la fornace mancini/badioli a cattabrighe

Transcript

la fornace mancini/badioli a cattabrighe
LA FORNACE MANCINI/BADIOLI
A CATTABRIGHE
Un lavoro di ricerca pluriennale
della Scuola Primaria di Cattabrighe
LA SCUOLA PRIMARIA DI CATTABRIGHE – VIA PO
E’ SEDE DI UNA MOSTRA PERMANENTE SULLA
FORNACE
E PUNTO DI RIFERIMENTO PER LA RICERCA DI
MATERIALE STORICO E DOCUMENTARIO
Modellino in scala
della Fornace
Mancini/Badioli
realizzato dai bambini,
le insegnanti e il
“nonno” Nicola
Ciarallo, esposta nella
Mostra permanente
all’ interno della
scuola.
MISURE REALI
DELLA FORNACE
Lunghezza m.42,70
Larghezza m.16,69
Superficie mq.712,66
Altezza della
ciminiera
m. 42,70 (la stessa
misura della
lunghezza
del tetto)
LA FORNACE HA
TRE PIANI:
1 – il Forno Hoffmann
2 – piano del fuochista
3 – l’ essicatoio
LA STORIA DELLA FORNACE MANCINI/BADIOLI
Le fornaci col brevetto Hoffmann, insieme alle filande per la seta a
vapore, costituirono, nel corso del 1800, i primi segni dell’ arrivo del
“sistema fabbrica” nella nostra provincia.
PERCHE’ PROPRIO IN QUEL LUOGO?
•
LA NECESSITA’ DI REALIZZARE IL TRAFORO
FERROVIARIO
Un fattore determinante per la scelta del luogo di edificazione
della fornace è stata la necessità di grandi quantitativi di
materiale laterizio per la realizzazione del traforo attraverso
la collina del Boncio, che consentisse il completamento della
linea ferroviaria Bologna-Ancona. Non era insolito infatti, nel
caso di lavori importanti e di grandi dimensioni, che si
impiantassero delle fornaci proprio per l’ occasione: era molto
più costoso trasportare il materiale da lontano, poiché bisogna
ricordare che, per tutto l’ ottocento, i trasporti venivano
effettuati per la maggior parte con carri trainati da animali. I
costi del trasporto su gomma, che cominciava a diffondersi, o
del trasporto ferroviario, erano accessibili solo per merci
particolarmente importanti.
La galleria del Boncio ed il suo camino di aerazione,
interamente realizzati con i mattoni della Fornace Mancini,
hanno consentito l’ inaugurazione della tratta a metà degli
anni Venti del Novecento.
•
LA VICINANZA DI GIACIMENTI DI ARGILLA
Erano presenti a est della fornace
•
LA VICINANZA DI CORSI D’ ACQUA
Due torrenti scorrevano (e scorrono ancora oggi) a pochi passi
dalla fornace: il Fosso della Ranocchia e Fosso dell’ Acquabona.
I due ruscelli erano molto più ricchi di acqua di quanto non lo
siano adesso ed esondavano: l’ intera zona era a rischio di
esondazione, infatti negli ultimi 150 anni ci sono stati due o tre
episodi di inondazione delle case fino al primo piano e anche della
fornace stessa
•
PRESENZA DI VIE DI COMUNICAZIONE IMPORTANTI
La fornace sorgeva a poca distanza dalla Statale (la vecchia
Strada Flaminia) e dalla ferrovia, si trovava esattamente in
mezzo a queste due importanti arterie
•
VICINANZA ALLA CITTA’
Essere vicini alla città significa essere vicini ai cantieri e ai
mercati.
•
VICINANZA AL PORTO
Il porto era necessario per il commercio con l’ estero.
LA DATA DI FONDAZIONE
DELLA FORNACE
1879 - 1882
L’ Ufficio del Catasto di Pesaro non riporta documenti che attestino la
data precisa di costruzione e la planimetria della fornace.
