MAGGIONI funzioni parola - Facoltà Teologica Torino

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MAGGIONI funzioni parola - Facoltà Teologica Torino
B. MAGGIONI, La vita delle prime comunità cristiane. Riflessioni bibliche e pastorali, Borla, Roma 19922, pp.
63-81
L'annuncio della fede: le funzioni di parola
Il servizio della parola nell'età apostolica fu straordinariamente ricco e diversificato, “sia riguardo alle persone
che vi sì consacravano, sia per le forme letterarie che utilizzava, sia infine per le condizioni generali nelle quali si svolgeva”1.
Per esempio, incontriamo le persone più diverse che annunciano il messaggio e offrono l'istruzione: gli apostoli, Paolo e Barnaba, Apollo, Ì diaconi (Stefano e Filippo), i profeti e i dottori (Atti 13,1-3), le figlie di Filippo,
vergini e profetesse (Atti 21,8-9), gli sposi Prisca e Aquila .(Atti 18,24-26).
Annuncio e istruzione avvengono nei luoghi più disparati, là dove l'uomo concretamente vive: i luoghi dove sì
raduna l'ecclesia, il tempio, la sinagoga, le case, la piazza, l'incontro fortuito.
Ancora più varie e numerose, se possibile, sono le forme letterarie che il servizio della parola utilizzava: formule liturgiche, professioni di fede, inni, racconti, discorsi, lettere, dibattiti e controversie, e altre ancora.
Un quadro dunque assai vario e ricco (indice di profonda fede nella parola, di ansia missionaria e di inventiva
pastorale), che però sì muoveva costantemente entro due tensioni: una certa regolarità e una certa creatività2. La prima testimonia l'attenta fedeltà al messaggio di Gesù e alla tradizione, e l'esigenza dell'essenziale.
La seconda mostra il rifiuto di ogni meccanica conservazione delle forme del passato e un continuo sforzo,
invece, di rimanere aderenti al mobile filone della vita concreta. Continuità, dunque, ma nessuna imitazione
servile, neppure delle forme usate da Gesù stesso. Quanto detto fin qui è semplicemente una premessa, che
deve rimanere sullo sfondo. Il nostro interesse è più preciso e circoscritto. Vogliamo concentrarci sulle funzioni di parola, e neppure su tutte, ma sulle principali. Le funzioni di parola non si identificano con l'ambiente
vitale (il cosiddetto “Sitz im Leben”), entro il quale la tradizione orale prima, e scritta poi, si è modellata: ambiente cultuale, missionario, polemico ecc. E neppure sì identificano con le forme letterarie che sopra abbiamo elencate.
Sono piuttosto gli scopi (ma il termine non è completamente adeguato) che si vogliono raggiungere, in ambienti vitali diversi o servendosi di forme diverse. In effetti il servizio della parola sì fa carico di funzioni molteplici, tutte tese al grande scopo della crescita della comunità e dell'annuncio della fede: per esempio l'evangelizzazione, cioè il primo annuncio del messaggio, ha lo scopo di suscitare l'adesione in chi non ha ancora la
fede; l'istruzione o dottrina, cioè l'approfondimento, ha Io scopo di far comprendere più a fondo e di dedurre
dal centro del messaggio tutte le conseguenze per la vita; l'esortazione vuole correggere e infondere slancio;
la testimonianza vuole illustrare e garantire e convincere; la profezia spinge la comunità a discernere la volontà di Dio nella storia.
L'annuncio/evangelizzazione
La funzione dell'annuncio è testimoniata dovunque nel Nuovo Testamento, Ne parliamo per prima, perché la
riteniamo la funzione fondamentale (Io deve essere anche oggi), mai data per scontata: le altre funzioni sono,
alla fin fine, un'esplicitazione di questa.
1. - La funzione dell'annuncio (o evangelizzazione) tende a presentare il centro del messaggio a chi ancora
non è giunto alla fede: Io scopo di portare alla fede e convenire.
Troviamo l'annuncio condensato in formular! brevi (forse questi rappresentano lo stadio più arcaico), come ad
esempio Me. 1,14-15; 6,12; Mt, 10,7; Le. 9,2; Atti 2,36; 13,38 ecc. Il contenuto dì queste brevi formulazioni
dell'annuncio è la lieta notizia del Regno o, in altri termini, la salvezza apparsa a noi nella morte/risurrezione
di Gesù. Il contesto è quello missionario. Ma troviamo l'annuncio anche nella forma più evoluta del vero e
1 Cfr. J. P. AUDET, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale della chiesa, Giornale di Teologia 12, Brescia 1967, 77.
2 Idem o.c. 76.
1
proprio discorso: per es. Atti 2,14-40; 10, 34-43. Un interesse a parte rivestono, infine, i discorsi della prima
parte del vangelo di Giovanni (che noi riteniamo fondamentalmente kerigmatici).
