1. Saper ascoltare So che il tema di questi giorni e del vostro

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1. Saper ascoltare So che il tema di questi giorni e del vostro
NEL MATERNO ABBRACCIO DEL PADRE
Raduno regionale Capi Scout
Calatanissetta – Cefpas, 10 marzo 2013
1. Saper ascoltare
So che il tema di questi giorni e del vostro convenire qui, in Caltanissetta,
è quello dell’educazione nelle varie fasce d’età. Ebbene, nella riflessione che
provo a formulare qui con voi e per voi vorrei soffermarmi su quale stile educativo vive questo padre nei confronti dei due figli e vorrei innanzitutto
fare alcune premesse importanti per comprendere. Vedo qui presenti, fra i capi, anche molte donne – alle quali faccio gli auguri per la recente festa – e vorrei dire che questo è un dono di Dio, perché ogni uomo deve la sua vita alla
misericordia di una donna e la presenza della donna è fondamentale nell’esistenza di ciascuno di noi.
Nella nostra parabola non c’è la madre, almeno non sembra esserci, ma in
realtà vedremo che non è così. Inoltre, il padre non parla mai al figlio piccolo, che forse è quello che ha più bisogno, con lui usa soltanto il linguaggio
non verbale dell’amore e questo può sembrare strano per un educatore. Avrete anche notato certamente che i due fratelli non si parlano e non si incontrano mai, l‘unico punto di incontro è il padre. Uno va lontano, l’altro resta
in casa. Ma chiediamoci: chi è veramente lontano, quello che fisicamente si
allontana da casa, o quello che sta in casa e vive come se fosse lontano? E qual
è il problema di questi due figli? E dunque, come si pone il padre nei loro
confronti? Il figlio più piccolo, come accade spesso, è più viziato, i primogeniti sono spesso i più responsabili, i più taciturni, quelli che un maggiore senso del dovere.
Bene, il figlio più piccolo dice: «Dammi la parte del patrimonio che mi
spetta». In realtà chiede ciò che non gli spetta, perché secondo la legge ebraica il padre doveva designare l’eredità, che veniva assegnata solo alla sua morte e, in genere, andava quasi totalmente al primogenito, a cui veniva data anche la benedizione, perché non si disperdesse il bene. Quindi, al figlio più piccolo spettava poco, qui chiede qualcosa che non gli spetta e il padre non gli
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dà ciò che chiede, ma – dice il testo del vangelo di Luca che abbiamo ascoltato- «divise tra loro le sostanze». Nel testo greco troviamo: «Divise fra loro
ton bion», “la vita”.
Allora, la prima opera educativa di questo padre è stare ad ascoltare le esigenze dei figli. Prima di dire o di fare alcunché, un buon educatore deve sapere ascoltare. Diversamente, quello che dice o fa può non rispondere alle
reali esigenze degli educandi e può capitare di offrire un piatto di spaghetti
a qualcuno che ha bisogno solo di un bicchiere di latte.
2. Educare alla responsabilità
Il secondo obiettivo è farli crescere nella responsabilità, non dare ciò che
chiedono, dare molto di più, riconsegnare nelle loro mani la vita: «Il padre
divise fra loro la vita», perché la vita è una sola e noi abbiamo una sola possibilità di giocarcela, a nessuno di noi verrà data una seconda opportunità. Il
padre comprende che i figli sono arrivati a quel grado di maturità da dover
assumere la responsabilità della vita, gestendola da se stessi: «Divise fra loro
la vita». È un atto di fiducia straordinario. Viviamo un tempo in cui ci sentiamo come marionette manovrate dai grandi poteri economici, in una situazione, anche sociale e affettiva, nella quale vengono spesso deplorati i comportamenti dei giovani.
Ma questo presente è costruito da quelli che oggi sono adulti, i quali hanno
consegnato un mondo squassato, pertanto la colpa non è dei giovani, è degli
adulti. Per questo chiedo a voi educatori: che futuro volete costruire? Che vita
avete nella testa? Che Associazione avete pensato? Che Chiesa avete nel cuore? Perché è tutto questo che voi oggi costruite e, dunque, se ragazzi sono ostili, ribelli, non sanno stare in gruppo, non vogliono andare a messa… è la vostra idea di Dio, di Chiesa, di società, di mondo che va messa in discussione.