Per la sua determinazione si sono sovrapposte le informazioni
provenienti dagli archivi dei Registri Catastali della Provincia e dai
registri dell’ Elenco delle Industrie, depositati all’ Archivio di Stato di
Pesaro dalla Camera di Commercio.
•
1879 – Questo documento catastale registra il cambiamento di
natura del terreno (di cui alla particella n° 794 del foglio 13
del Catasto Comunale, il terreno su cui sorge la fornace) da
Rustico a Fornace da mattoni. Viene quindi concessa la
possibilità di costruire una fornace in zona Roncaglia
attraverso un cambio di destinazione da terreno agricolo a
terreno con funzione artigianale. Il 1879, dunque, è il
probabile anno di inizio della costruzione dell’ edificio.
Proprietario risulta essere il Signor MANCINI ERMINIO FU
ENRICO. La famiglia Mancini veniva da Santa Maria delle
Fabbrecce.
•
1883 – Dai registri dell’ Elenco delle Industrie ci risulta che, a
partire da questo anno, la Fornace Mancini occupava ottanta
operai, dunque in questo anno lo stabilimento era già in piena
attività.
•
1891 – Di questo anno è il primo documento in cui per la
prima volta appare edificata la fornace: all’ Ufficio del
Catasto Pontificio risulta una mappa che evidenzia la presenza
solo dell’ anello Hoffmann (probabilmente dotato di una
tettoia per le manovre del fuochista).
•
1893 - Vengono aggiornate le planimetrie catastali del
territorio di Cattabrighe, ma la fornace resta immutata
rispetto alla situazione descritta nell’ allegato precedente.
•
1895 – L’ allegato successivo riporta alcune modifiche che
consistono nella fusione dei due piccoli edifici adiacenti.
Appaiono anche le prime case del borgo operaio su iniziativa
dell’ imprenditore per dare alloggio alle squadre di manovali:
c’ era infatti l’ esigenza di avere gli operai vicini, anche per il
controllo costante del fuoco del forno che da aprile a ottobre
non veniva mai spento. Il borgo è costituito da piccole case in
linea, con entrata e orto indipendenti. Queste case sono state
costruite con mattoni che recano impresso il marchio di
fabbrica della Fornace Mancini.
•
1903 – A partire da questo anno, nel Registro delle Industrie
viene annotata la presenza nella fornace anche di donne e
ragazzi.
•
1905 – Nei primi anni del novecento, la fornace appare
trasformata in una importante realtà produttiva: l’ anello del
forno Hoffmann viene circondato da un edificio a tre piani
(piano del forno, piano dell’ alimentazione del forno,
essiccatoio); compare anche un edificio a pianta circolare,
attualmente scomparso, che probabilmente, come recita la
dicitura della Camera di Commercio “Fornace da calce e
mattoni”, dovrebbe essere il forno per la produzione della
calce.
•
1911 – La revisione generale del Catasto, effettuata in
occasione del passaggio dei territori dalle competenze del
Catasto Pontificio e quello del Catasto Italiano, descrive una
realtà produttiva stabile e consolidata.
•
1912 – A partire da questa data, i registri dell’ Elenco delle
Industrie contenuti negli Archivi della Camera di Commercio,
non sono più reperibili. Le informazioni successive sono più
discontinue. Sappiamo che, fino alla Prima Guerra Mondiale,
la Fornace Mancini ha avuto una produzione molto
consistente: esportava i suoi prodotti nei comuni e nelle
regioni vicine e intratteneva rapporti commerciali anche con
la Dalmazia, al di là del Mare Adriatico, alla quale venivano
inviati carichi di laterizi via mare, dal vicino porto
commerciale di Pesaro. Dalla Dalmazia si importavano,
invece, carichi di carbone fossile, di cui il nostro territorio è
sempre stato carente.
