelle
fredde stanze, la spinsero tuttavia al gran passo: avrebbe preso in casa
Lodovico e lo avrebbe allevato, curato, istruito come avrebbe fatto, se
la Provvidenza non glielo avesse portato via, con il suo vero figlio.
E forse un giorno il dolore si sarebbe attenuato.
Capitolo Due
Roma, Stazione Termini, Carnevale 2012
“ S’informano i signori viaggiatori che il treno Frecciargento
9406 delle ore sette e quarantacinque da Roma Termini per Venezia
Santa Lucia partirà con circa mezz’ora di ritardo a causa del
maltempo. TrenItalia si scusa per il disagio ” sincopò la voce
dall’altoparlante, scandendo le parole nel modo disarticolato dei
sintetizzatori vocali che hanno ormai sostituito i più costosi esseri
umani.
“ Merda!” L’imprecazione proruppe, neanche tanto sommessamente,
dalle labbra di Fedora Milano, suscitando l’ilare reazione di alcuni
passeggeri e lo sguardo severo dell’anziana signora seduta nel sedile
di fronte.
Era già stato frustrante interrompere un languido sogno di natura
erotico-sentimentale, uno di quelli la cui trama sembrava tratta dalle
belle commedie americane che le piacevano tanto allorché, all’alba del
suo primo giorno di ferie, il telefono di camera sua aveva squillato in
tono wagneriano. Ma il peggio era giunto con la voce del funzionario
di turno il quale, ben lungi dallo scusarsi per l’inconcepibile
intrusione nella sua vita onirica, le aveva intimato con un così breve
preavviso di partire per Venezia.
“ Milano!” aveva latrato l’infame dalla cornetta. “ Il Federici, che
Dio gli atomizzi le gonadi, è stato ricoverato stanotte per una colica
renale, la Donatella è in maternità per l’ennesima volta... su
quell’imbecille raccomandato di Rossetto non posso far nessun
affidamento... resti solo tu. Passa in Rai per le istruzioni e i biglietti
del treno... ah, seconda classe... ovvio, sai i problemi di budget...”
“ Ovvio un accidente! Lui che viaggiava solo in Executive” s’era
trattenuta dal ribattere Fedora.
“ E tieni acceso il cellulare: ti contatterà l’operatore di supporto che
ti seguirà a Venezia... fai buon viaggio!” aveva concluso con
involontario sarcasmo il suo abietto superiore.
Così come gli animali a sangue freddo abbisognano del calore per
avviare il loro metabolismo, Fedora aveva assoluta necessità di due
alcaloidi, elementi indispensabili per poter mettere in funzione, al
risveglio, i suoi ibernati neuroni: nicotina e caffeina.
E di ciò aveva approfittato il suo capo, riagganciando prima che lei
potesse abbozzare una qualsiasi reazione. In attesa che la moka sul
fornello facesse il suo dovere, con riflesso pavloviano, 10 si accese la
prima sigaretta della giornata.
Dicono che tanto più è breve il periodo tra il risveglio e la prima
boccata di fumo, tanto maggiore sia la dipendenza dal tabacco. Nel
caso di Fedora il tempo era calcolabile nell’ordine dei millesimi di
secondo.
La nicotina fece il suo effetto. Rivoli voluttuosi fluirono dai
polmoni al sangue. Migliaia di globuli rossi la distribuirono, come
solerti postini, alle cellule nervose che, rese fameliche dal lungo
digiuno notturno, aspettavano impazienti di rimettersi al lavoro.
Gli ordini dal cervello cominciarono a partire, i messaggi elettrici
defluirono attraverso gli assoni di milioni di cellule neuronali come
un’onda di piena verso i distretti più lontani, risvegliando ogni
organo del corpo, ogni funzione percettiva, fibra muscolare, ghiandola
endocrina ed esocrina, in un crescendo rossiniano fino a quando il
dottor Frankenstein, che era nascosto nel corpo della ragazza, poté
finalmente esclamare: “ Essa vive!”