Bisogna fidarsi dei ragazzi, fidarsi, anche a costo di lasciare che si feriscano. Il guaio di tanti ragazzi smidollati di oggi è che i genitori, per evitare ogni sofferenza ai loro figli, hanno tolto ogni impedimento, hanno spianato loro la strada al punto che i ragazzi ci scivolano dentro e non hanno più spina
dorsale.
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Voi dovete formare uomini con una colonna vertebrale, uomini e donne
veri, lasciate che cadano e si facciano male, ma fidatevi di loro e dopo spiegate dove hanno sbagliato. Ma finché un ragazzo non impara a salire su un
albero, finché un ragazzo non impara ad accendere il fuoco anche bruciandosi le mani, non saprà mai gestire la sua vita, perché non saprà misurarsi
con la vita. «La maturità – diceva Romano Guardini – è avere la propria età».
Allora, a un ragazzo di dieci anni dovete chiedere la maturità di uno di dieci anni; a uno di quindici, quella di uno di quindici.
3. Non perdere la speranza
Il padre mette la vita nelle mani dei figli, attestando nei loro confronti grande fiducia ed anche grande generosità e lo fa senza parlare, perché il suo gesto è già eloquente. Ed ecco la conseguenza: il figlio più giovane pensa che
vivere la vita significhi gestirla come gli pare, che la libertà consista nel fare
quello che l’istinto suggerisce, nel dare sfogo ai suoi istinti sessuali, al suo bisogno di sentirsi importante, di ubriacarsi, ma si ritrova solo e la sua non è
una solitudine sociale, è una solitudine affettiva. Si sente sporco e sta con i
maiali, simbolo dell’impurità, vive una sorta di esilio dalla patria e lo sente
nella coscienza e in questo esilio avverte la nostalgia della casa, perché dentro di sé prende coscienza che il padre è buono, è buono anche nei confronti
dei servi. Ma lui si sente troppo sporco per essere figlio, vuole tornare da servo e si ripassa in testa un discorso.
Quando arriva, ecco il terzo momento della pedagogia del padre: non perdere la speranza. Un bravo educatore sa aspettare, non è impaziente, ha la
pazienza del contadino che getta il seme nella terra e poi, che egli dorma o
vegli, il seme da solo produce trasformazioni straordinarie, ma lui è lì. Il padre ha saputo aspettare e la sua attesa non è stata inoperosa, è stata una paziente attesa agente, ha mandato segnali, avrà pregato per il figlio, avrà parlato al cielo, perché come un’eco facesse arrivare la sua voce al cuore del figlio: la mia casa è pronta per te, nel mio cuore c’è spazio per te, tu sei importante per me.
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4. Saper guardare lontano
E vede il figlio da lontano, è un padre capace di scrutare l’orizzonte. L’educatore deve sempre saper guardare lontano, non può limitarsi a ciò che è
presente, deve sapere qual è la meta e poi deve trovare le strategie per condurre alla meta. Il padre guarda lontano, «lo vide e commosso gli corse incontro». Quel «commosso» è importante, in greco è splanknizomai e indica il
ribollire del ventre materno; in ebraico è rakkamhin e indica il cordone ombelicale, il legame fra la madre e il figlio, quel legame che, anche se lo tagli, non
si rompe mai.
Dunque, il padre vede il figlio che ritorna e assume dentro di sé tutta quella dimensione di affettività e di tenerezza tipica della madre, perché il figlio
non ha bisogno solo di un padre, ha bisogno anche della madre. E poi infrange le regole, perché al centro c’è la persona. Dovete insegnare le regole, ma
dovete essere così bravi da saperle infrangere, se è in gioco il cuore di una
persona. La regola diceva che il padre doveva aspettare il figlio che aveva
sbagliato seduto al centro della casa, aspettare che il figlio si prostrasse in ginocchio e gli baciasse i piedi, solo allora poteva offrirgli la mano da baciare e
concedergli il perdono.