2. - Come esempio tipico di formulazione breve possiamo prendere Me. 1,14-15. La struttura è semplicissima:
all'indicativo (il Regno si è fatto vicino e il tempo è compiuto) segue l'imperativo (convertitevi e credete). Questa è una struttura costante, e mostra che l'iniziativa è dì Dio e la salvezza è un dono: la morale è risposta. La
morale nasce dalla fede. II tono è quello del banditore, che in pubblico e ad alta voce (lo devono sentire tutti!),
porta una novità lieta e attesa. L'annuncio suppone infatti che negli ascoltatori ci sia un bisogno di salvezza,
un'attesa. E c'è fretta, l'annuncio sì muove in un clima di urgenza.
Dal punto di vista letterario la formulazione è lapidaria, sintetica e globale, ricca d'evocazione, capace di imprimersi nella mente e suscettibile di essere ritenuta a memoria. Naturalmente c'è da pensare che queste
formulazioni sintetiche venissero non soltanto proclamate, ma spiegate parola per parola.
3.
- Come esempio dì annuncio/discorso possiamo prendere Atti 2,11-40 e 10,34-43. La situazione è
certamente quella della propaganda missionaria, sia in ambiente giudaico che ellenico. Questi discorsi suppongono un uditorio vasto e un ambiente pubblico. La diversità di ambiente (giudaico o ellenico) incide sulle
modalità dell'annuncio, determinando scelte, omissioni e sottolineature.
Questi discorsi kerigmatici obbediscono a una struttura costante: si parte da una situazione concreta (che ha
attirato l'attenzione degli ascoltatori e che è suscettibile di interpretazioni diverse); sì esplicita lo stato dì peccato in cui gli ascoltatori si trovano e il loro bisogno di salvezza; si racconta, a grandi linee, la storia di Gesù di
Nazaret, morto e risorto a nostra salvezza; si offre la garanzia della testimonianza apostolica, delle Scritture e
del dono dello Spirito; si invita alla conversione e al battesimo.
4. - Si può ancora intravedere, dietro la stesura attuale dei discorsi del Libro dei segni (Gv. 1-12), la primitiva
situazione missionaria d'annuncio. Però a differenza dei discorsi degli Atti è difficile pensare alla piazza e a
un pubblico vasto.
È più spontaneo pensare a un dibattito all'interno di un gruppo.
I discorsi di Giovanni rispecchiano una situazione missionaria più evoluta: c'è stato un lungo approfondimento
del messaggio (e già iniziano le prime eresie cristologiche) ed è in atto un dialogo/opposizione con le proposte religiose e culturali dell'ambiente (giudaico e ellenico). Il contenuto dì questi discorsi è sempre e unicamente cristologico: un contenuto assai semplice, per lo più riassunto in formule lapidarie, come Io sono il parte, Io sorto la luce, Io sono la vita. Queste formulazioni lapidarie (che poi il discorso spiega e approfondisce)
proclamano che in Gesù si trova ciò che l'uomo va cercando, e soltanto in Gesù. C'è un'accentuata nota polemica in quell'Io sono di Gesù: in Gesù c'è la vera salvezza, non nelle molteplici proposte che gli uomini
vanno facendo. L'annuncio giovanneo si serve con predilezione del dibattito e della discussione (nei discorsi
ci sono tracce evidenti) e di un linguaggio che potremmo dire ecumenico, dalle molteplici risonanze (in grado
cioè di agganciare spiriti diversi): tale è infatti, ad esempio, la simbologia della luce, dell'acqua, del pane, della vita: esprime la ricerca di salvezza sia dei giudei che dei greci.
5. - Non sarebbe difficile intravedere le forme dell'annuncio in altri testi, e sarebbe interessante notare che
l'annuncio si avvale di tutte le forme e di tutte le occasioni possibili, per esempio la discussione (così le discussioni di Stefano raccolte poi in un discorso: Atti 6, 8-53), la conversazione occasionale (per es. Atti 8, 2639), il racconto (ad es. i racconti della Passione, che in alcune parti sembrano addirittura dei racconti “sceneggiati”, nei quali l'azione viene commentata da una voce fuori campo).
Ma ci basta ribadire, in conclusione, quanto in gran parte già detto. Dovunque si svolgesse la funzione dell'annuncio o qualsiasi forma assumesse, c'erano sempre delle costanti: l'essenzialità del mistero di Gesù
(l'annuncio si polarizza sul centro da cui tutto deriva) e insieme la netta (anche se ancora globale) percezione
del suo significato salvifico per noi e del radicale cambiamento di mentalità che esso esige; la fedeltà al dato
tradizionale e insieme una grande capacità di adattarsi al tempo e alle situazioni; la fiducia nell'annuncio (in
esso risuona la potente parola di Dio) e insieme l'accettazione della debolezza (l'annuncio conosce la contraddizione e U rifiuto, dai quali in nessun modo si deve fuggire ricorrendo agli argomenti persuasivi della
sapienza degli uomini).
