Senza Soste n° 102 (marzo)
Transcript
Senza Soste n° 102 (marzo)
Periodico livornese indipendente - anno X n. 102 - in uscita dal 14 marzo 2015 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 Foto di Giacomo Spagnoli Salvini: fascismo e postfascismo NIQUE LA POLICE A lla faccia del partito “comunitario”, territorializzato, identitario e premoderno. La Lega Nord, con Matteo Salvini, sembra essere tutto. Un partito fascista e postfascista assieme, leghista e italiano nello stesso momento. Non che il sincretismo sia una novità, nelle culture e, più specificamente, nella politica. Solo che la Lega riesce ad abusarne: dà dello “squadrista” a chi la contesta e poi scende in piazza, con tanto di improvvisata scenografia neomussoliniana di corredo, con autentici eredi dello squadrismo. E, nello stesso tempo, i paradossi leghisti non finiscono qui. Le piazze sono vuote (l’adunata di piazza del popolo altro non è stata che una versione ristretta delle ducesche adunate oceaniche) ma le urne sono piene. Perlomeno quelle dei sondaggi che pongono una Lega al di sopra del 15% a livello nazionale. Con percentuali nel nord, c’è bisogno di sottolinearlo, tali da far pensare di nuovo ad un germe secessionista nel paese. Proprio quando la Lega cerca di darsi una dimensione nazionale. Certo, a Salvini manca un alleato a destra solido, Fratelli d’Italia per adesso stenta a carburare e Casa Pound è ancora troppo “di nicchia”. Ma quando si ha questo livello di percentuali, con la destra berlusconiana che dovrà trovare nuova collocazione (politica e aziendale) con il declino del capo, qualche alleato serio prima o poi, per affiancare la Lega, si dovrebbe formare. L’altra destra, quella renziana, ha ovviamente trovato in Salvini il miglior avversario. Sporco, brutto e cattivo. E il problema qui non sta solo nel fatto che questo schema, si fa per dire, di gioco politico ha esaurito spinta propulsiva con le numerose sconfitte che il berlusconismo ha inflitto al centrosinistra tutte le volte che lo ha giocato. Il punto più grave sta nel fatto che, mentre in Spagna l’effetto Syriza può spingere Podemos alla vittoria elettorale, in Italia è palese da tempo una possibile sinergia Salvini-Le Pen. Come negli anni ’30, in epoca di depressione economica, i fascismi si “chiamano” tra loro in Europa. E l’Italia è, come di consueto, dalla parte sbagliata. Sarà possibile cambiare il film, cancellare velocemente il file di uno spettacolo che si candida ad essere degli orrori? Dalla risposta seria a questa domanda, passa una parte importante del nostro futuro. www.senzasoste.it Oltre la Darsena Europa La crisi occupazionale e la vicinanza delle elezioni regionali hanno trasformato il Piano Regolatore del Porto in una fiction in cui si parla per sogni e per slogan e si cerca di evitare l’analisi e l’informazione dei cittadini. D opo la nostra intervista a Vladimiro Mannocci, che ha ribadito con i numeri la necessità di adeguare il nostro porto con interventi strutturali calibrati, dopo aver smascherato i proclami elettorali del Presidente della Regione Toscana Rossi che continua a parlare a ruota libera di finanziamenti, e dopo la recensione del libro di Sergio Bologna che mette in guardia sulla bolla finanziaria del gigantismo navale, proponiamo un’altra analisi sul Piano Regolatore del Porto. Lo facciamo cercando di mettere in evidenza alcuni dubbi e alcune problematiche che sono soffocate da chi vorrebbe affossare il dibattito con slogan, sogni e promesse. Il fatto che il porto di Livorno abbia reali necessità di cambiamenti e ammodernamenti strutturali è chiaro a tutti, così come è opinione ben motivata che un porto “multipurpose” (multifunzione) come il nostro non possa rinunciare improvvisamente al traffico contenitori. Ciò non significa che tutto quello che è stato calato dall’alto e progettato nel Piano Regolatore del Porto (Prp) vada bene. Tutti parlano solo di Darsena Europa come grande spot che ingloba tutto, ma il Prp comprende un’area che va dalla Bellana fino allo Scolmatore e i dubbi e i rilievi sono tanti, anche se le voci dissonanti non sono prese in considerazione dalla stampa. Abbiamo cercato di riassumere alcuni di questi punti. Darsena e finanziamenti La Darsena/Piattaforma Europa dovrebbe risolvere una necessità fondamentale, dare accosto alle nuove navi con maggiori pescaggi dovuti alle maggiori dimensioni e quindi ai maggiori carichi, ma pone il problema di dove mettere i fanghi di dragaggio e a quali costi. Partiamo dai numeri relativi ai traffici e ai finanziamenti complessivi tra pubblico e privato. C’è incertezza su ogni fase di ricognizione sui numeri anche perché Modimar, ditta progettatrice della Darsena Europa, afferma che i traffici aumenteranno “un po’ più del Pil”, come affermato anche verbalmente dal suo rappresentante durante una Commissione Consiliare in Comune. A questa incertezza si aggiunge la farsa di Rossi che corre tra Roma e Bruxelles senza mai un documento attendibile o con una dichiarazione ufficiale di un ministro o di un viceministro che integri i 200 milioni promessi dalla Regione Toscana e i 120 promessi dall’Autorità Portuale. Anzi, se Rossi annuncia che il sottosegretario Lotti o il viceministro De Vincenti gli hanno promesso che il ministero darà 100 milioni, Nogarin afferma che il ministro Lupi gli ha detto che per ora il governo non si può impegnare. C’è poi l’Ue e il piano Juncker che nel bel mezzo di una recessione concede dei finanziamenti solo se hanno una solida previsione di incasso e restituzione, pretendendo una valutazione economico-finanziaria attendibile. La stessa Ue, con il suo approccio a favore delle privatizzazioni dice una cosa chiara: finanziamo progetti dove i privati ci mettono tanti soldi, perché se il privato non ci vede dentro allora non siamo convinti nemmeno noi. Il tema principale di cui nessuno parla è quell’assetto che sta prendendo il rapporto tra pubblico e privato dopo che Juncker ha definito la leva di richiamo finanziario gradito alla Commissione Europea, cioè il rapporto 1 a 15 (1€ pubblico e 15 € privati). È una presunzione della Commissione oppure un prezzo che il privato deve pagare per far ingresso in posizioni fino ad oggi pubbliche? Suona come rigida l’intervista rilasciata da Marcucci, oggi presidente della “parte sociale” per i trasporti in Italia a chi è all’oscuro delle connessioni che si andranno ad imbastire tra pubblico e privato a breve. È invece realistica per chi inizia a volerci veder dentro andando oltre agli articoli di giornale. È interessante, per i privati del settore, il porto di Livor- no? Quanto è interessante? Feeder e pescaggi Il rischio maggiore è farsi condizionare dalla golosità dei finanziamenti per assicurare alla città un flusso di centinaia di milioni che genereranno appalti e lavoro per un breve periodo, tralasciando l’obiettivo principale, cioè quello di individuare il target di traffici giusto per rendere l’investimento produttivo e remunerabile. La differenza di pescaggio tra una nave Panamax fino a un massimo di 5.000 Teus e una Ulcv (c.d. mega container) è avvenuta in un lasso di pochi anni. La prima portacontenitori da 18mila Teus della Maersk che ha una portata lorda di 165.000 tonnellate, è lunga 400 metri e larga 59 metri, ha un pescaggio di 14,5 metri, è stata varata nel giugno 2013 e ne seguiranno altre 19 solo di questa compagnia. Sappiamo quindi che i tempi di adeguamento infrastrutturale dei porti faranno la differenza per accaparrarsi la posizione di porto hub (un porto “magazzino” come Gioia Tauro), dove possono essere accolte le mega navi. Nonostante l’obiettivo di fondali a -16m, Livorno avrà la funzione di porto feeder (porto dove arrivano le navi più piccole, provenienti dai porti hub). Per la nuova darsena sono previsti, quindi, (continua a pagina 4) 2 internazionale anno X, n. 102 NORD AFRICA - Cosa si nasconde veramente dietro l’avanzata dell’Isis e lo scenario in tutta l’area I l sequestro e il successivo assassinio in Libia, per mano dei terroristi dell’Isis-Daesh, di ventuno cittadini lavoratori egiziani (cristiani copti), le cui immagini sono state rapidamente diffuse dal gruppo su internet il 15 febbraio scorso, evidenziano l’aggravarsi della complessa situazione politica e militare del Nordafrica. Le forze armate egiziane non hanno tardato a rispondere bombardando varie postazioni terroriste in Libia, causando la morte - secondo varie fonti - di circa cento mercenari di questa organizzazione e distruggendo importanti depositi di armi in loro possesso. Il governo egiziano ritiene che la Fratellanza Musulmana (la confraternita sconfitta in Egitto nel 2013) e il gruppo jihadista Wilayat Sinaí si siano accordate con l’Isis-Daesh, e insieme si propongano di realizzare azioni