Il matrimonio e il diaconato al servizio della Chiesa

Transcript

Il matrimonio e il diaconato al servizio della Chiesa
Il matrimonio e il diaconato al servizio della Chiesa
Convegno ecclesiale delle Comunità diaconali del Triveneto
Opera della Provvidenza Sant’Antonio, Sarmeola (PD) – 8 ottobre 2016
Vi propongo questa scansione del mio intervento: anzitutto, vorrei dare anzitutto uno sguardo sintetico
e forse un po’ naif ai dati dell’esperienza, in un secondo momento prenderò in considerazione gli
elementi che emergono dal Magistero ecclesiale riguardo al rapporto tra matrimonio e diaconato
permanente, prendendo in esame da una parte il Catechismo della Chiesa Cattolica e dall’altra i testi
magisteriali dedicati al Diaconato. Nella terza parte della relazione, cercherò – tenendo presenti gli
elementi appena citati – di formulare qualche linea di riflessione teologica, e in particolare teologicospirituale, sul tema.
1. Il dato dell’esperienza
“Io senza il supporto di Silvia e dei figli non avrei mai potuto percorrere questo cammino”: così la
testimonianza di un diacono recentemente ordinato in diocesi di Milano, che credo possa essere
condivisa dalla generalità dei diaconi ambrosiani e non solo.
Questa profonda gratitudine alla moglie e ai figli per il “supporto” dato al cammino di formazione
sembra confessare: il Diaconato è una cosa che riguarda me, mia moglie e la mia famiglia l’hanno
accettata, sostenuta, incoraggiata, benché non riguardi loro direttamente, eppure li coinvolge
profondamente, almeno mia moglie.
Riporto qui in sintesi alcune risonanze degli atteggiamenti delle spose di fronte all’ “avventura” del
Diaconato, colti soprattutto dai colloqui con coloro che sono in formazione; credo non ci siano molte
differenze rispetto ai dati emersi dall’indagine compiuta recentemente in diocesi di Padova:1
 la parola più utilizzata per indicare l’atteggiamento della moglie è probabilmente
“condivisione”2 e l’aggettivo più ricorrente è “cordiale”, ma anche “discreto”; troviamo anche
“sostegno”, “supporto”, “partecipazione”, “coinvolgimento”; qualche volta “alleanza”,
qualche volta “incoraggiamento” e “stimolo”; spesso un “non far pesare”, una specie di
adattamento generoso anche se non privo di sacrifici
 emerge, soprattutto all’inizio del percorso di formazione, la paura delle mogli che il marito
venga loro un po’ sottratto, il timore di “perderlo”
 vi è un consenso, una accettazione da parte delle mogli quasi mai entusiasti e quasi mai
rassegnati, mai forzati, piuttosto consapevoli e sinceri, spesso come di fronte a qualcosa di più
grande cui sentono di non potersi opporre (“chi sono io per oppormi a Dio che ti chiama?”)
 normalmente, il cammino di formazione accresce il dialogo nella coppia e approfondisce
positivamente il loro rapporto e il loro cammino di fede: come una nuova stagione della
relazione di coppia; ma anche spingendo ad una maggiore apertura ecclesiale
 la moglie svolge funzione di equilibrio, qualche volta impedisce al candidato di sentirsi troppo
compreso nel “ruolo”3
 talvolta c’è come un gioco di scambi, di concessioni reciproche; qualche volta c’è il rischio che il
candidato sottovaluti le fatiche della moglie4
 in genere, le mogli si infastidiscono o addirittura inorridiscono all’ipotesi di fare le “diaconesse”;5
ma vi sono candidati che insieme alle loro mogli condividono da sempre lo stesso impegno
1
A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono. L’incerta rinascita del diaconato permanente, Ed. Messaggero –
Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2015.
2
Si tratta approssimativamente, secondo la classificazione di A. Castegnaro, del “modello di coniugalità diaconale”
della “moglie attiva” (Uomini che servono, 36-40), ma potrebbe anche integrare quello della moglie inattiva (Uomini
che servono, 40-43).
3
Cf A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 79-82.
4
È una delle osservazioni più critiche portate da A. Castegnaro: il rischio di sottovalutare i “costi famigliari” del
Diaconato: cf A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 32-33.
1
ecclesiale e tendono a vedersi in coppia anche nel ministero diaconale. Abbiamo constatato
come una presenza troppo ingombrante della moglie non aiuta il cammino: in qualche caso è
sembrato che la vocazione appartenga più alla moglie che al marito.
Aggiungo a questi riscontri alcune convinzioni che personalmente e come formatori abbiamo elaborato
osservando il concreto riflesso della preparazione al Diaconato sulla vita delle famiglie dei candidati:
 per raffigurare la situazione della famiglia di colui che si affaccia al diaconato permanente,
appare convincente agli occhi degli interessati l’immagine dell’arrivo di un nuovo figlio: una
situazione famigliare che deve ristrutturarsi, riassestarsi. Non si aggiunge semplicemente
qualcosa, il Diaconato non è “una cosa in più da fare” o una intensificazione dell’impegno
cristiano, quindi non è nemmeno una semplice estensione della vocazione al matrimonio e alla
famiglia. Qualche candidato ammette l’esistenza di una “concorrenza affettiva” tra il Diaconato
e la moglie, che provoca qualche “cicatrice”. Qualcuno avverte chiaramente che la famiglia è
l’humus della vocazione al diaconato permanente
 ciò che appare più importante e irrinunciabile è la realistica percezione di ciò che comporta per
la vita di coppia e di famiglia l’assunzione del ministero. Ci sono candidati che sono stati dimessi
perché la moglie sopportava l’impegno del marito nelle condizioni “normali” della quotidianità,
ma riteneva che esso diventasse incompatibile all’affacciarsi di situazioni nemmeno eccezionali
di emergenza (malattia seria di un figlio per esempio)
 alcune reazioni delle mogli, in positivo o in negativo (per es. la paura di perdere il marito o
piuttosto il “chi sono io per oppormi a Dio”) sembrano rivelare una comprensione della figura
del diacono sulla falsariga del presbitero: se, in mancanza di conoscenze migliori, il diacono
viene pensato come qualcosa di meno rispetto al prete, è inevitabile che venga pensato come
qualcosa di simile. Ma essendo la vocazione sacerdotale incompatibile con la vita familiare, si
capisce come la stessa vocazione diaconale faccia nascere in una famiglia disagio e
preoccupazione6
 nel bene e nel male vi sono ripercussioni per le persone che compongono la famiglia del
diacono, che possono sentirsi sotto osservazione e sotto giudizio. Occorre attenzione, perché
questo aspetto non oltrepassi una soglia “fisiologica”, di inevitabile compromissione dei
famigliari, e non comporti indebite attese o pretese riguardo alla qualità testimoniale dei
famigliari stessi. I documenti nazionali e universali chiedono “stabilità” della vita familiare e una
“onesta reputazione” della famiglia del candidato. È vero però che il ministero diaconale
conferisce in molti casi una dimensione più pubblica allo stesso legame di coppia
 il diacono che viene destinato in un’altra parrocchia o realtà pastorale deve vivere la fatica di
rimanere ancorato anche alla parrocchia d’origine a causa dei figli o dell’impegno pastorale della
moglie. Questa fatica si verifica già nel tempo della formazione là dove al candidato è stato
chiesto di prendere impegni pastorali presso un’altra parrocchia, poiché si è valutato opportuno
operare già un certo distacco dalla realtà d’origine. Non vi è dubbio che tutti i candidati devono
prepararsi a non condividere più – almeno con regolarità – le celebrazioni eucaristiche festive
insieme alla famiglia: occorre che si esercitino già adesso nel trovare con la moglie momenti
condivisi di preghiera, o comunque momenti diversi per “comunicare” la fede.