E fu in quel momento che la ragazza formulò un pensiero orrendo:
non aveva il tempo necessario per il trucco!
Sin da piccola Fedora aveva imparato a truccarsi. Dapprima di
nascosto, usando i colori improbabili dei fondotinta e dei rossetti
venduti nelle confezioni di Barbie con cui, secondo i suoi fabbricanti,
l’eterea fanciulla di coscia lunga avrebbe dovuto accendere gli amorosi
sensi del suo eterno fidanzato, l’ambiguo Ken.
Poi, a guisa d’apprendista strega, venne introdotta all’esoterica arte
della dissimulazione e dell’inganno femminino dalle tre sorelle più
grandi: Sabrina la maggiore, Arianna la mezzana e Irma la penultima.
Furono loro che fecero della sorellina minore il tenero oggetto del
loro malsano e insoddisfatto istinto di maternità, trasformando un
roseo batuffolo dalle guanciotte morbide e invitanti, in una
baldracchetta in nuce, pronta a sfilare sulle passerelle di uno di quegli
osceni concorsi di bellezza per bambine che mandano in visibilio turpi
moltitudini di videodipendenti.
A questo punto un cinefilo accorto non avrà potuto non notare
come i rispettivi nomi delle sorelle siano anche i titoli di altrettanti
film del noto regista Billy Wilder.
È necessaria perciò una breve digressione: Tiberio, padre di Fedora
e nativo di Roma, dopo la seconda guerra mondiale frequentò con un
certo successo l’Istituto Sperimentale di Cinematografia,
diplomandosi a pieni voti direttore di fotografia. Aveva avuto
eccellenti insegnanti: Antonioni, Germi, Visconti, Lattuada, insomma
il meglio della nascente cinematografia italiana. Tuttavia il suo sogno
più grande era quello di emigrare in America e lavorare con i grandi
registi d’oltre oceano.
Fu durante le riprese di un documentario ambientato nella laguna
veneziana, però, che il destino giocò le sue mosse scrivendo un altro
copione per il futuro padre di Fedora.
In una tiepida giornata di primavera, allorquando Venezia dà il
massimo del suo fascino decadente, a bordo di un vaporetto della linea
diretta che porta dalla stazione ferroviaria a Rialto, avvinghiato alla
sua inseparabile cinepresa Arriflex 16mm ST e al suo fido treppiede
Cartoni, Tiberio incrociò casualmente lo sguardo di lei: Valeria, una
sottile e sinuosa cerbiatta dagli inverosimili occhi color del miglior
whisky d’annata, ma dal temperamento di una baccante dionisiaca.
Fu amore e sesso a prima vista, consumato con passione nel
monolocale con altana, affittato dagli imprudentemente fiduciosi
genitori di lei, a poca distanza dall’Istituto Statale d’Arte del quale la
ragazza frequentava, con poca convinzione, l’ultimo anno. Gli incontri
si succedettero con progressiva frequenza nei mesi che seguirono.
Tiberio era magicamente attratto da Valeria. Il corpo della ragazza
dalle voluttuose e flessuose movenze feline e il viso
meravigliosamente angelico erano un contrasto assolutamente
inebriante. Tiberio era costantemente attratto da lei come l’ago di una
bussola dal Polo Nord magnetico.
Un po’alla volta, quasi senza accorgersene, se ne innamorò
perdutamente. Ciò nonostante, mentre erano ancora distesi sul letto
d’amore della loro stanzetta, in una plumbea mattinata primaverile, il
ticchettio della pioggia sui coppi del tetto come colonna sonora e
preludio all’imminente tragedia, lui trovò il coraggio (o la
vigliaccheria) di confessarle che doveva partire per un lungo periodo.
