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PHILIPPE DJIAN
37° 2 AL MATTINO
VOLAND
COLLANA INTRECCI
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Si prevedevano temporali al tramonto, ma il cielo per adesso restava blu e il vento era calato. Ho buttato un occhio in cucina per
controllare che il pranzo non si attaccasse alla pentola ma andava tutto benissimo. Sono uscito in veranda armato di una
birra fresca e ho messo un po’ la faccia al sole. Si stava bene, da
una settimana mi abbronzavo tutte le mattine strizzando gli occhi beato, da una settimana avevo conosciuto Betty.
Ho ringraziato il cielo un’altra volta e ho allungato la mano
verso la sdraio con la faccia contenta. Mi sono sistemato per
bene, come uno che ha tempo da perdere e una birra in mano.
In quella settimana avevo dormito in tutto venti ore e Betty anche meno, forse mai, non ne ho idea, era sempre lei a svegliarmi, c’era sempre qualcosa da non perdere. Oh, non mi
vorrai mica lasciare così da sola, diceva, svegliati, che combini.
Aprivo gli occhi e sorridevo. Fumavamo una sigaretta, scopavamo o ci raccontavamo cose, cercavo di tenere il ritmo.
Per fortuna le giornate non erano troppo faticose. Se tutto
andava bene a mezzogiorno il lavoro era finito e me ne stavo
tranquillo per il resto del tempo. Bastava rimanere nei paraggi
fino alle sette e farmi trovare pronto in caso di bisogno. Di solito quando faceva bello mi mettevo sulla sdraio, ero capace di
spalmarmi lì sopra per ore, mi sembrava di aver trovato un
buon equilibrio tra la vita e la morte, mi sembrava di aver trovato l’unica cosa intelligente da fare dopo averci riflettuto un
minimo e aver capito quanto poco di speciale ha da offrire la
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vita, a parte due o tre cose che non si possono comprare. Ho
stappato la birra pensando a Betty.
– Oh, eccola, santo Iddio!... L’ho cercata dappertutto!
Ho aperto gli occhi. Era la signora del tre, una bionda di quaranta chili con una vocetta stridula. Sbatteva di continuo le ciglia finte.
– Dica... – le ho chiesto.
– C’è poco da dire, santo Iddio, il bagno è lì che trabocca!
Venga, presto, bisogna farlo smettere, ma come Cristo succedono certe cose?!!
Mi sono raddrizzato di botto, quella storia non mi piaceva
per niente. Era un’isterica, bastava guardarla tre secondi per capirlo. Mi avrebbe rotto i coglioni, era chiaro, l’accappatoio le
pendeva dalle spalle scheletriche e io ero sconfitto in partenza.
– Stavo per mettermi a tavola – ho detto. – Non potrebbe
aspettare due minuti, per favore?
– Scherza!! È un disastro, è tutto allagato. Forza, venga con
me, si sbrighi...
– Scusi ma cosa si è rotto esattamente? Cos’è che trabocca?
Ha fatto un risolino sarcastico stringendo i pugni.
– Be’... – dice. – Ha capito, no? ...è la cosa bianca del bagno,
lì, a traboccare. Santo Iddio, c’è pieno di carta a pezzettini!!
Ho buttato giù una sorsata di birra scuotendo la testa.
– Insomma, stavo per pranzare, capito? Non potrebbe fare
finta di niente per un pochino, le è proprio impossibile?
– Ma dico, è pazzo? Non sto scherzando, guardi, venga di
corsa che è meglio...
– Va bene, va bene, stia calma – ho risposto.
Mi sono alzato, sono entrato in casa e ho spento il fuoco sotto
i fagioli. Erano quasi perfetti. Poi ho acchiappato la cassetta degli attrezzi e sono corso dietro alla pazza.
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Un’ora dopo ero di ritorno, fradicio dalla testa ai piedi e mezzo
morto di fame. Ho buttato un cerino acceso sotto la pentola
prima di infilarmi nella doccia e ho smesso di pensare a quella,
sentivo solo l’acqua colarmi sul cranio e il profumo dei fagioli
scivolarmi dentro il naso.