5
Cf A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 43-46.
6
È diffuso il rischio di sovrapporre sic et simpliciter la spiritualità del diacono su quella del presbitero, ricalcandola su
quest’ultima. Quando poi questa venisse ancora interpretata secondo lo schema dell’alter Christus, per cui la
configurazione a Cristo comporta «una somiglianza morale o ascetica dell’individuo a scapito di un riferimento
obiettivo al servizio» al quale l’ordinazione ha assegnato il diacono, il Diaconato verrebbe pensato allora, così come è
successo per il prete, «per la santificazione dell’individuo, per la sua realizzazione». Ma «l’ordinazione diaconale non è
in primo luogo per la santificazione del diacono, ma per la santificazione delle persone presso le quali lui è inviato. In
altri termini, il diaconato non è per il diacono». A maggior ragione, «questo ministero non è conferito per il diacono
sposato, nel senso che esso conferirebbe un di più al sacramento del matrimonio e che non solo l’interessato, ma la
coppia troverebbero nell’ordinazione il compimento della loro vocazione matrimoniale». Questa è una
«strumentalizzazione del Diaconato» (A. BORRAS, Il diaconato vittima della sua novità?, EDB, Bologna 2008, 182).
2
2. Matrimonio e diaconato permanente nei testi magisteriali
A. Il Catechismo della Chiesa Cattolica mette insieme i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio,
denominandoli come “sacramenti del servizio della comunione”; essi sono «ordinati alla salvezza altrui.
Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi
conferiscono una missione particolare nella Chiesa a servizio dell’edificazione del popolo di Dio» (CCC n.
1534). In entrambi i casi, la consacrazione già ricevuta mediante il Battesimo e la Confermazione si
specifica attraverso “consacrazioni particolari”: coloro che ricevono il sacramento dell’Ordine «sono
consacrati per essere “posti, in nome di Cristo, a pascere la Chiesa con la parola e la grazia di Dio”» (cf LG
11), mentre «“i coniugi cristiani sono corroborati e come consacrati da uno speciale sacramento per i
doveri e la dignità del loro stato”» (qui il riferimento è a GS 48).7
La “sfida” del diaconato permanente è costituita dal fatto che in esso i due sacramenti sono uniti: come
avvenga tale unione – se per semplice accumulo o accostamento, o per assorbimento dell’uno nei
confronti dell’altro o per “assunzione” dell’uno da parte dell’altro o altre modalità ancora – non viene
detto. Ma che vi sia una affinità tra di essi, il Catechismo lo dichiara in maniera evidente. Forse, partire da
questa affinità è più fecondo che prendere le mosse dalla loro differenza.
Da questo dettato del Catechismo traggo comunque due indicazioni, che cercherò di sviluppare in
seguito. La prima è che i coniugi cristiani si trovano già, in virtù del loro matrimonio, in uno stato di
“servizio”, di “diaconia” alla Chiesa. Il sacramento del matrimonio viene tolto da un orizzonte
meramente privatistico: sposandomi nella Chiesa non “mi sistemo” semplicemente, ma assumo
pubblicamente e davanti a Dio una vocazione al servizio della edificazione della comunità cristiana. I
coniugi cristiani vivono già un ministero ecclesiale, come ricorda anche la formula delle Interrogazioni
all’interno della Liturgia dell’ammissione tra i candidati al diaconato: «Alcuni di voi, mediante il
sacramento del matrimonio, vivono già il ministero di coniugi nella famiglia e nella Chiesa».8 Dunque, è
esattamente in questa prospettiva ministeriale, già assunta con il sacramento del matrimonio, che potrà
essere intuita e vissuta dai diaconi una continuità tra matrimonio e ministero ordinato. Il ministero
ordinato non è il versante pubblico e di servizio di un’esistenza che nel matrimonio riconosce una
dimensione meramente “privata”, intima, personale, da cui discenderebbe l’idea della moglie come
custode di questa dimensione domestica – l’ “angelo del focolare” – mentre il marito diacono è tutto
proteso verso l’esterno. Questo è il senso della dimensione “istituzionale” del matrimonio: da una parte,
la sposa è già coinvolta in una ministerialità ecclesiale, in stretta unione con il suo sposo, dall’altra parte
il marito diacono non potrà presentarsi nel ministero portandovi semplicemente la disponibilità del suo
“tempo libero”, bensì facendosi presente con la sua coniugalità e la sua paternità, anche se la moglie
non è associata a lui in quel servizio ecclesiale.
La seconda indicazione che traggo dalla formulazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, non solo da
quanto viene detto riguardo ai sacramenti dell’ordine e del matrimonio ma dal discorso generale sui
sacramenti che in esso si ritrova (la categoria dei “sacramenti del servizio della comunione” si affianca a
quelle dei “sacramenti dell’iniziazione” e dei “sacramenti della guarigione”), è che l’ordine e il
matrimonio sono per così dire i sacramenti del cristiano adulto, i sacramenti della maturità cristiana. Noi
continuiamo a credere che la vicenda di fede di un cristiano si compie nella scelta definitiva di uno “stato
di vita”, o almeno nella tensione verso una scelta di questo tipo, anche quando diverse circostanze della
7
Il dettato del Catechismo andrebbe precisato sia in riferimento al Diaconato, alla luce della modifica del n. 1581 dello
stesso CCC (operata da Giovanni Paolo II il 9 ottobre 1998, in base alla quale il Motu proprio Omnium in mentem di
Benedetto XVI adegua anche il Codice di Diritto Canonico nei cann. 1008 e 1009), che non riferisce più anche ai
diaconi l’abilitazione ad agire “come rappresentanti di Cristo, Capo della Chiesa” (n. 1581 nella formulazione originaria
del 1992); sia in riferimento al matrimonio, riguardo al quale il Concilio afferma appunto che i coniugi sono “come
consacrati”.
8
Per quanto un autore come A. Borras metta in guardia dall’utilizzare a proposito dei coniugi cristiani il termine
“ministero”: cf A. BORRAS, Il diaconato, 180, n.50: «Il matrimonio non è un ministero, anche se implica degli obblighi
e una responsabilità in seno alla Chiesa». È vero che Giovanni Paolo II l’ha definito così, ma utilizzava questo termine
“tra parentesi” e si premurava di scrivere: «o piuttosto come un servizio ordinato al bene umano e cristiano dei figli» (cf
Familiaris consortio 21), quindi non lo utilizzava in nessun modo in senso proprio, ma nel senso ampio di servizio.
3
vita impediscono di giungere a perfezionare la scelta matrimoniale o quella della dedicazione a Dio nel
celibato per il Regno. Occorrerà chiedersi allora qual è in questa prospettiva il significato della vocazione
al diaconato permanente, la quale si presenta in riferimento a cristiani che hanno già maturato un
orientamento definitivo nella vita coniugale o nell’accoglienza del celibato come dedicazione al servizio
di Dio e della Chiesa.