•
1920 – La crisi conseguente alla Prima Guerra Mondiale e alla
sospensione del rapporto di scambio commerciale con la
Dalmazia, segnano un periodo di stasi dell’ attività della
fornace. In questo anno la Ditta viene convertita in società con
la denominazione “SOCIETA’ IN NOME COLLETTIVO
EREDI F.LLI MANCINI”.
•
1934 – La fornace viene venduta dalla famiglia Mancini alla
famiglia Pecorelli, che ne mantiene il controllo per soli quattro
anni.
•
1938 – In questo anno, l’ attività viene di nuovo ceduta: i
fratelli Francesco, Guido e Saturno Badioli la rilevano e la
manterranno attiva fino alla sua definitiva chiusura: i Badioli
sono costruttori edili e possedere una fornace è sicuramente
conveniente. Negli anni trenta compare anche, per la prima
volta, un camion per il prelievo e il trasporto del materiale su
gomma. Nel periodo della conduzione dei Badioli, gli operai
erano circa duecento.
•
1945/1950 – Nel secondo dopoguerra, testimonianze di ex
lavoratori della fornace riferiscono di una progressiva
meccanizzazione dell’ impianto: il trasporto dell’ argilla e dei
laterizi crudi e cotti, precedentemente effettuato su carretti
trainati da muli o cavalli, viene soppiantato da un sistema di
carrelli metallici su binari; l’ impasto dell’ argilla non avviene
più a mano ma attraverso la molazza; nello stesso tempo,
accanto alla formatura di mattoni pieni effettuata a mano, si
avvia la produzione di mattoni forati, realizzati mediante l’
impiego di una “mattoniera” dotata di una taglierina a fili.
•
1953 – La Fornace Mancini rimane in mano ai fratelli
Francesco e Guido Badioli, mentre Saturno rimane a dirigere
l’ altra fornace di famiglia, quella di Villa San Martino,
acquisita nel 1935.
•
1963 – In questo anno la Fornace Mancini di Cattabrighe è
costretta a chiudere definitivamente. I motivi sono due: la
ridotta competitività (il forno Hoffmann, infatti, era ormai
superato dai più moderni forni a tunnel) e la scarsità di
materia prima (gli scavi dell’ argilla causavano frane). Per
questo i F.lli Badioli trasferiscono la loro attività produttiva in
un’ altra sede, a Fanano, nel vicino comune di Gradara.
•
1964/2006 – E’ la fase dell’ abbandono e del degrado: gli spazi
adiacenti alla fornace sono stati nel tempo utilizzati come
depositi e come sedi di piccole attività artigianali (anche
abusive) e tutto il complesso è stato ben presto circondato da
sterpaglie infestanti. Lo stesso forno, dalla struttura ancora
perfettamente solida e ben conservata, risulta ora una
discarica, nella più totale assenza di manutenzione. La
struttura del tetto, già malandata, ha subito un crollo
repentino in seguito ad una abbondante nevicata. Alla fine
degli anni ottanta, la ciminiera è stata demolita della metà ad
opera dei pompieri perché pericolante: si è operato in modo
che tutti i calcinacci restassero all’ interno del moncone
rimasto, in modo da renderlo stabile e non più pericoloso.
L’ IMPATTO DELLA FORNACE
SUL TERRITORIO
La fornace ha dato origine a:
* LA FERROVIA
La fornace Mancini è stata costruita soprattutto per la costruzione
della galleria che doveva permettere alla ferrovia di attraversare la
collina del Boncio
* IL QUARTIERE
La fornace ha sicuramente dato impulso ad un borgo fermo da
secoli: tra il 1400 e il 1800, Cattabrighe è stato solo un insieme
sparso di case sulla fascia collinare che oggi prende il nome di colle
del San Bartolo, casupole, locande, dove sostavano le persone e le
merci prima di cominciare la salita per accedere al castello di Santa
Marina.
Dalla costruzione della fornace in poi, lo sviluppo del quartiere è
stato rapido.
* IL LAVORO
L’ impianto della fornace Mancini ha segnato per il quartiere di
Cattabrighe, e i quartieri vicini, il passaggio da una economia di tipo
strettamente agricolo a quella di tipo industriale.