In casa era pieno di sole, si stava bene. Per quel giorno le rotture erano finite, lo sapevo, non avevo mai visto cessi rompersi di pomeriggio e di solito non succedeva nient’altro, era un
periodo tranquillo, la maggior parte dei bungalow erano vuoti.
Mi sono messo davanti al piatto con un sorriso perché il programma della giornata era fissato, mangiare, fare rotta in veranda e aspettare la sera, aspettare di vederla arrivare ancheggiando e sedersi sulle mie ginocchia.
Mentre alzavo il coperchio della pentola la porta si è spalancata. Era Betty. Ho posato la forchetta con un sorriso e mi
sono alzato.
– Betty – dico. – Cazzo, mi sa che non ti avevo mai vista di
giorno, prima d’ora...
Si è messa un po’ in posa, con una mano nei capelli e i boccoli a ricaderle dappertutto.
– Ooohh... e allora, che ne pensi? – ha chiesto.
Mi sono rimesso seduto e l’ho guardata, con aria distaccata
e un braccio attorno alla spalliera.
– Bel culo, direi, anche le gambe sono belle, sì, vediamo, girati un po’...
Ha fatto un mezzo giro, io mi sono alzato e l’ho abbracciata
da dietro. Le ho accarezzato il seno mentre la baciavo sul
collo.
– Da questa angolazione, poi, mi pare perfetto – ho sussurrato.
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A quel punto mi è venuto da chiedermi cosa ci faceva lì a
quell’ora. Mi sono staccato e ho notato le due valigie di tela sulla
porta ma non ho detto niente.
– Ehi, ma cos’è questo profumino? – fa.
Si è chinata sul tavolo a guardare la pentola e ha gridato:
– Urca... Non è possibile!
– Cosa?
– Oh, ma questo è chili! Non dirmi che stavi per farti un chili
solo soletto.
Ho tirato due birre fuori dal frigo mentre lei immergeva un
dito nel chili, pensavo alle ore davanti a noi, mi sembrava di
avere ingoiato una pallina d’oppio.
– Mamma mia, ma è sopraffino... L’hai cucinato tu, oddio è
buonissimo, non ci credo. Sei pazzo però, con questo caldo...
– Io il chili lo mangio con qualsiasi tempo, anche quando
sudo dentro il piatto, siamo due cuori e una capanna.
– In effetti anch’io, eccome. E poi ho una fame!
Nell’attimo in cui aveva varcato la porta la casa si era come
trasformata, non trovavo più niente, giravo in tondo cercando
piatti e posate, sorridevo mentre aprivo gli sportelli. È venuta e mi si è appesa al collo, mi faceva impazzire, le annusavo
i capelli.
– Allora, sei contento di vedermi?
– Fammici pensare.
– Sono proprio degli schifosi. Poi ti spiego.
– Ma è successo qualcosa, Betty?
– Niente di irreparabile – fa. – Niente per cui valga la pena
far freddare questo bel chili. Dammi un bacio...
Dopo qualche cucchiaiata di fagioli piccanti avevo dimenticato
quella nuvoletta nera. La presenza di Betty mi esaltava, rideva
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di continuo, mi faceva i complimenti per il pranzo, schiumava
di ammirazione per la mia birra, mi accarezzava la guancia allungando la mano sopra il tavolo, poteva cambiare umore alla
velocità della luce ma io non lo sapevo ancora.
Stavamo appunto finendo di mangiare, perdevamo tempo
a fare scarpetta con quella delizia assoluta, a strizzare gli occhi
e a cazzeggiare un po’, la guardavo e la trovavo stupenda,
quando all’improvviso l’ho vista trasformarsi sotto i miei occhi,
è sbiancata, il suo sguardo è diventato di un’asprezza incredibile, sono rimasto esterrefatto.