terroriste importanti contro obiettivi civili e militari all’interno del territorio egiziano e in altri paesi della regione, utilizzando la Libia come base di appoggio e preparazione logistica: un luogo dove l’anarchia è legge e dove ricevono armi e addestramento da parte di alcuni servizi segreti europei, della Turchia e di alcune petromonarchie del Golfo. I più recenti avvenimenti verificatisi in Libia, con l’apparizione dell’Isis-Daesh e la conquista di varie località e centri urbani importanti come Sirte da parte di questo gruppo, permettono U n aereo militare Tucano doveva bombardare il Palazzo di Miraflores, a Caracas, il 12 febbraio scorso. E uccidere il Presidente Nicolás Maduro. La sua missione era anche quella di attaccare il Ministero della Difesa e distruggere gli studi del canale TeleSur per seminare il caos e la confusione. Secondo quanto ha rivelato il presidente Maduro, il tentativo di golpe è stato disarticolato grazie all’intelligence bolivariana, con l’arresto di un gruppo di ufficiali dell’aviazione e di civili. Nicolás Maduro ha dichiarato che uno degli ufficiali implicati era “coinvolto”, dall’anno scorso, con gruppi dell’ultradestra venezuelana che cercavano di provocare nuovi scontri violenti nel paese. Il presidente ha rivelato che le autorità militari lo avevano espulso dalle Forze Armate. “Ma alcune settimane fa diversi oppositori lo hanno ricontattato, gli hanno consegnato un’ingente somma in dollari e affidato diverse missioni. E l’Ambasciata degli Stati Uniti gli ha concesso un visto nel caso che il tentativo fallisse”. Questo ufficiale - ha raccontato ancora Nicolás Maduro - ha contattato altri quattro colleghi per eseguire le missioni “progettate da Washington”. L’ordine di iniziare l’azione golpista sarebbe partito nel momento in Libia: la strategia del caos di comprendere la portata della strategia Usa di frammentare la regione e provocare in Libia, Algeria ed Egitto - quest’ultimo paese ha firmato accordi importanti con la Russia - scenari simili a quelli a cui si assiste in Siria e Iraq. L’obiettivo degli strateghi della Nato è quello di giustificare la sua presenza in nord Africa con il pretesto della “lotta al terrorismo” e della “difesa dei diritti umani”. Attualmente a contendersi il controllo della Libia sono due governi internazionalmente riconosciuti, ma anche centinaia di milizie e tribù di diverse aree del paese arabo. Da una parte c’è il governo con sede a Tobruk, a est della Libia, che conta sul riconoscimento della Ue ed è difeso dal generale Halifa Heftar che guida gli attacchi contro le diverse milizie jihadiste, tra le quali lo Stato Islamico. L’altro governo è ubicato nella capitale, Tripoli, e gode principalmente del supporto degli Stati Uniti. Questo agisce insieme alla milizia islamista di Misurata, e il suo profilo ideologico non è in contrasto con lo Stato Islamico. Per questo motivo, il governo egiziano si è alleato con il governo di Tobruk, e insieme coordinano le azioni contro le basi dei terroristi in Libia. È opportuno ricordare che l’Isis o Daesh è nato come una scissione di Al-Qaeda in Iraq nel 2004 con nomi diversi, ma è stato solo nel 2013 che ha iniziato a rappresentare una forza militare importante con un numero significativo di mercenari (più di 10mila membri), il che gli ha permesso di espandersi per tutto il nord dell’Iraq fino ad arrivare a controllare il nordest della Siria. Quello stesso anno ha preso il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il suo obiettivo principale non era lottare contro gli invasori statunitensi che nel 2003 si erano impadroniti dell’Iraq e dei suoi giacimenti petroliferi, ma di fomentare, tramite il terrorismo, l’odio tra le diverse comunità religiose sunnite, sciite e cristiane che compongono questi paesi, ed evitare in questo modo qualsiasi possibilità di unità tra le forze politiche e religiose che iniziavano a riorganizzarsi per combattere l’invasore. Innumerevoli documenti dei servizi segreti russi e siriani provano che gli Stati Uniti hanno organizzato, addestrato e armato, con l’aiuto della Turchia e di alcune petromonarchie del golfo arabo, il Fronte al Nusra (Al-Qaeda) e l’Isis-Daesh per distruggere la resistenza irachena e il governo siriano, ridefinire le frontiere territoriali di questi paesi secondo il piano predisposto dall’amministrazione di George W. Bush (2001-2009) noto come “Nuovo Grande Medio Oriente” e in questo modo facilitare il controllo statunitense sui giacimenti petroliferi dell’Iraq. Oggi nessuno dubita più che la disintegrazione dello stato libico provocata dall’aggressione della Nato nel 2011 abbia permesso la rapida proliferazione dell’Isis-Daesh in Libia, cosa che costituisce la maggior mi- Quelli che blaterano di “lotta al terrorismo” sono proprio gli apprendisti stregoni che l’hanno scatenato naccia per la sicurezza di tutta la regione, e anche per i suoi stessi creatori in Europa che non riescono più a controllare i loro demoni terroristi. Basem Tajeldine, Rebelión (traduzione di Nello Gradirà) SUDAMERICA - Ancora un tentativo di rovesciare con la forza il governo di Maduro Venezuela: il golpista non perde il vizio cui un quotidiano dell’opposizione avrebbe pubblicato il cosiddetto “programma di governo di transizione”. Il tentativo aveva il nome in codice di “Operazione Gerico”. Secondo le rivelazioni degli arrestati i golpisti avevano intenzione di “liquidare”, oltre al presidente Nicolás Maduro, il presidente del Parlamento Diosdado Cabello e altre personalità bolivariane. Sono stati inoltre individuati gli altri militari presunti caporioni della cospirazione. È stata mostrata parte dell’arsenale sequestrato, in particolare armi di grosso calibro come fucili, mitragliatrici e granate. Sono state scoperte mappe della città di Caracas con vari “obiettivi tattici”. Le autorità bolivariane hanno indicato come “autori intellettuali” del tentativo di golpe e del progetto di assassinio del presidente due personalità dell’opposizione: Antonio Ledezma, sindaco metropolitano di Caracas (arrestato il 19 febbraio), e Julio Borges, deputato dell’opposizione. Hanno anche affermato di avere le prove della partecipazione dell’Ambasciata statunitense. Il presidente Maduro ha detto di essere in possesso del “piano di governo” redatto dai golpisti, nel quale si prevedeva lo scioglimento di tutti i poteri pubblici, la privatizzazione della compagnia petrolifera Pdvsa e l’espulsione dei cubani delle missioni di cooperazione. Nonostante tutti questi dettagli e prove portate dalle massime autorità venezuelane, i media interna- zionali hanno dato poco credito a questo annuncio di tentativo di golpe. Questa “incredulità” fa parte - da quindici anni - della strategia di guerra contro la rivoluzione bolivariana dei grandi media dominanti. Il presidente Nicolás Maduro ha spiegato come, dopo la morte di Hugo Chávez (esattamente due anni fa) e la sua elezione, un “golpe lento” è in atto per abbatterlo. Questa volta il golpe si sarebbe svolto in quattro fasi: nella prima, I media intanto continuano a parlare di “autoritarismo” del governo per l’arresto del sindaco di Caracas agli inizi di gennaio, mentre il presidente era all’estero (Cina, Iran, Qatar, Arabia Saudita, Algeria e Russia) era previsto con l’appoggio degli imprenditori l’accaparramen- to di alimenti di base e prodotti di prima necessità, al fine di creare scarsità e malcontento. Cosa che non è riuscita. Nella seconda i grandi media hanno intensificato la diffusione di reportage che davano una visione distorta del Venezuela, facendo credere che fosse in atto una “crisi umanitaria”. La terza tappa doveva essere guidata da un “traditore”, che sui media avrebbe chiamato alla ribellione. Il presidente non ha fatto il nome di questo “traditore”, ma ha messo in guardia la cittadinanza. La quarta fase del golpe è quella svelatasi il 12 febbraio, con la partecipazione di un gruppo di ufficiali golpisti dell’aviazione militare finanziati dall’estero. In quell’occasione si sarebbe annunciato il “Programma di governo di transizione”. E si sarebbe sepolta la rivoluzione di Chávez. Ma anche in quattro fasi il golpe è fallito. E la rivoluzione bolivariana è ancora viva. Ignacio Ramonet (traduzione e riadattamento di Nello Gradirà) in uscita dal 14 marzo 2015 3 interni LAVORO - La nuova normativa di Renzi rappresenta la definitiva mannaia sui diritti dei lavoratori Il regalo di Renzi agli imprenditori FRANCO MARINO I telegiornali a reti renziane unificate lo hanno presentato come una normativa che ricuce le ingiustizie e le differenze di un mondo del lavoro fatto di garantiti e non garantiti, abolendo la precarietà ed estendendo gli ammortizzatori sociali. Non è così. Vediamo perché. Jobs Act e “tutele crescenti” Una