Senza Soste n° 102 (marzo)

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Senza Soste n° 102 (marzo)
Periodico livornese indipendente - anno X n. 102 - in uscita dal 14 marzo 2015
OFFERTA LIBERA
Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%
Regime libero aut. cns/cbpa/centro1
Validità dal 05/04/2007
Foto di Giacomo Spagnoli
Salvini: fascismo e
postfascismo
NIQUE LA POLICE
A
lla faccia del partito “comunitario”, territorializzato, identitario e premoderno. La
Lega Nord, con Matteo Salvini,
sembra essere tutto. Un partito
fascista e postfascista assieme,
leghista e italiano nello stesso
momento. Non che il sincretismo sia una novità, nelle culture
e, più specificamente, nella politica. Solo che la Lega riesce ad
abusarne: dà dello “squadrista”
a chi la contesta e poi scende in
piazza, con tanto di improvvisata scenografia neomussoliniana
di corredo, con autentici eredi
dello squadrismo. E, nello stesso tempo, i paradossi leghisti
non finiscono qui. Le piazze
sono vuote (l’adunata di piazza del popolo altro non è stata
che una versione ristretta delle
ducesche adunate oceaniche)
ma le urne sono piene. Perlomeno quelle dei sondaggi che
pongono una Lega al di sopra
del 15% a livello nazionale. Con
percentuali nel nord, c’è bisogno di sottolinearlo, tali da far
pensare di nuovo ad un germe
secessionista nel paese. Proprio
quando la Lega cerca di darsi
una dimensione nazionale. Certo, a Salvini manca un alleato
a destra solido, Fratelli d’Italia
per adesso stenta a carburare e
Casa Pound è ancora troppo “di
nicchia”. Ma quando si ha questo livello di percentuali, con la
destra berlusconiana che dovrà
trovare nuova collocazione (politica e aziendale) con il declino
del capo, qualche alleato serio
prima o poi, per affiancare la
Lega, si dovrebbe formare. L’altra destra, quella renziana, ha
ovviamente trovato in Salvini il
miglior avversario. Sporco, brutto e cattivo. E il problema qui
non sta solo nel fatto che questo
schema, si fa per dire, di gioco
politico ha esaurito spinta propulsiva con le numerose sconfitte che il berlusconismo ha inflitto al centrosinistra tutte le volte
che lo ha giocato. Il punto più
grave sta nel fatto che, mentre
in Spagna l’effetto Syriza può
spingere Podemos alla vittoria
elettorale, in Italia è palese da
tempo una possibile sinergia
Salvini-Le Pen. Come negli anni
’30, in epoca di depressione economica, i fascismi si “chiamano” tra loro in Europa. E l’Italia
è, come di consueto, dalla parte
sbagliata. Sarà possibile cambiare il film, cancellare velocemente il file di uno spettacolo che si
candida ad essere degli orrori?
Dalla risposta seria a questa domanda, passa una parte importante del nostro futuro.
www.senzasoste.it
Oltre la
Darsena Europa
La crisi occupazionale e la vicinanza delle elezioni regionali hanno
trasformato il Piano Regolatore del Porto in una fiction in cui si parla per
sogni e per slogan e si cerca di evitare l’analisi e l’informazione dei cittadini.
D
opo la nostra intervista a
Vladimiro Mannocci, che ha
ribadito con i numeri la necessità
di adeguare il nostro porto con interventi strutturali calibrati, dopo
aver smascherato i proclami elettorali del Presidente della Regione Toscana Rossi che continua a
parlare a ruota libera di finanziamenti, e dopo la recensione del
libro di Sergio Bologna che mette
in guardia sulla bolla finanziaria
del gigantismo navale, proponiamo un’altra analisi sul Piano Regolatore del Porto. Lo facciamo
cercando di mettere in evidenza
alcuni dubbi e alcune problematiche che sono soffocate da chi
vorrebbe affossare il dibattito con
slogan, sogni e promesse. Il fatto
che il porto di Livorno abbia reali
necessità di cambiamenti e ammodernamenti strutturali è chiaro
a tutti, così come è opinione ben
motivata che un porto “multipurpose” (multifunzione) come il nostro non possa rinunciare improvvisamente al traffico contenitori.
Ciò non significa che tutto quello
che è stato calato dall’alto e progettato nel Piano Regolatore del
Porto (Prp) vada bene. Tutti parlano solo di Darsena Europa come
grande spot che ingloba tutto, ma
il Prp comprende un’area che va
dalla Bellana fino allo Scolmatore e i dubbi e i rilievi sono tanti,
anche se le voci dissonanti non
sono prese in considerazione dalla
stampa. Abbiamo cercato di riassumere alcuni di questi punti. Darsena e finanziamenti La Darsena/Piattaforma Europa
dovrebbe risolvere una necessità
fondamentale, dare accosto alle
nuove navi con maggiori pescaggi
dovuti alle maggiori dimensioni e
quindi ai maggiori carichi, ma pone
il problema di dove mettere i fanghi di dragaggio e a quali costi. Partiamo dai numeri relativi ai
traffici e ai finanziamenti complessivi tra pubblico e privato. C’è
incertezza su ogni fase di ricognizione sui numeri anche perché
Modimar, ditta progettatrice della Darsena Europa, afferma che i
traffici aumenteranno “un po’ più
del Pil”, come affermato anche
verbalmente dal suo rappresentante durante una Commissione
Consiliare in Comune. A questa
incertezza si aggiunge la farsa di
Rossi che corre tra Roma e Bruxelles senza mai un documento
attendibile o con una dichiarazione ufficiale di un ministro o di
un viceministro che integri i 200
milioni promessi dalla Regione
Toscana e i 120 promessi dall’Autorità Portuale. Anzi, se Rossi annuncia che il sottosegretario Lotti
o il viceministro De Vincenti gli
hanno promesso che il ministero
darà 100 milioni, Nogarin afferma
che il ministro Lupi gli ha detto
che per ora il governo non si può
impegnare. C’è poi l’Ue e il piano
Juncker che nel bel mezzo di una
recessione concede dei finanziamenti solo se hanno una solida
previsione di incasso e restituzione, pretendendo una valutazione
economico-finanziaria attendibile.
La stessa Ue, con il suo approccio a favore delle privatizzazioni
dice una cosa chiara: finanziamo
progetti dove i privati ci mettono
tanti soldi, perché se il privato
non ci vede dentro allora non siamo convinti nemmeno noi. Il tema principale di cui nessuno
parla è quell’assetto che sta prendendo il rapporto tra pubblico e
privato dopo che Juncker ha definito la leva di richiamo finanziario gradito alla Commissione
Europea, cioè il rapporto 1 a 15
(1€ pubblico e 15 € privati). È una
presunzione della Commissione
oppure un prezzo che il privato
deve pagare per far ingresso in posizioni fino ad oggi pubbliche? Suona come rigida l’intervista
rilasciata da Marcucci, oggi presidente della “parte sociale” per i
trasporti in Italia a chi è all’oscuro
delle connessioni che si andranno
ad imbastire tra pubblico e privato a breve. È invece realistica
per chi inizia a volerci veder dentro andando oltre agli articoli di
giornale. È interessante, per i privati del settore, il porto di Livor-
no? Quanto è interessante? Feeder e pescaggi Il rischio maggiore è farsi condizionare dalla golosità dei finanziamenti per assicurare alla città
un flusso di centinaia di milioni
che genereranno appalti e lavoro
per un breve periodo, tralasciando
l’obiettivo principale, cioè quello
di individuare il target di traffici
giusto per rendere l’investimento
produttivo e remunerabile. La differenza di pescaggio tra una
nave Panamax fino a un massimo di 5.000 Teus e una Ulcv (c.d.
mega container) è avvenuta in
un lasso di pochi anni. La prima
portacontenitori da 18mila Teus
della Maersk che ha una portata lorda di 165.000 tonnellate, è
lunga 400 metri e larga 59 metri,
ha un pescaggio di 14,5 metri, è
stata varata nel giugno 2013 e ne
seguiranno altre 19 solo di questa compagnia. Sappiamo quindi
che i tempi di adeguamento infrastrutturale dei porti faranno
la differenza per accaparrarsi la
posizione di porto hub (un porto
“magazzino” come Gioia Tauro),
dove possono essere accolte le
mega navi. Nonostante l’obiettivo
di fondali a -16m, Livorno avrà
la funzione di porto feeder (porto
dove arrivano le navi più piccole,
provenienti dai porti hub). Per la nuova darsena sono previsti, quindi, (continua a pagina 4)
2
internazionale
anno X, n. 102
NORD AFRICA - Cosa si nasconde veramente dietro l’avanzata dell’Isis e lo scenario in tutta l’area
I
l sequestro e il successivo assassinio in Libia, per mano dei
terroristi dell’Isis-Daesh, di ventuno cittadini lavoratori egiziani
(cristiani copti), le cui immagini
sono state rapidamente diffuse
dal gruppo su internet il 15 febbraio scorso, evidenziano l’aggravarsi della complessa situazione politica e militare del Nordafrica. Le forze armate egiziane
non hanno tardato a rispondere
bombardando varie postazioni
terroriste in Libia, causando la
morte - secondo varie fonti - di
circa cento mercenari di questa
organizzazione e distruggendo
importanti depositi di armi in
loro possesso. Il governo egiziano ritiene che la Fratellanza
Musulmana (la confraternita
sconfitta in Egitto nel 2013) e il
gruppo jihadista Wilayat Sinaí
si siano accordate con l’Isis-Daesh, e insieme si propongano di
realizzare azioni terroriste importanti contro obiettivi civili e
militari all’interno del territorio
egiziano e in altri paesi della regione, utilizzando la Libia come
base di appoggio e preparazione
logistica: un luogo dove l’anarchia è legge e dove ricevono armi
e addestramento da parte di alcuni servizi segreti europei, della
Turchia e di alcune petromonarchie del Golfo.