– Insomma ti dicevo, – ha attaccato – sono proprio degli
schifosi. Quindi sai, prima o poi arriva il giorno in cui una si
trova per forza a fare le valigie, capito?
– Ma di cosa parli?
– Come di che parlo? Mi stai a sentire, almeno, ti sto spiegando una cosa, vuoi starmi a sentire?!
Non ho detto niente e ho cercato di accarezzarle il braccio.
Si è ritratta.
– Mettiamo le cose in chiaro – fa. – Per me stare con uno
mica significa farmi scopare e basta...
– Ho capito – ho detto.
Si è passata una mano nei capelli con un sospiro e ha guardato dalla finestra. Fuori era tutto immobile, si vedeva qualche
casetta immersa nella luce e la strada dritta dritta in mezzo ai
campi, fino ad arrampicarsi sulle colline laggiù.
– Se penso che sono rimasta un anno a lavorare in quel
buco – ha sussurrato.
Guardava nel vuoto con i pugni stretti fra le gambe e le
spalle curve, come se all’improvviso fosse stanchissima. Non
l’avevo ancora vista così, conoscevo solo la sua risata e la credevo di una forza indistruttibile, non capivo cosa fosse successo.
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– Un anno, – ha continuato – ogni santo giorno quel porco
mi sbavava dietro e la moglie ci urlava nelle orecchie dalla mattina alla sera. Per un anno mi sono fatta il mazzo, ho servito centinaia di clienti, ho lucidato tavoli e ho scopato per terra e Dio
solo sa per cosa. Per vedersi un bel giorno infilare dal padrone
una mano tra le cosce e dover ricominciare da zero. Io, le mie
due valigie e basta... appena i soldi per resistere o comprare un
biglietto del treno.
Ha scosso la testa a lungo, poi ha alzato gli occhi su di me e
adesso sorrideva, adesso la riconoscevo.
– Ma il bello – dice – è che non ho neanche un buco per
dormire. Ho raccattato la mia roba in fretta e furia, le altre ragazze mi guardavano con tanto d’occhi. ‘Non ci resto un secondo di più!’ ho urlato. ‘Non fatemi più vedere la faccia di
quel porco!!’
Ho stappato una birra sull’angolo del tavolo.
– Senti, hai fatto proprio bene – ho detto. – Hai ragione.
I suoi occhi verdi mi hanno brillato addosso, sentivo la
vita riempirla, afferrarla per i fianchi e scuoterle i capelli sopra la tavola.
– Eh sì, quello si era ficcato in testa che ero roba sua, capito...
– Sì, sì, ho capito benissimo. Tranquilla.
– Eh... secondo me dopo una certa età rincoglioniscono.
– Credi?
– Eccome.
Abbiamo sparecchiato, poi ho preso le valigie e le ho portate
dentro. Lei già lavava i piatti, vedevo l’acqua schizzarle davanti
e mi è sembrata uno strano fiore con antenne traslucide e un
cuore di vinile lilla chiaro e non conoscevo molte ragazze capaci
di mettersi una minigonna di quel colore come se niente fosse.
Ho buttato le valigie sul letto.
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– Comunque senti, tutto sommato è una fortuna per noi...
– Dici?
– Eh sì, di solito io la gente non la sopporto ma se vieni a
stare qui sono contento.
Il giorno dopo si è alzata per prima. Non facevo colazione con
qualcuno da una vita. Avevo disimparato, non sapevo più come
comportarmi. Mi sono alzato e vestito senza una parola, le ho
dato un bacio sulla nuca mentre le passavo dietro e mi sono seduto davanti alla mia tazza. Lei si imburrava fette di pane della
dimensione di uno sci d’acqua e spalancava gli occhi, io non riuscivo a non sorridere, la giornata cominciava al meglio.
– Cercherò di sbrigarmi con il lavoro – ho detto. – Devo passare in città, ti va di accompagnarmi?
Ha lanciato un’occhiata intorno e ha scosso la testa:
– No, meglio se metto un po’ a posto, mi sa. Eh sì, ci vuole...
