I Dalla piccola finestra a picco sulla scogliera guar

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I Dalla piccola finestra a picco sulla scogliera guar
I
Dalla piccola finestra a picco sulla scogliera guardo affascinato l’azzurro elettrico del mare: scintilla,
incorniciato tra le rocce rosse e la macchia scura dei
pini selvatici.
Di fianco splende il bianco accecante delle case,
affacciate sulla baia. La costa, irta di fichi d’india,
scende ripida ad immergersi nelle acque turchesi e in
alto i gabbiani mulinano, rigando l’aria di gridi aspri.
Più in là, dove l’azzurro si addensa in blu profondo, poche fragili vele sfiorano l’acqua, come delicate
ali di farfalla, spinte da una eterna ansia di andare.
Oltre, verso l’orizzonte, lo spazio libero, immenso,
vibrante, si apre come una voragine d’infinito tra mare, cielo e invisibili terre lontane.
Respiro a fondo, mi riempio di sole, di mare.
La brezza fresca che entra dalla finestra arieggia
tutta la casa, ventolando la mia camicia bianca. Alle
mie spalle la stanza, silenziosa sotto le ampie volte
del soffitto, odora tra i pochi mobili di legno di resina
e limone.
È pieno giorno e il sole dardeggia implacabile. Da
dietro le imposte socchiuse posso quasi immaginarlo
che picchia sui muri gessati, strappando al selciato,
alla case, agli alberi resinosi tutto il loro sentore, tutto
il loro profumo, tutto il fiato della loro vita.
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L’odore di sole, di terra disidratata, di muri arsi, è un
odore che riconoscerei tra mille.
Bruscamente mi allontano dalla finestra e vado verso
il tavolo di assi dove mi aspetta il lavoro lasciato a metà.
Guardo con un sospiro le carte sparse alla rinfusa.
Dovrei riesaminare dei progetti, ma non ne ho voglia,
sono stanco, distratto.
La posta degli ultimi giorni è ancora lì, ammucchiata tra i fogli millimetrati arrotolati e il vasetto delle matite. La busta bianca, ancora chiusa, spicca chiara sul piano scurito dal tempo.
Improvvisamente mi sento terribilmente stanco. Mi
siedo lentamente e mi prendo la testa tra le mani.
La lettera e là, davanti a me, implacabile come un’accusa, un richiamo, una dolorosa pressione che mi costringe a ritornare a me. E al mio passato.
Di colpo sento i miei quarant’anni, pesanti, di
piombo.
Da fuori arrivano provvidenziali i rintocchi ferrosi
di una campana.
Il mezzogiorno plana, come un evento fatale, sulla
gente del paese. Nelle case le vecchie si segnano. Le
donne poggiano i piatti di terraglia sulle tavole e affettano il pane scuro, mentre sul fuoco fuma la pentola per la pasta.
In mare, tra le onde scintillanti come scaglie di luce, come vetro argentato, dalle barche da diporto qualcuno si tuffa solitario a rompere l’afa canicolare.
Allargo le braccia e giro la testa, stiracchiandomi.
L’acre odore del pomodoro che sale dalla cucina mi
offre una via di scampo.
Mi alzo, di scatto, getto via la camicia di lino e,
completamente nudo, coi santissimi all’aria, scendo al
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piano terra, scivolando nell’ombra azzurrina della
scala interna. Salto gli ultimi gradini e atterro sulle
piastrelle giallo oro.
China sui fornelli sotto la grossa cappa di rame,
Ludovica ficca il naso sui vapori che salgono dalla pignatta di terracotta.
Pomodoro origano basilico capperi olive. Annuso
gli aromi familiari che si spandono nell’aria e già mi
sento meglio.
Afferro Ludovica per le spalle e cerco di girarla
verso di me.
Ride scuotendo i capelli scuri e mi respinge con decisione.
“Smettila! Mi farai bruciare il sugo!”
Adoro come le gorgoglia in gola l’erre moscia, da
vera parigina e la bacio di sfuggita sulla nuca dorata.
Ciondolo in giro e ficco il naso nel frigo che trabocca
di verdure colorate, una specie di cornucopia smaltata
del XX secolo. Ancora oggi mi sorprendo ad aprirlo
con l’emozione di scoprire cosa vi troverò, quali delizie e sorprese, anche se sono stato proprio io a riempirlo con quello che ho comprato al supermercato.