B. I testi magisteriali sul diaconato permanente. Cerchiamo di raccogliere le indicazioni contenute in
questi testi sotto alcune direttrici sintetiche.
a. Il punto di vista del ministero: il matrimonio come risorsa e come limite. I testi magisteriali sul Diaconato
interpretano la questione del rapporto con il matrimonio dal punto di vista del ministero e quindi della
“compatibilità” della vita famigliare con quest’ultimo. Così per es. il n. 61 del Direttorio (= DM) della
Chiesa universale (1998) dichiara che «Anche il sacramento del matrimonio […] deve alimentare la vita
spirituale del diacono sposato». La conseguenza di questa impostazione è duplice: da una parte
l’esperienza della vita famigliare è riconosciuta anzitutto come una risorsa e non come un problema,
dall’altra parte si rileva però anche il limite che la vita famigliare, così come l’attività lavorativa, pongono
all’esercizio del ministero: essi «riducono inevitabilmente il tempo da dedicare al ministero» (DM 61).
b. Diaconato e matrimonio: integrazione, armonia, integrità. Vi sono però testi orientati ad una migliore
integrazione tra i due sacramenti, nessuno dei quali è destinato a rischiare riduzioni. Ancora in maniera
un po’ generica, le Norme fondamentali per la formazione (= NF) al n. 12 affermano che la spiritualità
diaconale, “integrandosi armonicamente” con la spiritualità legata allo stato di vita, riceve una
connotazione diversa a seconda che sia vissuta da uno sposato o da un celibe o da un vedovo. Di questo
dovrà tener conto attentamente la formazione al ministero. Sono gli Orientamenti e norme della CEI (=
ON), in riferimento appunto al tempo della preparazione al ministero, a spingersi un po’ più in là,
affermando che la condizione matrimoniale e la sua spiritualità hanno “incidenza peculiare” nel
cammino di formazione al Diaconato e la “comunione di vita” originata dalla scelta sponsale «è
chiamata ad esprimersi in modo singolare» in questo percorso (ON 27), il quale, dunque, non costituisce
un percorso a latere rispetto alla vita coniugale, un binario parallelo che non si incontra con essa. La
solidità e i frutti di questa comunione sono un “segno dello Spirito” valido non solo per il discernimento
della vocazione diaconale (cioè: un cammino verso il diaconato che tornasse a svantaggio della vita
coniugale, che costituisse un motivo di danno per essa, scoraggerebbe dalla prosecuzione del cammino
stesso), ma come garanzia che la vocazione diaconale è indirizzata verso un buon esito. La conseguenza
che sempre il n. 27 del testo CEI trae in conclusione è che ministero diaconale e “ministero coniugale e
familiare” sono destinati a convivere in intensa armonia: entrambi sono fatti per essere vissuti
“gioiosamente e totalmente”, cioè senza che nessuno dei due ne patisca una qualsiasi diminuzione o
menomazione.
c. Il contributo del matrimonio al ministero. C’è nel matrimonio come una “riserva” di esperienza
spirituale che ridonda sul ministero, che va “sfruttata” a favore dell’esercizio del diaconato. Nel
matrimonio – afferma DM 61 – «l’amore si fa servizio»; di esso vengono sottolineate due caratteristiche
in ordine al ministero: l’esemplarità nei confronti degli altri fedeli e la stimolazione della diaconia
ecclesiale (“Vissuto nella fede, questo servizio familiare è, per gli altri fedeli, esempio di amore in Cristo e
il diacono coniugato lo deve usare anche come stimolo della sua diaconia nella Chiesa”). In verità,
appare fin eccessiva nei documenti della S. Sede l’enfasi sulla esemplarità della famiglia del diacono
sposato9, tema ricorrente nel Direttorio, anche attraverso la ripresa del discorso di Giovanni Paolo II ai
diaconi degli USA del settembre 1987, dove tale esemplarità viene estesa alla testimonianza di come «gli
obblighi della famiglia, del lavoro e del ministero possano armonizzarsi nel servizio della missione della
Chiesa». Il discorso sulla esemplarità ritorna anche nelle Norme fondamentali per la formazione (cf in
particolare il n. 37).
d. Il ruolo della moglie: amore e prudenza. DM 61 afferma, citando ancora un passaggio del discorso di
Giovanni Paolo II ai diaconi statunitensi, che coinvolgimento della sposa «nel ministero pubblico del
marito» avviene anzitutto ed essenzialmente attraverso l’esperienza dell’«amore sacrificale e reciproco»
9
«Si eviterà il “pericolo della vetrina” sovraesponendosi nella sfera pubblica, sia con un attivismo frenetico della
coppia, sia, cosa ancora più grave, con un’esigenza di esemplarità» (A. BORRAS, Il diaconato vittima della sua novità?,
180).
4
nel matrimonio. Quindi, la partecipazione della moglie al ministero del diacono si esprime
principalmente non nel collaborare con lui nel ministero o nel sostenerlo “dietro le quinte”, bensì nel
vivere con qualità cristiana la realtà stessa del matrimonio, e questo – come abbiamo appena visto –
sarà fruttuoso per la testimonianza diaconale, benché il dettato del Direttorio sembri non riuscire a
distaccarsi da una mera prospettiva di esemplarità esteriore («Quanto più cresceranno nel mutuo
amore, tanto più forte diventerà la loro donazione ai figli e tanto più significativo sarà il loro esempio
per la comunità cristiana»). Per il resto, le indicazioni del Direttorio sembrano improntate ad una certa
prudenza per quanto riguarda la presenza della moglie accanto al marito diacono: si dice che ella va
“informata” circa le attività del marito, ma va aiutata a vivere il proprio ruolo con “discrezione” e
soprattutto deve astenersi da ogni “indebita invasione” nel ministero diaconale.
e. La maturità affettiva: amare come Gesù Cristo. Le Norme fondamentali per la formazione (1998)
richiedono che l’esperienza matrimoniale, come quella celibataria secondo modalità diverse, abbia
consentito al candidato al Diaconato di conseguire la maturità affettiva: in positivo, ciò significa che
queste esperienze sono effettivamente in grado di condurre a tale maturità, che è «alla radice della
capacità di relazione con gli altri» (NF 68), evidentemente essenziale per il diacono. La maturità affettiva
viene identificata con «la scoperta della centralità dell'amore nella propria esistenza e la lotta vittoriosa
contro il proprio egoismo» (ivi); questo amore esige un «pieno dominio della sessualità, che deve essere
veramente e pienamente personale» (ivi), quindi non semplicemente istintuale ma capace di esprimere
il dono che tutta la persona fa di sé all’altro, al coniuge. Il matrimonio dunque ha la possibilità, anzi il
compito di insegnare al (futuro) diacono ad amare come Gesù Cristo. In sintesi, questo documento
sembra dirci che chi non sa amare nell’ambito della propria famiglia, come marito e come padre, e in
quanto tale, cioè a partire dalla realtà familiare che vive anche l’ambiente ecclesiale e sociale che lo
circonda, non potrà essere un buon diacono permanente10.