Sentiva che doveva inseguire il suo sogno, anche se questa sua
decisione avrebbe probabilmente posto fine in modo irreparabile alla
loro nascente storia d’amore. Inaspettatamente non ci furono lacrime,
grida o invettive. Lei certamente più matura di Tiberio sapeva, in cuor
suo, che quel momento tanto temuto prima o poi sarebbe arrivato.
Anche se ringraziava il Cielo, ogni giorno che passava, che non
fosse quello giusto.
Tiberio riuscì a emigrare negli Stati Uniti e, aiutato da un lontano
cugino che lavorava a Los Angeles noleggiando attrezzeria di scena a
teatri e a produttori cinematografici, iniziò la sua avventura
hollywoodiana.
La gavetta fu dura e frustrante: di giorno vagava instancabile per gli
Studios distribuendo le sue referenze alla ricerca di un ingaggio; la sera
riparava radio, televisioni e impianti musicali in una cantina nel
seminterrato del palazzo scalcinato dove suo cugino gli aveva trovato
un alloggio di fortuna.
Non erano ancora i tempi in cui gli italiani si dimostrarono essere
tra i migliori direttori di fotografia e Tiberio passò lunghi mesi a
rincorrere la fortuna che sembrava essere sempre un passo avanti a lui.
Un giorno però la sorte si fermò ad aspettarlo.
La Paramount stava cercando un direttore della fotografia per il
nuovo film di Samuel “ Billy” Wilder, tratto da una commedia di
Ernest Lehman e Samuel Taylor: Sabrina.
Un curriculum lasciato da Tiberio attirò l’attenzione di un
funzionario della Major. Fu convocato in tutta fretta. Il colloquio andò
benissimo: quel giovane italiano dimostrava competenza e
professionalità non disgiunte da un entusiasmo contagioso e da una
dose di accattivante sicurezza di sé. Al regista piacque e, come accade
solo negli States, a un illustre sconosciuto venne affidato un incarico
importante in una grossa produzione.
Tiberio era raggiante: i suoi sforzi e i suoi sacrifici, finalmente,
erano stati premiati.
Il lavoro cominciò in modo eccellente. La sua bravura professionale
e la sua guasconesca cordialità gli valsero sin da subito gli
apprezzamenti di colleghi e attori.
Le riprese andarono avanti per circa un mese, fino a quando la sorte
che governa i nostri destini e quindi anche quello di Tiberio, non
accelerò di colpo la sua corsa.
Era ormai quasi sera quando Tiberio attraversò a piedi l’ingresso
principale degli studi della Paramount per dirigersi verso casa. Non
sapeva resistere a quell’impulso, un po’provinciale, che lo spingeva
ad allungare il percorso per poter passare sotto il Melrose Gate, il
famoso arco bianco che fa da ingresso agli Studios.
Ma il sapere che di lì erano passate le più importanti stelle del
cinema come Valentino, Sarah Bernhardt o Marlene Dietrich era
un’emozione che valeva quel piccolo sacrificio.
Tiberio non poteva sapere quanto grande, invece, esso si sarebbe
rivelato.
L’autocarro che trasportava vecchi rottami sbucò all’improvviso da
una strada laterale, immettendosi repentinamente lungo il viale.
Percorse pochi metri sbandando vistosamente tra lo stridio di
pneumatici e l’odore di gomma bruciata. Il guidatore, troppo ubriaco
per accorgersi di quel giovane magro che gli stava attraversando la
strada, non tentò neanche un accenno di frenata.
L’urto fu tremendo.
Tiberio, preso in pieno, volò in aria per una dozzina di metri,
gesticolando come un pupazzo mosso da un marionettista epilettico,
per poi fracassarsi sull’asfalto con un raccapricciante rumore di ossa
infrante. Rimase in coma per un mese.
Oltre alle numerose fratture agli arti superiori, al collo del femore
sinistro e all’edema cerebrale, era il suo cuore ad aver subito il danno
peggiore. Nonostante la sua giovane età, il forte trauma gli aveva
procurato un infarto miocardico.