Dalla finestrella sul lavello sbircio nel vicolo.
L’ombra violetta taglia il muro abbagliante con una
diagonale netta, sotto la quale il gatto del vicino dorme, come sotto una tettoia virtuale.
Mi giro a guardare Ludovica.
È scalza, la camiciola di cotone indiano le copre
appena i fianchi abbronzati. Le sue gambe lunghe e
nervose mi levano sempre il fiato.
“Ecco! È pronto.”
Scola nella terrina i vermicelli e li cosparge di pomodoro, tira fuori il fiaschetto del vino rosso e lo pog-
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gia sulla tovaglietta bianca, stesa sul piccolo tavolo in
mezzo alla stanza.
Afferro la seggiola di paglia e me la tiro sotto, poi
stendo le gambe sotto il tavolo.
E improvvisamente penso a lei.
Un attimo solo, un istante brevissimo. È come una
lama, una ferita di fuoco.
Ce l’ho proprio davanti a me: il visino pallido, sempre serio, i capelli chiari e arruffati, la pelle coperta di
un lieve sudore, un sottile velo di minute, pallide goccioline.
La vedo come l’ho vista l’ultima volta. L’ultima.
“Non mangi? La farai scuocere!”
Ludovica mi guarda da sotto in su, mentre aspira
tra le labbra i lunghi spaghetti sugosi, sporcandosi il
mento. Non ha mai imparato a mangiarli bene.
Mi verso del vino e lo do pure a lei, che lo beve subito, rovesciando un poco la testa e mostrando la pelle
ambrata della gola.
Mi infilo in bocca una forchettata ma non mi riesce
di mandarla giù. Il ricordo di Betty mi chiude lo stomaco, come un crampo.
Mi sembra così lontano il tempo del nostro incontro, perso in una stagione vaga di giovinezza illimitata.
Allora ero poco più che un ragazzo e lei mi era apparsa come una creatura irreale, diversa da tutte le
altre, le tante che avevo conosciuto, ragazze belle, aggressive, pronte a ridere, piene di curve e di capelli
ondeggianti.
Betty, invece, era bionda, sottile, silenziosa. Sembrava sempre un po’ lontana, persa dietro visioni segrete.
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Me ne ero innamorato con l’ostinazione di un capriccio, l’avevo voluta, con l’impeto che metto in tutto
quello che faccio e l’avevo sposata di corsa, senza lasciarle di tempo di riflettere, travolgendola con la passione del mio corpo giovane, caldo, violento.
Mi capita ancora, spesso, la sera o quando sono solo, di rivedere il soggiorno del nostro piccolo appartamento, a Londra.
Le poltroncine foderate di cinz, i vetri rigati di
pioggia, la portafinestra aperta sul giardinetto verde,
allineato tra quelli dei vicini, la teiera bianca sul tavolinetto tra noi e nell’aria una tristezza palpabile come
una nebbia irrespirabile.
Quello era stato un periodo critico della mia vita.
Avevo avuto da poco un incarico importante, il primo
all’estero. Mi sentivo eccitato, teso come un arco pronto a scagliare il suo dardo per infilzare il bersaglio. Agivo spietato, senza esitazioni, ripensamenti.
Betty sembrava soffrire della situazione, deperiva
silenziosamente, era sempre triste, apatica.
Io non la sopportavo più. Passata l’euforia della
passione, trovavo la sua natura delicata, il suo temperamento schivo e pensieroso, noioso, irritante; la consideravo debole e sciocca.
“Ma fai qualcosa anche tu, oltre a strimpellare il
tuo piano!”
Esci, lavora, incontra gente! Sembri una larva! Mi
sa che porti jella!”
Le parlavo con rabbia, con cattiveria, esasperato
dal continuo rimprovero muto che veniva da lei, come
se fossi io la causa della sua sofferenza, del fallimento del nostro matrimonio, io, io che vincevo, vincevo
su tutta la linea!
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L’ambiente di lavoro era eccitante, avevo conosciuto uomini importanti e donne affascinanti e mi sembrava che tutti ruotassero intorno a me, mi lusingassero,
mi facessero capire che ero molto, molto speciale.