norma fotografa e disciplina un rapporto di forza. Lo Statuto dei Lavoratori e le norme sul diritto del lavoro non sono testi neutri, ma norme che disciplinano i diritti e i doveri dei lavoratori sulla base di un rapporto di forza ed un equilibrio di ruoli. Il perno fondamentale di tutto ciò era l’articolo 18, la tutela di riprendersi il maltolto, cioè il lavoro, laddove ci fosse stato un licenziamento ingiusto. L’articolo 18 era quindi l’elemento regolatore di un rapporto che si basava sul diritto. Il totale ridimensionamento di questa norma, prima con la Fornero e poi con i contratti a tutele crescenti per i neoassunti sotto il Jobs Act di Renzi, sposta l’asse del rapporto tra capitale e lavoro dal diritto al ricatto. Tra l’altro mantenendo la dualità tra chi continuerà ad avere un diritto mozzato dalla Fornero e chi, neoassunto, rischia di non vederlo mai. Oggi in Italia un licenziamento, anche ingiusto, è quantificabile e monetizzabile, quindi anche di fronte ad una palese ingiustizia subita, un lavoratore potrà muoversi contro l’azienda con il rischio concreto di perdere il lavoro anche se un giudice riconoscesse le sue ragioni. E con i contratti a tutele crescenti per i nuovi assunti, il licenziamento di un vecchio lavoratore e l’assunzione di uno nuovo diventa un investimento, non solo per lo squilibrio di diritti previsti ma anche grazie agli sgravi contributivi. Senza parlare di tutto lo sterminato mondo degli appalti in cui ogni 3 anni un lavoratore rischia di cambiare padrone e rischia di ripartire da zero in una perenne precarietà e con un nuovo contratto a tutele 0. E senza considerare che la maggior parte dei contratti “precari” sono rimasti in vigore e che la promessa di abolizione dei co.co.pro, seppur positiva, va inquadrata all’interno di una disciplina di un contratto a tempo indeterminato senza tutele e di uno a tempo determinato che non ha più bisogno della “causalità” e quindi potrà essere usato a piacere dall’imprenditore senza dover motivare questioni produttive o organizzative. Vediamo nel dettaglio le possibili tipologie di licenziamento “liquidabile”. I licenziamenti monetizzabili 1. Se il licenziamento è comunicato solo a voce o avviene per motivi discriminatori, esso viene dichiarato nullo dal giudice del lavoro, che reintegra il lavoratore nel posto di lavoro e condanna l’azienda a versargli un’indennità per tutti i mesi di durata del licenziamento e, comunque, per almeno 5 mensilità di salario. E non potrebbe che essere così! Ma chi mai licenzierebbe per questi motivi o con queste modalità, avendo la possibilità di farlo con ben altri “argomenti” più efficaci? 2. Se il licenziamento avviene senza giusta causa o senza giustificato motivo soggettivo (motivo legato a comportamenti non consoni del lavoratore), l’azienda Con la nuova indennità di disoccupazione si allarga la platea ma si limita la durata dell’ammortizzatore sociale viene condannata a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a versargli una indennità per il periodo in cui è durato il licenziamento, non superiore a 12 mensilità di salario. A condizione, naturalmente, che il lavoratore provi al giudice che non è materialmente avvenuto il fatto su cui è stato deciso il licenziamento. Se, invece, non ci sarà questa prova, il licenziamento resterà valido, anche se il fatto su cui si basa consiste in un ritardo di pochi minuti, o nell’aver fumato una sigaretta sul luogo di lavoro, o nell’avere fatto una telefonata dal lavoro! E l’azienda sarà condannata solo al pagamento di una indennità pari a 2 mensilità di salario per ogni anno di servizio e, comunque, a un minimo di 4 mensilità e a un massimo di 24; 3. Se il licenziamento avviene per inidoneità fisica o psichica alla mansione ricoperta o per giustificato motivo oggettivo (motivo economico), il giudice emetterà una sentenza con cui dichiarerà cessato il rapporto di lavoro, addossando all’azienda una indennità pari a 2 mensilità di salario per ogni anno di servizio e, comunque, a un minimo di 4 mensilità e a un massimo di 24; 4. Nelle aziende con organico inferiore a 16 unità, anche se viene provata l’infondatezza del licenziamento, la sentenza dichiarerà cessato il rapporto di lavoro e prevederà solo una indennità pari a 1 mensilità di salario per ogni anno di servizio e, comunque, a un minimo di 2 mensilità e a un massimo di 6. Questo avverrà anche nel caso in cui l’azienda, per effetto di assunzioni successive, raggiunge o supera le 16 unità; 5. Infine, un micidiale colpo di mano viene assestato alla procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991 sui licenziamenti collettivi, nel senso che il Jobs Act, pur pensato per i licenziamenti individuali, si estende fino a quelli collettivi, decretando la cancellazione dei criteri stabiliti da quella legge per l’individuazione dei lavoratori da inserire nelle liste di licenziamento (carichi di fami- glia, condizioni economiche familiari, stato di salute, anzianità di servizio, età anagrafica, ecc.) e spalancando così le porte a discriminazioni arbitrarie ed inique. La “disoccupazione” I tg a reti renziane unificate parlano anche di una nuova giustizia negli ammortizzatori sociali grazie al “Naspi”, l’indennità di disoccupazione che entrerà in vigore dal 1 maggio prossimo. Se il Naspi è sicuramente un passo avanti per i precari parasubordinati (co.co.pro) e per tutto quel lavoro a chiamata e intermittente (per accedervi servono meno giornate contributive che in passato e l’importo è più alto), non bisogna dimenticare che per finanziare questo nuovo istituto saranno progressivamente smantellate Cassa Integrazione in Deroga e Mobilità. Si tratta di strumenti che fino ad oggi, anche se spesso desueti e non adattabili ad ogni situazione, hanno tutelato una larga fetta del mondo del lavoro in difficoltà. Se prima una mobilità durava 3 anni, ora con il Naspi siamo coperti al massimo per 2 e dal 2017 fino a un massimo di 18 mesi. Insomma, il governo ha calcolato di risparmiare circa 4,5 miliardi sull’abolizione dei vecchi ammortizzatori e quello che ha messo in campo per il Naspi sono 1,5 miliardi aggiuntivi ai 14 miliardi spesi per la vecchia indennità di disoccupazione. L’importo massimo sarà di circa 1.150 euro mensili nei primi mesi per poi calare a 700 euro, per un massimo di due anni per i lavoratori dipendenti (il doppio della durata odierna) e di sei mesi per gli atipici. Il tutto sarà condizio- nato all’accettazione dell’offerta di lavoro. E questo ultimo punto sarà da capire bene, anzi diventa il metro per misurare questa riforma dell’indennità di disoccupazione. Ma intanto non bisogna dimenticare che già da quest’anno la legge di stabilità non ha rifinanziato i contratti di solidarietà e ne ha ridotto l’indennità del 10%, mentre la durata della Cassa Integrazione in Deroga era stata dimezzata da un precedente decreto del ministro del lavoro Poletti, l’uomo delle Coop. La legge di stabilità, in compenso, abbuona miliardi alle imprese, non solo come esonero dal versamento di oneri previdenziali per le nuove as- Senza il reintegro il rapporto tra capitale e lavoro sarà disciplinato dal ricatto invece che dal diritto sunzioni (8.060 euro per ogni nuova assunzione), ma anche come riduzione dell’Imposta Regionale per le Attività Produttive, l’Irap, affossando così il sistema sanitario, che su quell’imposta basa grandissima parte delle sue risorse. Una legge, insomma, che la stabilità la offre su un piatto d’oro agli imprenditori, tra l’esultanza di Confindustria, mentre a chi lavora viene allegramente garantita l’instabilità, non solo sulle condizioni di lavoro (i cui diritti sono in via di cancellazione totale), ma anche sulle condizioni relative alla salute (sempre più alle prese coi tagli della spesa sociale e coi ticket in continuo aumento, con le liste di attesa di mesi e mesi e con la necessità di ricorrere a pagamento alla sanità privata). Elaborazione delle fattispecie di licenziamento a cura della Confederazione Cobas Pisa) 4 Livorno anno X, n. 102 URBANISTICA - Oltre alla Darsena Europa, il Prp prevede anche il solito mattone Come cambia il porto (e la città) Si tratta di altri interessi evidentemente, come ipotizzavamo. Forse si tratta del vero ed immediato grande interesse di tutta l’operazione, il vero obiettivo nascosto dietro lo specchietto della Darsena Europa: il raddoppio della Porta a Mare nella nuova Stazione Marittima. Rimaniamo proprio sull’area Stazione Marittima-Fortezza Vecchia. In base a quei numeri e superfici sopra elencati sul quartiere della Venezia, che dovrebbe essere per quell’area il naturale varco d’accesso alla città per i turisti (ed in questo senso sarebbe stato interessante approfittare del nuovo Prp per individuare in area portuale una zona