f. La virtù della castità. A questo proposito, a riguardo precisamente della maturazione dell’amore
coniugale, il Direttorio (n. 61) ricorda che essa viene favorita in particolare dall’esercizio della virtù della
castità, intesa come rispetto per il coniuge e la pratica di una “certa continenza”. Diciamo che questa
enunciazione non si sottrae a qualche perplessità, tuttavia ritengo che non si debba trascurare il frutto
di questo atteggiamento, così come viene descritto dal Direttorio nei termini di una donazione matura,
che si concretizza a sua volta nel distacco da un serie di atteggiamenti negativi e nell’assunzione di
alcuni atteggiamenti positivi. I primi sono identificati in questo modo: «gli atteggiamenti possessivi,
l’idolatria della riuscita professionale, l’incapacità ad organizzare il tempo»; i secondi invece nella forma
di «relazioni interpersonali autentiche, la delicatezza e la capacità di dare ad ogni cosa il suo giusto
posto». La castità viene quindi intesa come origine di relazioni personali sane e come principio di una vita
“ordinata”.11 È una pagina significativa, che sembra echeggiare in qualche modo il passaggio di
Presbyterorum ordinis 13 riguardo all’ascesi del prete come “reggitore della comunità”: l’ascesi non
generica ma propria del ministero consiste nel “rinunciare ai propri interessi” e nell’aver di mira “non ciò
che fa loro comodo, bensì ciò che è utile a molti”, concretamente anche attraverso la disponibilità ad
“essere pronti ad adottare nuovi sistemi pastorali” e quindi il non attaccamento caparbio e invincibile
alle proprie idee.
In sintesi, possiamo dire che le indicazioni dei documenti magisteriali a proposito del rapporto tra
spiritualità del matrimonio e spiritualità del diaconato convergono sul fatto che l’esperienza
matrimoniale e familiare costituisce una ricchezza per l’esercizio del ministero diaconale, nella misura in
cui essa diventa la scuola fondamentale alla quale si impara ad amare in modo adulto e maturo, cioè
10
Ancora le Norme fondamentali affermano che «Per i candidati coniugati, vivere l'amore significa offrire se stessi alle
proprie spose, in un'appartenenza reciproca, con un legame totale, fedele e indissolubile, ad immagine dell'amore di
Cristo per la sua Chiesa; significa allo stesso tempo accogliere i figli, amarli ed educarli e irradiare la comunione
familiare a tutta la Chiesa e la società» (n. 68).
11
Affine al discorso di DM sulla castità e a quello che NF stesse hanno proposto riguardo alla maturità affettiva, è
l’accenno di NF 69 sull’educazione alla libertà, intesa come «obbedienza alla verità del proprio essere»: essa si
configura come un essere padroni di se stessi (il “dominio di sé” come uno dei frutti dello Spirito santo, di cui parla la
lettera ai Galati al cap. 5), come lotta contro l’egoismo e l’individualismo e come generosa dedizione e servizio agli
altri.
5
libero, in una parola ad amare come Gesù. Ora, ogni espressione di amore umano è connotata
sessualmente, perché noi siamo esseri sessuati, ma in particolare la connotazione sessuale dell’amore
dentro il matrimonio assume aspetti unici e decisivi. Di conseguenza, le caratteristiche di questo amore
matrimoniale (familiare) su cui i documenti insistono, in quanto ne costituiscono percorsi fondamentali
di maturazione, sono il servizio reciproco; la castità, intesa come dominio di sé e attitudine a relazioni
“sane” con gli altri; il dono di sé (l’amore “oblativo”) nella continua lotta contro l’egoismo e
l’individualismo.
3. Spunti di riflessione teologico-spirituale
a. Il Diaconato come “vocazione adulta”
«Il Diaconato si configura come “seconda vocazione” o “vocazione adulta” di persone che hanno già
definito il loro stato di vita (sposati, celibi) a prescindere dall’orientamento al Diaconato».12 Non si nasce
diaconi e non si nasce per fare i diaconi: mi è capitato di invitare a un serio ripensamento un uomo che
qualche tempo prima del matrimonio aveva “avvertito” la futura moglie della sua intenzione di
diventare diacono permanente.13 Accede al Diaconato un uomo che ha già dato una forma definitiva alla
propria vita cristiana, scegliendo il matrimonio o orientandosi verso l’assunzione consapevole della
condizione celibataria come valore in vista del regno di Dio.
Non è tanto il matrimonio in quanto tale, in quanto sacramento che genera la “seconda vocazione”, ma
è un certo modo di essere sposato, di condurre la vita matrimoniale che apre un cristiano, lo avvia, forse
si può anche dire lo “predispone” al Diaconato. Non ogni marito cristiano può dire: “È bene che faccia il
diacono”, né ogni sposa cristiana è nella condizione di dire al marito: “va bene se fai il diacono”. Non
dovrebbe esserci, concretamente, dicotomia tra matrimonio e Diaconato: uno dovrebbe essere coniuge
in modo che il Diaconato sia qualcosa che arricchisce il matrimonio stesso e il ministero ordinato
dovrebbe essere senza contraddizione incarnabile in quello che uno già è e ha deciso di essere davanti a
Dio e nella Chiesa. Appunto, come la nascita di un nuovo figlio modifica, magari sconvolge la vita di
coppia e della famiglia, ma normalmente non nella direzione di mortificarla, bensì di arricchirla.14
b. “Continuità” tra matrimonio e Diaconato?
Si deve porre dunque una continuità tra matrimonio e Diaconato? La questione merita di essere
attentamente precisata.
Abbiamo visto come nei testi magisteriali non si dica nulla dell’influenza del ministero sulla vita
matrimoniale e della compatibilità del diaconato permanente rispetto alla vita coniugale e familiare.
Questo fatto – al netto di un’impostazione forse poco attenta a queste problematiche – credo vada
interpretato nel senso che il diacono permanente coniugato deve assumere dal momento
dell’ordinazione il punto di vista spirituale del ministero piuttosto che del matrimonio. Intendo dire che
ricevendo l’ordinazione diaconale, il soggetto non si concepirà tanto come un uomo sposato che fa
anche il diacono, quanto piuttosto come un diacono che vive nella condizione uxorata. La sua
esperienza spirituale, la “forma vissuta” della sua fede sarà plasmata sì da entrambi i sacramenti
ricevuti, ma il loro coordinamento avverrà a partire dal ministero, dal punto di vista del ministero.
12
Direttorio per il Diaconato nella diocesi di Milano. Nota introduttiva, Supplemento a Rivista Diocesana Milanese
106 (2015) n. 3, 16.
13
Il seminarista ortodosso o il seminarista cattolico di rito orientale che si sposa, lo fa prima della ordinazione
diaconale: è una scelta compiuta normalmente da giovane; il diacono permanente è un uomo già sposato che da adulto
compie la scelta del ministero ordinato. Avremo in entrambi i casi la stessa figura di un ministro ordinato coniugato, la
compresenza nella stessa persona dei sacramenti dell’ordine e del matrimonio, ma le situazioni sono obiettivamente
diverse. È la storia che è diversa, come diremo più avanti.
14
Il Direttorio milanese, facendo eco a una riflessione di mons. Mario Delpini (cf “Un futuro ancora tutto da scrivere”,
La Fiaccola. Rivista dell’Associazione “Amici del Seminario” 87 (2013) n.1, 21), segnala come questo fatto «comporta
da una parte una forte provocazione a “superare schematismi troppo antichi e troppo rigidi (ministero
ordinato/matrimonio, clero/laici, Chiesa/mondo, attrattiva/apostolato)”, dall’altra chiede ai formatori attenzione al
“primo discernimento” e ai responsabili diocesani cura nella determinazione della destinazione pastorale, nell’ambito di
una “mobilità sostenibile”».