I più recenti avvenimenti verificatisi in Libia, con l’apparizione
dell’Isis-Daesh e la conquista
di varie località e centri urbani
importanti come Sirte da parte
di questo gruppo, permettono
U
n aereo militare Tucano
doveva bombardare il Palazzo di Miraflores, a Caracas, il
12 febbraio scorso. E uccidere il
Presidente Nicolás Maduro. La
sua missione era anche quella di
attaccare il Ministero della Difesa e distruggere gli studi del canale TeleSur per seminare il caos
e la confusione. Secondo quanto
ha rivelato il presidente Maduro,
il tentativo di golpe è stato disarticolato grazie all’intelligence
bolivariana, con l’arresto di un
gruppo di ufficiali dell’aviazione e di civili. Nicolás Maduro
ha dichiarato che uno degli ufficiali implicati era “coinvolto”,
dall’anno scorso, con gruppi
dell’ultradestra venezuelana che
cercavano di provocare nuovi
scontri violenti nel paese. Il presidente ha rivelato che le autorità militari lo avevano espulso
dalle Forze Armate. “Ma alcune
settimane fa diversi oppositori
lo hanno ricontattato, gli hanno
consegnato un’ingente somma
in dollari e affidato diverse missioni. E l’Ambasciata degli Stati
Uniti gli ha concesso un visto
nel caso che il tentativo fallisse”.
Questo ufficiale - ha raccontato ancora Nicolás Maduro - ha
contattato altri quattro colleghi
per eseguire le missioni “progettate da Washington”. L’ordine
di iniziare l’azione golpista sarebbe partito nel momento in
Libia: la strategia del caos
di comprendere la portata della
strategia Usa di frammentare la
regione e provocare in Libia, Algeria ed Egitto - quest’ultimo paese
ha firmato accordi importanti con
la Russia - scenari simili a quelli
a cui si assiste in Siria e Iraq. L’obiettivo degli strateghi della Nato
è quello di giustificare la sua presenza in nord Africa con il pretesto
della “lotta al terrorismo” e della
“difesa dei diritti umani”. Attualmente a contendersi il controllo della Libia sono due governi
internazionalmente riconosciuti,
ma anche centinaia di milizie e tribù
di diverse aree del paese arabo. Da
una parte c’è il governo con sede a
Tobruk, a est della Libia, che conta
sul riconoscimento della Ue ed è difeso dal generale Halifa Heftar che
guida gli attacchi contro le diverse
milizie jihadiste, tra le quali lo Stato Islamico. L’altro governo è ubicato nella capitale, Tripoli, e gode
principalmente del supporto degli
Stati Uniti. Questo agisce insieme
alla milizia islamista di Misurata,
e il suo profilo ideologico non è in
contrasto con lo Stato Islamico. Per
questo motivo, il governo egiziano
si è alleato con il governo di Tobruk,
e insieme coordinano le azioni contro le basi dei terroristi in Libia. È opportuno ricordare che l’Isis o
Daesh è nato come una scissione di
Al-Qaeda in Iraq nel 2004 con nomi
diversi, ma è stato solo nel 2013
che ha iniziato a rappresentare una
forza militare importante con un
numero significativo di mercenari
(più di 10mila membri), il che gli
ha permesso
di espandersi per tutto il
nord dell’Iraq fino ad
arrivare
a
controllare il
nordest della
Siria. Quello
stesso anno
ha preso il
nome di Stato Islamico
dell’Iraq
e
del Levante.
Il suo obiettivo principale
non era lottare contro gli invasori
statunitensi che nel 2003 si erano
impadroniti dell’Iraq e dei suoi giacimenti petroliferi, ma di fomentare, tramite il terrorismo, l’odio tra le
diverse comunità religiose sunnite,
sciite e cristiane che compongono
questi paesi, ed evitare in questo
modo qualsiasi possibilità di unità tra le forze politiche e religiose
che iniziavano a riorganizzarsi per
combattere l’invasore. Innumerevoli documenti dei servizi segreti
russi e siriani provano che gli Stati
Uniti hanno organizzato, addestrato e armato, con l’aiuto della Turchia e di alcune petromonarchie
del golfo arabo, il Fronte al Nusra
(Al-Qaeda) e l’Isis-Daesh per distruggere la resistenza irachena
e il governo siriano, ridefinire le
frontiere territoriali di questi paesi secondo il piano predisposto
dall’amministrazione di George
W. Bush (2001-2009) noto come
“Nuovo Grande Medio Oriente”
e in questo modo facilitare il controllo statunitense sui giacimenti
petroliferi dell’Iraq. Oggi nessuno dubita più che la
disintegrazione dello stato libico provocata dall’aggressione
della Nato nel 2011 abbia permesso la rapida proliferazione
dell’Isis-Daesh in Libia, cosa
che costituisce la maggior mi-
Quelli che
blaterano di “lotta
al terrorismo”
sono proprio gli
apprendisti stregoni
che l’hanno
scatenato
naccia per la sicurezza di tutta la regione, e anche per i suoi
stessi creatori in Europa che non
riescono più a controllare i loro
demoni terroristi. Basem Tajeldine, Rebelión (traduzione di Nello Gradirà)
SUDAMERICA - Ancora un tentativo di rovesciare con la forza il governo di Maduro
Venezuela: il golpista non perde il vizio
cui un quotidiano dell’opposizione
avrebbe pubblicato il cosiddetto
“programma di governo di transizione”. Il tentativo aveva il nome
in codice di “Operazione Gerico”.
Secondo le rivelazioni degli arrestati i golpisti avevano intenzione
di “liquidare”, oltre al presidente
Nicolás Maduro, il presidente del
Parlamento Diosdado Cabello e
altre personalità bolivariane. Sono
stati inoltre individuati gli altri militari presunti caporioni della cospirazione. È stata mostrata parte
dell’arsenale sequestrato, in particolare armi di grosso calibro come
fucili, mitragliatrici e granate. Sono
state scoperte mappe della città di
Caracas con
vari “obiettivi tattici”. Le
autorità bolivariane hanno indicato
come “autori
intellettuali”
del tentativo
di golpe e del
progetto di
assassinio del
presidente
due personalità dell’opposizione: Antonio Ledezma, sindaco metropolitano di
Caracas (arrestato il 19 febbraio),
e Julio Borges, deputato dell’opposizione. Hanno anche affermato di
avere le prove della partecipazione dell’Ambasciata statunitense.
Il presidente Maduro ha detto di
essere in possesso del “piano di
governo” redatto dai golpisti, nel
quale si prevedeva lo scioglimento
di tutti i poteri pubblici, la privatizzazione della compagnia petrolifera Pdvsa e l’espulsione dei cubani
delle missioni di cooperazione. Nonostante tutti questi dettagli e
prove portate dalle massime autorità venezuelane, i media interna-
zionali hanno dato poco credito
a questo annuncio di tentativo di
golpe. Questa “incredulità” fa parte - da quindici anni - della strategia di guerra contro la rivoluzione
bolivariana dei grandi media dominanti. Il presidente Nicolás Maduro ha spiegato come, dopo la morte
di Hugo Chávez (esattamente due
anni fa) e la sua elezione, un “golpe lento” è in atto per abbatterlo. Questa volta il golpe si sarebbe
svolto in quattro fasi: nella prima,
I media intanto
continuano a parlare
di “autoritarismo”
del governo per
l’arresto del sindaco
di Caracas
agli inizi di gennaio, mentre il presidente era all’estero (Cina, Iran,
Qatar, Arabia Saudita, Algeria e
Russia) era previsto con l’appoggio
degli imprenditori l’accaparramen-
to di alimenti di base e prodotti
di prima necessità, al fine di creare scarsità e malcontento. Cosa
che non è riuscita. Nella seconda i grandi media hanno intensificato la diffusione di reportage
che davano una visione distorta
del Venezuela, facendo credere
che fosse in atto una “crisi umanitaria”. La terza tappa doveva
essere guidata da un “traditore”,
che sui media avrebbe chiamato
alla ribellione. Il presidente non
ha fatto il nome di questo “traditore”, ma ha messo in guardia
la cittadinanza. La quarta fase
del golpe è quella svelatasi il 12
febbraio, con la partecipazione
di un gruppo di ufficiali golpisti
dell’aviazione militare finanziati
dall’estero. In quell’occasione
si sarebbe annunciato il “Programma di governo di transizione”. E si sarebbe sepolta la
rivoluzione di Chávez. Ma anche in quattro fasi il golpe
è fallito. E la rivoluzione bolivariana è ancora viva. Ignacio Ramonet (traduzione
e riadattamento di Nello Gradirà)
in uscita dal 14 marzo 2015
3
interni
LAVORO - La nuova normativa di Renzi rappresenta la definitiva mannaia sui diritti dei lavoratori
Il regalo di Renzi agli imprenditori
FRANCO MARINO
I
telegiornali a reti renziane
unificate lo hanno presentato come una normativa che ricuce le ingiustizie e le differenze di un mondo del lavoro fatto
di garantiti e non garantiti,
abolendo la precarietà ed
estendendo gli ammortizzatori
sociali. Non è così. Vediamo
perché. Jobs Act e “tutele crescenti”
Una norma fotografa e disciplina un rapporto di forza. Lo
Statuto dei Lavoratori e le norme sul diritto del lavoro non
sono testi neutri, ma norme
che disciplinano i diritti e i doveri dei lavoratori sulla base di
un rapporto di forza ed un
equilibrio di ruoli. Il perno
fondamentale di tutto ciò era
l’articolo 18, la tutela di riprendersi il maltolto, cioè il lavoro,
