128 - Comunità del Diaconato in Italia

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128 - Comunità del Diaconato in Italia
In copertina: Allegoria del buon governo,
Ambrogio Lorenzetti, particolare,
Palazzo Pubblico, Siena 1337-40
Il diaconato in Italia
Periodico trimestrale fondato da don Alberto Altana
Servizio di animazione per le chiese locali
Direttore
Giuseppe Bellia e-mail: [email protected]
Redazione
e-mail: [email protected]
Giorgio Agagliati e-mail: [email protected]
Giovanni Maria Cataldi e-mail: [email protected]
Paola Castorina (segretaria) e-mail: [email protected]
Vittorio Cenini (coordinatore) e-mail: [email protected]
Roberto Massimo e-mail: [email protected]
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Andrea Spinelli e-mail: [email protected]
Direttore responsabile: Vittorio Cenini - Proprietà: Il diaconato in Italia, viale Timavo, n. 93, Reggio Emilia Aut. Trib.
Reggio Emilia n. 273 del 18/12/1969 - sped. in ab. post. com. 34, art. 2, L. 549/95 Fil. RE - Trim. - Taxe perçue - (Tassa
riscossa dir. p. t. Reggio Emilia - Italia)
Quota di abbonamento annuo €30,99 - c/c postale 13186424 intestato a “Edizioni San Lorenzo” s.a.s. di Luciano Forte & C.
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Sommario
EDITORIALE
L’antica parodia della pace (Giuseppe Bellia)
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DISCERNIMENTO
Comunità, chiamata e discernimento (Hervé Legrand)
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RIFLESSIONI
La vocazione ecclesiale (Gian Paolo Cigarini)
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CONTRIBUTO
Sacramentalità del diaconato (Enzo Petrolino)
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IL PUNTO
Discernere oggi l’Islam (Redazione)
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RICERCA
Formazione diaconale (Gaetano Marino)
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STUDI
La diaconia mistica di Macario (Francesco Aleo)
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SPIRITUALITÀ
Rileggendo Rosmini (Pietro Sapienza)
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PAROLA
Il mistero della gloria (Luca Bassetti)
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TESTIMONIANZE
La diaconia di Madre Antonina (Paola Castorina)
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NOTIZIARIO
Dalle Chiese: diario e appuntamenti (Roberto Massimo)
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RIQUADRI
Un pensiero di Alberto Altana
Non sono tempi di vendetta (Michel Sabbah)
Un appello ai diaconi (Carmelo Vitrugno)
Riflessioni di un vescovo (Domenico Caliandro)
Sull’uso del denaro
I poveri del sud
Un dibattito in corso
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EDITORIALE
L’ANTICA
PARODIA
DELLA PACE
GIUSEPPE BELLIA
Allora è proprio così: non c’è niente di nuovo sotto il
sole, perché «ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si
rifarà» (Qo 1,9). Il potere economico e militare, che
con dissennatezza tutta mondana voleva convincere
della giustezza morale della guerra preventiva, per un
superiore interesse di civiltà, ha mostrato il suo volto
arrogante e menzognero di sempre. Ma anche il cupo
istinto animale che abita in ognuno di noi è stato svelato nel suo antico volto spietato e disumano. Certo
il cinismo gretto e sadico, quasi da stupidi goliardi,
degli assoldati per combattere e uccidere può far dire
che si tratta di eccessi, di casi isolati, insomma, di
eccezioni. Come un’eccezione, ci si è affrettati a dire,
è stata l’efferata decapitazione eseguita in diretta dai
terroristi di un prigioniero ad uso televisivo. L’abile
regia mediatica subito sfoderata, anche dalla rampante televisione araba, si è incaricata di trasformare,
ancora una volta, il tutto in spettacolo, in emozioni
forti da digerire con scontata indignazione.
I cristiani, i credenti non possono però dimenticare
la lezione profetica d’Israele. In quanti modi i profeti
avevano denunciato e messo in guardia sulla realtà
menzognera dei signori della guerra, vedendo nel
loro volto nient’altro che il volto idolatrico di uno
dei rivali di Dio? Allo stesso modo la riflessione
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sapienziale aveva ammonito sulla
verità sconcertante del nostro cuore,
un abisso senza fondo, come dice
il salmista, che in ogni circostanza
non cessa di stupirci per la sua
imprevedibile spietatezza.