dove spostare BERNANDO BUONTALENTI C ome è ormai noto, al di là dei contenuti specifici di adeguamento e rifunzionalizzazione delle aree portuali previsti, il tanto atteso ed invocato Piano Regolatore Portuale (Prp) a Livorno è vincolato all’approvazione di una Variante al Piano Strutturale adottata dalla precedente Amministrazione Cosimi. Con questa Variante, come più volte segnalato dall’Osservatorio Trasformazioni Urbane che su questa vicenda ha elaborato negli ultimi mesi e settimane relazioni e documenti critici, «c’è stato uno spostamento di parte del territorio comunale, già normato, dall’ambito comunale a quello portuale, con il conseguente e inopportuno spostamento di competenze dalla autorità comunale alla autorità portuale». Le aree interessate sono Bellana, Porta a Mare, Fortezza Vecchia e Stazione Marittima, ovvero quelle aree di interfaccia porto-città strategiche per armonizzare l’ambito urbano e cittadino con quello portuale. Ed è proprio su queste aree che andrebbe ad intervenire il Prp, che non è solo quindi Darsena Europa, per quanto il dibattito di quest’ultimo periodo sembra essersi concentrato solo su questa cosiddetta grande opera, sulla sua fattibilità, sulla sua sostenibilità finanziaria, sulla sua reale futura funzionalità. Nessuno infatti, ad eccezione proprio dell’Otu, ha sollevato riflessioni su cosa prevede il piano su queste aree. (segue da pagina 1) ...fondali a -16m per l’attracco delle maxi navi, ma come si collega tale quota -16m interna alla corrispondente quota -16m esterna? Dal disegno presentato al pubblico non si capisce, ma è un dato fondamentale, forse “il” dato fondamentale, perché per garantire costanza di quota sino al mare aperto le linee batimetriche dovrebbero essere collegate da una sorta di canale sul fondo marino “fuori” dal porto. Un canale di non piccole dimensioni, sia in larghezza, sia soprattutto in lunghezza: a vedere le mappe batimetriche attuali tale canale dovrebbe svilupparsi per non meno di 400 metri di lunghezza, ed interesserebbe il limite delle secche della Meloria. Ma di tale opera sulle carte non si vede traccia. Forse non è stata prevista oppure è stata prevista, ma non mostrata per non ingenerare allarmi sul come impatterebbe tale canale sottomarino, e soprattutto quanto costerebbe mantenerlo in continuo esercizio, ovvero evitare che si insabbi in un lasso di tempo ridotto. Sappiamo, da lettera- Approfondendo invece, di fronte all’incertezza quantitativa e temporale della questione Darsena, emerge come probabilmente gli appetiti più immediati di chi ha interessi sulle aree portuali si concentrano proprio sulle zone oggetto della contestata Variante (ambiti 5C1, 5C2, 5C3, 5C4). Appetiti da soddisfare in virtù di interventi legati a cemento e mattone. Analizzando il Piano sulla scorta delle valutazioni di un documento dell’Otu di metà febbraio emerge che: - L’area ex Cantiere e Bellana ad esempio, passando da area a servizi nel sistema insediativo, ad area portuale, grazie alla variante che, contestualmente, determina modifiche all’intero impianto del Ps e del Regolamento Urbanistico (Ru), producendo un aumento dei vani totali da 15.300 a 17.700. - La nuova Stazione Marittima (che ingloba anche la Fortezza Vecchia, già consegnata come sorta di indesiderata patata bollente, dalla precedente Amministrazione all’Autorità Portuale) determina il passaggio nella tipologia commerciale da 3.500 mq a 12.500 e senza che si indichi quale tipologia di struttura commerciale è stata pensata e come eventualmente questa si relazionerebbe con il commercio del quartiere Venezia e del Pentagono. – Il terziario passa da 20.000 a 22.000 mq, il turistico ricettivo da 10.000 a 11.000 mq, mentre i servizi pubblici decrescono da 76.000 a 55.000 mq. Giustamente ci si chiede cosa c’entra il contenuto di questa Variante che configura una ennesima, dopo la già devastante storia della Porta a Mare, speculazione edilizia fronte mare, con le questioni cruciali del Porto di cui parliamo in questo numero anche nel nostro articolo di apertura: alti fondali e Darsena Europa, la logistica, l’operatività, il trasporto merci e passeggeri, la riorganizzazione in terminal specializzati. Chiaramente niente. Oltre la Darsena Europa tura nota, che il fondo marino in quella zona nord si sia molto alzato nell’ultimo decennio, e se il progetto fosse stato impostato su dati non aggiornati sarebbe un problema anche per la questione dei fanghi. Il ruolo dell’Interporto Gli stessi discorsi dei grandi maghi della logistica e delle opportunità da non perdere li abbiamo sentiti anche quando c’era da progettare l’Interporto. Nelle precedenti fasi di lungimiranza, nel 2007, fu siglato l’Accordo di Programma PisaLivorno per lo sviluppo costiero che partì con dei 26 preziosi milioni di euro erogati dal Cipe per arrivare poi al recente rifinanziamento da parte di Regione Toscana e Mps. Ma l’Interporto non ha mai avuto quel successo da tutti ipotizzato, anzi ha avuto bisogno di essere sostenuto da soldi pubblici per non sprofondare. Neanche il 10% delle merci complessive passate tra banchine e navi si è fermato all’Inter- porto dalla sua costruzione ad oggi. E nel futuro il suo ruolo strategico sarà sempre più marginale: se fosse realizzata la Darsena Europa, la nave arriverebbe a banchina, i servizi disporrebbero le merci sui grandi piazzali per poi essere spedite immediatamente attraverso la nuova ferrovia (o su gomma) per la destinazione finale. Cosa diventerà l’Interporto Vespucci? Domande finali Alcune domande nascono quindi spontanee. È possibile adeguare il porto esistente a questo cambiamento storico visto che fino ad oggi ha funzionato a scartamento ridotto? Sono stati ipotizzati altri progetti che risolvano la situazione senza avvicinarsi alla Meloria? Questi anni di inefficienza dove l’Autorità Portuale ha avuto difficoltà anche solo a fare un dragaggio e la scusa erano sempre i tubi Eni, potranno essere sanati solo da una nuova infrastruttura in mezzo al mare? Sono domande semplici, da profani, ma che vorrebbero riportare il dibattito sulla pura razionalità liberandolo dall’eccitamento dei tanti appalti e dall’enfasi elettorale. In Italia non mancano certo investimenti faraonici dimostratisi poi del tutto fuori target e che presto si sono rivelati fallimentari e con impatto occupazionale di lungo periodo vicino allo zero. Attenti, quindi, ai venditori di fumo e ai Paperoni con i dollari stampati sugli occhi. A loro bastano soluzioni di breve periodo per soddisfare appetiti politici e di profitto, a noi servono soluzioni lungimiranti e calibrate perché di proclami sul rilancio della città ne abbiamo già sentiti troppi: il rilancio del commercio cittadino con il parcheggio dell’Odeon, il rilancio della logistica con l’Interporto Vespucci, il rilancio del turismo con il progetto Porta a Mare e il rilancio dell’occupazione, dell’industria e gli sgravi in bolletta con l’energia del rigas- “Non si sa se tutto questo commercio, ad esempio, sarà fatto di negozi singoli, centri commerciali e medie strutture” il Rivellino così da liberare e riqualificare in chiave ricettivoturistico-culturale tutta l’area dei Vecchi Macelli e del Forte San Pietro), incombe lo spettro di una sorta di “cittadella commerciale” che tratterrebbe così al suo interno proprio quei turisti ai quali vorremmo far conoscere meglio questa nostra amata e maledetta città. sificatore. E invece fino ad oggi sono serviti tutti per ungere classi dirigenti, imprenditori e professionisti con i soldi pubblici pagati con le nostre tasse. Infine esiste il problema di tutte quelle parti immobiliari e commerciali di confine tra porto e città a cui il piano strutturale del Comune deve adeguarsi e che devono essere oggetto di un’analisi a parte. Insomma, se sulle necessità strutturali del porto di Livorno siamo quasi tutti d’accordo, la variante anticipatrice che il Consiglio Comunale si trova a votare non è un referendum sulla Darsena Europa, ma un insieme di questioni vaste (dalla Bellana alla Scolmatore) e che spaziano dalle banchine, ai bacini, alle case fino ai centri commerciali. E tutte queste questioni sono taciute e nascoste dietro il bandierone della Darsena Europa che tutti sventolano. Ma dietro quel bandierone si muovono tanti interessi. E il futuro della città. Redazione in uscita dal 14 marzo 2015 5 Livorno PRIVATIZZAZIONE - Come si può valutare 6,6 milioni di euro una società che ne farà quasi 10 di utili? Porto 2000: un regalo ai privati JOLLY HIDALGO COOKE T orniamo ad occuparci della privatizzazione della Porto 2000, perché è un processo che riguarda un bene pubblico e quindi la vigilanza dei cittadini deve essere massima affinché non si sperperino soldi pubblici. Facciamo due conti in tasca alla società