COME FUNZIONA
IL FORNO HOFFMANN
Questa GENIALE INVENZIONE fu introdotta dall’ imprenditore
tedesco Friedrich Hoffmann (1818-1900) che presentò la sua
invenzione per la prima volta all’ Esposizione Internazionale di Parigi
nel 1867. L’ anno dopo, nel 1868, la notizia del forno anulare arrivò in
Italia con il “Giornale dell’ ingegnere – architetto civile meccanico”.
CON QUESTO BREVETTO, IL PROCESSO DI COTTURA DEL
MATTONE FU TRASFORMATO RADICALMENTE.
FORNACI
INTERMITTENTI
HOFFMANN
Struttura “a monocamera”
o a fuoco discontinuo.
Si immettevano i mattoni
nel forno spento, lo si avviava
a fuoco lento per completare
l’ essiccazione e poi a pieno
fuoco per la cottura vera e
propria. La saltuarietà del
ciclo lavorativo obbligava a
lunghe e improduttive soste
in attesa del carico, cottura,
raffreddamento e scarico del
materiale; spesso gli stessi
materiali cotti dovevano essere
immessi nel forno una seconda
volta per raggiungere un
grado di cottura omogeneo.
La dispersione di calore e di
combustibile era notevole.
Struttura circolare o
ellittica.
Alimentazione continua
del fuoco: è il fuoco che si
sposta in successione
nelle varie camere di
cottura e non il materiale.
Ha una maggior capienza
e una maggior produttività giornaliera di mattoni.
I prodotti finiti hanno
cottura uniforme.
Il risparmio di combustibile è notevole.
Evita il contatto diretto
uomo e fuoco.
La fornace Mancini/Badioli funzionava con un forno a brevetto
Hoffmann.
Si tratta di una galleria composta da due tratti rettilinei paralleli
raccordati alle estremità da due canali semicircolari.
Questo grande invaso di forma ellittica è contenuto tra due grosse
pareti interamente in mattoni, spesse cm…… per il mantenimento
del calore, sulle quali si aprono 14 nicchie (ingressi o bocche) per il
caricamento dei mattoni.
La galleria, a volta curva, ha le dimensioni di m. 3.5 in larghezza e m
2.70 in altezza (al centro della volta).
Questo forno rappresentava una delle versioni maggiormente diffuse
in Italia, proposta dallo stesso Friedrich Hoffmann (ingegnere tedesco
– 1818/1900) per modifica del suo primo modello, brevettato nel 1859,
che era a pianta circolare.
La galleria del forno, che costituisce la camera di cottura, può
considerarsi composta da tanti scomparti ognuno dotato di una porta
di comunicazione con l’ esterno e di un condotto che conduce al
camino.
Sul soffitto ci sono le bocche di alimentazione del combustibile.
Ogni scomparto può essere separato, durante la cottura, da quello
successivo mediante la posizionatura di un diaframma di carta.
L’ infornamento avviene tenendo conto di particolari criteri: alla base
la disposizione dei mattoni deve essere sufficientemente rada da
consentire il tiraggio e in corrispondenza delle bocchette di
alimentazione vanno lasciati dei pozzetti vuoti in cui far avvenire la
combustione.
L’ accensione del forno è effettuata con dei focolari a legna posti
davanti ai mattoni infornati nella prima camera. In questo modo l’
ambiente viene portato alla temperatura di autoaccensione del
combustibile, con il quale si può proseguire la cottura iniziando nell’
alimentazione dall’ alto: l’ alimentazione del fuoco con carbone tritato
e ridotto in polvere avviene, attraverso le bocchette, sia manualmente
sia con alimentatori meccanici,
Quando il forno è in funzione due scomparti sono aperti: in uno si
sforna il materiale già cotto e nell’ altro si inforna il materiale crudo.