6
In questo senso, sono d’accordo con la posizione di A. Borras, il quale esclude che il diaconato si possa
concepire semplicemente come una “aggiunta” al sacramento del matrimonio, o addirittura come «la
“ciliegina sulla torta” della vita coniugale, come se esso costituisse l’apoteosi del matrimonio» 15.
Sarebbe del tutto fuori luogo enfatizzare il legame tra i due sacramenti al punto da affermare che la
vocazione diaconale è l’espressione più alta di un matrimonio “riuscito”, come se tutti i matrimoni
cristiani riusciti dovessero generare una vocazione al diaconato permanente...
In realtà, come osserva ancora Borras
«il sacramento dell’ordine è per prima cosa e innanzitutto “per la Chiesa” e al servizio della sua missione!
L’ordinazione situa qualcuno in riferimento a Cristo che guida la sua Chiesa mediante il suo Spirito e, di
conseguenza, situa il ministro ordinato in riferimento a questa e alla sua missione a servizio dell’umanità».16
Il diacono sposato è dunque investito di un ministero «che supera e va oltre la coppia e la sua famiglia»,
egli d’ora in avanti è «mobilitato per il ministero della Chiesa»17. Intesa in questo senso, condivido il
rifiuto dell’idea di una “continuità” tra matrimonio e ordine espresso dall’autore belga.18
Ritengo tuttavia che il punto di vista di Borras debba essere completato in una prospettiva che ne
riscatti qualche astrattezza. Riprendo da uno studio di T. Citrini un’osservazione che mi sembra
pertinente:
«il rapporto tra ministero ordinato e vocazione matrimoniale non è semplicemente identico a quello tra
sacramento dell’ordine e sacramento del matrimonio, ma tra la storia dell’uno e la storia dell’altro. Il confronto,
cioè, va stabilito più pertinentemente non sullo schema un po’ astratto dei sacramenti, ma sulla concretezza
del vissuto; naturalmente non sul vissuto grezzo, narrato o spettegolato, ma sul vissuto teologicamente
interpretato».19
Da parte mia, trovo evidentemente stimolante e convincente il dislocamento della questione sul
versante propriamente della teologia spirituale, cioè appunto dell’interpretazione teologica del vissuto.
Da questa angolatura, si può affermare che il diaconato permanente si comprende anche a partire dal
vissuto matrimoniale che lo precede, da un matrimonio che esiste già e che ha una storia. Come si
espresse una volta un candidato al Diaconato: “la vocazione famigliare per me è una storia cui restare
fedele”.
La storia del matrimonio, cioè il vissuto di fede coniugale e famigliare, non è affatto estranea alla
maturazione della vocazione al diaconato permanente e il soggetto che viene chiamato al ministero
diaconale porterà nell’esercizio di tale ministero l’ “intonazione” propria di chi vive l’esperienza del
matrimonio.20 In questa prospettiva, è legittimo affermare che la vocazione al ministero diaconale dice
una verità cristiana non irrilevante del concreto vissuto matrimoniale nel quale si inserisce e dentro il
quale germoglia.21
Gli stessi testi normativi riconoscono questo dato di fatto storico in particolare in ordine alla formazione
del futuro diacono; così si esprime la Ratio fundamentalis:
15
A. BORRAS, Il diaconato, vittima della sua novità?, EDB, Bologna 2008, 177.
A. BORRAS, Il diaconato, 177. Il teologo e canonista di Liegi ricorda che «Il matrimonio come sacramento si colloca,
per i battezzati, nella stretta continuità del battesimo. Invece, il sacramento dell’ordine non è il dispiegamento della
grazia battesimale» (ivi); il battesimo è dell’ordine della grazia, l’ordinazione diaconale è dell’ordine del “mezzo di
grazia”, è un’investitura ad operare al servizio della fede apostolica (ivi, 177, n. 41). In questo senso, il Diaconato è un
“ministero”, mentre non lo è, propriamente, il matrimonio.
17
A. BORRAS, Il diaconato, 178.
16
18
A. BORRAS, Il diaconato, 177, n. 41.
19
T. CITRINI, «Ministero ordinato e vocazione matrimoniale», Il Diaconato in Italia 100 (1995) 45-59: 45. I corsivi
sono nel testo.
20
È singolare, per esempio, e pone interrogativi il fatto che in diversi casi sono stati eventi famigliari luttuosi (la morte
di un figlio oppure di genitori che vivevano in casa) ad accendere un desiderio di approfondimento o di una maggiore
qualità della vita di fede o addirittura a stimolare la domanda sul Diaconato stesso.
21
Non sembra però che questa prospettiva storica fondi un “primato del matrimonio” a causa della sua precedenza
cronologica: cf A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 92-95.
7
«A seconda poi del suo stato di vita, egli [il candidato] ha già maturato una certa spiritualità ben precisa:
familiare, di consacrazione nel mondo o di consacrazione nella vita religiosa. La formazione spirituale del futuro
diacono, pertanto, non potrà ignorare quest’esperienza già acquisita, ma dovrà verificarla e rafforzarla, per
innestare su di essa i tratti specifici della spiritualità diaconale».22
Non solo, quindi, il diaconato si esercita a partire dalla propria famiglia, che non sarà mai “zona franca”,
“isola privata” nel contesto del ministero che è stato assunto23; ma dentro il ministero la stessa
spiritualità familiare conoscerà un singolare sviluppo, una fisionomia nuova e originale. È legittimo
affermare che anche l’esperienza spirituale legata allo stato matrimoniale riceve impulso dal ministero
ordinato24. E tuttavia si deve ribadire che la ridefinizione dell’esperienza coniugale e familiare non
avverrà per se stessa ma sempre in vista del ministero: non nella forma di un “asservimento” del
matrimonio a quest’ultimo, ma nella conferma della vocazione ecclesiale che il matrimonio stesso
possiede nell’economia cristiana e che il sacramento dell’ordine sollecita ulteriormente.25
A questo proposito, riprendo un passo del contributo di T. Citrini, dove egli ricorda come
«senza uscire da se stessa e dunque senza compromessi con la propria logica interiore, la
vocazione matrimoniale non è poi una semplice reciprocità, ma è essenzialmente aperta, ai figli e oltre i figli:
rimanendo la generazione, la cura, l’educazione dei figli quasi nucleo e simbolo di questa apertura responsabile
e adulta, sociale ed ecclesiale».26
Da un fatto intimo come l’intimità coniugale, nasce un’apertura universale, che si esprime anzitutto, ma
non solo, nella generazione di figli;27 non sembra azzardato affermare che in questa apertura, nella
stessa direzione si può collocare anche l’orientamento al ministero diaconale:
«questo delicato intreccio può aprirsi (venire aperto dalla grazia) a una vocazione diaconale, così che, senza
confusioni prive di senso, la moglie del diacono risulti non semplice spettatrice né semplice beneficiaria, nella
Chiesa, della vocazione del marito, senza peraltro essere in qualche modo investita dall’ordinazione di lui. In
forza dell’ordine, di fronte alla Chiesa come suo ministro non sta la coppia di coniugi ma il diacono; sposato
22
NF 71. Cf anche ON 27.
