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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno VIII - N. 40 - Marzo-Aprile 2002
✓ Il sistema in cui viviamo
è proprio un sistema
democratico?
✓ Troppo Stato,
troppa Italia
✓ Devolution:
Padania
non fa rima
con Gran Bretagna
✓ Lombardo-Veneto
e Impero asburgico
40
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara
Tel. 333-1416352
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Redazione:
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Corrado Galimberti
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Carlo Stagnaro
Grafica:
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Sui Quaderni sono pubblicati testi di:
Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni,
Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante, Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Augusto Barbera, Fabrizio Bartaletti, Alessandro Barzanti, Batsòa, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia,
Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino,
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Mario Predabissi, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Alberto Quadrio Curzio, Laura Rangoni, Igino
Rebeschini-Fikinnar, Romano Redini, Rocco Ronza, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi,
Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini,
Massimo Scaglione, Laura Scotti, Hans Sedlmayr,
Marco Signori, Giovanni Simonis, Stefano Spagocci,
Marcello Staglieno, Alessandro Storti, Silvano Straneo,
Giacomo Stucchi, Stefano Talamini, Candida Terracciano,
Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla,
Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna,
Alessio Vezzani, Alessandro Vitale, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.
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I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di
aderenti a “La Libera Compagnia Padana” ma
sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. Il materiale non viene restituito.
Periodico Bimestrale
Anno VIII - N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Troppo Stato, troppa Italia - Brenno
Il sistema in cui viviamo è proprio un sistema
democratico? - Gian Luigi Lombardi Cerri
Devolution: Padania non fa rima
con Gran Bretagna - Stefano Spagocci
Resistenza fiscale - Gianfranco Miglio
Per la riattivazione culturale
dei territori - Giulia Caminada Lattuada
I militari lombardi e veneti nell’Imperial Regio
Esercito (1848-1866) - Alberto Lembo
Lombardo-Veneto
e Impero asburgico - Corrado Galimberti
Documenti informativi sull’Impero asburgico
Legge fondamentale dello Stato
del 21 dicembre 1867
La stella ed il triskele - I Celti e Israele: confronto
fra due civiltà antiche - Patrizia Patrucco
Organizzazione politico-amministrativa
della Repubblica Veneta - a cura dell’Associazione
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L’insediamento di Monte Bibele - Alessandro Barzanti 34
Francesco Formenton: un federalista
vicentino - Renato Giarretta
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La bandiera di libertà dell’Arpitania
Cisalpina - Joseph Henriet
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La trota marmorata - Gigi Ferrario
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Gallignano: annotazioni
su un borgo padano - Mario Predabissi
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La Libertà degli Altri
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Biblioteca Padana
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Culturale “Bepi Viscovich” - Treviso
Troppo Stato, troppa Italia
D
al dibattito politico degli ultimi mesi sembrano sformandoli in discussioni, in pettegolezzi, in orge
essere spariti il liberismo e la Padania. Tanti di parole inconcludenti. Nel frattempo, chi voleva
sembrano fin troppo occupati in problemi di ribaltare tutto viene coinvolto, circuito, blandito,
governo e di sottogoverno, tanti sono presi da alchi- comperato e poi – passato il pericolo – buttato via.
mie governative, da codicilli, leggi e cabale ammini- Oggi non si discute più di libertà o di cambiamenti
strative. Pare che non si voglia più cambiare radical- epocali, di indipendenza, di autodeterminazione o
mente le cose ma che si voglia procedere adelante secessione, ma ci si perde in infiniti minuetti su arcon juicio, per piccoli passi, silenziosamente, facen- ticoli di legge, su interpretazioni, in defatiganti
do finta di niente o di camminare nel senso opposto, schermaglie su dettagli insignificanti e sull’assegnafacendo cambiamenti che non diano fastidio al siste- zione di cadreghe e di strapuntini.
ma. I soli cambiamenti che non danno fastidio al siNon è cambiato nulla, non si è ottenuto nulla: sostema sono quelli che non cambiano niente. E quin- lo qualche patetica concessione lessicale: oggi si
di non si cambia nulla.
chiama federalismo il solito centralismo, si chiama
Negli anni passati il mondo autonomista, ma an- decentramento la solita moltiplicazione delle buroche l’intera comunità padana e – di riflesso – la re- crazie, si chiama federalismo solidale la solita rapina
pubblica italiana erano invece stati percorsi da venti istituzionalizzata, si chiama federalismo fiscale l’autumultuosi di cambiamento delle tasse. Il rimento radicale, di ribaltamento e la distorbaltamento generale
sione del significato
di strutture vecchie,
delle parole finiscono
obsolete e oppressive.
