Versione pdf - Circolo Culturale La Torre

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DENATALITA', ODIO DI SE', AUTORAZZISMO.
TRE PASSI NEL DESERTO
Di Roberto Peccchioli. Maurizio Blondet 1 dicembre 2016
DENATALITA’, ODIO DI SE’, AUTORAZZISMO. TRE PASSI NEL DESERTO
Un immigrato moldavo, padre di famiglia, uno che lavora come può nonostante diabete e cardiopatia, e cerca di
tenere sotto controllo la famiglia che si sfascia a causa dell’emigrazione, si dice sbalordito che gli italiani
accettino senza vere reazioni l’invasione degli africani promossa e favorita da governo e clero, non reagiscano
dinanzi a tutto ciò che hanno davanti agli occhi e che, oltretutto, pagano di tasca propria. Mette tutto ciò a
confronto con la Russia, che pure non ama, e fa un facile pronostico: l’Italia è spacciata.
L’Istat diffonde i dati demografici finali dell’anno 2015, dai quali emerge una ulteriore flessione della natalità. Il
record negativo del 2014 è polverizzato: altri 15mila italiani
mancano all’appello. La grande sostituzione della popolazione,
tuttavia, non è affidata agli immigrati presenti da tempo sul
territorio. Anche loro, una volta insediati nel Bel Paese, evitano di
procreare. Le immigrate in età fertile hanno meno di due figli a
testa, contro la media di 2,40 di cinque anni prima, al di sotto
della soglia di 2,10 che è il minimo per mantenere stabile la
popolazione.
Un giovane insegnante elementare racconta dell’incredibile
attitudine delle sue colleghe che non solo rifiutano di allestire il presepe a scuola, ma sono contrarie anche
all’albero di Natale ed all’iconografia di Babbo Natale, in quanto evocherebbero la festività cristiana, con danno
psicologico per i bimbi di altre culture ed in spregio della cosiddetta laicità delle istituzioni. Sembra incredibile, ma
solo due generazioni fa i genitori parlavano dell’arrivo di Gesù Bambino.
Odio di sé, autorazzismo, denatalità. Tra stazioni di una Via Crucis che ha un denominatore comune nel
progressivo declino della nostra civiltà, la lunga interminabile vecchiaia di un gigante bimillenario, che, come
aveva intuito Emil Cioran già alla metà del secolo trascorso, non può morire di colpo, ma agonizza
nell’indifferenza dei più. E poiché chi è sradicato, sradica a sua volta, e chi non crede più nel futuro trascina nel
pessimismo anche i “nuovi italiani”, risulta ormai anacronistico anche parlare di una civiltà “nostra”.
La prima persona plurale, il pronome noi, è ormai abolito, anzi espunto dal lessico contemporaneo. Solo un
lungo elenco di individui falsamente liberi, emancipati, liberati, nudi, destinati all’angoscia dell’uomo senza
lineamenti dell’Urlo di Munch o alla stranita contemplazione del nulla del Viandante sul Mare di Nebbia di Kaspar
David Friedrich. Una delle caratteristiche fondamentali di questo tempo ( resta grande la tentazione di chiamarlo
ancora “nostro”) è l’assenza di verità, anzi l ’orrore per la verità.
Sfrattata dalla libertà , la verità si rifugia nelle fenditure, cerca di resistere al politicamente corretto,
all’eufemismo, all’umanitarismo spurio, alla “contaminazione” tanto amata dai contemporanei. Hans-Georg
Gadamer parlò di ermeneutica, quindi di interpretazione, come surrogato filosofico della verità, pur intitolando
Verità e metodo il suo opus magnum, ma il fallimento è palese.
Altri, come la teologia neo cattolica, hanno sfrattato la verità in favore di un amore universale non meglio
identificato. Non poteva finire diversamente. Constatare che le radici
fondamentali del continente Europa sono quelle cristiane è evidenza
storica, ma non è opportuno affermarla ed ancor meno è una verità
creduta. Giovanni Sartori, sociologo liberale, insospettabile di
fondamentalismo, scrisse che quando non risulta opportuno dire le
cose che si pensano, si finirà col non pensarle più . Questo è un punto
fondamentale dell’odio di sé che si trascina in autorazzismo: ogni idea
si disperde nel conformismo, le identità , tanto più se culturali, religiose
o etniche si dissolvono se non più condivise, vissute, introiettate.