e alle sue potenzialità, anche se per queste cose, se ce ne sarà bisogno, c’è una Corte dei Conti che vigila appositamente valutando se un bene pubblico viene svenduto o meno. Partiamo dal concetto che non esiste una privatizzazione nel mondo nel settore trasporti, da quella della regolazione del traffico aereo dell’81 in Usa ad oggi, che generi occupazione e un rapporto positivo investimenti-occupazione. In Italia abbiamo il massimo esempio della svendita nell’Iri, da parte di Prodi, la cui operazione ha soltanto regalato profitti ai privati su beni dei cittadini e soprattutto sulla pelle dei lavoratori le cui condizioni sono sempre peggiorate in questi passaggi. La Porto 2000 è per il 72% della Port Authority e per il 28% della Camera di Commercio. La PA secondo la legge 84/94 deve far scendere le sue quote sotto al 50% ma nessuno dice che non sono previsti vincoli e sanzioni (vedasi paragrafo 5b della sentenza 4667 del 2014 del Consiglio di Stato). I n Toscana è scoppiato il caso “nocività delle condutture di acqua potabile in cemento amianto”. Grazie soprattutto ad alcuni militanti di Medicina democratica (Md) di Firenze, la questione è diventata un caso nazionale. A Livorno il problema è ancora più preoccupante rispetto a Firenze: a quanto si legge sul sito dell’Autorità idrica toscana (Ait) le tubazioni Asa Spa nel Comune di Livorno sono per 157,53 km di cemento-amianto su 450,20 totali dell’acquedotto, cioè il 35,03%. Percentuale ben superiore alla media toscana, che è del 6%, e a quella di Publiacqua (provincia di Firenze) che è del 3,6%. Secondo i dati la rete di Asa è di gran lunga quella “messa peggio” in Toscana con il 14,7%. Particolarmente grave la situazione di Cecina con il 37%. A Livorno, l’Asa ammette candidamente di non prevedere alcuna sostituzione delle tubature. Come le sue consorelle toscane, pare molto più interessata a contenere al massimo i costi a vantaggio dei propri azionisti, anche privati. E la salute dei cittadini? Quando nell’ottobre 2014 Md di Livorno chiese informazioni all’Asa sul cemento amianto nelle tubature, la società fornì dati largamente inferiori a quelli citati, Non si vuole prendere in considerazione, come avvenuto per esempio a Venezia con Vtp Spa, la cessione a un ente o società pubblica (potrebbe essere Spil tramite l’emissione di obbligazioni o la regione che pare al momento abbia un sacco di milioni di euro da spendere…). Diciamo questo perché la società porta profitti e non perdite. Oggi a capo della Porto 2000 c’è il numero due dell’Autorità Portuale (Ap), Provinciali, dopo l’allontanamento di Piccini, titubante sulla privatizzazione. Il presidente dell’Ap Gallanti e Provinciali stanno, invece, andando spediti verso il bando di gara che pare verrà pubblicato in questi giorni. Le domande però sono ancora molte, vediamo quali. Innanzitutto, perché nel Piano Operativo Triennale (Pot), redatto dalla stessa Autorità Portuale, a pagina 83 si dice che non verrà fatta alcuna gara finché prima non sarà adottato il Piano Regolatore Portuale? La pre- sa di posizione contenuta nel Pot ha molto senso poiché nel nuovo Prp è prevista una sistemazione degli accosti con lo spostamento delle attività della Compagnia Impresa Lavoratori Portuali (Cilp) dall’Alto Fondale al Molo Italia. Al momento, nessuno ne parla, ma la Porto 2000, nonostante il socio di maggioranza sia la PA, cioè la proprietaria delle banchine, paga una sorta di sub-affitto di circa 900 mila euro annui per le banchine dall’accosto 43 al 47 dell’Alto Fondale (anche se in concessione a Cilp fino al 2024, le quali non vengono usate a pieno regime, anzi le navi da crociera superano in numero quelle di cellulosa). Questi soldi per chi acquisterà la società, non verranno più spesi una volta approvato il Prp e aumenteranno l’attivo di bilancio della società. Cilp possiede all’Alto Fondale, dove dovrà andare la Porto 2000, un capannone per depositare la cellulosa, questo dovrà essere trasferito in zona mk, ma al momento c’è solo un progetto. La domanda è: una volta approvato il Prp, si sposterà davvero Cilp? Quanto tempo passerà dall’approvazione del Prp alla sua attuazione? Quando libererà l’Alto Fondale (rinunciando ai soldi di Porto 2000)? La Porto 2000 è una società sana e in attivo. Il 2014 è stato l’anno di massima flessione del traffico passeggeri con circa 640.000 crocieristi (erano oltre 1 milione nel 2012 con oltre 2 milioni di utile, pagando sempre per l’accosto alla Cilp) ma l’attivo di bilancio è stato comunque superiore al milione di euro. Le previsioni del 2015 parlano di 680.000 crocieristi e circa 800.000 nel 2016. Come utile si può parlare, considerando il risparmio dei soldi alla Cilp in base all’attuazione del nuovo Prp, di circa 2,5 milioni di euro annui. La valutazione dell’advisor Kpmg interpellato da Gallanti, ha valutato le quote possedute dalla PA in 5 milioni di euro (6,6 il totale). Ma adesso dobbiamo smontare questa cifra ridicola con semplici calcoli matematici. La concessione in monopolio scade il 31 dicembre 2019 e ciò significa un utile, per i restanti 4 anni, di circa 10 milioni di euro se il Prp sarà attuato. Non si riesce a capire come sia stato possibile fare una valutazione della società di 6,6 milioni. Sono 3,4 milioni di euro regalati al privato, oltre al monopolio del traffico passeggeri. La concessione nel bando sarà forse prorogata al 2030 (si dice addirittura che la scadenza la metteranno i partecipanti in base al loro piano industriale). Serve valutare una base d’asta che consideri gli introiti annui di circa 2,5 milioni. L’utile potrà essere poi incrementato in base al piano di sviluppo e agli investimenti del privato a cui carico ci dovrà essere il rischio d’impresa. In tutto questo ballare di enormi soldi pubblici dobbiamo aggiungere la scadenza del mandato di Gallanti che ufficialmente è fissata ad aprile 2015. A lui succederà un commissario che non avrà pieni poteri decisionali come per esempio il rilascio di concessioni. Riteniamo dunque che una decisione così importante debba essere presa dal prossimo presidente dell’Authority, che con pieni poteri si assuma la responsabilità di tale operazione. Se la società porta utili, perché non si cedono le quote a una società pubblica o partecipata come Spil o alla Regione? AMBIENTE - La denuncia di Medicina Democratica sulle condutture di acqua potabile Liscia, gassata o... all’amianto? segno quanto meno di una sottovalutazione. E alla richiesta di avere la pianta dell’acquedotto, l’Asa rispose, incredibilmente, citando una risoluzione europea del 2004 che definisce strategici e quindi segreti i servizi la cui distruzione potrebbe ledere la sicurezza degli europei. Risposta assurda che nasconde solo la volontà di non permettere ai cittadini di tutelare la propria salute: L’amianto presente nelle tubazioni dell’acqua potabile può essere molto pericoloso la sicurezza degli europei si garantisce innanzitutto con la trasparenza! Nella citata risposta a Md di Livorno, Asa riportò anche la tesi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) secondo la quale “non esiste alcuna prova seria che l’ingestione di amianto sia pericolosa per la salute”. La questione è molto dibattuta, però è almeno dal 1994 che esistono studi che dicono il contrario. Significativa la recente monografia curata dalla Iarc (International Agency for Research on Cancer), in cui si sostiene che l’amianto ingerito è pericoloso quanto quello respirato. L’ingestione è considerata dalla Iarc “esposizione primaria” al pari dell’inalazione, e sono riportati gli esiti drammatici di un test su topi: su 75 cavie che hanno ingerito amianto, 18 si sono ammalate di tumori dopo pochi mesi. Il rapporto conclude, pertanto, che le fibre di amianto presenti nell’acqua sono pericolose, senza contare che possono essere anche respirate lavando i pavimenti, asciugando i panni o facendo la doccia. Ci sono volute decine di anni di dure battaglie contro le lobby industriali per mettere al bando l’amianto. Uno studio pubblicato dal “British Journal of Cancer” nel 1999 dimostrò che almeno 400mila persone potevano essere salvate se si fosse provveduto appena furono disponibili le prove scientifiche della nocività. Dovranno morire altre persone prima che si arrivi a sostituire le tubazioni all’amianto? Noi riteniamo necessario che: 1- A partire dal 2015 sia predisposto un piano triennale di eliminazione delle condotte in amianto, in piena sicurezza per i lavoratori. 2- Sia avviato un piano di monitoraggio che verifichi il livello di contaminazione dell’acqua potabile, utilizzando i più moderni sistemi di rilevamento. 3- Siano resi noti in tempo reale i risultati delle analisi delle acque e i punti di prelievo dei campioni. 