per generare odio e diNon ci si poteva realisprezzo anche per il sisticamente aspettare
gnificato che quelle
nessun esito sconvolparole avevano all’origente (è un paese che
gine. Se autonomia e
di suo non ha mai
federalismo – ad esemcambiato nulla) ma
pio – erano stati invenche – vista l’entità dei
tati per dare più libertà
tuoni – cadesse almee meno tasse, oggi si
no un po’ di pioggia
chiamano autonomia e
che ripulisse l’aria. E
federalismo manovre
invece, niente!
che portano meno liDopo 15 anni e pasbertà e più tasse, e tutti
sa di lotte autonomiste
finiscono per odiare
e padaniste ci si trova
autonomia e federaliMostro a due teste. Disegno di Silvio Cadelo
oggi ad affrontare gli
smo e rimpiangere il
stessi, eterni procentralismo più bieco:
blemi. Con la sola differenza che i problemi si sono la libertà era poca anche allora ma almeno si pagavaincancreniti e sono stati quasi metabolizzati: la no- no meno tasse.
stra gente è stanca e sfiduciata da continui inutili
Non è neppure vero che le cose non siano cambiaassalti contro un muro di gomma i cui difensori si te: sono peggiorate. Oggi c’è ancora più Stato, ancosono fatti ancora più furbi. Dopo un primo momen- ra più Italia. Lo Stato è dappertutto. Forse non proto di terrore, quando hanno davvero avuto paura duce più in prima persona panettoni o automobili
che tutto venisse ribaltato, questi hanno capito che ma ne condiziona diffusione, prezzo e sapore. Forse
basta fare passare il tempo (il pelasgico “ha da passà le ferrovie non sono più “dello Stato” ma non funa nuttata” è diventato l’universale rimedio per ogni zionano lo stesso, è lo Stato che le gestisce, che ascosa), che per non risolvere i problemi basta parlar- sume (e non licenzia), che fissa le tariffe e tiene
ne e parlarne fino alla noia e all’esaurimento, tra- sporchi i cessi. È sempre lo Stato che si occupa di
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Quaderni Padani - 1
pensioni, malattie, scuole. Se ha ceduto qualcosa lo
ha fatto a favore di carrozzoni pubblici (e monopolistici) o di altri enti pubblici, sempre senza trasferire
loro i soldi per gestirli. Se qualche baraccone non è
più “statale” in senso lessicale, è comunque “pubblico”. Poco importa al cittadino se il funzionario che
lo assilla (dietro un vetro bisunto e un’unghia del
mignolo a paletta) sia pagato dallo Stato, dalla Regione o da qualche altro marchingegno burocratico
gestito da politicanti e da inamovibili maneghetta. Il
cittadino padano è sempre solo quello che paga
(sempre di più) e riceve (sempre di meno). C’è dunque troppo Stato: ci sono troppi funzionari, troppe
leggi, troppi uffici, troppi balzelli, troppi parassiti,
troppi codici, troppi onorevoli ed eccellenze, troppe
auto blu, troppo di tutto ciò che è pubblico.
Ma c’è anche troppa Italia, con i suoi modi mediterranei di gestire lo Stato, con i suoi funzionari pelasgici neghittosi e arroganti, con i suoi malavitosi,
con le mazzette e le tangenti, con le mamme dei
soldati e i mammasantissima, con pedofili, pizza e
poliziotti televisivi, con le soap opere partenopee, i
giudici cavallerizzi, comunisti, intoccabili e sanniti.
Ci sono troppe marcette patriottiche, inni nazionali,
e tricolori difesi dal Codice Rocco, ci sono troppi
furbi, finti invalidi, cassintegrati a vita, statali dal
posto fisso, lavoratori in nero, lavoratori socialmente utili, lavoratori finti. Troppi guitti e registi sapüta,
attrici sbernardite, vulcani e smottamenti, televisioni piene di accenti gutturali mediterranei, politici
mafiosi, stallieri, faccendieri a agazioloieri.
Si è perso il senso della nostra battaglia che è contro il troppo Stato e contro la troppa Italia, che è liberista e padanista. Ci siamo lasciati impegolare in
turgori confessionali, in questioni di provette e di
fecondazioni, in menate demografiche, in melasse
familistiche, nel paciocco dello statuto dei lavoratori, in rogatorie, in falsiinbilancio, in diecimila pietanze che non c’entrano con la nostra battaglia di libertà e di indipendenza. Anzi no, c’entrano e come:
sono menate stataliste e italianiste, sono la brodaglia con cui lo Stato italiano e l’Italia statalista cercano di invischiare la battaglia di libertà. E purtroppo ci riescono. Italia e Stato vanno bene assieme, è
lo statalismo che ha inventato l’Italia e il suo patriottismo, e che ne ha permesso la sopravvivenza, è
l’Italia mediterranea che ha inventato lo statalismo
più appiccicoso e inefficiente. Qui non potrebbe sopravvivere lo statalismo senza l’italianità, e senza lo
statalismo (e i suoi codici e sbirri) l’Italia tornerebbe
a essere solo una espressione geografica.