Le porte delle altre camere sono chiuse ed è aperto uno solo dei
condotti comunicanti con il camino.
Grazie all’ opportuna collocazione del diaframma di carta, il tiraggio
esercitato dal camino determina una corrente gassosa che entrando
nelle camere aperte attraversa tutta la galleria per giungere al camino.
Nello stesso tempo nelle camere opposte a quelle in cui si inforna e si
sforna, sta avvenendo la combustione alimentata dall’ aria che vi
giunge dopo aver attraversato gli scomparti in cui si trova il materiale
già cotto; in questo modo l’ aria si è preriscaldata, esercitando un
raffreddamento sul materiale.
La corrente gassosa che dalle camere in cui sta avvenendo la cottura,
si porta al camino, attraversando l’ altra metà della galleria, è
costituita dai gas caldi della combustione che incontrando il materiale
infornato lo preriscaldano.
Raggiunta la temperatura stabilita, il fuoco viene spostato nelle
camere adiacenti e le operazioni di infornamento e sfornamento
procedono in altri scomparti.
L’apertura e la chiusura delle porte dei condotti, nonché la
posizionatura del diaframma di carta, saranno regolati di
conseguenza.
I MESTIERI ALLA FORNACE
IL PADRONE
IL SORVEGLIANTE
O CAPOCCIA
I FOCHISTI
Il fochista era senza dubbio la figura
fondamentale della fornace, l’ operaio
specializzato per eccellenza, quello più
esperto e meglio pagato.
I MACCHINISTI
“QUEI DLE MECHIN”
* addetto alla molazza
* addetto alla pressa per le tegole
* addetto alla taglierina dei mattoni
GLI INFORNATORI
“QUEI DI VASCON”
“QUEI DI CAVAJ”
I CARRIOLANTI
I CARRETTIERI
“QUEI DI CAREJ”
I CARBONAI
IL CICLO
DEL MATTONE
1 – ESTRAZIONE DELL’ ARGILLA
Il lavoro della fornace era essenzialmente stagionale e occupava gli
operai solo alcuni mesi all’ anno, da aprile a ottobre circa.
Da ottobre in poi non si produceva più perché il clima non permetteva
l’ essiccazione dei mattoni; proseguiva solo l’ attività del commercio
(vendita e trasporto di laterizi) e quello della preparazione dei
“vasconi”.
Durante l’ inverno alcuni operai scavavano le “VASCHE” per la
raccolta dell’ argilla; intorno ad esse innalzavano dei margini più alti
e costruivano delle strade su cui sistemare i binari per i carrelli da
trasporto.
La presenza del fango e dell’ acqua era sempre garantita da due
ruscelli, il FOSSO DELL’ ACQUABONA e il FOSSO DELLA
RANOCCHIA, che aveva la sua sorgente al Boncio e che anche oggi
scende dalle Siligate, attraversa Cattabrighe, Vismara, S. Maria delle
Fabbrecce e si getta nel fiume Foglia. Durante le piene, i “fossi”
alimentavano le vasche della fornace, vi facevano convogliare quell’
acqua che serviva alla produzione di fango.
La nostra argilla locale è di tipo alluvionale, particolarmente adatta
alla produzione di mattoni resistenti agli sbalzi termici.
I vasconi erano circa sei o sette, si estendevano fino all’ attuale
fabbrica di Belligotti: quando negli anni ’80 hanno costruito lì i
condomini, le imprese edili hanno dovuto “battere i pali” cioè
trivellare il terreno per le fondazioni, per oltre venti metri, appunto
per trovare terra compatta superando lo strato umido e paludoso.
Questi vasconi avevano delle dimensioni di m. 30x30 circa e potevano
raggiungere una profondità anche di due o tre metri.
Avevano anche delle “saracinesche” da cui far uscire l’ acqua in
eccesso.
In queste vasche si sono allenati anche i nuotatori della Vis Sauro e le
donne di Cattabrighe le utilizzavano come lavatoi.