laddove ci fosse stato un licenziamento ingiusto. L’articolo
18 era quindi l’elemento regolatore di un rapporto che si basava sul diritto. Il totale ridimensionamento di questa norma, prima con la Fornero e poi
con i contratti a tutele crescenti
per i neoassunti sotto il Jobs
Act di Renzi, sposta l’asse del
rapporto tra capitale e lavoro
dal diritto al ricatto. Tra l’altro
mantenendo la dualità tra chi
continuerà ad avere un diritto
mozzato dalla Fornero e chi,
neoassunto, rischia di non vederlo mai. Oggi in Italia un licenziamento, anche ingiusto, è
quantificabile e monetizzabile,
quindi anche di fronte ad una
palese ingiustizia subita, un lavoratore potrà muoversi contro
l’azienda con il rischio concreto di perdere il lavoro anche se
un giudice riconoscesse le sue
ragioni. E con i contratti a tutele crescenti per i nuovi assunti, il licenziamento di un vecchio lavoratore e l’assunzione
di uno nuovo diventa un investimento, non solo per lo squilibrio di diritti previsti ma anche grazie agli sgravi contributivi. Senza parlare di tutto lo
sterminato mondo degli appalti in cui ogni 3 anni un lavoratore rischia di cambiare padrone e rischia di ripartire da zero
in una perenne precarietà e con
un nuovo contratto a tutele 0. E senza considerare che la
maggior parte dei contratti
“precari” sono rimasti in vigore e che la promessa di abolizione dei co.co.pro, seppur positiva, va inquadrata all’interno di una disciplina di un contratto a tempo indeterminato
senza tutele e di uno a tempo
determinato che non ha più bisogno della “causalità” e quindi potrà essere usato a piacere
dall’imprenditore senza dover
motivare questioni produttive
o organizzative. Vediamo nel
dettaglio le possibili tipologie
di licenziamento “liquidabile”. I licenziamenti monetizzabili 1. Se il licenziamento è comunicato solo a voce o avviene per
motivi discriminatori, esso viene
dichiarato nullo dal giudice del
lavoro, che reintegra il lavoratore
nel posto di lavoro e condanna
l’azienda a versargli un’indennità
per tutti i mesi di durata del licenziamento e, comunque, per
almeno 5 mensilità di salario. E
non potrebbe che essere così! Ma
chi mai licenzierebbe per questi
motivi o con queste modalità,
avendo la possibilità di farlo con
ben altri “argomenti” più efficaci? 2. Se il licenziamento avviene
senza giusta causa o senza giustificato motivo soggettivo (motivo
legato a comportamenti non consoni del lavoratore), l’azienda
Con la nuova
indennità di
disoccupazione si
allarga la platea ma
si limita la durata
dell’ammortizzatore
sociale
viene condannata a reintegrare il
dipendente nel posto di lavoro e a
versargli una indennità per il periodo in cui è durato il licenziamento, non superiore a 12 mensilità di salario. A condizione, naturalmente, che il lavoratore provi al giudice che non è materialmente avvenuto il fatto su cui è
stato deciso il licenziamento. Se,
invece, non ci sarà questa prova,
il licenziamento resterà valido,
anche se il fatto su cui si basa
consiste in un ritardo di pochi
minuti, o nell’aver fumato una sigaretta sul luogo di lavoro, o
nell’avere fatto una telefonata dal
lavoro! E l’azienda sarà condannata solo al pagamento di una
indennità pari a 2 mensilità di salario per ogni anno di servizio e,
comunque, a un minimo di 4
mensilità e a un massimo di 24; 3. Se il licenziamento avviene per
inidoneità fisica o psichica alla
mansione ricoperta o per giustificato motivo oggettivo (motivo
economico), il giudice emetterà
una sentenza con cui dichiarerà
cessato il rapporto di lavoro, addossando all’azienda una indennità pari a 2 mensilità di salario
per ogni anno di servizio e, comunque, a un minimo di 4 mensilità e a un massimo di 24; 4. Nelle aziende con organico inferiore a 16 unità, anche se viene
provata l’infondatezza del licenziamento, la sentenza dichiarerà
cessato il rapporto di lavoro e
prevederà solo una indennità
pari a 1 mensilità di salario per
ogni anno di servizio e, comunque, a un minimo di 2 mensilità e
a un massimo di 6. Questo avverrà anche nel caso in cui l’azienda, per effetto di assunzioni successive, raggiunge o supera le 16
unità; 5. Infine, un micidiale colpo di
mano viene assestato alla procedura prevista dalla legge n. 223
del 1991 sui licenziamenti collettivi, nel senso che il Jobs Act, pur
pensato per i licenziamenti individuali, si estende fino a quelli
collettivi, decretando la cancellazione dei criteri stabiliti da quella
legge per l’individuazione dei lavoratori da inserire nelle liste di
licenziamento (carichi di fami-
glia, condizioni economiche familiari, stato di salute, anzianità
di servizio, età anagrafica, ecc.) e
spalancando così le porte a discriminazioni arbitrarie ed inique. La “disoccupazione” I tg a reti renziane unificate parlano anche di una nuova giustizia
negli ammortizzatori sociali grazie al “Naspi”, l’indennità di disoccupazione che entrerà in vigore dal 1 maggio prossimo. Se il
Naspi è sicuramente un passo
avanti per i precari parasubordinati (co.co.pro) e per tutto quel
lavoro a chiamata e intermittente
(per accedervi servono meno
giornate contributive che in passato e l’importo è più alto), non
bisogna dimenticare che per finanziare questo nuovo istituto
saranno progressivamente smantellate Cassa Integrazione in Deroga e Mobilità. Si tratta di strumenti che fino ad
oggi, anche se spesso desueti e
non adattabili ad ogni situazione,
hanno tutelato una larga fetta del
mondo del lavoro in difficoltà. Se
prima una mobilità durava 3
anni, ora con il Naspi siamo coperti al massimo per 2 e dal 2017
fino a un massimo di 18 mesi. Insomma, il governo ha calcolato di risparmiare circa 4,5 miliardi sull’abolizione dei vecchi ammortizzatori e quello che ha messo in campo per il Naspi sono 1,5
miliardi aggiuntivi ai 14 miliardi
spesi per la vecchia indennità di
disoccupazione. L’importo massimo sarà di circa
1.150 euro mensili nei primi mesi
per poi calare a 700 euro, per un
massimo di due anni per i lavoratori dipendenti (il doppio della
durata odierna) e di sei mesi per
gli atipici. Il tutto sarà condizio-
nato all’accettazione dell’offerta di lavoro. E
questo ultimo
punto sarà da
capire
bene,
anzi diventa il
metro per misurare questa riforma dell’indennità di disoccupazione. Ma intanto non
bisogna dimenticare che già da
quest’anno
la
legge di stabilità
non ha rifinanziato i contratti
di solidarietà e
ne ha ridotto
l’indennità del
10%, mentre la
durata
della
Cassa Integrazione in Deroga
era stata dimezzata da un precedente decreto
del ministro del
lavoro Poletti,
l’uomo
delle
Coop. La legge di stabilità, in compenso, abbuona miliardi alle
imprese, non solo come esonero dal versamento di oneri
previdenziali per le nuove as-
Senza il reintegro
il rapporto tra
capitale e lavoro
sarà disciplinato dal
ricatto invece che
dal diritto
sunzioni (8.060 euro per ogni
nuova assunzione), ma anche
come riduzione dell’Imposta
Regionale per le Attività Produttive, l’Irap, affossando
così il sistema sanitario, che
su quell’imposta basa grandissima parte delle sue risorse. Una legge, insomma,
che la stabilità la offre su un
piatto d’oro agli imprenditori, tra l’esultanza di Confindustria, mentre a chi lavora
viene allegramente garantita
l’instabilità, non solo sulle
condizioni di lavoro (i cui diritti sono in via di cancellazione totale), ma anche sulle
condizioni relative alla salute
(sempre più alle prese coi tagli della spesa sociale e coi ticket in continuo aumento,
con le liste di attesa di mesi e
mesi e con la necessità di ricorrere a pagamento alla sanità privata). Elaborazione delle fattispecie
di licenziamento a cura della
Confederazione Cobas Pisa)
4
Livorno
anno X, n. 102
URBANISTICA - Oltre alla Darsena Europa, il Prp prevede anche il solito mattone
Come cambia il porto (e la città)
Si tratta di altri interessi evidentemente, come ipotizzavamo.
Forse si tratta del vero ed immediato grande interesse di tutta l’operazione, il vero obiettivo
nascosto dietro lo specchietto
della Darsena Europa: il raddoppio della Porta a Mare nella
nuova Stazione Marittima.
Rimaniamo proprio sull’area
Stazione Marittima-Fortezza
Vecchia. In base a quei numeri e superfici sopra elencati sul
quartiere della Venezia, che
dovrebbe essere per quell’area
il naturale varco d’accesso alla
città per i turisti (ed in questo
senso sarebbe stato interessante approfittare del nuovo Prp
per individuare in area portuale una zona dove spostare
BERNANDO BUONTALENTI
C
ome è ormai noto, al di là
dei contenuti specifici di
adeguamento e rifunzionalizzazione delle aree portuali previsti, il tanto atteso ed invocato
Piano Regolatore Portuale (Prp)
a Livorno è vincolato all’approvazione di una Variante al Piano
Strutturale adottata dalla precedente Amministrazione Cosimi.