Questo padre, invece, ama di un amore materno, vede, assume tutta la
maternità di cui è capace, rinsalda quel cordone ombelicale e fa una corsa,
corre come corre Maria di Nazareth per andare ad Ain Karem da Elisabetta,
come corrono i pastori per adorare il bambino, come corre Zaccheo quando
accoglie Gesù a casa sua, come corre Maria di Magdala per annunciare la resurrezione.
Si corre perché c’è una notizia, quel figlio è la tua notizia, quel ragazzo è
il vangelo per te educatore, è lui il tuo vangelo, è lui che venendo ti fa diventare padre e madre in quanto educatore, che mette ali al tuo cuore. E il figlio
si era preparato il discorso: «Ho peccato contro il cielo, contro di te…», ma il
padre non gli fa dire: «Trattami come uno dei tuoi servi» perché subito lo avvolge: «Gli si gettò al collo, lo baciò». E qui c’è un verbo straordinario: katafilèin, che non è il bacio di Giuda, quello appena accennato, appena posato
sulla pelle dell’altro, è il bacio di effusione, è il bacio con cui si apre il libro del
Cantico dei Cantici: «Mi baci, con i baci della tua bocca». Questo padre e ma-
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dre bacia con effusione, con il bacio dell’innamorato, questo suo figlio, perché quando si ama si sente il bisogno di toccare l’altro.
L’educatore è uno capace di una tale maternità da effondere questi baci,
da avvolgere nell’abbraccio, perché i ragazzi, i nostri ragazzi, carissimi amici, sono orfani di affetto, non lo trovano a casa, non lo trovano a scuola e nell’Associazione non possono trovare solo regole, devono trovare in voi questa
esplosione di paternità e di maternità. Date vita al papà, alla mamma che è
dentro di voi, solo così sarete buoni educatori.
5. Da schiavi a figli
E poi c’è l’altro figlio. Anche questa volta il padre vive un esodo, ha il coraggio di uscire, ma sa che quel figlio è un po’ refrattario a gesti di affetto, ha
bisogno di parole e quindi parla con lui.
Il problema di questi due ragazzi è che hanno un cuore da schiavi. Il più
giovane torna a casa dicendo: «Quanti schiavi hanno pane in abbondanza,
dirò: trattami come uno dei tuoi schiavi», ha un cuore da schiavo, non ha un
cuore libero, non ha percepito l’affetto. Ma anche il figlio più grande dice: «Da
tanti anni ti servo», anche lui si sente un servo, non si sente figlio. E allora il
padre usa una pedagogia diversa, usa il dialogo, la parola, si abbassa, si china verso questo figlio, parla al suo cuore. Il figlio accusa il fratello: «Questo
tuo figlio ha sperperato…» e il padre riconsegna quello scialacquatore come
fratello: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita». Come a dire: scava dentro di te, tu che sei più grande, scava dentro di te un grembo di accoglienza. È festa, condividila con noi.
Il figlio più piccolo, tornando, è come se volesse condividere col padre
quella vita che prima voleva gestire da solo, ha bisogno del padre, da solo
non ce la fa. Ma anche il figlio più grande ha bisogno del padre. Entrerà? La
risposta a ciascuno di noi. Qualche anno fa, una donna, dopo che avevo detto due parole su questa parabola a Serradifalco, mi ha portato un quadro bellissimo, che è proprio all’ingresso del mio episcopio, salendo le scale. Lei ha
visto questo figlio più piccolo, che ha avuto il coraggio di scacciare tutto il
male dalla sua vita, completamente avvolto nell’abbraccio del fratello più
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grande. E Dio Padre sullo sfondo soffia il bacio della vita nuova sui figli e
sembra abbracciarli. E la porta della casa, che è anche la porta della Chiesa, è
aperta. Questo è il sogno anche dell’educatore: riuscire a dare la vita nelle mani dei ragazzi, ma fare in modo che fra i più piccoli e i più grandi, si crei un
abbraccio che spalanchi davvero, per sempre, la porta della vita, la porta di
quelle celesti praterie, dove ciò che conta è sentirsi avvolti nell’abbraccio e nel
bacio di Dio. Sia lodato Gesù Cristo!
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