Sono andato a tirare il camioncino fuori dal garage. Poi mi
sono parcheggiato davanti alla reception. Georges stava
mezzo addormentato su una sedia, con un giornale aperto
sulla pancia. Gli sono passato dietro e ho acchiappato un
sacco di biancheria.
– Oh, ciao – fa.
Ha afferrato un sacco a sua volta e mi è venuto dietro sbadigliando. Li abbiamo buttati nel camioncino e siamo tornati a
prendere gli altri.
– Ieri è tornata quella ragazza – ha detto.
Non ho risposto, ho preso un sacco.
– Penso cercasse te. Eh, eri tu, no?
Mi seguiva a passo strascicato. Il sole cominciava a picchiare.
– Una ragazza con una gonnellina lilla e i capelli neri – ha
aggiunto.
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In quel momento Betty è uscita di casa correndo verso di noi.
L’abbiamo guardata mentre ci veniva incontro.
– Intendi una così? – gli ho chiesto.
– Cristo d’un Cristo! – fa.
– Esatto. E sì, cercava proprio me.
A quel punto ho fatto le presentazioni e mentre il vecchio si
esibiva nel suo repertorio da bellimbusto sono andato dentro a
prendere la lista attaccata accanto alla reception. Ho ripiegato
il foglietto, me lo sono infilato in tasca e sono tornato accendendomi la prima sigaretta della giornata. Betty si era seduta
davanti e parlava con Georges dal finestrino. Ho fatto il giro e
mi sono infilato al volante.
– Ripensandoci, – mi ha detto lei – ho deciso di venire con te...
Le ho messo il braccio intorno alle spalle e sono partito con
calma per gustarmi il momento. Mi ha allungato una gomma
americana alla menta. Per tutta la strada mi si è stretta addosso. Non c’era bisogno di aprire l’I Ching per capire che era
troppo bello.
Prima ci siamo liberati della biancheria, poi sono entrato nel negozio di fronte. Il ragazzo etichettava come un matto. Gli ho infilato il foglietto in tasca.
– Non ti disturbare – gli ho detto. – Ripasso dopo. E non ti
dimenticare la mia bottiglia...
Si è rimesso in piedi troppo in fretta e ha dato una craniata
contro uno scaffale. Era già brutto di suo, figuriamoci adesso
con quella faccia.
– Si era detto una bottiglia ogni quindici giorni, mica ogni
settimana…
– È vero, ma ho dovuto prendermi un socio. Adesso bisogna
considerare anche lui.
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– Ma cosa t’inventi?!
– Non invento niente, comunque fra noi restano i soliti accordi. Se sei furbo continuo a fare la spesa da te.
– Però una a settimana è pesante, per Dio!
– Pure per gli altri mica è leggera, cosa credi?
A quel punto ha visto Betty che mi aspettava nel camioncino
in canottiera bianca attillata, con gli orecchini colorati luccicanti
al sole. Si è accarezzato il bernoccolo scuotendo la testa:
– Lo so. Ma secondo me qualche bastardo se la cava meglio
degli altri.
Non mi sentivo nella posizione migliore per contraddirlo.
L’ho lasciato in mezzo ai suoi barattoli e sono tornato in macchina.
– Bene, c’è da aspettare – ho detto. – Ti va un gelato?
– Gesù Maria, eccome!
Conoscevo bene la vecchia gelataia. Ero uno dei suoi migliori
clienti per gli affogati al liquore, spesso lasciava la bottiglia sul
bancone e io le tenevo compagnia. Entrando le ho fatto un
cenno. Ho sistemato Betty a un tavolino e sono andato a ordinare.
– Oggi, due sorbetti alla pesca – le ho detto.
Con la scusa di darle una mano sono passato dietro al bancone e ho tirato fuori due coppe da un litro o giù di lì, mentre
lei infilava le braccia nella ghiacciaia fumante.
– Ehi, ti vedo carico.