Con questa Variante, come più
volte segnalato dall’Osservatorio Trasformazioni Urbane che
su questa vicenda ha elaborato
negli ultimi mesi e settimane
relazioni e documenti critici,
«c’è stato uno spostamento di
parte del territorio comunale,
già normato, dall’ambito comunale a quello portuale, con il
conseguente e inopportuno spostamento di competenze dalla
autorità comunale alla autorità
portuale». Le aree interessate
sono Bellana, Porta a Mare, Fortezza Vecchia e Stazione Marittima, ovvero quelle aree di interfaccia porto-città strategiche per
armonizzare l’ambito urbano
e cittadino con quello portuale.
Ed è proprio su queste aree che
andrebbe ad intervenire il Prp,
che non è solo quindi Darsena
Europa, per quanto il dibattito
di quest’ultimo periodo sembra essersi concentrato solo su
questa cosiddetta grande opera,
sulla sua fattibilità, sulla sua sostenibilità finanziaria, sulla sua
reale futura funzionalità. Nessuno infatti, ad eccezione proprio
dell’Otu, ha sollevato riflessioni
su cosa prevede il piano su queste aree.
(segue da pagina 1) ...fondali a
-16m per l’attracco delle maxi
navi, ma come si collega tale quota -16m interna alla corrispondente quota -16m esterna? Dal
disegno presentato al pubblico
non si capisce, ma è un dato fondamentale, forse “il” dato fondamentale, perché per garantire costanza di quota sino al mare aperto le linee batimetriche dovrebbero essere collegate da una sorta di
canale sul fondo marino “fuori”
dal porto. Un canale di non piccole dimensioni, sia in larghezza,
sia soprattutto in lunghezza: a vedere le mappe batimetriche attuali tale canale dovrebbe svilupparsi
per non meno di 400 metri di lunghezza, ed interesserebbe il limite
delle secche della Meloria. Ma di
tale opera sulle carte non si vede
traccia. Forse non è stata prevista
oppure è stata prevista, ma non
mostrata per non ingenerare allarmi sul come impatterebbe tale
canale sottomarino, e soprattutto
quanto costerebbe mantenerlo in
continuo esercizio, ovvero evitare
che si insabbi in un lasso di tempo ridotto. Sappiamo, da lettera-
Approfondendo invece, di fronte
all’incertezza quantitativa e temporale della questione Darsena,
emerge come probabilmente gli
appetiti più immediati di chi ha
interessi sulle aree portuali si concentrano proprio sulle zone oggetto della contestata Variante (ambiti 5C1, 5C2, 5C3, 5C4). Appetiti
da soddisfare in virtù di interventi
legati a cemento e mattone.
Analizzando il Piano sulla scorta
delle valutazioni di un documento
dell’Otu di metà febbraio emerge
che:
- L’area ex Cantiere e Bellana ad
esempio, passando da area a servizi nel sistema insediativo, ad
area portuale, grazie alla variante
che, contestualmente, determina
modifiche all’intero impianto del
Ps e del Regolamento Urbanistico
(Ru), producendo un aumento dei
vani totali da 15.300 a 17.700.
- La nuova Stazione Marittima
(che ingloba anche la Fortezza
Vecchia, già consegnata come sorta di indesiderata patata bollente,
dalla precedente Amministrazione
all’Autorità Portuale) determina il
passaggio nella tipologia commerciale da 3.500 mq a 12.500 e senza
che si indichi quale tipologia di
struttura commerciale è stata pensata e come eventualmente questa
si relazionerebbe con il commercio del quartiere Venezia e del
Pentagono.
– Il terziario passa da 20.000 a
22.000 mq, il turistico ricettivo
da 10.000 a 11.000 mq, mentre
i servizi pubblici decrescono da
76.000 a 55.000 mq.
Giustamente ci si chiede cosa
c’entra il contenuto di questa Variante che configura una ennesima, dopo la già devastante storia
della Porta a Mare, speculazione
edilizia fronte mare, con le questioni cruciali del Porto di cui
parliamo in questo numero anche
nel nostro articolo di apertura:
alti fondali e Darsena Europa, la
logistica, l’operatività, il trasporto
merci e passeggeri, la riorganizzazione in terminal specializzati.
Chiaramente niente.
Oltre la Darsena Europa
tura nota, che il fondo marino in
quella zona nord si sia molto alzato
nell’ultimo decennio, e se il progetto fosse stato impostato su dati non
aggiornati sarebbe un problema anche per la questione dei fanghi.
Il ruolo dell’Interporto Gli stessi discorsi dei grandi maghi
della logistica e delle opportunità
da non perdere li abbiamo sentiti
anche quando c’era da progettare
l’Interporto. Nelle precedenti fasi
di lungimiranza, nel 2007, fu siglato l’Accordo di Programma PisaLivorno per lo sviluppo costiero
che partì con dei 26 preziosi milioni
di euro erogati dal Cipe per arrivare
poi al recente rifinanziamento da
parte di Regione Toscana e Mps.
Ma l’Interporto non ha mai avuto
quel successo da tutti ipotizzato,
anzi ha avuto bisogno di essere sostenuto da soldi pubblici per non
sprofondare. Neanche il 10% delle
merci complessive passate tra banchine e navi si è fermato all’Inter-
porto dalla sua costruzione ad oggi.
E nel futuro il suo ruolo strategico
sarà sempre più marginale: se fosse realizzata la Darsena Europa,
la nave arriverebbe a banchina, i
servizi disporrebbero le merci sui
grandi piazzali per poi essere spedite immediatamente attraverso la
nuova ferrovia (o su gomma) per
la destinazione finale. Cosa diventerà l’Interporto Vespucci? Domande finali Alcune domande nascono quindi
spontanee. È possibile adeguare
il porto esistente a questo cambiamento storico visto che fino ad oggi
ha funzionato a scartamento ridotto? Sono stati ipotizzati altri progetti che risolvano la situazione senza
avvicinarsi alla Meloria? Questi
anni di inefficienza dove l’Autorità
Portuale ha avuto difficoltà anche
solo a fare un dragaggio e la scusa
erano sempre i tubi Eni, potranno
essere sanati solo da una nuova infrastruttura in mezzo al mare? Sono
domande semplici, da profani, ma
che vorrebbero riportare il dibattito
sulla pura razionalità liberandolo
dall’eccitamento dei tanti appalti e
dall’enfasi elettorale. In Italia non
mancano certo investimenti faraonici dimostratisi poi del tutto fuori
target e che presto si sono rivelati
fallimentari e con impatto occupazionale di lungo periodo vicino allo
zero. Attenti, quindi, ai venditori
di fumo e ai Paperoni con i dollari
stampati sugli occhi. A loro bastano
soluzioni di breve periodo per soddisfare appetiti politici e di profitto,
a noi servono soluzioni lungimiranti e calibrate perché di proclami sul
rilancio della città ne abbiamo già
sentiti troppi: il rilancio del commercio cittadino con il parcheggio
dell’Odeon, il rilancio della logistica con l’Interporto Vespucci, il
rilancio del turismo con il progetto
Porta a Mare e il rilancio dell’occupazione, dell’industria e gli sgravi
in bolletta con l’energia del rigas-
“Non si sa se tutto
questo commercio,
ad esempio, sarà
fatto di negozi
singoli, centri
commerciali e
medie strutture”
il Rivellino così da liberare e
riqualificare in chiave ricettivoturistico-culturale tutta l’area
dei Vecchi Macelli e del Forte
San Pietro), incombe lo spettro di una sorta di “cittadella
commerciale” che tratterrebbe
così al suo interno proprio quei
turisti ai quali vorremmo far
conoscere meglio questa nostra
amata e maledetta città.
sificatore. E invece fino ad oggi
sono serviti tutti per ungere classi dirigenti, imprenditori e professionisti con i soldi pubblici
pagati con le nostre tasse. Infine
esiste il problema di tutte quelle
parti immobiliari e commerciali
di confine tra porto e città a cui
il piano strutturale del Comune
deve adeguarsi e che devono essere oggetto di un’analisi a parte. Insomma, se sulle necessità
strutturali del porto di Livorno
siamo quasi tutti d’accordo, la
variante anticipatrice che il Consiglio Comunale si trova a votare non è un referendum sulla
Darsena Europa, ma un insieme
di questioni vaste (dalla Bellana
alla Scolmatore) e che spaziano
dalle banchine, ai bacini, alle
case fino ai centri commerciali.
E tutte queste questioni sono
taciute e nascoste dietro il bandierone della Darsena Europa
che tutti sventolano. Ma dietro quel bandierone si
muovono tanti interessi. E il futuro della città.
Redazione
in uscita dal 14 marzo 2015
5
Livorno
PRIVATIZZAZIONE - Come si può valutare 6,6 milioni di euro una società che ne farà quasi 10 di utili?
Porto 2000: un regalo ai privati
JOLLY HIDALGO COOKE
T
orniamo ad occuparci della
privatizzazione della Porto 2000, perché è un processo
che riguarda un bene pubblico
e quindi la vigilanza dei cittadini deve essere massima affinché
non si sperperino soldi pubblici.
Facciamo due conti in tasca alla
società e alle sue potenzialità,
anche se per queste cose, se ce ne
sarà bisogno, c’è una Corte dei
Conti che vigila appositamente
valutando se un bene pubblico
viene svenduto o meno. Partiamo
dal concetto che non esiste una
privatizzazione nel mondo nel
settore trasporti, da quella della regolazione del traffico aereo
dell’81 in Usa ad oggi, che generi
occupazione e un rapporto positivo investimenti-occupazione.