Le foto di un corpo piagato hanno
amplificato e moltiplicato, a
seconda delle culture e della sensibilità, le reazioni di disgusto e di
impotenza ma anche di rabbia e di
vendetta, specie nel mondo arabo.
La ferocia della mano che colpisce e
le ragioni che la dirigono diventano
un tutt’uno nell’immaginario collettivo e l’Occidente, non riuscendo a
far fronte all’efferata “emergenza”
del terrorismo, regredisce rapidamente verso la barbarie e riprende
le armi antiche della sopraffazione
violenta che vuole, non solo l’eliminazione dell’avversario, ma la
sua umiliazione, la riduzione della
sua persona a oggetto di trastullo
ludico. Se assai sottile è il confine
tra l’uso della forza e il suo abuso
per difendere la propria sicurezza,
ancora più evanescente è l’impiego
della forza al di fuori di ogni legalità riconosciuta per affermare la
propria superiorità.
La democrazia occidentale non
ha imparato nulla dalla sua storia
(anche recente)? Ha dimenticato
che gli orrori di ieri possono tornare,
censurati o no, con o senza immagini disgustose e raccapriccianti,
illudendosi che tutto sia stato risolto
con la proclamazione della “Carta
dei Diritti dell’uomo”? Primato del
diritto che, tuttavia, non è in principio, perché il buon vivere sociale
non è un prodotto automatico di
un corretto sistema legislativo, ma
frutto e conseguenza dell’accordo,
dell’alleanza che tutti gli associati
condividono come irrinunciabile.
Un pensiero più onesto e coraggioso
deve riconoscere che la dignità dell’uomo in Occidente non è insidiata
da quelle forme marginali di barbarie che sopravvivono nelle periferie
della devianza sociale, quasi ai
margini della nostra cultura, ma in
quell’abisso senza fondo del cuore
umano, specie quando è grasso di
benessere economico, di sufficienza
culturale e di autocompiacimento
morale.
Se il terrorismo si è d’improvviso
presentato come pericolo globale,
è a motivo di cause antiche e inutilmente gridate che oggi rischiano
di non fare più scorgere al mondo
occidentale il filo rosso delle sue
origini cristiane che hanno insegnato a riconoscere nel volto dei
crocifissi della storia la dignità della
stessa immagine del Figlio di Dio
che ci rivela che la violenza non può
essere guarita e vinta dalla violenza.
È solo un’illusione perniciosa, una
reazione automatica e ricorrente
che riesce soltanto a produrre un
effetto “domino” inarrestabile e
devastante.
Questo ci dicono gli sfigurati della
storia. Ma quando finalmente, di
fronte a un volto inguardabile, scopriremo che l’orrore che abbiamo
di guardare è dovuto al nostro peccato, ai nostri delitti, allora sapremo
guardare anche a colui che noi
abbiamo trafitto: questo è, in pra-
tica, imparare cos’è la misericordia. Solo così si può
comprendere la differenza che passa tra il dolorismo
sterile e autocompiaciuto dei molti e la compassione
verso l’Uomo di chi ricerca la verità. La storia dello
svelamento dell’uomo a se stesso passa attraverso un
atto di misericordia che Dio ha avuto verso di noi nel
punto più basso della nostra esistenza: la compassione
verso l’altro nasce dall’aver guardato se stessi con la
misericordia di Dio. Solo allora potremo sperimentare la presenza del Risorto e toccare le sue piaghe e
guardare il Crocifisso e con lui tutti i crocifissi della
storia senza esibire la nostra diversa moralità come
superiorità che continua a discriminare, a emarginare
e ad allontanare, contribuendo in questo modo a sfigurare ulteriormente la sua verità di uomo, di redento.
Per questo l’annuncio cristiano della salvezza deve
avvenire sempre nella debolezza e nella mitezza, con
coraggio e pudore perché si annuncia che lo sfigurato,
il percosso e umiliato da Dio, è il suo Figlio amatissimo che noi abbiamo crocefisso.
Il simile riconosce il simile non per somiglianza o
contiguità, ma come alterità accomunata nella confessione della colpa, della propria debolezza, ma
anche della gratitudine e della gioia. Amare in verità
è reciprocità possibile solo tra eguali, da dio a dio, da
libero a libero, da uomo a uomo e quindi da piagato
a piagato, da sconfitto a sconfitto, da perdonato a
perdonato.