In questo senso, è normale che le maestrine figlie dell’istruita ignoranza della scuola di massa rigettino presepi e
tradizioni religiose o civili del popolo italiano. Semplicemente non le riconoscono né le capiscono in nome del
relativismo inoculato loro dagli anni Settanta in dosi industriali. Se l’unico assoluto, il solo principio veritativo è
che non esiste una verità, ma semplicemente , ermeneuticamente ciò che ciascuno ritiene tale, esprimere
qualunque convinzione forte è proibito in nome dell’ossessione delle sensibilità altrui e del non detto
apertamente, ovvero l’opinione che non esista alcuna verità, eccetto quella delle formule tecnoscientifiche. A
questo è ridotta l’identità degli europei e degli occidentali, alla negazione compulsiva, al rifiuto patologico di sé .
Vivere secondo le proprie usanze ed idee è consentito solo all’Altro. A noi è permessa, anzi imposta la fuoruscita
da noi stessi. In Spagna è ormai severamente proibito il gioco secolare dei fanciulli “mori contro cristiani”,
nonostante l’identità di quel popolo si sia formata proprio nella Reconquista, la secolare lotta degli spagnoli
contro il dominio arabo. Lo stesso San Giacomo, Santiago apostolo, patrono della nazione iberica, è adesso visto
di cattivo occhio: la leggenda vuole che abbia partecipato alla battaglia di Clavijo contro gli invasori e uno dei suoi
predicati è Matamoros. Eppure gli arabi erano invasori e, con l’occhio dei moderni, la riconquista dovrebbe
essere catalogata come lotta di liberazione.
L’odio di sé prende le forme più disparate. Si passa dalla negazione della storia alla sua interpretazione più
comicamente manichea . Millenni di cultura non furono altro che violenza, sopraffazione, menzogna. Poi ci
colpevolizziamo di aver ottenuto più e prima degli altri il benessere materiale, che, semmai, è il frutto di studio,
lavoro, impegno, intelligenza. Infine, ci sarebbero i crimini da espiare collettivamente per il colonialismo.
Tale fenomeno, peraltro, coinvolse solo alcuni popoli europei, fu del tutto estraneo ai tedeschi ed ai russi,
interessò solo marginalmente l’Italia, e, per quanto riguarda lo schiavismo, fu un
fenomeno del mondo anglosassone e protestante. Lo stesso razzismo biologico è
un costrutto culturale interno al positivismo della gentry britannica . No, siamo tutti
colpevoli, e per sempre, ci tocca espiare .
Ma come si concilia tale follia con l’individualismo assoluto in cui siamo immersi ?
Come può un cittadino di Padova o di Friburgo in Brisgovia essere considerato
responsabile, nell’era puntinista costituita di milioni di individui scollegati e deprivati
di qualunque identità, di fatti che, comunque vadano valutati, non solo non ha
commesso personalmente, ma non lo riguardano neppure come membro di una nazione ? Ed ha senso una
grottesca autoflagellazione se rifiutiamo l’eredità ricevuta ? Se noi non siamo “quelli”, anzi ne abbiamo orrore, è
ridicolo chiedere perdono notte e dì per ciò che riguarda i padri che abbiamo rifiutato, ammesso e non concesso
che il loro mondo fosse tutto negativo.
I colpevoli principali sono due: da un lato la “nuova” chiesa cattolica, che mendica perdono al mondo intero
piagnucolando ed affermando esplicitamente di avere sbagliato tutto nella propria storia bimillenaria , ed
insinuando il dubbio anche nei fedeli più tenaci . Dall’altro la spregevole scuola di Francoforte, salita in cattedra
per decenni negli Stati Uniti con figuri come Herbert Marcuse e Thomas Wiesengrund Adorno, neomarxismo
borghese in salsa ebraica, con l’odio furente verso gli europei colpevoli della “personalità autoritaria”, spinti
verso i paradisi artificiali, gli eccessi sessuali, il disprezzo per la verità e la conoscenza, ridotti alla figura dell’
“uomo a una dimensione”, che si è poi rivelata, per eterogenesi dei fini, quella del consumatore.
Con loro, si è rivelata verissima la vecchia massima secondo la quale chi paga i suonatori ( il capitalismo post
1968 ) decide la musica, piegandola ai propri interessi. Un terzo elemento, che è un po’ la confezione esterna
degli primi due, è il freudismo d’accatto, con la sua credenza senza prove che l’uomo non è che la sua libido, le
forze infere e nascoste, talché tutto può essere letto in chiave pulsionale e anche la generosità, il coraggio,
l’altruismo, il bene compiuto non sono che sublimazioni delle forze oscure di ciascuno.