In Italia abbiamo il massimo
esempio della svendita nell’Iri,
da parte di Prodi, la cui operazione ha soltanto regalato profitti ai
privati su beni dei cittadini e soprattutto sulla pelle dei lavoratori le cui condizioni sono sempre
peggiorate in questi passaggi.
La Porto 2000 è per il 72% della
Port Authority e per il 28% della
Camera di Commercio. La PA
secondo la legge 84/94 deve far
scendere le sue quote sotto al 50%
ma nessuno dice che non sono
previsti vincoli e sanzioni (vedasi
paragrafo 5b della sentenza 4667
del 2014 del Consiglio di Stato).
I
n Toscana è scoppiato il caso
“nocività delle condutture di
acqua potabile in cemento amianto”. Grazie soprattutto ad alcuni
militanti di Medicina democratica (Md) di Firenze, la questione è
diventata un caso nazionale.
A Livorno il problema è ancora più preoccupante rispetto a
Firenze: a quanto si legge sul
sito dell’Autorità idrica toscana
(Ait) le tubazioni Asa Spa nel
Comune di Livorno sono per
157,53 km di cemento-amianto
su 450,20 totali dell’acquedotto,
cioè il 35,03%. Percentuale ben
superiore alla media toscana, che
è del 6%, e a quella di Publiacqua
(provincia di Firenze) che è del
3,6%. Secondo i dati la rete di
Asa è di gran lunga quella “messa
peggio” in Toscana con il 14,7%.
Particolarmente grave la situazione di Cecina con il 37%.
A Livorno, l’Asa ammette candidamente di non prevedere alcuna
sostituzione delle tubature. Come
le sue consorelle toscane, pare
molto più interessata a contenere
al massimo i costi a vantaggio dei
propri azionisti, anche privati. E
la salute dei cittadini?
Quando nell’ottobre 2014 Md
di Livorno chiese informazioni
all’Asa sul cemento amianto nelle
tubature, la società fornì dati largamente inferiori a quelli citati,
Non si vuole prendere in considerazione, come avvenuto per esempio
a Venezia con Vtp Spa, la cessione
a un ente o società pubblica (potrebbe essere Spil tramite l’emissione di
obbligazioni o la regione che pare
al momento abbia un sacco di milioni di euro da spendere…). Diciamo questo perché la società porta
profitti e non perdite. Oggi a capo
della Porto 2000 c’è il numero due
dell’Autorità Portuale (Ap), Provinciali, dopo l’allontanamento di
Piccini, titubante sulla privatizzazione. Il presidente dell’Ap Gallanti e Provinciali stanno, invece, andando spediti verso il bando di gara
che pare verrà pubblicato in questi
giorni. Le domande però sono ancora molte, vediamo quali. Innanzitutto, perché nel Piano Operativo
Triennale (Pot), redatto dalla stessa
Autorità Portuale, a pagina 83 si
dice che non verrà fatta alcuna gara
finché prima non sarà adottato il
Piano Regolatore Portuale? La pre-
sa di posizione contenuta nel Pot
ha molto senso poiché nel nuovo
Prp è prevista una sistemazione degli accosti con lo spostamento delle
attività della Compagnia Impresa
Lavoratori Portuali (Cilp) dall’Alto
Fondale al Molo Italia. Al momento, nessuno ne parla, ma la Porto
2000, nonostante il socio di maggioranza sia la PA, cioè la proprietaria delle banchine, paga una sorta
di sub-affitto di circa 900 mila euro
annui per le banchine dall’accosto
43 al 47 dell’Alto Fondale (anche
se in concessione a Cilp fino al
2024, le quali non vengono usate a
pieno regime, anzi le navi da crociera superano in numero quelle
di cellulosa). Questi soldi per chi
acquisterà la società, non verranno
più spesi una volta approvato il Prp
e aumenteranno l’attivo di bilancio
della società. Cilp possiede all’Alto Fondale, dove dovrà andare la
Porto 2000, un capannone per depositare la cellulosa, questo dovrà
essere trasferito in zona mk, ma al
momento c’è solo un progetto. La
domanda è: una volta approvato
il Prp, si sposterà davvero Cilp?
Quanto tempo passerà dall’approvazione del Prp alla sua attuazione?
Quando libererà l’Alto Fondale (rinunciando ai soldi di Porto 2000)?
La Porto 2000 è una società sana e
in attivo. Il 2014 è stato l’anno di
massima flessione del traffico passeggeri con circa 640.000 crocieristi (erano oltre 1 milione nel 2012
con oltre 2 milioni di utile, pagando
sempre per l’accosto alla Cilp) ma
l’attivo di bilancio è stato comunque superiore al
milione di euro. Le
previsioni del 2015
parlano di 680.000
crocieristi e circa
800.000 nel 2016.
Come utile si può
parlare,
considerando il risparmio
dei soldi alla Cilp
in base all’attuazione del nuovo Prp,
di circa 2,5 milioni
di euro annui. La
valutazione dell’advisor Kpmg interpellato da Gallanti, ha valutato
le quote possedute dalla PA in 5
milioni di euro (6,6 il totale). Ma
adesso dobbiamo smontare questa
cifra ridicola con semplici calcoli
matematici. La concessione in monopolio scade il 31 dicembre 2019 e
ciò significa un utile, per i restanti 4
anni, di circa 10 milioni di euro se
il Prp sarà attuato. Non si riesce
a capire come sia stato possibile
fare una valutazione della società di 6,6 milioni. Sono 3,4 milioni di euro regalati al privato, oltre
al monopolio del traffico passeggeri. La concessione nel bando
sarà forse prorogata al 2030 (si
dice addirittura che la scadenza
la metteranno i partecipanti in
base al loro piano industriale).
Serve valutare una base d’asta
che consideri gli introiti annui
di circa 2,5 milioni. L’utile potrà
essere poi incrementato in base
al piano di sviluppo e agli investimenti del privato
a cui carico ci
dovrà essere il rischio d’impresa.
In tutto questo
ballare di enormi soldi pubblici dobbiamo
aggiungere
la
scadenza
del
mandato di Gallanti che ufficialmente è fissata
ad aprile 2015.
A lui succederà un commissario
che non avrà pieni poteri decisionali come per esempio il rilascio di concessioni. Riteniamo
dunque che una decisione così
importante debba essere presa
dal prossimo presidente dell’Authority, che con pieni poteri si
assuma la responsabilità di tale
operazione.
Se la società
porta utili, perché
non si cedono
le quote a una
società pubblica o
partecipata come
Spil o alla Regione?
AMBIENTE - La denuncia di Medicina Democratica sulle condutture di acqua potabile
Liscia, gassata o... all’amianto?
segno quanto meno di una sottovalutazione. E alla richiesta di avere
la pianta dell’acquedotto, l’Asa rispose, incredibilmente, citando una
risoluzione europea del 2004 che
definisce strategici e quindi segreti
i servizi la cui distruzione potrebbe
ledere la sicurezza degli europei.
Risposta assurda che nasconde solo
la volontà di non permettere ai cittadini di tutelare la propria salute:
L’amianto
presente nelle
tubazioni dell’acqua
potabile può essere
molto pericoloso
la sicurezza degli europei si garantisce innanzitutto con la trasparenza!
Nella citata risposta a Md di Livorno, Asa riportò anche la tesi
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) secondo la quale
“non esiste alcuna prova seria che
l’ingestione
di
amianto
sia pericolosa
per la salute”.
La questione
è molto dibattuta, però
è almeno dal
1994 che esistono
studi
che dicono il
contrario. Significativa la
recente monografia curata
dalla Iarc (International Agency for Research on
Cancer), in cui si sostiene che l’amianto ingerito è pericoloso quanto quello respirato. L’ingestione è
considerata dalla Iarc “esposizione
primaria” al pari dell’inalazione, e
sono riportati gli esiti drammatici di
un test su topi: su 75 cavie che hanno ingerito amianto, 18 si sono ammalate di tumori dopo pochi mesi.
Il rapporto conclude, pertanto, che
le fibre di amianto presenti nell’acqua sono pericolose, senza contare
che possono essere anche respirate
lavando i pavimenti, asciugando i
panni o facendo la doccia.
Ci sono volute decine di anni di
dure battaglie contro le lobby industriali per mettere al bando l’amianto. Uno studio pubblicato dal
“British Journal of Cancer” nel
1999 dimostrò che almeno 400mila
persone potevano essere salvate se
si fosse provveduto appena furono
disponibili le prove scientifiche della nocività. Dovranno morire altre
persone prima che si arrivi a sostituire le tubazioni all’amianto?
Noi riteniamo necessario che:
1- A partire dal 2015 sia predisposto un piano triennale di
eliminazione delle condotte in
amianto, in piena sicurezza per
i lavoratori.
2- Sia avviato un piano di monitoraggio che verifichi il livello di
contaminazione dell’acqua potabile, utilizzando i più moderni
sistemi di rilevamento.
3- Siano resi noti in tempo reale i risultati delle analisi delle
acque e i punti di prelievo dei
campioni.
4- Venga impedito l’uso di polifosfati di zinco come biofilm
all’interno delle tubature in
amianto per ridurre la cessione
di fibre. Tale sostanza può essere
infatti molto pericolosa.
Queste sono le “grandi opere”
utili. I soldi, se si vuole, ci sono,
e lo dimostra il fiume di denaro sperperato in opere inutili e
dannose come i 130 milioni di
euro regalati in appena due anni
al rigassificatore di Livorno.