2
La catechesi e l'istruzione
1. L'istruzione (o catechesi) è — grosso modo — l'insegnamento sistematico dedotto dall'annuncio: sì rivolge
a una comunità credente che intende approfondire il messaggio e dedurne le conseguenze per la vita. Occupa larga parte degli scritti del Nuovo Testamento, e si esprime in forme e situazioni assai varie. Dal punto di
vista del contenuto, l'istruzione si muove abbastanza chiaramente lungo due direttrici: l'una più morale (sì
sforza di dedurre dal kerigma le conseguenze pratiche) e l'altra più teologica (sì sforza di penetrare e collegare in una comprensione armonica e unitaria i diversi aspetti dell'annuncio, e si sforza di evidenziare l'originalità della proposta cristiana nei confronti del mondo giudaico e pagano).
2. L'istruzione risale allo stesso Gesù. Allo scopo egli si è molto servito, ad esempio, delle parabole, nelle
quali prevale l'illustrazione del Regno (aspetto teologico). Nell'uso invece degli evangelisti è prevalso l'aspetto
morale e parenetico (sì vedano, in proposito, le conclusioni delle parabole nelle diverse redazioni evangeliche).
Il Nuovo Testamento non ha continuato il genere parabola {che cosi è rimasto tipico di Gesù): si è andati
verso forme più parenetiche ed esortatorie (cfr. ad es. Rm 12,1-15; 13).
Disseminati nei diversi scritti ci sono brevi sommar! catechetici (come 1 Cor. 11, 23b-26 e 15, 3b-7), che probabilmente riassumono la catechesi sacramentaria (battesimo ed eucaristia). E ci sono i grandi discorsi di
istruzione che nella tradizione orale circolavano sparsi, quali i grandi discorsi di Matteo. Il discorso della montagna (Mt 5-7) — per accennare a un esempio — è una catechesi (forse per catecumeni provenienti dal giudaismo) che si sviluppa attorno a un centro: in che cosa consiste l'originalità cristiana nei confronti della giustizia degli scribi e dei farisei (5, 20). Ma anche gli altri argomenti della catechesi matteana sono altrettanto
interessanti: la missione (c. 10), la presenza del Regno nella storia (c. 13), il comportamento di una comunità
che vuole vivere la sequela (c. 10), l'escatologia e le sue conseguenze per l'oggi (cc. 24-25).
3.
Il passaggio dall'annuncio all'istruzione (soprattutto quella teologica) fu mosso e guidato da tre esigenze: il dinamismo della fede (che non può accontentarsi di una conoscenza globale ma che sempre più si
sforza dì penetrare l'oggetto della fede); la lettura delle Scritture (le Scritture vengono lette a partire da Cristo,
ma a loro volta, così lette, offrono un principio di intelligibilità per penetrare nel mistero di Gesù); la contemporaneità: eventi, situazioni ecclesiali, culturali, storia.
4. Quanto appena affermato può essere illustrato attraverso un esempio che riteniamo paradigmatico, e cioè
la catechesi paolina sulla risurrezione che troviamo in 1 Cor. 15 (in particolare ci interessa 1 Cor. 15, 1-11). Ci
si accorge immediatamente che il discorso sulla risurrezione (che occupa l'intero cap. 15) è sorto sulla base di
dubbi e perplessità che circolavano nella comunità di Corinto. E un intervento occasionale, sostitutivo di un
discorso orale, in risposta ad alcuni interrogativi concreti. I grandi progetti teologici del Nuovo Testamento,
compreso quello paolino, furono elaborati a partire dai problemi che dì volta in volta emergevano nella comunità. Sono teologia vissuta. Per questo non si può capire la teologia di Paolo (e ogni altra del Nuovo Testamento) se non si conoscono i problemi pastorali da lui incontrati. Il teologo e il pastore sono inseparabili. In
secondo luogo, il brano che stiamo considerando ci fornisce una risposta a un importante interrogativo: quali
sono le fonti a cui lo sviluppo dottrinale del Nuovo Testamento attinge ì molteplici elementi del suo discorso?