23
«Ma se in genere la famiglia, in particolare la famiglia cristiana fondata sul sacramento del matrimonio, non è mai
solo affare privato – essa è sempre anche istituto civile e mistero ecclesiale –, e la difesa della sua stessa privacy da
indebite invadenze è valore sociale ed ecclesiale, per la famiglia del diacono sposato questo può essere detto a
particolare titolo. Se la sua vocazione al ministero ordinato germoglia entro la previa vocazione matrimoniale, e non
può esimersi dall’esserne sviluppo, sia pure come nuovo originale dono di grazia, il matrimonio e la famiglia del
diacono non sono luogo di evasione dalla sua responsabilità ecclesiale, la metà non ecclesiastica della sua vita, la sua
“doppia vita”, per così dire» (T. CITRINI, «Ministero ordinato e vocazione matrimoniale», 55). Né, d’altra parte, il
ministero sarà «una fuga rispetto agli obblighi del matrimonio, né un rifugio di fronte alle difficoltà coniugali o
genitoriali» (A. BORRAS, Il diaconato, 181).
24
A. Borras osserva come la riflessione al riguardo in Francia non si preoccupa più tanto della compatibilità tra
diaconato e matrimonio, al fine di armonizzare quest’ultimo con il ministero, non parte soltanto dal Diaconato per
abbordare la questione del matrimonio, ma «raccoglie “tutto quello che dice del matrimonio l’esperienza delle coppie il
cui marito è diacono”» (Il diaconato, 180, n. 53).
25
«Non è la sposa che è ordinata, e tuttavia la missione affidata al diacono obbliga la coppia a ridefinirsi, in qualche
modo, in funzione di questo ministero» (M. CACOUET – B. VIOLE, Les diâcres, cit. in COMMISSIONE TEOLOGICA
INTERNAZIONALE = CTI, Il diaconato: evoluzione e prospettive, 30 settembre 2002, in Il Regno documenti 9/2003, 275303, qui VI, p. 295, n.18). T. Citrini mette in guardia dal pensare all’assunzione dell’ordine dopo il matrimonio come
una sorta di “salto di qualità”: essa è teoreticamente “rozza” e praticamente “pericolosa” per il discernimento (si pensi a
coloro la cui disponibilità al diaconato permanente è più clericale che spirituale, accompagnandosi ad una sfumatura di
«disprezzo per la condizione comune del servizio cristiano, e in particolare per la quotidianità familiare») (T. CITRINI,
«Ministero ordinato e vocazione matrimoniale»).
26
T. CITRINI, «Ministero ordinato e vocazione matrimoniale».
27
Cf D. e M. BIANCARDI, «La famiglia per una pastorale comunitaria: esperienze e proposte», in La coscienza
contemporanea tra «pubblico» e «privato»: la famiglia crocevia della tensione. Atti del XLIX corso di aggiornamento
culturale dell'Università cattolica. Reggio Calabria 9-14 settembre 1979 (= Le Api), Milano, Vita e Pensiero, 1979,
176-187: 182.
8
però, se lo è: cioè come uno la cui vocazione ministeriale ha preso forma entro il quadro e in armonia con la
storia della sua vocazione matrimoniale e familiare».28
La coppia cristiana – osserva Borras - «non è semplicemente un “noi due” che si vivrebbe in un “fra sé”,
come in un bozzolo»,29 c’è una vocazione e una missione delle famiglie cristiane, che comporta apertura,
testimonianza nei diversi luoghi di vita, servizio al prossimo, c’è una partecipazione degli sposi cristiani
al mistero dell’alleanza di Cristo con la Chiesa e di Dio con tutta l’umanità.
Facciamo più fatica, devo ammetterlo, a motivare l’affermazione secondo la quale “l’ordinazione
diaconale è una grazia anche per la coppia e per la famiglia”, convinzione spesso viva come intuizione –
come abbiamo visto all’inizio riportando le testimonianze dei diaconi in formazione – ma povera di
approfondimenti riflessi. Mi chiedo se non tocchi però soprattutto ai diaconi uxorati e alle loro spose
elaborare pazientemente e consapevolmente questa intuizione.30
In estrema sintesi, per congedarci da questo argomento, potremmo ripetere che “non si è Diaconi
nonostante la famiglia ma a partire dalla propria famiglia” (P. Tremolada). Oppure potremmo applicare al
rapporto tra matrimonio e Diaconato le categorie che G. Moioli utilizzava per dire la relazione tra la vita
cristiana e l’esperienza mistica: vi è una “omogeneità non necessaria”.
c. L’amore coniugale “forma” della diaconia ecclesiale
Forse, come abbiamo accennato, si può andare oltre l’impostazione un po’ moralistica del dettato del
Direttorio,31 procedendo in due direzioni. Da una parte, si può dire che l’amore, il servizio vissuto nel
matrimonio è già modalità preziosa di diaconia ecclesiale:
«Il primo ambito nel quale i diaconi coniugati eserciteranno la carità sull’esempio di Cristo è in ogni caso quello
della famiglia: la donazione reciproca dei coniugi, la comune intesa per l’educazione dei figli, l’eventuale
accoglienza nel contesto famigliare di genitori anziani o ammalati, l’apertura alla fraterna condivisione con altre
famiglie, specialmente quelle maggiormente in difficoltà, sono altrettante modalità privilegiate con le quali i
diaconi diranno concretamente il primato evangelico dell’amore e mostreranno il volto di Colui che non è
venuto per essere servito ma per servire».32
Dall’altra parte, si può tentare di comprendere come l’amore coniugale e famigliare sia “forma” della
stessa diaconia ecclesiale, cioè la informi, la plasmi, così che chi viene a contatto con il diacono possa
intravedere nel suo modo di vivere la carità qualcosa che rimandi al modo di amare proprio del
matrimonio, il linguaggio stesso della coniugalità e della paternità. L’amore per la moglie è in grado di
donare all’amore per la comunità i tratti caratteristici della singolarità, della dedicazione, della
delicatezza e della fedeltà.33 La capacità di vivere e di rispettare l’alterità, la diversità dell’altro che sta di
28
T. CITRINI, «Ministero ordinato e vocazione matrimoniale».
29
A. BORRAS, Il diaconato, 176.
30
La nostra posizione si avvicina di più al modello del rapporto tra i due sacramenti che A. Castegnaro chiama
“equipollenza” (cf A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 95-100), sottolineando come al momento
«rappresentazioni consolidate del modo in cui coniugalità e diaconato stanno insieme non sembra in buona sostanza che
ce ne siano» (ivi, 99).
31
DM 61: “Vissuto nella fede, questo servizio familiare è, per gli altri fedeli, esempio di amore in Cristo e il diacono
coniugato lo deve usare anche come stimolo della sua diaconia nella Chiesa”.
32
Direttorio per il Diaconato nella diocesi di Milano, n. 57. Rimando alla Lettera pastorale dell’Arcivescovo di Milano
A. Scola, Educarsi al pensiero di Cristo (Milano 2015), che propone una serie di gesti della carità famigliare i quali
costituiscono già un «coinvolgimento delle famiglie in quanto famiglie in azioni pastorali concrete»: dalla preghiera
famigliare all’esercizio della responsabilità educativa, all’uso adeguato dei soldi e dei beni, all’ospitalità verso
situazioni di bisogno, all’accompagnamento dei fidanzati, alla vicinanza a situazioni di sofferenze e di lutto di altre
famiglie, all’inserimento attivo nelle problematiche del quartiere e della città (cf pp. 63-65).