M.Z. (Md Livorno)
6
per non dimenticare
anno X, n. 102
FIAT 600 - 60 anni fa (marzo 1955) veniva presentata l’auto che sarebbe diventata uno status symbol
L’epoca d’oro del fordismo all’italiana
NELLO GRADIRÀ
P
rima della Seconda Guerra Mondiale il tentativo di
introdurre in Italia il modello
fordista era fallito. Negli anni
‘30 Mussolini aveva chiesto ad
Agnelli di produrre una vettura
che costasse meno di 5mila lire,
e la Fiat mise sul mercato la Topolino che però con un prezzo di
8.900 lire rimaneva inaccessibile
per le classi popolari. Dopo la
guerra il Piano Marshall permise di importare in Italia le modalità di produzione americane.
Alla Fiat andarono più del 12%
degli aiuti concessi all’industria
italiana (il 26,4% dei fondi destinati al settore meccanico e
siderurgico). In cambio però gli
americani pretesero l’espulsione dalla fabbrica dei militanti
sindacali e politici di sinistra.
A partire dal 1949 il presidente
della Fiat Vittorio Valletta mise
in atto una sistematica strategia
di discriminazione degli operai
social-comunisti. Furono diverse migliaia i licenziamenti per
“motivi disciplinari”, e coloro
che non furono licenziati vennero “confinati” all’Officina
Sussidiaria Ricambi, fuori da
Mirafiori, ribattezzata “Officina Stella Rossa”. La Fiom,
che prima del 1952 aveva circa
il 65% dei consensi, alle elezio-
ni del 1955 crollò al 37%. Vittorio Valletta, nato a Genova nel
1883, durante la Grande Guerra
aveva aderito alla Massoneria. Nel
1939 era diventato amministratore
delegato della Fiat, e al momento
dell’entrata in guerra si impegnò
ad assicurare al governo le forniture belliche richieste, chiedendo
però che le autorità garantissero
l’ordine interno militarizzando la
fabbrica. I dipendenti furono assoggettati alle disposizioni del Codice Militare di Guerra. Nel 1945
Valletta fu epurato per collabora-
zionismo con i tedeschi, ma l’anno
successivo venne reintegrato vista
la carenza di dirigenti esperti nel
settore. Nominato presidente, rimase in carica fino al 1966. Negli anni ’50 Valletta impone alla
Fiat una gerarchia rigidissima, caratterizzata da una disciplina assoluta. Gli operai indossano una tutta blu, i capireparto una giacchetta
nera ed un distintivo che riporta
il loro grado. Al “bastone” viene
affiancata la “carota” di iniziative
assistenziali e incentivi economici
che garantiscono la pace sociale.
La fedeltà all’azienda è finalizzata a
raggiungere un livello di produttività
che può permettere
salari più alti trasformando gli operai in potenziali acquirenti del prodotto automobilistico. Il 9 marzo del 1955
al salone dell’auto
di Ginevra viene
presentata la Fiat
600: velocità massima 90 kmh, 14
km con un litro,
costa 600mila lire
e si può acquistare
a rate. È la prima
vera auto di massa
italiana e diventa
uno status symbol per
le classi popolari. Nello stesso anno il Parlamento
vara un piano decennale per la costruzione di autostrade, e Valletta
decide insieme ai massimi dirigenti
dell’Iri perfino i tracciati autostradali. Nel 1947 in Italia circolavano
poco più di 184.000 automobili, appena una ogni 123,5 abitanti. Nel
1950 erano diventate 342.000, e nel
1956 si superava il milione di unità, mentre i televisori, che costavano più del doppio di una Seicento,
erano ancora meno di 400.000. Nel 1964 le auto private in circo-
lazione arriveranno a 4.670.000.
Mirafiori, dove vengono prodotti quasi tutti i componenti,
diventa in pochissimi anni un
immenso stabilimento con un
perimetro di oltre dieci chilometri, e i dipendenti Fiat, che
nel 1950 erano 20.000, nel giro
di vent’anni saranno quasi triplicati. Torino, che alla fine della
guerra aveva circa 600.000 abitanti, nel 1961 raggiunge il mi-
Il miracolo
economico tra
repressione
in fabbrica e
motorizzazione di
massa
lione, grazie soprattutto all’immigrazione dal Sud: solo nel
quinquennio 1955-60 i meridionali che si trasferiscono a Torino
furono quasi 85.000. Della Seicento vennero prodotti più di 5 milioni di esemplari,
dei quali 2.700.000 a Torino e il
resto all’estero (Germania, Spagna, Cile, Argentina, Jugoslavia). Rimase in produzione fino
al 1969, l’anno dell’autunno caldo e della riscossa operaia.
ÓSCAR ROMERO - 35 anni fa moriva, per mano di un cecchino degli squadroni della morte, un prete scomodo
FRANCO MARINO
Ó
scar Arnulfo Romero y Galdámez fu arcivescovo di San
Salvador tra il 1977 e il 1980. Erano gli anni dell’apice della guerra
fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione
Sovietica, fra l’organizzazione della Cia del golpe Pinochet del 1973,
passando per la rivoluzione sandinista in Nicaragua del 1979 che
scalzò il pluridecennale dittatore
Somoza amico del governo statunitense, fino all’invasione sovietica
dell’Afghanistan iniziata nel 1979.
Erano anni di riposizionamenti
strategici, e negli Usa la dottrina
politica dell’epoca vedeva nel Sudamerica il cosiddetto “giardino
di casa” (dottrina Monroe, 1823),
un’area saldamente all’interno della sua sfera di influenza dove non
era possibile tollerare dei regimi
ostili, cioè comunisti o simili. Qualunque alternativa era preferibile
tanto che gli Stati Uniti fornirono
aiuti, appoggio e addestramento
a regimi militari, spesso estremamente brutali, che rispondevano
dal punto di vista economico alle
sirene del capitalismo liberista di
Milton Friedman e della scuola di Chicago. Quasi ovunque la
gerarchia ecclesiastica si schierò
a fianco di questi regimi in nome
L’arcivescoco che non piaceva a Wojtyla
della lotta al marxismo. Anche in reazione a questo fenomeno, nacque in
Sudamerica una corrente interna alla
chiesa chiamata Teologia della Liberazione, di cui facevano parte anche
molti gesuiti (Papa Francesco se ne
è sempre tenuto distante). La Teologia della Liberazione predicava una
Chiesa vicina ai più poveri e, nella sua
versione più estrema, una vera e propria aderenza all’analisi della società
fatta dal marxismo. Altri sacerdoti
arrivarono a predicare il rifiuto della
comunione per i ricchi, mentre altri
ancora parteciparono attivamente ai
movimenti rivoluzionari di ispirazio-
ne socialista o comunista e molti sacerdoti parteciparono
alla guerriglia sandinista in Nicaragua. Romero nel 1977
quando
divenne
arcivescovo di San
Salvador era distante dalla Teologia
della Liberazione e
criticava la guerriglia
armata della sinistra
marxista contro la
dittatura militare, ma il contesto in cui
si trovò ad operare cambiò ben presto
la sua visione. Nel Salvador governava una giunta di derivazione militare
che fu a sua volta deposta da un colpo
di stato nel 1979. La nuova giunta militare si distinse subito per la feroce repressione degli squadroni della morte
durante le manifestazioni di protesta
e per la persecuzione di coloro che si
erano organizzati nel Fronte Democratico Rivoluzionario. In quei mesi,
dopo aver brevemente creduto che il
colpo di stato del 1979 potesse rappresentare una svolta liberale per il paese, Romero era ormai diventato uno
dei più accesi critici del governo. Nel
1980 scrisse al presidente degli Stati
Uniti Jimmy Carter, chiedendogli di
cessare l’invio di aiuti al governo del
Salvador, ma con l’arrivo di Reagan
il sostegno alla giunta addirittura aumentò tanto che chiese ai governi di
Guatemala e Honduras di sostenere
la giunta militare contro i “comunisti”. Romero cercò
anche di coinvolgere papa Giovanni Paolo II, che lo
ricevette in Vaticano e a cui spiegò
che era impossibile
sostenere il governo di El Salvador
perché appoggiava
le torture e gli assassinii compiuti
dai gruppi paramilitari. Wojtyla lo
trattò con grande freddezza, esor­tan­
dolo anzi ad andare d’accordo con il
governo. “Non mi sono mai sen­tito
così solo come a Roma”, rac­contò
l’arcivescovo ad una fedele. Il 24 marzo 1980 Oscar Romero fu colpito da
un colpo di pistola partito da un’auto
con la portiera aperta mentre faceva un sermone di denuncia contro tortune e sparizioni. Nessuno
rivendicò ma tutti sapevano che i
mandanti erano nella giunta militare. Solo post mor­tem, nel 1983,
durante un viag­
gio in Sal­
va­
dor,
Gio­vanni Paolo II si recò a pre­gare
sulla tomba di Romero. Non andò
molto
oltre
nominandolo
“servo di Dio”
nono­stante sia
stato il Papa che
abbia “fab­bri­
cato” il mag­gior
numero di santi
e beati della storia. La pratica
per la beatitudine di Romero è
stata sbloccata
poche settimane
fa su pressione di Papa Francesco.
Ma queste sono questioni istituzionali e di forma a distanza di 35
anni. Nella sostanza, per l’ennesima volta, le gerarchie ecclesiastiche
giocarono il ruolo di complici dei
fascisti e dei torturatori.
Romero denunciò
omicidi e torture
della giunta militare.