Paolo attinge al patrimonio della tradizione comune. L'originalità del suo pensiero non è mai a scapito della
fedeltà alla tradizione. Al contrario, il kerigma apostolico prevale sulla riflessione personale e sulla elaborazione teologica. Come si vede con chiarezza nel nostro brano, Paolo argomenta a partire dal dato tradizionale
comune: è analizzando un'antica formula catechetica, espressione della fede di tutte le chiese, che Paolo
trova Ì criteri per risolvere i dubbi dei Corinzi. Poi Paolo utilizza per la comprensione del mistero di Cristo e
dell'esistenza cristiana la sua ampia e profonda conoscenza delle Scritture. È solo mediante lo strumento
delle Scritture che la storia di Gesù diventa intelligibile e dischiude il suo significato di salvezza. Infine, dopo il
patrimonio della tradizione e il riferimento alle Scritture, è per Paolo luogo di elaborazione teologica la propria
personale e vigorosa esperienza di fede. Ecco perché, accanto all'esperienza apostolica, Paolo colloca la
3
propria. Il significato della morte e risurrezione di Cristo, tramandato dalla predicazione apostolica e illuminato
dalle Scritture, continua a rivelarsi e ad attualizzarsi nella vita cristiana.
L'esortazione
1. In 1 Tim 4,13 leggiamo: “In attesa della mia venuta applicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento”.
In attesa di Paolo, Timoteo deve porre tutto il suo impegno nel dispensare la parola di Dio, nelle tre forme
tradizionali della lettura, dell'esortazione e dell'insegnamento. L'articolo ripetuto davanti ai tre sostantivi indica
che le forme descritte sono definite e ben conosciute3.
Sono le tre forme ufficiali che fanno parte del servizio della parola. Non è la lettura personale e privata, ma è
quella pubblica, che avviene nell'assemblea liturgica, secondo l'uso ereditato dalla sinagoga. Alla lettura segue un'esortazione.
La parola di Dio non deve solo penetrare nell'intelligenza. Deve raggiungere il cuore e animare tutta la vita dei
fedeli.
Per questo Timoteo deve far seguire alla lettura l'esortazione.
Qualcosa di analogo troviamo anche negli Atti degli Apostoli (13, 15): “Finita la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono loro a dire: Fratelli, se vi sentite di dire due parole di esortazione, parlate”. Sembra dunque che il luogo privilegiato dell'esortazione sia l'assemblea liturgica. Ma anche la lettera agli
Ebrei (secondo molti esegeti è una omelia) è indicata dal suo aurore come una “parola di esortazione”
(13,22), e così la seconda lettera di Pietro (5, 12). Come per le altre funzioni di parola, si deve dunque dire
che anche per l'esortazione diversi sono gli ambienti (anche se in particolare l'assemblea liturgica) e Ì generi.
E diversi sono pure gli esortatori. L'esortazione è infatti il compito del profeta e dei carismatici (1 Cor. 14,3;
Rm. 12,8); è compito permanente del responsabile della comunità (Tito 1,9); è il dovere degli stessi membri
della comunità (1 Tess 4,18; 2 Tess 3,15; Rm. 15,14).
2. Ma è più importante per noi individuare le strutture fondamentali dell'esortazione4. La paraclesis (esortazione) è un termine dal significato complesso e molteplice: esortare, pregare, consolare, incoraggiare. Da
notare che questi molteplici significati non sono il più delle volte uno accanto all'altro, ma sì compenetrano,
sono simultaneamente presenti. Possiamo specificare cosi: l'esortazione non fa leva principalmente sulla
autorità di chi esorta, ma si muove in un clima di affetto, di partecipazione. L'esortazione non è un comando,
ma è incoraggiamento e consolazione. Non è l'annuncio che porta argomenti, non ha Io scopo di istruire: piuttosto ha lo scopo di incoraggiare, richiamare, invitare.
Come giustamente osserva H. Schlier, l'esortazione cristiana trova la sua giustificazione nel fatto che ci troviamo in un tempo di decisione, nel kairós. Il tempo è arrivato e l'uomo deve approfittarne (2 Cor. 6,2). È qui
che trova posto l'esortazione cristiana, l'invito pressante ad approfittare di questo tempo. In altro modo, potremmo dire che l'esortazione suppone una “chiamata»: è un invito pressante ad accoglierla e a rimanervi
coerente (Ef 4,1). Ma dobbiamo andare oltre. L'esortazione non solo trova la sua collocazione nel tempo della
misericordia divina. C'è di più: in essa risuona per ciascuno dì noi la voce misericordiosa di Dio. Paolo è convinto che la misericordia di Dio si fa presente nella sua esortazione. Egli considera l'esortazione come opera
del Signore Gesù (1 Cor. 1,20; 2 Cor. 10,1; 2 Tess 3, 6; 1 Tess 4, 1 ss. e 2 Cor. 5, 20). Possiamo anche dire
che Io scopo dell'esortazione — pur nella differenza superficiale dì scopi diversi — è sempre un invito rivolto
al cristiano all'abbandono e alla rinuncia di sé.