Ma col tempo sono diventate dei veri e propri “ecosistemi-stagno” con
canneti, cespugli, alberi, rane, salamandre, anguille, carpe, pesci
rossi.
In primavera l’argilla era matura e ricca, il maltarolo l’ assaggiava, l’
annusava e sapeva che ormai il fango, pesante, aveva “decantato” cioè
era sceso sul fondo, lasciando galleggiare sulla superficie tutte le
impurità (rami, cortecce, foglie, pagliuzze, erba, ecc.).
A quel punto, la fornace entrava in funzione, venivano assunti diversi
operai che davano inizio al ciclo della lavorazione.
Gli operai erano spesso contadini che
Gli operai addetti ai vasconi (“quei di vascòn”) scendevano in acqua
scalzi, poi con badili e pale raccoglievano l’ argilla e la deponevano nei
carrelli posti sui binari e tirati dai cavalli. Il lavoro era massacrante: l’
operaio era in genere ad un livello più basso e buttare su il fango con
la pala significava riceverne parecchio in faccia.
2 – TRASPORTO DELL’ ARGILLA
Alcuni operai avevano il compito di guidare i cavalli che tiravano i
carrelli lungo i binari (“quei di cavài”), i binari, tramite gli appositi
scambi, conducevano fino al PIAZZALE, dove l’ argilla veniva
depositata in grande quantità e fatta asciugare, perché era troppo
bagnata per essere usata subito.
3 – IMPASTO DELL’ ARGILLA
LA MOLAZZA
Dopo alcuni giorni (era il colpo d’ occhio e la sensibilità manuale a
stabilire quanti), l’ argilla asciutta veniva trasferita, dal piazzale,
dentro carrelli che, su rotaie, salivano fino ad una macchina detta
MOLAZZA: essa aveva il compito di triturare, miscelare e preparare
l’ argilla. Il carrello, una volta versato il suo contenuto nel deposito
della molazza, ritornava giù per inerzia. In questo frantoio venivano
buttati anche scarti di laterizi crudi che, ridotti in polvere, si
mescolavano alla terra vergine.
In cima alla molazza c’ era un operaio esperto, che sapeva se e quanta
acqua aggiungere per rendere l’ argilla lavorabile e plastica al punto
giusto. Dall’ alto, l’ argilla scendeva per caduta nel laminatoio,poi
nella vite elicoidale (detta vite senza fine) che la conduceva per
estrusione (spinta/pressione) allo stampo per la formatura.
4 – FORMATURA
Dalla vite elicoidale, l’ argilla veniva spinta dentro la MATTONIERA,
la macchina da cui usciva un “filone”, cioè un lunghissimo
parallelepipedo delle dimensioni di 26x13 che scorreva su una serie di
rulli rotanti e proseguiva fino a toccare un “fermo”: subito due operai
addetti al taglio dei mattoni intervenivano con una leva, cioè una
taglierina con tre fili di ferro, “affettando” (per così dire) tre mattoni
alla volta.
I tre mattoni dovevano essere velocemente tolti perché il filone
continuava a scorrere sui rulli per il taglio successivo: non si doveva
mai interrompere il taglio.
Per i mattoni forati esisteva uno stampo per la formatura con i buchi.
I mattoni pronti venivano depositati dentro dei carrelli che li
riportavano all’ aperto per l’ essiccazione. Dentro questi carrelli, i
mattoni venivano disposti in modo particolare, cioè a gruppi da tre, in
tre file rispettivamente da 24 pezzi sul fondo, 24 pezzi al centro e 30
pezzi in cima, per un totale di 78 mattoni per carrello.
Tenendo conto che ogni mattone pesava 7 Kg., si capisce quanto fosse
pesante un carrello (kg. 546 di peso netto) e quanta fatica facessero i
carriolanti che dovevano spingerli a mano fin sul piazzale (“quei di
carej”). La fornace produceva 200 carrelli al giorno; il sorvegliante
ogni sera controllava la produzione della giornata contando i carrelli
che venivano segnati su un’ apposita lavagnetta.