Fu ucciso tra
l’indifferenza della
Chiesa e l’ostilità
degli Usa
in uscita dal 14 marzo 2015
7
stile libero
SUONI - Dopo Fumatori della sera (2011), l’atteso nuovo lavoro in studio dei Carneigra
I
Carneigra, uno dei progetti musicali più originali nati
a Livorno negli anni 00, sono
tornati sulla scena con una nuova formazione e con un nuovo
brillante disco: A vita bassa, realizzato grazie ad un’azzeccata
campagna di autoproduzione
che ha riscosso molte adesioni
ed attenzioni. Abbiamo intervistato per l’occasione Emiliano
Nigi, da sempre l’anima e la
voce del gruppo, che insieme al
batterista Daniele Paoletti (già
con i Carneigra dal 2012) ed al
chitarrista e compositore fiorentino Francesco Canavese, vanno
a formare questo nuovo trio.
Dopo un periodo di “crisi” i
Carneigra sono tornati.
Sì, siamo tornati dopo circa due
anni di assenza. In realtà non
la chiamerei crisi, in questi due
anni sono successe molte cose,
soprattutto dentro la mia testa...
No a parte gli scherzi, lasciare
una situazione che va avanti da
dieci anni e iniziarne una nuova
ha bisogno di tempo, come in
tutte le relazioni.
Chi sono e cosa vogliono essere
oggi i Carneigra?
Oggi i Carneigra sono Emiliano, Daniele e Francesco. Oggi
i Carneigra sono i Carneigra,
nel senso che la sostanza non è
molto cambiata, sono sempre io
a scrivere i pezzi, quindi le tematiche e lo stile credo sia sempre
abbastanza riconoscibili (anche
se spero di aver fatto dei progressi, almeno nella forma).
A vita bassa
Da cosa siete ripartiti e con quali
nuove prospettive e stimoli?
Siamo ripartiti dalle canzoni,
come sempre, e da una voglia di
lavorare insieme che è cresciuta
strada facendo.
Già da un po’ di tempo collaboriamo con Daniele e quindi sapevo
che mi sarei trovato bene con lui,
ma Francesco per me era un’incognita, abbiamo detto: “proviamo
e vediamo cosa succede”. Adesso
posso dire di essere estremamente
fortunato ad avere l’opportunità di
lavorare con lui.
Sta per uscire il vostro nuovo disco.
Sì, sta per uscire il nuovo disco A
vita bassa, ancora un’autoprodu-
zione,
ma
stavolta non
l’abbiamo
fatta da soli,
abbiamo
chiesto aiuto
a chi crede
nel progetto
e a chi già ci
c o n o s c eva ,
insomma abbiamo fatto un progetto di crowdfunding ed è stata una
bellissima sorpresa, molto emozionante.
Elementi di continuità e di differenza rispetto ai precedenti?
Se da un lato, come dicevo prima,
i testi e le tematiche credo abbiano
una certa coerenza con i preceden-
ti, a livello sonoro il cambio è quasi totale. Dico quasi perché mi piace considerarlo come un proseguimento dei precedenti. La differenza è ovvia non solo dalla diversità
degli strumenti (Fumatori della sera
era un disco acustico che utilizzava mandole, mandolini etc., mentre qui abbiamo chitarra elettrica,
batteria e batteria elettronica), ma
anche dallo spirito da cui siamo
partiti: mescolare la canzone d’autore con nuove sonorità,
imbastardirla, renderla
più ruvida.
Raccontaci
la storia produttiva del
disco.
La storia è
stata comune a molte
altre storie,
nel senso che
ci siamo rinchiusi in una
stanza per un po’ di tempo e abbiamo iniziato a lavorare all’inizio io
e Francesco cercando di arrangiare alcune idee che avevo in mente,
poi con Daniele i pezzi prendevano più forma, fino ad arrivare
in studio più o meno con le idee
chiare. Qui ci ha accolto il sapiente Antonio Castiello che, come in
tutti i dischi dei Carneigra, ha
messo lo zampino con consigli
e suggerimenti preziosi. La cosa
buffa di tutto questo processo è
che abbiamo registrato il disco e
praticamente non abbiamo mai
suonato insieme dal vivo.
Di cosa parla questo nuovo disco?
A vita bassa affronta varie tematiche. Fondamentalmente è una
foto degli ultimi due anni, non
solo della mia vicenda personale, ma soprattutto del momento
che stiamo vivendo sia a livello
politico che sociale.
Gli ultimi due anni sono stati
devastanti a livello mondiale, c’è
stato un tracollo sia a livello economico che sociale che cultura-
“Mescolare la
canzone d’autore
con nuove sonorità,
imbastardirla,
renderla più ruvida”
le, questo disco vuole essere una
piccola testimonianza.
Una strofa che ne racchiude il
senso?
“Brucia l’Italia, brucia perché
non ha più i sogni con sé”.
Info: carneigra.it
A cura di Lucio Baoprati
LETTURE - Una nuova raccolta di racconti del poliedrico artista labronico Valerio Michelucci
Sognare e svegliarsi a Livorno
VITA FINI ROGNONI
C
he sia solo sognata, la Livorno del suo libro, Valerio
Michelucci ce lo dice già dalla
copertina. Il volumetto pubblicato lo scorso anno (dicembre 2014) da Belforte Cultura,
porta infatti un titolo romantico, “Livorno sognata”, subito
smorzato nel sottotitolo: “trentatre racconti semi seri, mezzo
veri, dai Medici ai dottori”. Si
tratta di alcuni scritti apparsi
sulla rubrica Ti picchio lunedì
curata nel 2013 dallo scrittore
sul sito piratiesirene.it (parte dei
quali già pubblicati, sempre
per Belforte Cultura, nell’omonima pubblicazione del giugno
2014) adesso raccolti, insieme
ad altri racconti inediti, in una
elegante veste cartotecnica
che coinvolge gli artisti livornesi Francesco Ripoli, autore
dell’illustrazione di copertina,
Diego Bisso, che firma invece la quarta, e Stefano Pilato,
autore della pianta di Livorno
che contiene indizi sulle location dei racconti. Come nei
copioni o nelle sceneggiature
cinematografiche, al lettore
viene offerta un’indicazione di
tempo e luogo, ma il tecnicismo
è fornito solo per essere stravolto
dall’azione che andrà in scena:
così la passeggiata mattutina con
il cane, il picnic al mare con la
famiglia o la pesca di fronte alla
Vegliaia sono spunti biografici
attraversati dall’immaginazione
dell’io narratore autoriale che,
girovago e sognatore, appunto,
incontra personaggi tra i più disparati: da Steven Spielberg a
Maradona, dal Dalai Lama per
“Nell’unto del mio
piatto, sotto ai gusci
impilati di cozze,
cerco un appiglio
per non affogare”
arrivare a Garibaldi, e moltissimi
concittadini, rappresentanti di
tutte le epoche, più o meno ordinari, del nostro pittoresco microcosmo cittadino.
L’incontro è occasione di scambio e dai dialoghi, che dal mondo
reale traggono solo il pretesto, sempre
deliziosamente labronico, si dipanano narrazioni che seguono il filo
dell’aneddoto o quello
della
pura
riflessione in
una
logica
che, proprio
come accade
nei sogni, ricorda molto
quella delle
scatole cinesi. Il libro è
dedicato ai
leggeri,
ma
Michelucci,
che è anche
artigiano
e
artista (sua
e di Stefano Pilato è
la Bomba appesa tra i palazzi
all’entrata del mercato di piazza
Cavallotti) coniuga la spensieratezza e il gusto per la sempli-
cità delle cose buone (il frate, i
tramonti, le acciughe, l’adorato
cane Tito) con critiche fondate
alla nostra noncuranza talvolta
indolente, che è virtù del viver bene, ma diviene talvolta
pericolosa condanna all’oblio;
critiche all’amministrazione,
passata e ventura (molti dei
racconti sono stati scritti prima
del 9 giugno 2014) che scegliamo per la nostra amata e luminosa città; critiche bonarie
rivolte a un noi collettivo col
sorriso beffardo di chi conosce la propria realtà ma non ha
problemi a smontarla con un
giro di sogno, con una parola
chiave urlata e strascicata nel
vento o con un plurale volutamente sbagliato.
I sogni di Michelucci hanno
l’indiscutibile merito dell’ironia, perché con una leggerezza
per niente casuale l’io narratore affronta epoche e personaggi molto diversi, da un punto
di vista e un linguaggio sempre
fresco nella sua vivacità, e mai
banale. Il risultato è una passeggiata che si fa volentieri a
braccetto con Michelucci, attraverso i suoi sogni popolati e
riflessivi, impegnati ma a tratti
leggeri, su quello che saremmo
potuti essere ma che, abbastanza spesso, non siamo diventati.