Se l’umanità è questa, l’umanità europea e bianca, beninteso, detestarla è quasi un dovere civico. Vide giusto
Renan chiamando Marx e Freud maestri del sospetto. Il terzo sarebbe Nietzsche, ma il gigante solitario di Sils
Maria tese davvero una corda tra la bestia e l’oltre uomo, consapevole della trappola in cui l’uomo d’Europa
stava rinchiudendo se stesso. Infine, ciò che è fatto per amore, non è “al di là del bene e del male”, poiché la
verità viene prima e comunque- ne fu consapevole il cantore di Zarathustra- bene e male esistono, con buona
pace del nichilismo odierno , di cui per primo comprese gli esiti sino a perdere il senno .
Nell’odio di sé è compresa non la trasvalutazione nicciana di tutti i valori, ma la loro completa svalutazione. Di
qui, il rancore sempre più profondo verso ciò che si è, la storia, i padri, e tutto ciò da cui si proviene. Un rigagnolo
del transumanesimo : non abbiamo padri, siamo creatori di noi stessi, aborriamo essere eredi, dunque non
vogliamo eredi.
Tutto questo oltrepassa largamente la prospettiva di società liquida indicata da un Bauman e ci conduce diritti alle
generazioni ultime, quelle definite “millennials” , formatesi
nel Duemila, i nativi digitali , cresciuti nel culto del nulla,
dell’eufemismo obbligato, di quella che, alcuni decenni fa,
Milan Kundera definì l’insostenibile leggerezza
dell’essere.
E’ la generazione che in America chiamano snowflakes,
cristalli di neve, impalpabile, senza peso, una piuma o una
canna al vento, priva di consistenza e di spina dorsale. In
essa, convivono odio di sé, autorazzismo , egoismo, assenza di senso di responsabilità, unificati in una
impressionante incapacità di riconoscere altro che se stessi e le folli menzogne ricevute. Una generazione
amniotica, mai uscita davvero dal grembo artificiale di chi l’ha gettata nel mondo.
Negli Stati Uniti, lo choc per la vittoria elettorale di Trump ha determinato in molti e molte di loro crisi di nervi, crolli
emotivi con l’intervento di psicologi e consulenti vari. Un secolo fa, i diciottenni europei vennero scaraventati tra
le trincee nel macello che uccise il continente e diede avvio al secolo americano. Non ebbero consulenti,
psicoterapeuti e consolatorie mani sulla spalla.
Tra i “millennials” fiocchi di neve è considerato disdicevole il semplice evocare tutto ciò che li dispiace. Soggetti
a molteplici, sconcertanti traumi emotivi, se pronunciate in loro presenza la parola “razza” potreste doverli
soccorrere con l’ausilio del defibrillatore. Niente di strano : è l’esito delle confortanti menzogne consolatorie in
cui sono (dis)educati . Hanno orrore delle parole come il gatto dell’acqua . Un esempio: nel 1950 l’Unesco
consigliò in un documento ufficiale di “espungere totalmente il termine razza da discorsi che si riferiscono a razze
umane, utilizzando invece il termine etnie”. Abolizione ufficiale delle parole sgradite , il politicamente corretto ante
litteram.
Abrogare la verità reca con sé il rifiuto della realtà, di quella che Tommaso chiamò, sulle piste di
Aristotele,”adaequatio rei et intellectus”, la corrispondenza tra la realtà e l’intelletto. Massimo Fini notava
recentemente il disuso della parola morte, sino all’incredibile “fine vita”.
Le razze, dunque, non esistono, o meglio, non è opportuno evocarle o chiamarle così. La bestia bionda potrebbe
svegliarsi. Le etnie sono più sfumate, accettabili, quasi biodegradabili a patto di disinnescarne il potenziale di
conflitto. Eppure il primo storico dell’umanità, Erodoto, definendo i Greci in opposizione ai barbari, attribuì loro la
comunanza di sangue ( vergognoso primitivismo !), la stessa discendenza ( ahi, la tradizione),la lingua comune,
la partecipazione agli stessi sacrifici e riti, i medesimi usi e costumi. A duemilacinquecento anni di distanza,
nessuno è mai riuscito a fornire definizioni migliori, tanto meno la sociologia da quattro soldi dei mondialisti
prezzolati dell’Onu e dell’Unesco.