Dopo essere stato tra la vita e la morte per diverse settimane,
Tiberio venne dimesso dall’ospedale in una piovosa mattinata
d’autunno. Oltre alla genuina solidarietà dei colleghi di lavoro
(Wilder in persona era andato a fargli visita durante la degenza) non
ebbe altre consolazioni. Il film era stato terminato senza di lui. Solo
una piccola citazione nei titoli di coda, che naturalmente nessuno
notò, rimase come labile traccia della sua sfortunata avventura
americana.
La riabilitazione sarebbe durata a lungo e lui non aveva abbastanza
soldi per potersi permettere di vivere solo e senza sussidi in terra
straniera. Tornò in Italia con il morale a pezzi: il sogno della sua vita
s’era infranto, insieme alle sue ossa, in quel suo prematuro Viale del
Tramonto ad Hollywood.
Dal ponte della nave che lo riportava a casa, guardò per un’ultima
volta quella che per lui era stata la terra promessa, mentendo a sé
stesso che un giorno sarebbe ritornato.
Non lo fece mai più.
La temibile e tristemente famosa malattia nota come sindrome da
Florence Nightingale11 colpisce, come comunemente è noto, un gran
numero di donne. Essa agisce come potente afrodisiaco sulle poverine,
obnubilando le normali capacità di giudizio e inducendole a dedicarsi
con totale spirito di abnegazione alla cura del proprio partner ferito nel
corpo e nella psiche. Anche quando questi ti ha mollato per
l’America!
A tale terribile malattia Valeria non riuscì purtroppo a scampare. Si
prese tanta cura di quell’avanzo umano sbarcato dalla nave che, in tre
mesi di amorevoli brodini e coccole struggenti, Tiberio tornò a nuova
vita.
Si sposarono a Venezia con tutti i crismi. Dal copione: zoom sulla
gondola della sposa panoramica su chiesa straripante di gente e
addobbi, primo piano di mamma in lacrime, campo lungo di papà in
alta uniforme da sott’ufficiale dei carabinieri, corteo di motoscafi,
inesauribile pranzo a Torcello, carrellata su amici scurrili
euforicamente ubriachi e su amiche ciarliere e invidiose, finale con
interminabile viaggio di nozze in treno per la lontana ed esotica
Taormina.
Un mese dopo, Valeria era incinta, o meglio, lo era solo
ufficialmente.
Nella versione ufficiosa il fattaccio era accaduto tre mesi prima,
durante il periodo di convalescenza di Tiberio.
Si sa, le infermiere a volte allacciano un rapporto professionale
molto stretto con i pazienti in cura.
Pare inoltre che, a quel tempo, l’ostetricia fosse ancora una
disciplina esatta, poiché succedeva molto spesso che il momento del
concepimento del nascituro, calcolato dal medico, non coincidesse
sempre con la prima notte di nozze. Misteri della scienza!
Nata settimina per tutti, salvo che per il cocciuto ginecologo, venne
presentata ai parenti e amici festanti una bella bimba, dalle guance
rubizze come un’avvinazzata e dai capelli corvini presi della madre,
cui venne imposto il nome di Sabrina. Imposto è la parola giusta,
perché Tiberio fu irremovibile: non aveva potuto finire il film, ma
almeno poteva darne il nome alla sua primogenita.
Il problema nasceva quando il regista americano creava una nuova
pellicola. Tiberio allora, dall’altra parte dell’oceano, metteva in
lavorazione un suo personale copione.
Vennero così prodotte: Arianna, Irma e, da ultima, Fedora. Fortuna
volle che non arrivasse mai il maschio, altrimenti la sua sorte era
segnata: sarebbe stato Buddy. 12
A interrompere la filmografia familiare, alla fine ci pensò l’esausta
moglie Valeria, quando scoprì e utilizzò il più sicuro dei
contraccettivi orali: “ No, caro. Anche stasera ho il mal di testa!”