La testimonianza
1. La parola di Dio, in tutte le sue forme e in tutte le sue funzioni, deve essere presentata con autorità, deve
cioè apparire reale, provata e convincente. Tutto questo rientra nella funzione di testimonianza, che accom3 Cfr. C. SPICQ, La Épîtres Pastorales, t. 1. 514, Parigi 1969.
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In proposito si possono leggere due studi di H. SCHLIER, L'essenza dell'esortazione apostolica (Rm. 12,1-2), II tempo della chiesa,
Bologna 1965, 118-141; Le caratteristiche dell'esortazione cristiana in S. Paolo, Riflessioni sul Nuovo Testamento, Brescia 1969,
439-482.
4
pagna tutte le altre funzioni della parola. C'è la testimonianza interiore e c'è la testimonianza del ministro della
parola. È questa seconda che ci interessa.
Il discepolo non è solo un annunciatore del Regno, ma deve anche essere la prova, l'illustrazione, che il Regno e arrivato e che il suo messaggio è possibile e liberante.
I testi evangelici parlano dì un annuncio accompagnato dai miracoli. Ma non è questione di miracoli. SÌ tratta
di essere la dimostrazione dell'amicizia che il Regno sa dare, del coraggio e della disponibilità che la forza
dello Spirito di Cristo sa crearci
2. La testimonianza affiora esplicitamente in molti passi e in altri è supposta. A noi interessano però non tanto
le forme letterarie che assume, quanto piuttosto la radice che la giustifica e la esige.
Il vangelo di Giovanni — che descrive con cura il processo della fede — termina indicando esplicitamente il
punto in cui la funzione di testimonianza si inserisce. Si legga l'episodio della apparizione di Gesù all'incredulo Tommaso (20,24-31). Tommaso è rimproverato perché Avrebbe dovuto credere fidandosi della testimonianza apostolica, senza pretendere una personale visione. In questo senso l'episodio si apre sul tempo della
chiesa.
Credente è ora chi accetta la testimonianza autorevole dì chi ha veduto. Nel tempo dì Gesù visione e fede
erano abbinate, ma ora, nel tempo della Chiesa, la visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. 11 che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Cristo
risorto. Tutt'altro. Gli è offerta l'esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza
dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. In altre parole l'esperienza apostolica risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore
(sempre possibile e attuale).
Il primo elemento (la storia di Gesù) è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e
fedelmente raccontata. Il secondo elemento si pone invece come fatto perennemente contemporaneo, aperto
quindi alle esperienze dirette e personali dì tutti coloro che accolgono l'annuncio. La testimonianza di cui parliamo è questa seconda. Il credente è colui che trasmette una “memoria”, ma nel contempo vive e illustra (e
quindi garantisce) il significato salvifico di quella memoria. Come sì vede, la testimonianza non cade tanto sul
fatto come accaduto, quanto sul fatto come salvifico per noi, attuale e liberante oggi.
3. La testimonianza coinvolge il testimone profondamente, ma non è mai un parlare di sé. È sempre e solo un
parlare di Cristo: è ciò che Cristo ha compiuto in lui che al testimone interessa e vuoi far conoscere. Questo è
indispensabile perché la propria testimonianza sia vangelo, lieta notizia che salva.
In proposito è assai illuminante il racconto/testimonianza della vocazione di Paolo. L'apostolo la racconta in
più occasioni, ma sempre e solo per convincere della realtà del vangelo. Egli è convinto (1 Tim 1,12-16) che
ciò che a lui è accaduto è “tipo” (illustrazione e prova, garanzia dunque) di ciò che Dio è pronto a fare verso
tutti. Infine, la parola testimonianza (e quindi la funzione del testimone) mantiene sempre, sullo sfondo, il
luogo originario in cui è sorta, cioè il contesto conflittuale e giudiziario. La funzione di testimonianza avviene
sempre, in un modo o nell'altro, all'interno di un conflitto (e ne assume Ì rischi e il tono): il conflitto fra il Cristo,
da una parte, e il mondo dall'altra. La parola di Dio, che appunto si vuole testimoniare, si oppone alla logica
mondana e alle sue valutazioni, e suscita consensi e dissensi (da paste del mondo che non vi si riconosce e
si sente minacciato). La parola deve dunque essere difesa contro chi la minaccia, e il testimone viene cosi
coinvolto nello stesso rifiuto: la testimonianza esige (e sta qui la sua credibilità) una disponibilità al più completo dono di sé.
La profezia
1. Nel discorso di pentecoste Pietro afferma che si è compiuta la parola del profeta Gioele: “Negli ultimi tempi, dice il Signore, effonderò il mio Spirito su ogni persona, e saranno profeti Ì nostri figli e le nostre figlie. In
quel tempo effonderò il mio Spirito ed essi saranno profeti” (Atti 2,17-18).