4- Venga impedito l’uso di polifosfati di zinco come biofilm all’interno delle tubature in amianto per ridurre la cessione di fibre. Tale sostanza può essere infatti molto pericolosa. Queste sono le “grandi opere” utili. I soldi, se si vuole, ci sono, e lo dimostra il fiume di denaro sperperato in opere inutili e dannose come i 130 milioni di euro regalati in appena due anni al rigassificatore di Livorno. M.Z. (Md Livorno) 6 per non dimenticare anno X, n. 102 FIAT 600 - 60 anni fa (marzo 1955) veniva presentata l’auto che sarebbe diventata uno status symbol L’epoca d’oro del fordismo all’italiana NELLO GRADIRÀ P rima della Seconda Guerra Mondiale il tentativo di introdurre in Italia il modello fordista era fallito. Negli anni ‘30 Mussolini aveva chiesto ad Agnelli di produrre una vettura che costasse meno di 5mila lire, e la Fiat mise sul mercato la Topolino che però con un prezzo di 8.900 lire rimaneva inaccessibile per le classi popolari. Dopo la guerra il Piano Marshall permise di importare in Italia le modalità di produzione americane. Alla Fiat andarono più del 12% degli aiuti concessi all’industria italiana (il 26,4% dei fondi destinati al settore meccanico e siderurgico). In cambio però gli americani pretesero l’espulsione dalla fabbrica dei militanti sindacali e politici di sinistra. A partire dal 1949 il presidente della Fiat Vittorio Valletta mise in atto una sistematica strategia di discriminazione degli operai social-comunisti. Furono diverse migliaia i licenziamenti per “motivi disciplinari”, e coloro che non furono licenziati vennero “confinati” all’Officina Sussidiaria Ricambi, fuori da Mirafiori, ribattezzata “Officina Stella Rossa”. La Fiom, che prima del 1952 aveva circa il 65% dei consensi, alle elezio- ni del 1955 crollò al 37%. Vittorio Valletta, nato a Genova nel 1883, durante la Grande Guerra aveva aderito alla Massoneria. Nel 1939 era diventato amministratore delegato della Fiat, e al momento dell’entrata in guerra si impegnò ad assicurare al governo le forniture belliche richieste, chiedendo però che le autorità garantissero l’ordine interno militarizzando la fabbrica. I dipendenti furono assoggettati alle disposizioni del Codice Militare di Guerra. Nel 1945 Valletta fu epurato per collabora- zionismo con i tedeschi, ma l’anno successivo venne reintegrato vista la carenza di dirigenti esperti nel settore. Nominato presidente, rimase in carica fino al 1966. Negli anni ’50 Valletta impone alla Fiat una gerarchia rigidissima, caratterizzata da una disciplina assoluta. Gli operai indossano una tutta blu, i capireparto una giacchetta nera ed un distintivo che riporta il loro grado. Al “bastone” viene affiancata la “carota” di iniziative assistenziali e incentivi economici che garantiscono la pace sociale. La fedeltà all’azienda è finalizzata a raggiungere un livello di produttività che può permettere salari più alti trasformando gli operai in potenziali acquirenti del prodotto automobilistico. Il 9 marzo del 1955 al salone dell’auto di Ginevra viene presentata la Fiat 600: velocità massima 90 kmh, 14 km con un litro, costa 600mila lire e si può acquistare a rate. È la prima vera auto di massa italiana e diventa uno status symbol per le classi popolari. Nello stesso anno il Parlamento vara un piano decennale per la costruzione di autostrade, e Valletta decide insieme ai massimi dirigenti dell’Iri perfino i tracciati autostradali. Nel 1947 in Italia circolavano poco più di 184.000 automobili, appena una ogni 123,5 abitanti. Nel 1950 erano diventate 342.000, e nel 1956 si superava il milione di unità, mentre i televisori, che costavano più del doppio di una Seicento, erano ancora meno di 400.000. Nel 1964 le auto private in circo- lazione arriveranno a 4.670.000. Mirafiori, dove vengono prodotti quasi tutti i componenti, diventa in pochissimi anni un immenso stabilimento con un perimetro di oltre dieci chilometri, e i dipendenti Fiat, che nel 1950 erano 20.000, nel giro di vent’anni saranno quasi triplicati. Torino, che alla fine della guerra aveva circa 600.000 abitanti, nel 1961 raggiunge il mi- Il miracolo economico tra repressione in fabbrica e motorizzazione di massa lione, grazie soprattutto all’immigrazione dal Sud: solo nel quinquennio 1955-60 i meridionali che si trasferiscono a Torino furono quasi 85.000. Della Seicento vennero prodotti più di 5 milioni di esemplari, dei quali 2.700.000 a Torino e il resto all’estero (Germania, Spagna, Cile, Argentina, Jugoslavia). Rimase in produzione fino al 1969, l’anno dell’autunno caldo e della riscossa operaia. ÓSCAR ROMERO - 35 anni fa moriva, per mano di un cecchino degli squadroni della morte, un prete scomodo FRANCO MARINO Ó scar Arnulfo Romero y Galdámez fu arcivescovo di San Salvador tra il 1977 e il 1980. Erano gli anni dell’apice della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, fra l’organizzazione della Cia del golpe Pinochet del 1973, passando per la rivoluzione sandinista in Nicaragua del 1979 che scalzò il pluridecennale dittatore Somoza amico del governo statunitense, fino all’invasione sovietica dell’Afghanistan iniziata nel 1979. Erano anni di riposizionamenti strategici, e negli Usa la dottrina politica dell’epoca vedeva nel Sudamerica il cosiddetto “giardino di casa” (dottrina Monroe, 1823), un’area saldamente all’interno della sua sfera di influenza dove non era possibile tollerare dei regimi ostili, cioè comunisti o simili. Qualunque alternativa era preferibile tanto che gli Stati Uniti fornirono aiuti, appoggio e addestramento a regimi militari, spesso estremamente brutali, che rispondevano dal punto di vista economico alle sirene del capitalismo liberista di Milton Friedman e della scuola di Chicago. Quasi ovunque la gerarchia ecclesiastica si schierò a fianco di questi regimi in nome L’arcivescoco che non piaceva a Wojtyla della lotta al marxismo. Anche in reazione a questo fenomeno, nacque in Sudamerica una corrente interna alla chiesa chiamata Teologia della Liberazione, di cui facevano parte anche molti gesuiti (Papa Francesco se ne è sempre tenuto distante). La Teologia della Liberazione predicava una Chiesa vicina ai più poveri e, nella sua versione più estrema, una vera e propria aderenza all’analisi della società fatta dal marxismo. Altri sacerdoti arrivarono a predicare il rifiuto della comunione per i ricchi, mentre altri ancora parteciparono attivamente ai movimenti rivoluzionari di ispirazio- ne socialista o comunista e molti sacerdoti parteciparono alla guerriglia sandinista in Nicaragua. Romero nel 1977 quando divenne arcivescovo di San Salvador era distante dalla Teologia della Liberazione e criticava la guerriglia armata della sinistra marxista contro la dittatura militare, ma il contesto in cui si trovò ad operare cambiò ben presto la sua visione. Nel Salvador governava una giunta di derivazione militare che fu a sua volta deposta da un colpo di stato nel 1979. La nuova giunta militare si distinse subito per la feroce repressione degli squadroni della morte durante le manifestazioni di protesta e per la persecuzione di coloro che si erano organizzati nel Fronte Democratico Rivoluzionario. In quei mesi, dopo aver brevemente creduto che il colpo di stato del 1979 potesse rappresentare una svolta liberale per il paese, Romero era ormai diventato uno dei più accesi critici del governo. Nel 1980 scrisse al presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, chiedendogli di cessare l’invio di aiuti al governo del Salvador, ma con l’arrivo di Reagan il sostegno alla giunta addirittura aumentò tanto che chiese ai governi di Guatemala e Honduras di sostenere la giunta militare contro i “comunisti”. Romero cercò anche di coinvolgere papa Giovanni Paolo II, che lo ricevette in Vaticano e a cui spiegò che era impossibile sostenere il governo di El Salvador perché appoggiava le torture e gli assassinii compiuti dai gruppi paramilitari. Wojtyla lo trattò con grande freddezza, esortan dolo anzi ad andare d’accordo con il governo. “Non mi sono mai sentito così solo come a Roma”, raccontò l’arcivescovo ad una fedele. Il 24 marzo 1980 Oscar Romero fu colpito da un colpo di pistola partito da un’auto con la portiera aperta mentre faceva un sermone di denuncia contro tortune e sparizioni. Nessuno rivendicò ma tutti sapevano che i mandanti erano nella giunta militare. Solo post mortem, nel 1983, durante un viag gio in Sal va dor, Giovanni Paolo II si recò a pregare sulla tomba di Romero. Non andò molto oltre nominandolo “servo di Dio” nonostante sia stato il Papa che abbia “fabbri cato” il maggior numero di santi e beati della storia. La pratica per la beatitudine di Romero è stata sbloccata poche settimane fa su pressione di Papa Francesco. Ma queste sono questioni istituzionali e di forma a distanza di 35 