33
Cf Direttorio per il Diaconato nella diocesi di Milano. Nota introduttiva, 16. Per esempio, la caratteristica della
fedeltà vissuta nell’amore coniugale avrà il suo riflesso nel ministero e nel modo di amare del diacono non
semplicemente nella forma della fedeltà agli impegni presi, ma sarà più in generale la presenza su cui altri possono fare
affidamento, non saltuaria, non capricciosa, sarà l’affidabilità del diacono non solo o non tanto nel senso dell’efficienza,
ma nel senso che ci si può affidare al suo attaccamento alle persone e alle realtà cui è destinato, per tutto il tempo della
durata della sua destinazione. Il diacono fedele nel ministero è colui che non cerca continuamente altri luoghi di
9
fronte a me come un dono; il gustare, da parte di entrambi i coniugi, il fatto di esistere perché l’altro mi
ama, perché sono amabile ai suoi occhi; o ancora, l’interpretare la mia corporeità come realtà sponsale,
cioè destinata all’unità, proprio mentre è il corpo ad apparire il principio, la manifestazione evidente e
immediata dell’alterità e della diversità: sono tutte modalità che rendono unico e originale l’amore
coniugale e che devono trovare la loro “traduzione” adeguata nel ministero diaconale.34 Così come vive
insieme alla moglie il rapporto sponsale che unisce Cristo alla Chiesa, così il diacono in quanto tale è
chiamato ad essere segno dell’amore sponsale di Cristo per la Chiesa-sposa: amando cioè in modo puro
e fedele, nel dono di sé fino alla perdita di sé, con tutto se stesso, a cominciare dalla propria corporeità.
I diaconi che dichiarano di riflettere insieme alla moglie sulla parola di Dio o di preparare talvolta insieme
a lei spunti per l’omelia, non offrono semplicemente esempi di “strategia” della vita di coppia, ma
additano una prospettiva diversa secondo la quale annunciare il Vangelo che deve essere incoraggiata e
che dovrebbe incuriosire per primi noi presbiteri.
d. Un equilibrio sempre da ricreare
«È parte essenziale della formazione permanente del diacono la vigilanza e la cura per la continua ricerca
dell’equilibrio tra il ministero, la vita famigliare e l’impegno professionale. La contrazione dei tempi da dedicare
alla famiglia chiede che si elevi la qualità delle relazioni famigliari: la necessità di affrontare situazioni pastorali
complesse e insieme di essere presenti in passaggi delicati della vita famigliare chiede al diacono di saper
coltivare un’attenta ricerca dell’unità di vita, riconoscendo il primato della dimensione spirituale, anche
attraverso la condivisione della preghiera con la moglie».35
Il paragrafo del Direttorio per il Diaconato nella Chiesa di Milano ricorda realisticamente il compito
quotidiano e costante dei diaconi e delle loro famiglie per assicurare un equilibrio soddisfacente tra le
diverse componenti della loro esistenza. Non abbiamo, almeno nella Chiesa latina, molta esperienza:
matrimonio e ministero ordinato sono realtà separate da lunghi secoli, l’ “apprendistato” per elaborare
una spiritualità o semplicemente un modus vivendi che le coniughi utilmente per il bene degli sposi stessi
e della Chiesa tutta non sarà breve:
«L’aggiustamento tra la famiglia e il ministero sarà a volte laborioso. Forse bisogna dire che si dovrà vivere in
tensione. Ma non è proprio questa tensione, del resto inevitabile, che sarà salutare? […] L’armonia sarà più un
ideale che la realtà. Ciò che conta è creare le condizioni per vivere serenamente l’inevitabile tensione fra il
ministero diaconale e la vocazione matrimoniale».36
In primo luogo, secondo Borras, occorre dare la “priorità esistenziale” alla coppia e alla famiglia: il
ministero non deve essere una fuga rispetto agli obblighi del matrimonio né un rifugio di fronte alle
difficoltà coniugali o genitoriali. Esso richiede di salvaguardare l’intimità familiare. La vera crescita –
osserva un diacono – è nella sfida e nella sofferenza: è preferibile una moglie che sfida che una moglie
cui va sempre bene tutto. E un prete, con un’immagine forse ardita ma efficace, dice di preferire una
“donna Giacobbe”, che lotta con Dio, piuttosto che una che accetta incondizionatamente, che ha come
“sposato” il Diaconato.
“Sì, acconsento”; così rispondono le mogli all’interrogazione del Vescovo in occasione del rito di
ammissione tra i candidati al diaconato permanente: “acconsentite che il vostro sposo intraprenda il
cammino verso l’ordine diaconale per il servizio della comunità cristiana?”. “Acconsentire” non significa
essere entusiasti, “fare salti di gioia”, non veder l’ora che mio marito diventi diacono. Dal punto di vista
giuridico, del resto, è difficile registrare i sentimenti, si accolgono invece delle volontà, delle espressioni
del volere.
realizzazione del suo ministero, impegni aggiuntivi che non rientrano nel decreto di nomina ricevuta dal vescovo,
“prestazioni” extra per “arrotondare” il ministero, non importa che siano assolutamente gratuite. Secondo A. Borras, il
sacramento del matrimonio “colora” il ministero diaconale (Il diaconato, 178).
34
Riprendiamo queste caratteristiche dalla relazione di E. Algeri, tenuta al VII Convegno dei diaconi delle diocesi
lombarde, svoltosi a Brescia il 18 aprile 2009, su La famiglia del diacono sposato, la missione della Chiesa e il mondo
attuale.
35
Direttorio per il Diaconato nella diocesi di Milano, n. 64.
36
A. BORRAS, Il diaconato, 181.
10
“Sì, acconsento” significa dunque: sì, sono d’accordo che quanto sta avvenendo e avverrà avvenga, cioè
sono consapevole – per quanto posso vedere e capire adesso – di ciò che questa vocazione e scelta di
mio marito comporta, e lo accetto, lo accolgo, non passivamente, magari con una certa dose di
accondiscendenza, con più o meno entusiasmo, ma ci sto, sono consapevole e lo accetto, con tutto
quello che ne consegue e che ancora non conosco e non riesco a prevedere. Lo accetto e me ne faccio
carico. È una vocazione di mio marito, non mia, ma mi coinvolge profondamente, ci coinvolge come
coppia e come famiglia, ed è necessario il consenso perché senza questo consenso tale scelta non si
realizza, diventa invivibile, praticamente irrealizzabile.
C’è però anche un ulteriore significato del termine, che indica un compito per il futuro. “Acconsento”,
etimologicamente, significa “sentire con”, “avere il medesimo sentire”, lo stesso modo di pensare, di
vedere: da questo punto di vista è una cosa molto impegnativa, è più un cammino che sta davanti che
non una realtà già compiuta, almeno nella normalità dei casi. Accetto insomma la sfida di entrare in
sintonia, di assumere anche su di me lo sguardo che anima mio marito e che lo rende disponibile per il
ministero diaconale. Non solo non porrò ostacoli, ma cercherò di condividere i suoi sentimenti, di
partecipare al suo “sentire” diaconale, allo spirito diaconale che lo anima, non in contraddizione, ma in
misteriosa consonanza con il senso autentico della stessa vocazione matrimoniale nella Chiesa. Questo è
il cammino di fede che attende anche la moglie, che attende la coppia cristiana che si prepara e vive
l’ordinazione diaconale.