Stando a questo testo la profezia appare come un fatto normale, costitutivo del popolo di Dio.
5
2.
Stando alle parole citate da Pietro sembra di concludere che nel Nuovo Testamento, più che di singoli
profeti, si dovrebbe parlare dell'intera comunità come profetica. Sono anzitutto le comunità che devono svolgere un ruolo profetico. Ma ciò nonostante il Nuovo Testamento ricorda in varie occasioni l'esistenza di singoli profeti. Gli Atti menzionano il profeta Agapo che predice una carestia (11,28) e preannuncia l'arresto di
Paolo a Gerusalemme (21,10-12). In 1 Cor 12-14 Paolo distingue il carisma delle lingue e il carisma della
profezia, attribuendo al secondo la funzione di interpretazione ed edificazione della comunità. Nella 1 Gv.
4,2-3 la comunità è invitata a discernere i falsi profeti da quelli autentici (cfr. 2 Pt 2,1-22). Potremmo citare
altri testi, ma è inutile. Ci interessa maggiormente definire la natura della funzione profetica.
3. La funzione profetica è molto complessa. Per comprendere la natura del profetismo neotestamentario
dobbiamo ricorrere ai grandi profeti di Israele. È a essi che Pietro pensa parlando agli abitanti di Gerusalemme. I profeti sono i grandi maestri dì Israele. Colpisce, anche a una prima lettura, il loro messaggio profondo
e, ancor oggi, attuale, inquietante. Ma anche irritante: i profeti sconvolgono schemi — comodi scherni — faticosamente costruiti. Sta qui la radice delle tensioni che essi suscitano.
E si capisce perché furono quasi tutti incompresi e isolati.
Frequentemente si è pensato ai profeti come a degli anticipatori del futuro o, secondo altri, come a dei portatori di novità.
Nessuno dubita che i profeti abbiano approfondito la fede e che quindi le antiche tradizioni siano state successivamente rilette alla luce della loro esperienza. Ma concepire i profeti, anzitutto, come anticipatori del
futuro e portatori dì novità, significa tradire la loro originalità più profonda.
I profeti sono uomini di fede. Non solo hanno predicato la fede, ma l'hanno vissuta. Vale la pena di indicare
almeno due atteggiamenti tipici del loro modo di vivere la fede. Essi accettano di condurre un'esistenza segno, di verificare in se stessi e di esemplificare per primi il messaggio che annunciano.
Per far questo il profeta accetta l'isolamento e la solitudine, accetta di vivere l'esperienza del popolo di Dio
perseguitato, sofferente, messo alla prova. Inoltre, il profeta vive quel tipo di fede, difficilissimo, che consiste
nel credere alla validità della propria missione, nonostante le ripetute esperienze di fallimento.
Il profeta non perde mai la speranza.
Il profeta, lo abbiamo già detto, non è colui che anticipa il futuro. È piuttosto colui che sa leggere nella trama
degli eventi il disegno di Dio, colui che sa cogliere 1 segni dei tempi e sa interpretare il senso religioso dei
fatti.
Vi è una terza caratteristica: egli è attento a recuperare il messaggio religioso in tutta la sua purezza originaria; si sforza di ricondurre la religione del suo tempo alle sue fonti primitive. Per questo il profeta reagisce alle
in-terpretazioni accomodanti e alle incrostazioni che gli uomini via via hanno aggiunto al messaggio di Dio:
riconduce la fede al suo centro profondo e sconvolgente. Cosi il profeta finisce con l'essere rivoluzionario, ma
non perché crea idee nuove, bensì perché sa ascoltare di nuovo la perenne parola di Dio. Rivoluzionario di
fronte agli uomini, il profeta è in realtà silenzioso di fronte a Dio, in posizione dì ascolto.
A questo punto, sono chiare le tre virtù del profeta biblico.
Il profeta è un uomo capace dì ascoltare la parola di Dio, con un desiderio appassionato — a volte si direbbe
persino intollerante — dì fedeltà. In secondo luogo, il profeta è un uomo attento al proprio tempo, un uomo
concreto, sensibile alle tensioni e ai problemi del momento, compromesso in tutte le situazioni. Infine, il profeta è un povero dì spirito, cioè un uomo libero, disponibile, un uomo non attaccato a schemi prefabbricati, aperto alle novità di Dio e della storia.
I profeti, in altre parole, sono coloro che tengono desta la speranza, costringono il popolo di Dio a guardare in
avanti.
Tolgono alla comunità la sicurezza che via via si costruisce, non le permettono di diventare un popolo sedentario.
Il profeta del Nuovo Testamento non può non essere in continuità con quanto detto. Come la profezia anticotestamentaria, anche quella del Nuovo Testamento rimprovera e incoraggia, pronuncia parole dì giudizio e di
speranza, nell'intento di ricondurre alle proprie origini la comunità che si mondanizza.