Negli edifici a struttura bassa che si trovavano a fianco della fornace,
si effettuavano lavorazioni a mano di camini, lucernai e statue (ad es.
il leone della Benelli); c’ era, inoltre, la pressa per le tegole.
5 – L’ ESSICAZIONE
Una volta sul piazzale, i carrelli venivano scaricati: erano in genere le
donne ad occuparsi di questo lavoro. Esse prelevavano i mattoni uno a
uno e li appoggiavano in diagonale su un terreno precedentemente
cosparso di sabbia. Mentre si asciugavano, venivano disposte sopra
questi altre file di mattoni, a incrocio, perché l’ aria passasse in mezzo
e potesse facilitare l’ essiccazione. Le donne preparavano così delle
banchine dette “gambette” che poi venivano coperte con “cannicci”
(stuoie di canne) per ombreggiarle, in modo che il sole non facesse
crepare i mattoni, ma che erano utili anche in caso di pioggia. Sul
piazzale, i mattoni rimanevano circa un mese per l’ essiccazione.
Dovevano essere completamente asciutti, privi di acqua e il più
possibile integri: se buttati nel forno, infatti, anche appena appena
umidi, il repentino cambiamento di calore e
la rapida essiccazione avrebbero fatto rompere i laterizi.
6 – L’ ACCENSIONE
L’ accensione del forno era un momento importante, segnava l’ inizio
di un ciclo di lavorazione che si sarebbe protratto per mesi e che non si
sarebbe mai dovuto fermare, il fuoco cioè non avrebbe dovuto mai
spegnersi. Sembra che fosse di buon augurio far accendere il forno all’
inizio della stagione lavorativa ad un bambino.
7 – LA COTTURA
I carriolanti, con le loro carriole, prelevavano i mattoni dal piazzale e
li portavano dentro la fornace per la cottura.
Essi riempivano le prime tre o quattro camere ponendo i mattoni
crudi in una precisa posizione alternata: per questo lavoro servivano
cinque o sei operai e quasi una giornata di tempo. I mattoni pieni
venivano disposti in basso, a seguire i mattoni forati e in cima i
blocchetti oppure, quando c’ erano, tegole, coppi o tavelle.
La camera era semplicemente una porzione della galleria del forno
che veniva riempita di mattoni: erano i mattoni stessi che separavano.
L’ ingresso alle camere veniva chiuso a tappo con due strati di
materiale: uno di mattoni e fango, il secondo di mattoni a secco per
non disperdere il calore.
Nella prima camera vuota antecedente a quelle riempite, venivano
disposte alcune cataste di legna che, molto gradualmente, per alcuni
giorni, alzavano la temperatura nella cosiddetta “camera di fuoco”
fino a 900°.
Poi dalle bocchette poste sul soffitto della camera il fochista
proseguiva l’ alimentazione del fuoco con polvere di carbone (lignite e
antracite): non tutti questi fori (20 circa) erano in uso, solo su due file
venivano posti i “burattini”, specie di imbuti con l’ apertura
automatica, detti anche “cavalieri”: il carbone era qui versato col
badile o con la sessola. Le altre bocchette erano chiuse con coperchietti
di metallo.
Questa polvere, a contatto con l’ aria arroventata, si incendiava:
dosata con perizia cuoceva il materiale in modo uniforme, cioè a una
temperatura costante.
Se la calore diminuiva il mattone rischiava di non cuocersi, se la
temperatura superava i 900° il laterizio vetrificava, cioè diventava
duro ma fragile (come il vetro, appunto).
Mentre la prima camera cuoceva, la seconda intanto si preriscaldava.
L’ occhio esperto del fochista era in grado di capire, solo dal colore dei
mattoni, quando questi erano cotti.