Don Algeri afferma che il consenso della moglie è un contributo all’espansione della grazia del
Diaconato, quasi un’eco, un’analogia del fiat di Maria all’annuncio dell’angelo.37 E A. Borras osserva che il
consenso della moglie sarà «uno dei molti “sì” della storia comune», non semplicemente il «permesso
concesso alla Chiesa di ordinare il marito».38
e. La “coppia diaconale” e altre incomprensioni sul ruolo delle mogli
Il Diaconato può far emergere difficoltà, frustrazioni e delusioni nella coppia e persino provocarle,
importante è che ogni ripercussione del ministero sul vissuto della coppia e della famiglia sia oggetto di
scambio e di confronto approfondito tra i coniugi. Borras si augura che la sposa non sia semplicemente
la “moglie del diacono”, ma impari ad essere una “donna il cui marito è diacono”39. Il canonista belga
mette in guardia dal rischio di maggiorazione della condizione matrimoniale del diacono, come nel caso
in cui la lettera di missione lo invii “in quanto famiglia”: il ministero non viene affidato alla famiglia, non
esiste l’ “équipe coniugale diaconale”, né vi è posto per un Diaconato della sposa “per procura”!40
Si dice che la Chiesa arriverà ad ordinare uomini sposati. Bene, forse lo Spirito la guiderà a questa scelta,
perché non manchi l’eucaristia a molte comunità, ma non saranno i diaconi permanenti i candidati
naturali ad essere ordinati presbiteri, perché così si uccide il Diaconato. Allo stesso modo, si dice che la
“coppia” ancora non è entrata nel vocabolario della Chiesa (“famiglia” non è la stessa cosa)41 e che è
giunto il momento per chiarire e individuare lo spazio per un carisma, un ministero, una “diaconia della
coppia cristiana” in quanto tale.42 Giusto, ma non saranno i diaconi permanenti e le loro spose i soggetti
più indicati a realizzare questo nuovo protagonismo ecclesiale delle coppie cristiane, o lo saranno solo
accidentalmente. Il Diaconato non deve essere caricato di compiti e ruoli profetici che non gli
37
Cf E. ALGERI, La famiglia del diacono sposato, la missione della Chiesa e il mondo attuale.
38
A. BORRAS, Il diaconato, 179.
39
A. BORRAS, Il diaconato, 179.
40
A. BORRAS, Il diaconato, 180.
41
«Tanto più appare marginale nella Chiesa la presenza attiva e riconosciuta della coppia, al di là di qualche recente
beatificazione» (GRUPPO LA VIGNA, Coppie della Bibbia e di oggi: storie d’amore a confronto, EDB, Bologna 2014,
212).
42
«Una nuova inculturazione passerà necessariamente attraverso donne e uomini, coppie di sposi, che riusciranno a
mostrare la pertinenza umana del dato cristiano nella vita di tutti i giorni» (GRUPPO LA VIGNA, Coppie della Bibbia e di
oggi, 214). Il problema è assolutamente reale: «L’ansia di raggiungere tutti può produrre calendari pastorali appesantiti
da appuntamenti che, pur nelle buone intenzioni di arrivare ovunque, propongono progetti pastorali vari e particolari,
che però trascurano uno sguardo di insieme. La famiglia viene oggettivata nella pastorale, smembrandola in una
frammentarietà di proposte, a seconda delle caratteristiche dei singoli membri» (testimonianza di Massimo e Roberta –
Seveso, 6 settembre 2016).
11
competono; la sua profezia è reale, ma lo è all’interno del ministero ordinato, rivolta ai presbiteri, ai
vescovi. La profezia nell’ambito laicale non spetta al diacono. Dentro il ministero ordinato il diacono
porterà anche le istanze che provengono dalla sua condizione uxorata, e potranno anche essere
dirompenti o comunque veicolo di autentica novità nel modo di vivere la fraternità, di gestire l’autorità,
di decidere. Ma non sarà il Diaconato uxorato in quanto tale la risposta all’urgenza del riconoscimento
della diaconia della coppia cristiana.43
È probabilmente vero, come afferma A. Castegnaro,44 che il modello interpretativo che emerge dal
Direttorio universale sul diaconato permanente rispecchia la tradizionale divisione dei compiti in seno
alla famiglia, con la donna impegnata nella cura famigliare e domestica e l’uomo proiettato fuori, nel
mondo professionale e nel servizio ecclesiale, in quanto diacono impegnato nell’adempimento degli
obblighi lavorativi e in più nelle incombenze che gli spettano in seguito alla promessa di obbedienza
fatta al vescovo. All’altro estremo, ritengo che non faccia bene al Diaconato il modello della “coppia
diaconale”, dove si fatica a comprendere perché il sacramento non sia stato conferito anche alla moglie,
che si sente investita al pari – forse di più – del marito del ministero che il vescovo gli ha affidato.
Non vi è dubbio, però, come conclude T. Citrini, che a fronte di una pastorale della Chiesa latina
configurata da secoli su misura di ministri celibi, il diaconato di uomini sposati «chiederà e permetterà un
ripensamento abbastanza profondo non solo di alcuni tratti della spiritualità ministeriale ma dell’intera
concezione della pastorale e della comunità ecclesiale. Non basterà secondo me, in altri termini,
interrogarci su ministero ordinato e vocazione matrimoniale o celibataria, ma saranno necessari scavi
più fini, discernimenti sottili, sostenuti da una fede e un amore per la Chiesa molto grandi».45
43
Riporto un’altra riflessione, a mio parere condivisibile anche se con qualche perplessità, o almeno passando per
alcune precisazioni, di coppie che riflettono in maniera non banale sul ruolo e la responsabilità della coppia nella
Chiesa: «Prospettare a un uomo sposato il diaconato “uxorato”, come se il partner fosse un accessorio che qualifica la
sua posizione e non la via prioritaria di santificazione che egli ha scelto per sé, significa non comprendere a fondo la
ricchezza del sacramento del matrimonio. Essere diacono non “nonostante il coniuge” ma “in forza del coniuge e della
relazione privilegiata con Dio che egli ti concede di vivere” è, a nostro avviso, la dimensione del futuro. E lo stesso vale
per tutte le Chiese che prevedono il matrimonio del presbitero (o l’ordinazione dell’uomo sposato): dov’è la forza del
sacramento, se è uno dei due partner ad essere ordinato e l’altro si limita a una mera funzione di accompagnamento?
Quale grazia potrebbe invece venire da un ministero sacerdotale “celebrato in coppia”? Come si fa a decidere di
spendere la propria vita al servizio dei fratelli senza che questa sia una scelta condivisa e con-vissuta dalla coppia? Ciò
non significa, evidentemente, che tutti i ministeri debbano necessariamente essere “di coppia”, ma, ove vi fosse la
vocazione specifica a un ministero da vivere “in coppia”, perché negarlo?» (GRUPPO LA VIGNA, Coppie della Bibbia e
di oggi, 221).
44
A. CASTEGNARO – M. CHILESE, Uomini che servono, 35.
45
T. CITRINI, «Ministero ordinato e vocazione matrimoniale», 59.
12