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4. Ma non basta ricorrere al modello antico testamentario. Riteniamo più illuminante riferirci a due testi di Giovanni sullo Spirito consolatore (14, 25; 15,12-15) e al libro dell'Apocalisse, che si autodefinisce come una
“profezia” (1,3).
Il dono dello Spirito consiste nel rendere la comunità capace, a differenza del mondo, di cogliere il disegno di
Dio nella storia. Il mondo è incapace dì scorgere dietro le realtà fenomeniche la realtà dello Spirito, esattamente come i giudei furono incapaci di scorgere la gloria di Dio nella storia di Gesù. La comunità sa invece
cogliere nella frammentarietà e nella equivocità della storia, nelle esperienze che abbiamo fra le mani, il disegno di salvezza. L'insegnamento dello Spirito non è portatore dì novità, ma è una memoria. Si tratta sempre
dell'insegnamento di Gesù, anzi dell'insegnamento che è Gesù. In effetti, ciò che importa capire è la persona
del Cristo, il significato della storia che egli ha vissuto: in particolare è importante capire il significato della sua
croce. D'altra parte, va anche detto che l'insegnamento dello Spirito non è memoria ripetitiva: è una comprensione che continuamente sì rinnova, capace di adattarsi alle situazioni che via via la storia pone. Nel grande
processo fra Cristo e il mondo — processo che si dibatte nel cuore di ciascuno — lo Spirito si schiera dalla
parte di Gesù contro il mondo. Per questo la comunità profetica è critica nei confronti del mondo, lo smentisce
e lo minaccia.
Non solo: prefigura la decadenza del mondo. È ovvio che questa condanna del mondo si svelerà In pienezza
alla fine, ma già ora sì anticipa, come sì è anticipata nella Croce e risurrezione di Gesù. Giovanni dice che lo
Spirito svelerà ai discepoli le cose future, che certo non significa la cronaca del futuro, bensì una lettura della
storia presente alla luce della sua conclusione, cioè alla luce della storia di Gesù che è l'anticipo del futuro.
A questo punto dobbiamo pensare all'Apocalisse5. È il libro che ha trovato in Cristo una chiave di lettura e di
interpretazione della storia. Gli ebrei, e poi i cristiani, erano convinti che la storia si svolgesse su due piani: la
cronaca che vedi e la vera storia che sta nel profondo, nascosta dalla cronaca, eppure in qualche modo da
essa svelata. Per capire la storia non basta guardare i fatti e collegarli: occorre una rivelazione, occorre un
profeta che ci sveli il significato di fondo. Per capire la storia devi guardarla dall'alto. Il vero storico è il profeta.
Ma ecco l'interrogativo: dove trovare la rivelazione che mi fa capire la vera storia? La risposta è nel cap. 5
dell'Apocalisse: l'Agnello di Dio immolato è in grado di aprire Ì sigilli del libro. È il Cristo morto e risorto che
apre i sigilli della storia e ci fa capire il disegno di Dio che si svolge dietro le apparenze. In conclusione, dai
pochi esempi fatti, risulta con chiarezza che la funzione profetica svolge un triplice compito. Anzitutto, l'annuncio del Cristo morto e risorto: la Chiesa è profetica nella misura che vive una memoria. In secondo luogo
un compito di critica nei confronti del mondo, della sua logica, e del peccato che sempre può crescere all'interno della stessa comunità. Infine una funzione dì prefigurazione: nella comunità deve visibilizzarsi il mondo
nuovo che il Signore donerà a tutti.
5. A questo punto è utile dire una parola — sommaria, semplicemente per stimolare una riflessione — intorno
all'interrogativo: come giudicare la presenza nella Chiesa di una frequente tensione fra profezia e istituzione?
Una lettura attenta della Bibbia ci ha convinto che un rapporto dialettico fra istituzione e profezia accompagna
tutta la storia della salvezza. È una dialettica che troviamo già con chiarezza — per fare un esempio — nelle
pagine del libro dì Samuele che raccontano l'avvento in Israele dell'istituto monarchico. Quelle vecchie pagine
tradiscono una visione negativa e positiva della monarchia.