Mi sentivo come un ragazzo armato di fionda in
una voliera. Avrei scoperto anche troppo presto che il
becco di molti di quegli uccelli variopinti era un rostro affilato, ma io allora non potevo, non volevo vederlo.
Comunque non avrebbe fatto differenza; io seguivo il mio destino come trascinato da un ciclone, travolgendo ogni ostacolo.
E Betty si trovava sulla mia traiettoria.
Non mi capiva, sembrava spaventata, delusa, tirava fuori dubbi, sollevava incertezze, obiezioni al senso, al valore di quel mondo luccicante e splendido che
mi ammaliava.
Io, dal canto mio, mal sopportavo ogni esitazione,
ogni ripensamento, qualsiasi cosa potesse frenare il
mio slancio, ritardare la mia ascesa.
Il mio rancore nei suoi confronti cresceva col passare dei giorni.
All’inizio avevo cercato di frenarmi, di ricucire il
nostro rapporto, sforzandomi di farla ragionare, di portarla sulle mie posizioni, ma la distanza tra noi si faceva sempre più grande.
La vedo ancora, mentre alza lentamente la testa e
mi guarda con occhi chiari, stupiti, dolorosamente indifesi, mentre io le dico che non voglio figli, almeno
non subito, che fretta c’è, siamo giovani e dobbiamo godercela.
Le dico che, certo, l’amo, ma sono un uomo io, ho
bisogno di sentirmi libero, e lei pure deve farlo e sa-
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remo tanto felici, io col mio lavoro di architetto in
ascesa, lei con le sue lezioni al conservatorio. Quei
discorsi lasciavano un malessere pesante tra noi ed io
cominciai ad evitarla.
La notte, quando rientravo ad ora tarda, non sempre lucido, non sempre innocente, mi infilavo furtivo
come un ladro sotto le lenzuola, detestandola con tutta
la forza del mio corpo, della mia energia.
Lei talvolta mi sfiorava con la mano timidamente,
sperando in una parola, una carezza, un momento di
confidenza. In quei casi fingevo di dormire profondamente, serrando gli occhi e il cuore, voltandole le spalle che creavano un muro invalicabile tra noi.
Povera piccola Betty!
Una volta, forse per disperazione, forse per rabbia,
si fece più audace. Nonostante la mia ostile rigidità, si
strinse a me con forza.
Potevo sentire la pressione dei suoi piccoli seni,
del suo pube, sotto la mussola sottile della camicia da
notte.
Ne provai un oscuro fastidio e mi strinsi in me
stesso, ignorandola.
Lei non se ne accorse o non volle, cercò di carezzarmi il petto abbracciandomi da dietro.
La mia ostinazione doveva esasperarla, divenne
più pressante, fece scivolare la mano verso il mio
inguine cercando di prendere il mio pene, di carezzarlo.
Non lo feci intenzionalmente ma fu ugualmente
terribile. Le diedi una gomitata nello stomaco.
“Statti ferma!”
La voce mi uscì durissima, sibilante, carica di odio
e sorprese anche me.
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Lei si immobilizzò e rimase muta, la piccola mano
ghiacciata tra le mie gambe, inerte, ferma sul mio
membro, come fosse stata recisa, il cuore che le martellava. Lo potevo sentire battere contro le mie spalle.
Mi rigirai di scatto.
“E va bene facciamolo!”
Fu uno stupro. Lo so.
E fu l’ultima volta che avemmo un rapporto.
Il giorno dopo lei si alzò prestissimo ed uscì subito. Io rimasi fuori tutto il giorno e tutta la notte.
Non parlammo mai di quell’episodio.
Veramente non parlammo più del tutto nel poco
tempo che restammo ancora insieme, poche settimane, salvo che per pochi monosillabi o qualche comunicazione indispensabile.
Solo di tanto in tanto, se alzavo la testa di scatto,
incontravo i suoi occhi.
È un ricordo che mi fa ancora male.
Quello sguardo azzurro, smarrito, da bestiola ferita, mi perseguita dovunque io vada e alla fine mi
rende furioso.
Stringo il pugno e sgualcisco la tovaglia.
Il fiasco del vino traballa e si rovescia, il frizzantino rosso inonda la tovaglietta di un liquido brillante
che fiotta giù sul pavimento, come il sangue di un
agnello sgozzato.