anni. Nella sostanza, per l’ennesima volta, le gerarchie ecclesiastiche giocarono il ruolo di complici dei fascisti e dei torturatori. Romero denunciò omicidi e torture della giunta militare. Fu ucciso tra l’indifferenza della Chiesa e l’ostilità degli Usa in uscita dal 14 marzo 2015 7 stile libero SUONI - Dopo Fumatori della sera (2011), l’atteso nuovo lavoro in studio dei Carneigra I Carneigra, uno dei progetti musicali più originali nati a Livorno negli anni 00, sono tornati sulla scena con una nuova formazione e con un nuovo brillante disco: A vita bassa, realizzato grazie ad un’azzeccata campagna di autoproduzione che ha riscosso molte adesioni ed attenzioni. Abbiamo intervistato per l’occasione Emiliano Nigi, da sempre l’anima e la voce del gruppo, che insieme al batterista Daniele Paoletti (già con i Carneigra dal 2012) ed al chitarrista e compositore fiorentino Francesco Canavese, vanno a formare questo nuovo trio. Dopo un periodo di “crisi” i Carneigra sono tornati. Sì, siamo tornati dopo circa due anni di assenza. In realtà non la chiamerei crisi, in questi due anni sono successe molte cose, soprattutto dentro la mia testa... No a parte gli scherzi, lasciare una situazione che va avanti da dieci anni e iniziarne una nuova ha bisogno di tempo, come in tutte le relazioni. Chi sono e cosa vogliono essere oggi i Carneigra? Oggi i Carneigra sono Emiliano, Daniele e Francesco. Oggi i Carneigra sono i Carneigra, nel senso che la sostanza non è molto cambiata, sono sempre io a scrivere i pezzi, quindi le tematiche e lo stile credo sia sempre abbastanza riconoscibili (anche se spero di aver fatto dei progressi, almeno nella forma). A vita bassa Da cosa siete ripartiti e con quali nuove prospettive e stimoli? Siamo ripartiti dalle canzoni, come sempre, e da una voglia di lavorare insieme che è cresciuta strada facendo. Già da un po’ di tempo collaboriamo con Daniele e quindi sapevo che mi sarei trovato bene con lui, ma Francesco per me era un’incognita, abbiamo detto: “proviamo e vediamo cosa succede”. Adesso posso dire di essere estremamente fortunato ad avere l’opportunità di lavorare con lui. Sta per uscire il vostro nuovo disco. Sì, sta per uscire il nuovo disco A vita bassa, ancora un’autoprodu- zione, ma stavolta non l’abbiamo fatta da soli, abbiamo chiesto aiuto a chi crede nel progetto e a chi già ci c o n o s c eva , insomma abbiamo fatto un progetto di crowdfunding ed è stata una bellissima sorpresa, molto emozionante. Elementi di continuità e di differenza rispetto ai precedenti? Se da un lato, come dicevo prima, i testi e le tematiche credo abbiano una certa coerenza con i preceden- ti, a livello sonoro il cambio è quasi totale. Dico quasi perché mi piace considerarlo come un proseguimento dei precedenti. La differenza è ovvia non solo dalla diversità degli strumenti (Fumatori della sera era un disco acustico che utilizzava mandole, mandolini etc., mentre qui abbiamo chitarra elettrica, batteria e batteria elettronica), ma anche dallo spirito da cui siamo partiti: mescolare la canzone d’autore con nuove sonorità, imbastardirla, renderla più ruvida. Raccontaci la storia produttiva del disco. La storia è stata comune a molte altre storie, nel senso che ci siamo rinchiusi in una stanza per un po’ di tempo e abbiamo iniziato a lavorare all’inizio io e Francesco cercando di arrangiare alcune idee che avevo in mente, poi con Daniele i pezzi prendevano più forma, fino ad arrivare in studio più o meno con le idee chiare. Qui ci ha accolto il sapiente Antonio Castiello che, come in tutti i dischi dei Carneigra, ha messo lo zampino con consigli e suggerimenti preziosi. La cosa buffa di tutto questo processo è che abbiamo registrato il disco e praticamente non abbiamo mai suonato insieme dal vivo. Di cosa parla questo nuovo disco? A vita bassa affronta varie tematiche. Fondamentalmente è una foto degli ultimi due anni, non solo della mia vicenda personale, ma soprattutto del momento che stiamo vivendo sia a livello politico che sociale. Gli ultimi due anni sono stati devastanti a livello mondiale, c’è stato un tracollo sia a livello economico che sociale che cultura- “Mescolare la canzone d’autore con nuove sonorità, imbastardirla, renderla più ruvida” le, questo disco vuole essere una piccola testimonianza. Una strofa che ne racchiude il senso? “Brucia l’Italia, brucia perché non ha più i sogni con sé”. Info: carneigra.it A cura di Lucio Baoprati LETTURE - Una nuova raccolta di racconti del poliedrico artista labronico Valerio Michelucci Sognare e svegliarsi a Livorno VITA FINI ROGNONI C he sia solo sognata, la Livorno del suo libro, Valerio Michelucci ce lo dice già dalla copertina. Il volumetto pubblicato lo scorso anno (dicembre 2014) da Belforte Cultura, porta infatti un titolo romantico, “Livorno sognata”, subito smorzato nel sottotitolo: “trentatre racconti semi seri, mezzo veri, dai Medici ai dottori”. Si tratta di alcuni scritti apparsi sulla rubrica Ti picchio lunedì curata nel 2013 dallo scrittore sul sito piratiesirene.it (parte dei quali già pubblicati, sempre per Belforte Cultura, nell’omonima pubblicazione del giugno 2014) adesso raccolti, insieme ad altri racconti inediti, in una elegante veste cartotecnica che coinvolge gli artisti livornesi Francesco Ripoli, autore dell’illustrazione di copertina, Diego Bisso, che firma invece la quarta, e Stefano Pilato, autore della pianta di Livorno che contiene indizi sulle location dei racconti. Come nei copioni o nelle sceneggiature cinematografiche, al lettore viene offerta un’indicazione di tempo e luogo, ma il tecnicismo è fornito solo per essere stravolto dall’azione che andrà in scena: così la passeggiata mattutina con il cane, il picnic al mare con la famiglia o la pesca di fronte alla Vegliaia sono spunti biografici attraversati dall’immaginazione dell’io narratore autoriale che, girovago e sognatore, appunto, incontra personaggi tra i più disparati: da Steven Spielberg a Maradona, dal Dalai Lama per “Nell’unto del mio piatto, sotto ai gusci impilati di cozze, cerco un appiglio per non affogare” arrivare a Garibaldi, e moltissimi concittadini, rappresentanti di tutte le epoche, più o meno ordinari, del nostro pittoresco microcosmo cittadino. L’incontro è occasione di scambio e dai dialoghi, che dal mondo reale traggono solo il pretesto, sempre deliziosamente labronico, si dipanano narrazioni che seguono il filo dell’aneddoto o quello della pura riflessione in una logica che, proprio come accade nei sogni, ricorda molto quella delle scatole cinesi. Il libro è dedicato ai leggeri, ma Michelucci, che è anche artigiano e artista (sua e di Stefano Pilato è la Bomba appesa tra i palazzi all’entrata del mercato di piazza Cavallotti) coniuga la spensieratezza e il gusto per la sempli- cità delle cose buone (il frate, i tramonti, le acciughe, l’adorato cane Tito) con critiche fondate alla nostra noncuranza talvolta indolente, che è virtù del viver bene, ma diviene talvolta pericolosa condanna all’oblio; critiche all’amministrazione, passata e ventura (molti dei racconti sono stati scritti prima del 9 giugno 2014) che scegliamo per la nostra amata e luminosa città; critiche bonarie rivolte a un noi collettivo col sorriso beffardo di chi conosce la propria realtà ma non ha problemi a smontarla con un giro di sogno, con una parola chiave urlata e strascicata nel vento o con un plurale volutamente sbagliato. I sogni di Michelucci hanno l’indiscutibile merito dell’ironia, perché con una leggerezza per niente casuale l’io narratore affronta epoche e personaggi molto diversi, da un punto di vista e un linguaggio sempre fresco nella sua vivacità, e mai banale. Il risultato è una passeggiata che si fa volentieri a braccetto con Michelucci, attraverso i suoi sogni popolati e riflessivi, impegnati ma a tratti leggeri, su quello che saremmo potuti essere ma che, abbastanza spesso, non siamo diventati. Pagina Otto ANNO X - n. 102 - in uscita dal 14 marzo 2015 TITO SOMMARTINO B ritt abita a poche centinaia di metri da Anfield. Oltre a parlare un buon spagnolo scopro che è tedesca e tifa Sankt Pauli. Lavora esattamente di fronte alla Kop, la curva calcistica forse più famosa del mondo, in una cooperativa sociale che svolge una curiosa, duplice attività: bakery (panetteria/pasticceria con possibilità di mangiare a colazione e pranzo) e progettazione di edilizia popolare, collettiva e comunitaria allo scopo di creare lavoro per le imprese sociali, alloggi a prezzi accessibili e spazi per socializzare e vivere un quartiere, quello di Anfield, in profonda depressione. “Il Liverpool - racconta Britt - ormai è un brand multinazionale in mano a una società americana che ha totalmente abbandonato qualsiasi relazione con il territorio. Non come l’Everton, che