La corrente profetica era ostile all'introduzione della monarchia, perché la monarchia poteva sembrare un
fatto pagano, un tentativo di cercare la salvezza in una istituzione nuova, in un'organizzazione e nella politica:
in sostanza, una sfiducia in Dio e una ricerca di salvezza in se stessi. È il pericolo di tutte le istituzioni: pericolo che la storia — ad esempio la storia di Israele — dimostra essere molto reale. Eppure Dio ha accettato la
monarchia e ha introdotto l'istituzione nella logica che guida la storia della salvezza. La Bibbia considera questo atteggiamento di Dio come una degnazione: noi oggi parleremmo di accettatone dell'uomo e delle sue
leggi. Nonostante tutto, nonostante il pericolo che l'uomo dimentichi Dio e che rifiuti il miracolo continuo, la
sua presenza, il Signore preferisce agire secondo criteri di discrezione, preferisce accettare l'autenticità dell'uomo. È la legge dell'incarnazione. Veramente Dio non sì limita ad accettare le leggi dell'uomo; le vuole veicolo di salvezza e impone ad esse una dimensione nuova. Il Signore voleva che la monarchia di Israele — a
5 Cfr. B. MAGGIONI, L'Apocalisse. Per una lettura profetica del tempo presente, Assisi 19821.
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differenza delle altre — divenisse segno e strumento dell'alleanza, proclamatrice non di una salvezza che
viene dall'uomo, dalle forze della politica, ma segno di una salvezza che viene da Dio: voleva che la monarchia fosse trasparente, umile. Invece, l'istituzione corre sempre il pericolo di farsi idolatria, come avvenne in
Israele (solo in Israele?). Ma anche in questo caso (nel caso del tradimento) Dio resta fedele alla sua istituzione: pronto però a metterla in crisi, a relativizzarla mediante la profezia. E cosi facendo, Dio dimostra — in
definitiva — che la salvezza non è nella profezia (che a sua volta esige l'istituzione, pena la confusione) né
nell'istituzione .(che esige la profezia, pena l'idolatria), ma in Lui stesso6.
Potremmo tornare, per fare un esempio neotestamentario, al comportamento di Paolo nella comunità di Corinto. Si tratta di una comunità ricca di carismi, oggi noi diremmo ricca dì profeti. Ma nella ricchezza dei carismi
c'è il germe della confusione, della non-edificazione della comunità, al limite del tradimento della memoria del
Cristo. Ecco che allora Paolo interviene come autorità, è la voce dell'istituzione, e richiama tre valori: il discorso della Croce (cioè il rifiuto dì sé a vantaggio dell'edificazione comune), l'attenzione alla globalità (la crescita
comune deve prevalere), la precedenza alla tradizione (la vera profezia nasce dalla fedeltà a una memoria,
non è in alcun modo ricerca di novità).
Ci sia permesso concludere con un ultimo spunto, anche a costo di ripeterci. Lo Spirito (e quindi la profezia) è
presente nella comunità, ma può anche essere oltre i confini della comunità. È sempre però il medesimo Spirito che fa lo stesso discorso (quello di Gesù) e sì rivolge anzitutto alla comunità per richiamarla alla fedeltà. Lo
Spirito (e il profeta) ha buona memoria, e perciò non permette alla comunità di cambiare le carte in tavola,
mutando l'idea di Dio, di gloria di Dio e di sequela.
Si direbbe che la caratteristica fondamentale del profeta sia la buona memoria. Egli richiama la comunità allorché questa scende a patti con il mondo, venendo meno alla logica della Croce, rifiutando il proprio ruolo di
servizio.
Il discorso del profeta è sempre monotono: non fa che richiamare la storia di Gesù e la sua anima più profonda, cioè la logica dell'amore, a servizio della solidarietà e della fedeltà a Dio e agli uomini (le due fedeltà non
si contraddicono, ma sono una nell'altra).
Lo Spirito parla non solo attraverso la Chiesa, ma parla anche alla sua Chiesa: per questo il profeta non è
solo critico nei confronti del mondo, ma anche nei confronti della sua comunità. Lo guida lo Spirito che vuole
convenire. E questo può anche suscitare tensioni, ma queste tensioni sono dello Spirito se rientrano nella
logica della Croce, cioè se si muovono all'interno dì una solidarietà che non viene meno. Perché la Croce non
è solo l'oggetto del discorso dello Spirito (e quindi del profeta), ma è anche lo stile con cui il discorso deve
essere fatto: come Cristo che parlò chiaro e fu rifiutato, ma non per questo egli ruppe con i suoi crocifissori,
bensì morì per loro.
II segno dell'autentico profeta, crediamo, è questa ostinata solidarietà con la sua comunità.
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Non ha senso una opposizione fra istituzione e spirito, come se uomo spirituale fosse chi fa a meno di strutture, istituzioni e leggi.
Al contrario, tutto questo e una mancanza di rispetto dell'uomo: non umanesimo, ma disprezzo dell'uomo, il sogno di un uomo che
vuole diventare spirito. E tuttavia nell'opposizione indicata c'è qualcosa di vero: la volontà di non restare prigioniero delle strutture,
fermo in strutture ferme.
II vero uomo spirituale è chi — stando nelle strutture — continuamente le rinnova dal di dentro, le dilata, aprendole alle sempre
nuove richieste dello Spirito
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