Lo guardo affascinato.
“Luca attento, che fai?”
Ludovica si alza, irritata, e si affanna ad asciugare
coi tovaglioli di carta il tavolino. Scosta piatti e bicchieri e raccoglie la tovaglia in un mucchietto di tela
macchiata.
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Quel pezzo di stoffa spiegazzato, chiazzato di
rosso mi sembra la prova di un delitto che non è più
possibile nascondere.
“Sei sempre violento. Guarda qui che pasticcio!”
È seccata davvero se non mi chiede nemmeno perché l’ho fatto.
So che sopporta male questi miei rigurgiti del passato, ma le passa presto, molto presto e non ho mai capito se per generosità di cuore o per superficialità.
Propendo però per quest’ultima ipotesi.
Anche stavolta tutto è rapidamente normalizzato,
anzi cancellato.
Ludovica si passa la bella mano abbronzata sulla
fronte sudata, spostando i lunghi capelli ondulati e apre
lo sportello del frigo.
“Voilà! Ho trovato la giuncata stamattina! Una
vera fortuna! Ce l’aveva la moglie di Mimino, il pescatore che abita all’angolo, quello con la cicatrice
sulla guancia... Mimino, rappele-toi? Dai, provala!”
Mi porge un formaggio bianco come la luna, che
somiglia ad un fascio di canne o a una morbida colonna rastremata, allungato sul piatto di terracotta scura.
È rilassata, canticchia e condisce l’insalata di fagioli, mescolando meticolosamente le sottili strisce di
cipolla bianca e il prezzemolo tritato e spruzzato di
pepe, mentre sorride golosa.
“Ma come avrò fatto a vivere per tanti anni senza la
cucina italiana? Altro che crepes, che entrecôte, che patè
e vol au vent, con buona pace della mia cara maman!”
Ride e quando ride è davvero bellissima.
Devo ammetterlo, Ludovica sa vivere: sa godersi
le vacanze, sa dormire saporitamente e mangiare con
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dedizione, sa stare in compagnia e sa fare l’amore
come una gatta in calore e sa lavorare, anche, con attenzione e intelligenza.
L’ho vista all’opera a Parigi, dove occupa un posto
di responsabilità in una galleria d’arte sui Champs
Elisée. Si muove tra le tele e i clienti danarosi con l’eleganza di una pantera, sorridente, sicura, precisa e
abilissima. È una venditrice nata, che lavora col gusto
della sfida, mettendoci la passione del giocatore d’azzardo e la precisione di un ragioniere.
E alla fine vince sempre lei.
Era stato semplice fare amicizia con lei, non perché fosse una donna facile, tutt’altro.
Spesso penso che non sarà mai veramente legata a
nessuno e forse mi era piaciuta proprio per questo.
Non dovevo certo preoccuparmi di farle del male, né
sentirmi responsabile per lei. Sapeva proteggersi fin
troppo.
Eravamo usciti insieme, cenette, night, poi, senza
inutili ritrosie eravamo finiti a letto e con piena soddisfazione di entrambi.
Tutto liscio, tutto senza complicazioni. Era cominciata così e così continuava da tre anni ormai.
Una cosa totalmente diversa dalla storia con Betty.
Lei era vulnerabilissima: le mie intemperanze sessuali, gli sbalzi di umore, i tradimenti, le mie continue
sollecitazioni, i repentini abbandoni l’avevano stravolta, confusa, distrutta.
Ecco! La penso ancora! È come un tarlo dentro la
testa.
“Allora? È buona? A proposito, volevo dirti che è
passato Toni, il grande dei fratelli Fiorito per quella
notte sul peschereccio... ricordi, n’est-ce pas? Dice
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che si può fare...non so, sentilo tu stasera. Mai pas
moi, ti prego! Non mi ci tirare dentro. Voglio stare un
po’ a casa e rivedere qualche catalogo. Devo anche
scrivere a Helmut Schroeder, l’antiquario... Eh! le vacanze stanno per finire, ahimè!”
Strizza gli occhi e arriccia il naso, ma è una finta.
Ludovica ama la grande città e il suo ritmo aggressivo. Somiglia al suo.
Le tiro una mollica di pane sul naso e ridiamo.
Sembriamo felici.
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