pur essendo più povero come club continua ad essere impegnato sul sociale e non ha mai smesso di investire sul territorio”. Parole stridenti perché risuonano mentre lo sguardo fissa oltre la finestra della bakery l’insegna del Paisley Gateway, il cancello che dà accesso alla Kop e al museo del Liverpool Football Club. Sin dalla mattina lo stadio di Anfield è una lenta e continua processione. Colpisce favorevolmente l’ubicazione dell’impianto, in mezzo alle case, senza cancellate e muri di cinta. Ci sono gli immancabili turisti calcistici del terzo millennio (molti dei quali con gli occhi a mandorla) che arrivano in taxi e dopo essersi fatti un selfie davanti alla statua di Bill Shankly eseguono la visita guidata al museo, escono e rientrano nell’adiacente shop ufficiale, riempiono il carrello, pagano e poi vanno a mangiare uno scadente fish&chips da 10£ nel bar-ristorante dello stadio. Molti di loro, c’è da giurarlo, neanche entreranno allo stadio la sera per il match di Europa League contro i turchi del Besiktas. Ma gliene importerà il giusto. E se lo faranno sarà perché hanno tirato fuori una fraccata di soldi rivolgendosi ad agenzie private via internet, l’unico modo possibile per entrare in stadi particolarmente appetiti come Anfield. Si tratta di abbonamenti di cui viene venduta la singola partita per cifre esorbitanti. Abbonamenti nominali e quindi non vendibili a terzi. Ma in Inghilterra, a differenza dell’Italia, nessuno chiede i documenti di identità all’ingresso. Il biglietto più economico per assistere alla partita, costato 27 sterline agli abbonati, veniva rivenduto ad un prezzo minimo di circa 130 sterline. Tanto per avere un’idea della mole del business. Sul marciapiede opposto alla Kop ci sono due o tre pub e altrettanti paninari e venditori di sciarpe, cappellini, magliette. Ma soprattutto c’è l’Hillsborough Justice Campaign, l’associazione dei familiari delle vittime della tragedia di “Hillsborough”, lo stadio di Sheffield in cui il 15 aprile 1989 persero la vita 96 tifosi del Liverpool e 766 rimasero feriti durante una semifinale di Coppa d’Inghilterra contro il Nottingham Un giorno ad Anfield CALCIO - Dalla mattina alla sera fuori e dentro uno dei templi mondiali del calcio: quello di Anfield, a Liverpool. Shankly, Paisley e la Kop, You’ll Never Walk Alone e il ricordo vivo della tragedia di Hillsborough, la rimonta leggendaria di Istanbul e le 5 Coppe dei Campioni. Ma anche una tifoseria ormai spogliata della sua identità, piegata al cosiddetto “modello inglese”. Forest. Grazie a Stefano, tifoso livornese col cuore per metà amaranto e per metà red, conosciamo Steve e Cherie. È merito loro e di chi li affianca se è finalmente emersa una verità giudiziaria totalmente opposta a quella che il governo Thatcher, appoggiato da tv e giornali conniventi (a cominciare dal The Sun che dopo la tragedia sbatté in prima pagina perfino presunti atti di depredazione dei tifosi degli Scousers nei confronti dei cadaveri all’interno dell’impianto). Solo nel settembre del 2012 il governo inglese ha ufficialmente riconosciuto le colpe della polizia e scagionato definitivamente la tifoseria dei Reds. Dal nuovo lavoro d’indagi- Ci danno il benvenuto due cartelli: il primo ti ricorda il divieto di fumare, il secondo ti invita a fare la spia in caso di comportamenti illeciti ne è inoltre emerso che la polizia avrebbe “indirizzato” i media britannici verso una versione dei fatti diversa da quanto realmente accaduto, modificando a loro favore anche 164 testimonianze di chi era presente allo stadio, con l’intento di assolvere poliziotti e soccorritori dalle loro colpe e manchevolezze. La tragedia fu inol- tre strumentalizzata per orientare favorevolmente l’opinione pubblica britannica verso una stretta repressiva finale nei confronti degli hooligans, portata avanti dal governo Thatcher ed avallata dalle conclusioni del rapporto Taylor. Ad un paio d’ore dall’inizio della partita manca ancora una cosa: una birra al The Park. Il The Park non è un pub, è “il” pub. Il pub della Kop, alla stregua del dirimpettaio The Albert, che negli anni ’70 e ’80, se non eri un red, avevi timore solo ad avvicinartici. Qua dicono: “The Park before, The Albert after”. Entriamo ed è un boato: lo Young Boys ha appena segnato all’Everton. Che poi si rifarà con gli interessi, segnandone 4 ai malcapitati svizzeri. Il pub è strapieno e si cantano i cori mitici dei Reds: Fields of Anfield Road, Pour Scouser Tommy, When the Reds go marching in. Ci sono anche alcuni tifosi del Besiktas. Segno dei tempi. Le strade che circondano Anfield si sono intanto riempite di tifosi turchi. Molti hanno le sciarpe dei Çarşi, la tifoseria organizzata del Besiktas, coloro che hanno guidato le recenti rivolte ad Istanbul e di cui abbiamo parlato nel numero 100 di Senza Soste. Per entrare allo stadio c’è un solo tornello e nessuna perquisizione. Ci danno il benvenuto due cartelli: il primo ti ricorda il divieto di fumare, il secondo ti invita a fare la spia in caso di comportamenti illeciti da parte di qualche tifoso. Pochi passi e ci imbattiamo in un’agenzia di scommesse sportive. Lo stadio, a mezz’ora dal fischio d’inizio, è semivuoto. Le file sono strettissime e le poltroncine anguste. Quelli del Besiktas sono già tutti rigorosamente in piedi, cantano e non smetteranno più fino all’86’. Tranne due o tre momenti si sentiranno solo loro. Il primo momento è quello che da solo vale il prezzo del biglietto. Tutta Anfield si alza in piedi, mostra le sciarpe in alto e tira fuori la voce: When you walk through a storm - Hold your head up high - And don’t be afraid of the dark - At the end of the storm - Is a golden sky - And the sweet silver song of a lark - Walk on through the wind - Walk on through the rain - Though your dreams be tossed and blown - Walk on walk on with hope in your heart - And you’ll never walk alone - You’ll never walk alone - Walk on walk on with hope in your heart - And you’ll never walk alone - You’ll never walk alone. I decibel non sono quelli degli stadi greci, ma si tratta comunque di uno dei momenti più magici che si possa vivere sugli spalti di uno stadio di calcio. La partita scorre via con la colonna sonora costante dei cori dei tifosi turchi. A parte loro e la Kop il resto dello stadio sta a sedere. Ci si alza solo per qualche secondo quando l’azione si svolge negli ultimi 25 metri. Poi passa uno steward che ti invita a rimetterti a sedere. Ci vuole un rigore di Balotelli (un idolo dei tifosi, non chiedetevi il perché) a 4’ dal termine per sentire l’esplosione di Anfield. Che subito dopo, abbastanza sorprendentemente, si rivolge compatta ai duemila turchi gridandogli con rabbia: “You are not singing anymore”. Ci sono attimi di tensione, i primi di una lunga giornata tranquilla, iniziata con i turchi festanti per le strade del centro città con bandiere e torce. Un piccolo ma quanto mai importante segno di decadenza, l’ha definito Gareth Roberts, un giornalista locale: “Un canto piccolo, stupido e provinciale che fino a ieri è stato regolarmente deriso dai veri tifosi del Liverpool è stato cantato da quasi tutto lo stadio. Niente vi era di quella famosa atmosfera che ha reso celebre Anfield nelle notti europee. E allora perché tutta Anfield l’ha urlato all’unisono? Perché hanno voluto prendere per il culo chi, senza mai offenderci né mostrarci ostilità, ci ha dato una lezione di tifo? Chi mette piede ad Anfield dovrebbe conoscere cosa cantare e cosa non. Rispettare le tradizioni. Conoscere la storia di questa tifoseria. Non comprare The Sun e spiegartene con orgoglio il motivo. E invece oggi trovi chi urla ad Henderson che è una merda, chi chiama Rodgers buffone, chi canta Pour Scouser Tommy con parole sbagliate e chi urla a squarciagola consigli tattici per 90 minuti. Stiamo assistendo all’omogeneizzazione della folla da stadio: i nostri stadi sono stati infiltrati da una folla addomesticata che indossa felicemente sciarpe metà e metà. Che consuma calcio piuttosto che amarlo. Una folla di tifosi occasionali che ha poco interesse a rivalità e tradizioni e vuole l’evento, il prodotto, la foto da postare su Facebook e lo You’ll Never Walk Alone da inserire su YouTube. I tifosi del Liverpool sono sempre stati considerati originali, diversi dagli altri inglesi. Divertenti, spiritosi, taglienti. Le nostre canzoni dove sono andate a finire? Che fine hanno fatto la fantasia e l’ingegno? Perché è più facile ascoltarli nei pub che allo stadio? Cosa si può fare per affrontare tutto questo? Lasciare che il Liverpool e la Kop diventino un club e una curva come tante altre sarebbe un vero peccato”. Troppo tardi caro Roberts, questo è il tanto decantato modello inglese. Ha fatto scuola e, purtroppo, non si torna più indietro.