Non si combatte lo statalismo senza combattere
l’italianità o peggio in nome dell’italianità come dicono di fare certe destre (ed alcuni sedicenti indi2 - Quaderni Padani
pendentisti). Non si combatte l’italianità nazionalista in nome dello statalismo internazionalista come
hanno fatto le sinistre per decenni (ora sono stataliste e italianiste proprio come i fascisti). Statalismo
(di Stato, di Regione, di qualsiasi altra forma oppressiva e illiberale che non sia la perfetta espressione della libera volontà di aggregazione delle comunità e delle loro identità più profonde) e italianismo
(patriottico, nazionalistico fintofederalista o pateticodecentralista) vivono in una perfetta simbiosi parassitaria a danno della gente padana.
Se vogliamo davvero (ricominciare, o non smettere di) combattere la nostra battaglia di libertà e di
autonomia dobbiamo combattere contro il mostro
che ha due teste altrettanto fameliche e pestifere.
È l’ideologia stessa dello statalismo, con la sua
prepotente occupazione di tutti gli spazi individuali
e comunitari, che va combattuta. Lo Stato va smagrito energicamente e ridotto a poche mansioni essenziali (la politica estera, i gradi alti di giustizia, la
difesa, funzioni di indirizzo e di coordinamento) e
gli va assolutamente tolto il controllo delle risorse
economiche. Non serve infatti cercare amministratori o funzionari più onesti e capaci, o fare leggi di
controllo più avvedute: finchè ci sarà qualcuno che
gestisce un potere non affidato e controllato dal basso, che decide per gli altri o qualcuno che usa i soldi
degli altri, ci sarà sempre qualcuno che fa porcate o
che ruba. Sgonfiando lo Stato e il suo costoso apparato oppressivo si sgonfia anche l’Italia: l’idea stessa
di Italia sopravvive grazie alle leggi fasciste, ai tanti
corpi di polizia, a un sistema scolastico inetto e propagandistico, ad apparati repressivi e ricatti economici basati sull’arbitrio di distribuire risorse rapinate a una parte di cittadini. Lo Stato pretende giustificazione ideale dal concetto di Italia che si è inventato per una sorta di legittimazione morale. Sgonfiando l’Italia lo Stato resta solo un macchinario di
rapina, una grossa associazione di parassiti che vivono alle spalle dei ceti produttivi. Vanno sgonfiati
tutti e due, e contemporaneamente. Se ci si depura
solo dello Stato, l’Italia conserva le sue tossine e finirà inevitabilmente per ricostruire un marchingegno di sfruttamento che le permetta di sopravvivere.
Se ci si libera solo dell’Italia, lo Stato si inventerà un
altro Golem ammantato di finta sacralità per coprire
le proprie inevitabili e fisiologiche malefatte. Oltre a
tutto, chi oggi vive di Stato si è – indipendente dalla
propria origine – intimamente italianizzato e dovrà
per forza ricostruirsi un pantano nel quale poter sopravvivere.
Il mostro ha due teste: vanno recise entrambe. C’è
troppo Stato, c’è troppa Italia. E c’è poca libertà.
Brenno
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Il sistema in cui viviamo
è proprio un sistema democratico?
di Gian Luigi Lombardi-Cerri
È
una domanda che sempre più spesso un numero
crescente di cittadini si pone. Tenteremo di dare
una risposta per ciò che riguarda l’Italia, anche
se la stessa problematica si presenta all’estero, pur variando sensibilmente da nazione a nazione, con una
percentuale di variazione strettamente connessa alla
sensazione che ha la gente di far parte o meno di un
meccanismo democratico.
Ma veniamo all’Italia.
Democrazia è un vocabolo che ci si ritrova tra i piedi a ogni stormir di fronde. Lo usano più spesso del lecito persone e partiti che di tradizione democratica ne
hanno assai poca, talchè l’uso dell’avverbio e dell’aggettivo, appiccicato al vocabolo che definisce la funzione tende quasi sempre a coprire l’esatto contrario. Di
un sistema definito democratico il soggetto più importante è (o almeno dovrebbe essere) il popolo: il quale
popolo, non potendo governare direttamente lo fa attraverso suoi rappresentanti.