Se poi le razze sono un’invenzione immonda di uomini spregevoli, non dovrebbe sussistere neppure il razzismo,
in quanto fondato sul nulla. Al contrario, prendere atto , dichiarare l’esistenza di “razze” espone all’interdetto
morale, all’isolamento culturale, all’ erezione di cordoni sanitari attorno al reprobo, e, da qualche decennio e con
crescente intensità, al rischio di sanzioni penali. La psicopolizia veglia. Affermato che le razze non esistono, con
l’imprimatur di Einstein il quale dichiarò solennemente di conoscere un’unica razza, quella umana, confondendo
( ma era un fisico, non un sociologo….) specie con razza ( o etnia ? mah…) non si capisce perché dovremmo
preferire i connazionali a chiunque altro. Connazionale, poi, riposto Erodoto in un angolo buio della biblioteca, è
chiunque venga dichiarato tale da una legge. La legge crea, dichiara vero con un tratto di penna e la firma dei
superiori ciò che fu sempre falso e viceversa: sono le delizie del positivismo giuridico.
Perché parlare di invasione da parte di stranieri non invitati, quando si tratta di “fratelli” ? Un’altra menzogna,
poiché, se tutti sono miei fratelli, siamo daccapo. Tutti
fratelli, nessun fratello, come ad Alghero furono “todos
caballeros” per proclamazione del re d’Aragona, ma
nessuno, ovviamente, ebbe i privilegi del rango. Quindi,
autorazzismo, autoflagellazione, noi siamo i cattivi, quando
non si conosce alcuna civiltà o popolo sensato che non
abbia preferito se stesso ed i propri figli a chiunque altro.
Quanto all’intimazione, specie di parte cattolica, di
costruire ponti, anziché erigere muri, i popoli si sono
sempre incontrati in luoghi chiamati frontiere, ma hanno
saggiamente posto regole, limiti, costruito faticosamente
linguaggi comuni. Non hanno mai pensato di rinunciare a se
stessi, né hanno gettato ponti dinanzi a chi si mostrasse
nemico o non riconoscesse un minimo di codici condivisi. Il
disprezzo di se stessi , la debolezza, il dubbio sono sempre
coincisi con le fasi finali delle civiltà, per saperlo non c’è
stato bisogno delle scoperte di Spengler o di Toynbee . La
sapienza profonda di Giambattista Vico chiarì tutto già dal
primo settecento, senza i lumi francesi ed il commosso
omaggio di Kant – un universalista che non si mosse mai
dalla natia Koenigsberg- a chi aveva strappato l’umanità dall’infanzia culturale.
Intanto, i cristalli di neve avanzano e le società, da liquide diventano gassose. Chi non si ama più, ovviamente
non si riproduce, per cui le culle si svuotano ogni anno di più. I figli sono responsabilità, tempo sottratto alla
carriera, al divertimento, al consumo, alla smania individualista. Al centro commerciale i bimbi disturbano, anche
se i gestori hanno apprestato per loro apposite aree con dipendenti precari a fare animazione, in molti resort
turistici non sono ammessi o graditi, ancor meno nelle discoteche e negli altri locali dello sballo, della promiscuità
sessuale e di altri vecchi e nuovi vizi.
L’egoismo è infettivo: anche gli stranieri evitano o limitano le gravidanze. Chi viene da noi spesso non sfugge la
miseria, ma è attratto dai lustrini e dalle luci del varietà della nostra civilizzazione da luna park. Non sanno
(ancora) che le luci si spengono, e, come cantava Mina tanto tempo fa , la musica è finita, gli amici se ne vanno.
Che inutile serata, continuava il testo di Franco Califano, uno che ha bruciato talento e vita per morire solo e
tutt’altro che ricco. Che inutile vita, quella di chi detesta se stesso ed è etereo, impalpabile come un fiocco di
neve.
Il catalogo è questo. Prenderne atto significa recuperare la dimensione del dissenso radicale, della vita come lotta
e milizia, della presa di distanza da quel che abbiamo attorno. Probabilmente questa nostra ex civiltà è finita
irrimediabilmente sull’altare dell’individualismo, del consumo, dell’assenza di senso, ed è troppo tardi per
rianimarla.
Proviamo ugualmente a credere ancora in tutto ciò che è nostro e perenne . Anche la notte più buia finirà, forse la
sentinella idumea potrà portare la notizia dell’aurora ad un’altra generazione, e comunque, chi ama se stesso,
chi ha il senso e la fierezza di sé, della propria gente e della propria razza non può finire come un fiocco di neve
al primo disgelo. Il deserto potrà essere immenso, ma non ci inghiottirà con il nostro consenso.
ROBERTO PECCHIOLI