La separazione con la camera successiva era un divisorio di carta : era
una carta speciale che arrivava dalla Svezia, particolarmente
resistente al calore, faceva in modo che il fuoco non passasse troppo
velocemente da una camera all’ altra ma si soffermasse il tempo
necessario per cuocere i mattoni: quando poi il calore arrivava alla
temperatura massima (900°) questa carta bruciava e consentiva al
fuoco di passare alla camera successiva.
Il fuoco in questo modo avanzava nelle camere vicine e,
contemporaneamente, alcuni operai caricavano di mattoni crudi le
camere successive, mentre altri potevano svuotare il contenuto della
prima cella che nel frattempo si era raffreddata.
La permanenza di un carico di mattoni in una camera era di circa
quaranta ore.
Negli ultimi anni la fornace produceva 200 carrelli di mattoni al
giorno (200x78=15.600).
Vicino alla fornace c’ era anche un forno a torre (alto 7/8 metri), detto
“il fornaciotto”, dove si faceva la calce viva: ci si buttavano dentro le
pietre prese dal fiume Foglia, si cuocevano e diventavano calce viva
che i muratori usavano da mescolare col cemento.
8 – LO STOCCAGGIO
I mattoni cotti, di un bel colore rosso-aranciato per l’ ossidazione dei
minerali di ferro contenuti nell’ argilla, venivano posizionati sul
piazzale e bagnati con acqua fredda, sia per temperarli sia per
eliminare la polvere: quando il mattone non friggeva più significava
che aveva ricevuto acqua a sufficienza. I laterizi cotti venivano
sistemati sotto le tettoie o dentro capannoni in attesa di essere
venduti.
Venivano infine caricati a mano sui camion che li portavano verso i
cantieri della zona, verso cantieri lontani (nelle regioni limitrofe),
oppure verso il porto di Pesaro: infatti esisteva un fiorente commercio
con l’ estero, soprattutto con la Dalmazia (al di là del Mar Adriatico)
che contraccambiava con il carbon fossile, utile non solo per le fornaci
ma per tutte le fabbriche del nostro territorio.
9 – LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE
Nella casa a fianco della fornace abitava il custode e c’ erano anche gli
uffici. Qui il capoccia consegnava il rapporto sulle ore effettuate dagli
operai e sui pezzi prodotti, qui venivano consegnate le paghe a fine
mese.
Negli ultimi anni, la paga di un normale operaio (non il fochista)
ammontava a 18.000 lire, che equivalgono a 9 euro circa.
Gli operai, presa la loro paga, se ne tornavano a piedi alle loro case, a
Tre Ponti, a Santa Maria delle Fabbrecce, a Roncaglia, a Babbucce,
tutti quanti scalzi (tranne i fochisti), con la gluppa del loro pasto
(patate, pane, formaggio, pannocchie di granoturco da cuocere dentro
la fornace) ormai vuota.
Se avevano lavorato più delle ore pattuite non venivano pagati.
Non c’ erano le cosiddette “ferie” perché comunque nei mesi invernali
non si lavorava. Però gli operai prendevano una indennità di
disoccupazione: per averla dovevano andare a firmare dal parroco di
Roncaglia.
La manodopera spesso era reperita tra gli addetti all’ agricoltura che
potevano alternare il lavoro dei campi con quello della fornace.
LA MIA FORNACE
(Testo poetico creato dai bambini di quinta)
Ti vedo là
accartocciata nella tua
solitudine
come una vecchia signora
persa
nei suoi ricordi
in bianco e nero.
Sei come una regina
senza trono né corona
che ha perduto la sua battaglia
contro il tempo,
l’ ombra dell’ oblìo
ti avvolge,
cancella la tua storia.
Come la bella principessa delle favole
attendi di essere risvegliata.
Come un malato infermo
attendi un cuore nuovo e una nuova vita.
Come un fiore assetato
attendi l’ acqua che ti ristora.
Come una stella lontana
attendi di essere riaccesa.
Prendi la nostra piccola mano:
non sei sola.
DIAMO FUTURO
AL PASSATO