Ma qui viene il bello! Chi sceglie i rappresentanti?
Tutti salvo il popolo. I candidati sono infatti scelti dalle
segreterie dei partiti attraverso lotte a coltello sulle
quali meglio è stendere un pietoso velo.
Può un Rossi qualsiasi candidarsi al di fuori di un
qualsivoglia partito? Ci provi. I candidati sono quindi
scelti da una congrega che con il cosiddetto popolo ha
ben poco a che fare. E il popolo che fa? Vota . Ma avendo solo due alternative. O sceglie nel mazzo dei partiti.
O non va a votare (cosa che si verifica sempre più spesso e che viene spiegata elegantemente, nonché evasivamente con il termine di “astensione fisiologica”). Se
uno decide di votare allora deve scegliere tra i programmi che i partiti gli presentano. Ed eccoci ai programmi. Salvo piccole sfumature sono tutti uguali,
poiché, oltretutto, stanno nel generico il più possibile
per non compromettersi, talchè letto un programma
sono letti tutti. A elezioni fatte vince un partito (anche
se sistematicamente dichiarano tutti di aver vinto).
Credete forse che realizzi quanto promesso? Neanche
per sogno.
Il noto Giulio nazionale davanti ad una precisa domanda in proposito rivoltagli dal sottoscritto ha risposto: “Ma una promessa elettorale non è una cambiale
che si può portare all’incasso!” Capito?
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
E per evitare equivoci i padri fondatori della Costituzione si sono subito premurati di scrivere a caratteri di
scatola che “il mandato parlamentare non è vincolante”, con un significato così chiaro da non richiedere
ulteriori spiegazioni.
Vediamo da vicino la vita parlamentare. Un neofita si
aspetterebbe di vedere dibattere, in Commissione e in
aula, leggi relative a problemi scottanti. Niente di più
errato. Si discutono invece, nella maggior parte dei casi
leggi di ben scarsa utilità. Il risultato è che oggi ci troviamo in funzione 150.000 leggi (così dicono gli ottimisti), 250.000 leggi (secondo i pessimisti). È chiaro
che in questa massa di regole il furbo riesce a trovare
tutto e il suo contrario. Il senso che pervade tutte le attività parlamentari è quello in base al quale il popolo è
l’ultimo pensiero di chi legifera, per cui spesso l’idea ricorrente non è quella di realizzare “il volere del popolo”, bensì “il bene del popolo”. Chiara d ifferenza tra il
principio della democrazia e quello della dittatura. Ed è
così conculcata l’idea di “fare il bene del popolo” che
quasi mai i parlamentari si preoccupano di sondare l’opinione del popolo stesso, salvo che, interpellando la
stampa che, come è ben noto, costituisce casta a se sestante, sempre pronta a correre in aiuto del vincitore.
Nei rari casi in cui il popolo è stato interpellato attraverso referendum, si è fatto di tutto per confondere
le carte in tavola e nei casi in cui gli elettori si sono
espressi con chiarezza, (come ad esempio per l’abolizione del ministero dell’agricoltura) i detentori del potere hanno cambiato solamente il nome dell’ente che
la gente voleva fosse abolito. Le poche volte che i parlamentari hanno la chiara sensazione di come la pensi
la gente fanno finta di farla interpellare ufficialmente
attraverso la stampa (come nel caso della pena di morte, nel caso del blocco dell’immigrazione clandestina
e in moltissime altre situazioni), per evitare il pericolo
di clamorosi dissensi da referendum. Nei casi di dissensi che inopinatamente sfuggano al controllo sono
pronti gli slogan tampone: “fascista” (tutte le volte che
un tizio esprime un pensiero diverso, anche se ormai
in disuso perché a furia di ripeterlo la gente si è chiaramente scocciata); “razzista” (usandolo senza preoccuparsi della logica e del suo significato espresso dai
vocabolari delle lingua italiana); “qualunquista” (epiteQuaderni Padani - 3
to che viene rivolto a tutti coloro che usano criticare
l’attuale “sistema” di governo). La stessa pignolesca
mania di Stato centralista è un chiaro indice di come
si voglia tenere l’elettore il più lontano possibile dai
centri decisionali. Nella palude di una democrazia
sempre più latitante si è sviluppato il cancro della burocrazia.
Burocrazia non vuole solo dire lentezza operativa (e
quindi maggiori costi a carico del cittadino), ma anche
potere ben maggiore del potere dei Parlamentari. La
burocrazia ha infatti le seguenti possibilità di inficiare
leggi che le creino disturbi:
1.- Non redigere il Regolamento attuativo, per cui una
legge, anche se approvata dai due rami del Parlamento, rimane inoperante.