Pagina Otto
ANNO X - n. 102 - in uscita dal 14 marzo 2015
TITO SOMMARTINO
B
ritt abita a poche centinaia di
metri da Anfield. Oltre a parlare un buon spagnolo scopro che è
tedesca e tifa Sankt Pauli. Lavora
esattamente di fronte alla Kop, la
curva calcistica forse più famosa del
mondo, in una cooperativa sociale
che svolge una curiosa, duplice attività: bakery (panetteria/pasticceria
con possibilità di mangiare a colazione e pranzo) e progettazione di
edilizia popolare, collettiva e comunitaria allo scopo di creare lavoro
per le imprese sociali, alloggi a prezzi accessibili e spazi per socializzare
e vivere un quartiere, quello di Anfield, in profonda depressione. “Il Liverpool - racconta Britt - ormai
è un brand multinazionale in mano
a una società americana che ha totalmente abbandonato qualsiasi relazione con il territorio. Non come
l’Everton, che pur essendo più povero come club continua ad essere
impegnato sul sociale e non ha mai
smesso di investire sul territorio”. Parole stridenti perché risuonano
mentre lo sguardo fissa oltre la finestra della bakery l’insegna del Paisley Gateway, il cancello che dà accesso alla Kop e al museo del Liverpool Football Club. Sin dalla mattina lo stadio di Anfield è una lenta e continua processione. Colpisce favorevolmente l’ubicazione dell’impianto, in mezzo
alle case, senza cancellate e muri di
cinta. Ci sono gli immancabili turisti calcistici del terzo millennio
(molti dei quali con gli occhi a mandorla) che arrivano in taxi e dopo
essersi fatti un selfie davanti alla statua di Bill Shankly eseguono la visita guidata al museo, escono e rientrano nell’adiacente shop ufficiale,
riempiono il carrello, pagano e poi
vanno a mangiare uno scadente
fish&chips da 10£ nel bar-ristorante
dello stadio. Molti di loro, c’è da
giurarlo, neanche entreranno allo
stadio la sera per il match di Europa
League contro i turchi del Besiktas.
Ma gliene importerà il giusto. E se
lo faranno sarà perché hanno tirato
fuori una fraccata di soldi rivolgendosi ad agenzie private via internet,
l’unico modo possibile per entrare
in stadi particolarmente appetiti
come Anfield. Si tratta di abbonamenti di cui viene venduta la singola partita per cifre esorbitanti. Abbonamenti nominali e quindi non vendibili a terzi. Ma in Inghilterra, a
differenza dell’Italia, nessuno chiede i documenti di identità all’ingresso. Il biglietto più economico per
assistere alla partita, costato 27 sterline agli abbonati, veniva rivenduto
ad un prezzo minimo di circa 130
sterline. Tanto per avere un’idea della mole del business. Sul marciapiede opposto alla Kop ci
sono due o tre pub e altrettanti paninari e venditori di sciarpe, cappellini, magliette. Ma soprattutto c’è
l’Hillsborough Justice Campaign,
l’associazione dei familiari delle vittime della tragedia di “Hillsborough”, lo stadio di Sheffield in cui il 15
aprile 1989 persero la vita 96 tifosi
del Liverpool e 766 rimasero feriti
durante una semifinale di Coppa
d’Inghilterra contro il Nottingham
Un giorno ad Anfield
CALCIO - Dalla mattina alla sera fuori e dentro uno dei templi
mondiali del calcio: quello di Anfield, a Liverpool. Shankly,
Paisley e la Kop, You’ll Never Walk Alone e il ricordo vivo della
tragedia di Hillsborough, la rimonta leggendaria di Istanbul e le
5 Coppe dei Campioni. Ma anche una tifoseria ormai spogliata
della sua identità, piegata al cosiddetto “modello inglese”.
Forest. Grazie a Stefano, tifoso livornese col cuore per metà amaranto e
per metà red, conosciamo Steve e
Cherie. È merito loro e di chi li affianca se è finalmente emersa una
verità giudiziaria totalmente opposta
a quella che il governo Thatcher, appoggiato da tv e giornali conniventi
(a cominciare dal The Sun che dopo
la tragedia sbatté in prima pagina
perfino presunti atti di depredazione
dei tifosi degli Scousers nei confronti
dei cadaveri all’interno dell’impianto). Solo nel settembre del 2012 il governo inglese ha ufficialmente riconosciuto le colpe della polizia e scagionato definitivamente la tifoseria
dei Reds. Dal nuovo lavoro d’indagi-
Ci danno il
benvenuto due
cartelli: il primo ti
ricorda il divieto di
fumare, il secondo
ti invita a fare la
spia in caso di
comportamenti
illeciti
ne è inoltre emerso che la polizia
avrebbe “indirizzato” i media britannici verso una versione dei fatti diversa da quanto realmente accaduto,
modificando a loro favore anche 164
testimonianze di chi era presente allo
stadio, con l’intento di assolvere poliziotti e soccorritori dalle loro colpe e
manchevolezze. La tragedia fu inol-
tre strumentalizzata per orientare favorevolmente l’opinione pubblica britannica verso una stretta repressiva finale nei confronti degli hooligans, portata avanti dal governo
Thatcher ed avallata dalle conclusioni del rapporto Taylor. Ad un paio d’ore dall’inizio della
partita manca ancora una cosa: una
birra al The Park. Il The Park non è un
pub, è “il” pub. Il pub della Kop, alla
stregua del dirimpettaio The Albert,
che negli anni ’70 e ’80, se non eri un
red, avevi timore solo ad avvicinartici. Qua dicono: “The Park before, The
Albert after”. Entriamo ed è un boato:
lo Young Boys ha appena segnato
all’Everton. Che poi si rifarà con gli
interessi, segnandone 4 ai malcapitati svizzeri. Il pub è strapieno e si cantano i cori mitici dei Reds: Fields of
Anfield Road, Pour Scouser Tommy,
When the Reds go marching in. Ci sono
anche alcuni tifosi del Besiktas. Segno dei tempi. Le strade che circondano Anfield si
sono intanto riempite di tifosi turchi.
Molti hanno le sciarpe dei Çarşi, la
tifoseria organizzata del Besiktas, coloro che hanno guidato le recenti rivolte ad Istanbul e di cui abbiamo
parlato nel numero 100 di Senza Soste. Per entrare allo stadio c’è un solo tornello e nessuna perquisizione. Ci
danno il benvenuto due cartelli: il
primo ti ricorda il divieto di fumare,
il secondo ti invita a fare la spia in
caso di comportamenti illeciti da
parte di qualche tifoso. Pochi passi e
ci imbattiamo in un’agenzia di scommesse sportive. Lo stadio, a mezz’ora dal fischio d’inizio, è semivuoto.
Le file sono strettissime e le poltroncine anguste. Quelli del Besiktas
sono già tutti rigorosamente in piedi,
cantano e non smetteranno più fino
all’86’. Tranne due o tre momenti si
sentiranno solo loro. Il primo momento è quello che da solo vale il
prezzo del biglietto. Tutta Anfield si
alza in piedi, mostra le sciarpe in
alto e tira fuori la voce: When you
walk through a storm - Hold your head
up high - And don’t be afraid of the
dark - At the end of the storm - Is a golden sky - And the sweet silver song of a
lark - Walk on through the wind - Walk
on through the rain - Though your
dreams be tossed and blown - Walk on
walk on with hope in your heart - And
you’ll never walk alone - You’ll never
walk alone - Walk on walk on with hope
in your heart - And you’ll never walk
alone - You’ll never walk alone. I decibel non sono quelli degli stadi greci,
ma si tratta comunque di uno dei
momenti più magici che si possa vivere sugli spalti di uno stadio di calcio. La partita scorre via con la colonna
sonora costante dei cori dei tifosi turchi. A parte loro e la Kop il resto dello stadio sta a sedere. Ci si alza solo
per qualche secondo quando l’azione si svolge negli ultimi 25 metri. Poi
passa uno steward che ti invita a rimetterti a sedere. Ci vuole un rigore
di Balotelli (un idolo dei tifosi, non
chiedetevi il perché) a 4’ dal termine
per sentire l’esplosione di Anfield.
Che subito dopo, abbastanza sorprendentemente, si rivolge compatta
ai duemila turchi gridandogli con
rabbia: “You are not singing anymore”.
Ci sono attimi di tensione, i primi di
una lunga giornata tranquilla, iniziata con i turchi festanti per le strade
del centro città con bandiere e torce.
Un piccolo ma quanto mai importante segno di decadenza, l’ha definito Gareth Roberts, un giornalista
locale: “Un canto piccolo, stupido e
provinciale che fino a ieri è stato regolarmente deriso dai veri tifosi del
Liverpool è stato cantato da quasi
tutto lo stadio. Niente vi era di quella famosa atmosfera che ha reso celebre Anfield nelle notti europee. E
allora perché tutta Anfield l’ha urlato all’unisono? Perché hanno voluto
prendere per il culo chi, senza mai
offenderci né mostrarci ostilità, ci
ha dato una lezione di tifo? Chi mette piede ad Anfield dovrebbe conoscere cosa cantare e cosa non. Rispettare le tradizioni. Conoscere la
storia di questa tifoseria. Non comprare The Sun e spiegartene con orgoglio il ​​motivo. E invece oggi trovi
chi urla ad Henderson che è una
merda, chi chiama Rodgers buffone, chi canta Pour Scouser Tommy
con parole sbagliate e chi urla a
squarciagola consigli tattici per 90
minuti. Stiamo assistendo all’omogeneizzazione della folla da stadio: i
nostri stadi sono stati infiltrati da
una folla addomesticata che indossa
felicemente sciarpe metà e
metà. Che consuma calcio piuttosto
che amarlo. Una folla di tifosi occasionali che ha poco interesse a rivalità e tradizioni e vuole l’evento, il
prodotto, la foto da postare su Facebook e lo You’ll Never Walk Alone da
inserire su YouTube. I tifosi del Liverpool sono sempre stati considerati originali, diversi dagli altri inglesi. Divertenti, spiritosi, taglienti. Le
nostre canzoni dove sono andate a
finire? Che fine hanno fatto la fantasia e l’ingegno? Perché è più facile
ascoltarli nei pub che allo stadio?
Cosa si può fare per affrontare tutto
questo? Lasciare che il Liverpool e
la Kop diventino un club e una curva come tante altre sarebbe un vero
peccato”. Troppo tardi caro Roberts, questo è il tanto decantato
modello inglese. Ha fatto scuola e,
purtroppo, non si torna più indietro.