Così a Pietro, divenuto cosciente della sua miseria,
quando non poteva più presentarsi nemmeno ai suoi
stessi occhi come un esempio di superiore fedeltà al
suo Maestro, solo allora è affidato il gregge. Non sta
forse qui, in questa kénosi inarrivabile la ragione vera
di quella necessità tutta divina che esigeva lo scandalo dell’incarnazione fino alla morte e alla morte di
croce? Amare, se non è un prendersi e un mangiarsi, è
solo un donarsi, è un dire all’altro «ti voglio servire»
secondo quella reciprocità beata che accomuna il
Padre e il Figlio nella pura gratuità dello Spirito e che
è stata donata a noi nel mistero del suo corpo.
Se dalle sue piaghe siamo stati guariti, il nostro corpo
diviene il luogo dell’incontro con Lui e chiunque
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compie un atto di misericordia nei confronti di un
corpo umano è come se lo compisse verso il corpo
stesso di Dio. Ma qualunque sofferenza e umiliazione
viene arrecato al corpo di un uomo è come se fosse
arrecato al corpo passibile di Cristo. Ogni tortura è un
atto di crocifissione e ogni torturato partecipa della
sorte di Cristo.
Ridare dignità a chi non ha più volto non è dunque
affare emotivo di un’effimera indignazione, ma opera
di ragione che cerca di comprendere fino in fondo il
senso di ciò che accade per trovare la forza necessaria
che sola può conferire alla politica la sua funzione di
diaconia sociale, o meglio, di diaconia ecclesiale al
sociale.
In vista del prossimo Convegno Nazionale dei diaconi
permanenti che si terrà nel 2005, in questo numero
presentiamo un prezioso richiamo del teologo Hervé
Legrand sul discernimento ecclesiale per la cosiddetta “chiamata vocazionale” al diaconato. Nell’anno
in cui ricorre il quarantesimo dalla promulgazione
della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen
Gentium (21 novembre 1964), vogliamo proporre
un confronto su quella ecclesiologia di comunione
che, negli anni dell’immediato post-concilio, aveva
sprigionato nuove forze e una rinnovata riflessione
teologica. L’analisi compiuta da Legrand delle antiche procedure della chiesa dei primi secoli non è
un vago rifarsi alle origini, ma il punto iniziale per
«chiedersi se le nostre procedure moderne abbiano
veramente segnato la decadenza di questa teologia
tradizionale». Con una precisazione ermeneutica: le
possibilità di sviluppo di questa riflessione si rendono
accessibili «a coloro che non escludono a priori che ci
si possa istruire presso i nostri padri nella fede e che
si guardano dal qualificare il passato come “arcaico”
e di indicare lo stato presente della Chiesa, senz’altro
esame, come il culmine di uno “sviluppo omogeneo”». La cornice di lettura odierna non può non
tenere conto dell’ultimo documento della CTI che
approfondiamo con il contributo di Enzo Petrolino.
I molti spunti di riflessione ci aiutano a comprendere
il percorso lungo e tortuoso che la restaurazione del
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diaconato ha dovuto affrontare negli
ultimi tre decenni.
Non rimangono senza attenzione le
emergenze ecclesiali e culturali dell’oggi, dal primo, serio tentativo di
discernimento cristiano sull’islam
portato avanti nei nostri giorni dalla
Conferenza episcopale siciliana
unitamente alla Facoltà teologica
di Sicilia, al richiamo autorevole
e ponderato per una riflessione
evangelica sull’attuale situazione
politica di neoliberismo senza
regole e senza pietà; dalla ripresa di
alcune sapide riflessioni rosminiane
che mantengono tutt’oggi una forte
valenza profetica, all’ascolto di
quelle voci che si levano dal mondo
richiedendo luce ai nostri pastori;
o ancora, accogliendo il semplice
invito ad indossare le vesti liturgiche
del servizio dopo essersi presi cura
di quanti sono immagine sofferente
di Dio. Infine, il greco pregnante di
senso teologico di uno sconosciuto
monaco cenobita, passato alla storia
come Pseudo Macario, ci ricorda
una verità mistica spesso obliata
e cioè che i diaconi «sono coloro
che hanno gustato la potenza dello
Spirito Santo nel loro cuore. Per
questo motivo sono servi o diaconi
della Nuova Alleanza».