Mi sono rialzato guardando Betty seduta in sala con le gambe
accavallate e una sigaretta tra le labbra.
– Che gliene pare? – le ho chiesto.
– Volgaruccia...
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Ho preso la bottiglia di maraschino e ho cominciato ad annaffiare i gelati.
– Per forza, – ho detto – è un angelo appena caduto dal cielo,
non vede?
Al ritorno siamo passati a prendere la biancheria e poi sono
andato a ritirare la spesa, sarà stato mezzogiorno e cominciava
il caldo vero, meglio sbrigarsi a tornare.
Ho individuato subito la bottiglia, il tipo l’aveva messa in evidenza davanti alle buste, però mica mi ha salutato con un sorriso,
anzi, sembrava non essersi neanche accorto di me. Mi sono caricato le buste della spesa e la mia bottiglia di superalcolico.
– Tieni il muso? – gli ho chiesto.
Non mi ha degnato di uno sguardo.
– Sarai la sola ombra della giornata – gli ho detto.
Ho ammassato le buste dietro il camioncino e ho fatto rotta
verso il motel. Appena fuori città si è messo a soffiare un vento
caldo e rabbioso, intorno somigliava tanto a un deserto con
qualche pianta rattrappita e pochi anfratti ombrosi, ma a me
piaceva, mi piaceva la terra di quel colore e avevo un debole per
le grandi pianure sgombre. Abbiamo tirato su i finestrini.
Tenevo l’acceleratore a tavoletta ma il mezzo non superava
gli ottanta, andavamo controvento, bisognava rassegnarsi.
Dopo un po’ Betty si è girata, i capelli dovevano darle fastidio
perché se li tirava su in continuazione.
– Però, – fa – pensa dove si potrebbe arrivare noi due con un
mezzo potente e tutta questa roba da mangiare...
Vent’anni prima l’idea mi avrebbe entusiasmato, adesso mi
dovevo trattenere per non sbadigliare.
– Certo si potrebbe fare un bel giro.
– Eh sì... e cancellare questo postaccio infame!
Ho acceso una sigaretta e ho incrociato le mani sul volante.
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– Buffo, – ho detto – nel complesso a me il paesaggio non dispiace...
Si è messa a ridere buttando la testa all’indietro:
– Oh cazzo, non dirmi che questa roba tu la chiami paesaggio?
Si sentiva la polvere sbattere contro la carrozzeria, la macchina sbandava sotto le raffiche, fuori doveva essere un forno.
Mi sono messo a ridere con lei.
Di sera il vento è calato di colpo e l’aria è diventata pesantissima.
Abbiamo portato la bottiglia in veranda nell’attesa di qualche
frescura notturna ma le stelle sono spuntate senza il minimo
cambiamento, nemmeno la brezza più lieve, devo dire che non
mi sembrava sgradevole. L’unica contromisura possibile era
l’immobilità assoluta, e io ci ero abbastanza allenato. Nel giro
di cinque anni avevo avuto tempo di provare svariate tattiche
contro le ondate di caldo, ma certo la situazione cambiava con
una ragazza per casa, in certi frangenti non puoi mica immaginare di esser morto.
Dopo un paio di bicchieri abbiamo provato a sistemarci tutti
e due sulla sdraio. Sudavamo nel buio ma facevamo finta di
niente, all’inizio è sempre così, si sopporta qualunque cosa.
Siamo rimasti senza muoverci, a respirare stretti stretti.
Poi lei ha cominciato ad agitarsi e per calmarla le ho allungato
un bicchierino. Ha cacciato un sospiro da sradicare un albero:
– Non riuscirò mai ad alzarmi…
– Piantala, lascia perdere. Non c’è niente di importante da...
– Mi sa che devo pisciare – mi ha interrotto lei.
Le ho infilato una mano nelle mutande e le ho accarezzato
le chiappe. Erano stupende, un rivolo di sudore le colava dalla
schiena, aveva la pelle liscia come il bambino del sapone Cadum. Non volevo pensare a niente, solo stringerla a me.