2.- Redigere un Regolamento che capovolga i contenuti della legge.
Il Regolamento, infatti, dovrebbe solo dettagliare le
modalità applicative di una legge. Invece, spesso e volentieri costituisce una legge surrettizia che modifica
la prima nelle parti che alla burocrazia danno fastidio.
3.- Emettere le cosiddette Circolari esplicative, che più
che esplicative sono imperative. Attraverso spiegazioni
volte a chiarire dubbi interpretativi di una Legge, si
forniscono “certezze” che vanno spesso contro lo spirito della legge stessa. Di questo il potere ha sempre approfittato a piene mani.
Un altro punto da evidenziare, che mette in risalto il
crescente allontanamento dalla democrazia, è rappresentato dal comportamento dei Parlamentari eletti.
Costoro, invece di verificare continuamente se il loro
comportamento è consono ai desiderata degli elettori,
mantengono i contatti o esclusivamente con una ristretta cerchia di “amici” o attraverso incontri pubblici
in cui tutto è permesso salvo il sia pure corretto ed
educato contraddittorio. Per evitare guai hanno perfino ingessato le vecchie “tribune elettorali” della televisione, dove, almeno tra di loro, parlavano a ruota libera. Di questi e altri punti di vera antidemocrazia si potrebbe scrivere un corposo volume. Davanti a questo
sfacelo è possibile intravedere alcune linee operative
volte a modificare la rotta riportandola in direzione
della democrazia? Certamente.
Prima condizione - Attuare un vero sistema federale,
costruito partendo dall’unità di base (la famiglia) e risalendo via via alla struttura centrale (molto piccola)
dello Stato. Parlare di devolution è solo cercare di imbrogliare le carte in tavola. Se si vuole realizzare un sistema federale per passi successivi, lo si dica chiaramente e si indichino i modi e le tappe.
Seconda condizione - Sentire sempre il parere degli
elettori su temi di vitale importanza (ad esempio, chi
4 - Quaderni Padani
ci ha mai interpellato per sapere se volevamo o meno
entrare nella zona Euro?), tenendo conto alla lettera
del risultato del referendum.
Terza condizione - Nessun parlamentare, per nessuna
condizione può essere eletto per più di due volte. Si
eviterà così il professionismo politico. Gestire la cosa
pubblica, checchè ne dicano gli ignoranti di organizzazione, è come gestire una grande azienda, con la differenza che l’obiettivo può essere non solo di tipo economico, ma anche di tipo sociale (purchè economicamente sostenibile).
Quarta condizione - Per essere eleggibili occorre aver
superato i 55 anni, ossia occorre aver terminato la proprio carriera avendo mangiato del pane acquistato con
il sudore della fronte. A questo punto il cittadino eletto
potrà portare la propria esperienza di vita al Governo
del paese e, soprattutto, non essendo più facilmente ricattabile. Così come i cittadini, prima di avviarsi al lavoro, dovrebbero ritornare a prestare un periodo della
loro vita al servizio della collettività, analogamente, alla fine della carriera, dovrebbero dare alla collettività i
frutti della loro esperienza.
Quinta condizione - Semplificare leggi e regolamenti,
attraverso l’obbligo dei Testi unici e una normativa cogente sulle modalità di stesura dei regolamenti. Il celebre dettame “non è ammessa l’ignoranza della Legge”
ha ormai il sapore di una tragica barzelletta. Chiaramente per la composizione di leggi e regolamenti occorre dare una parola importante a esperti di organizzazione e di comunicazione, diversamente ci si troverà
sempre davanti a concetti fumosi e a frasi sibilline.
Sesta condizione - Occorre varare il sistema dello spoiling, ossia i ministri si scelgono i capi di gabinetto e i
funzionari più importanti. I non scelti vanno a casa: se
sono veramente bravi non avranno problemi a trovare
nel privato un ottimo posto di lavoro, diversamente
andranno a fare altrove il lavoro più attinente alle loro
reali caratteristiche e capacità.
Settima condizione - Vanno create regole per cui tutti
(nessuno escluso) i dipendenti dello Stato possono, in
determinate condizioni di errori o di demerito, essere
mandati a casa e non trasferiti (magari in città che offrano migliori prospettive).
Senza che si attuino almeno queste sette condizioni,
ci si trova davanti a una dittatura surrettizia in cui c’è
sì la libertà di parola, ma non c’è nessuno che dia
ascolto, così come nei paesi chiaramente autoritari si
trovava sì la libertà di voto, ma con il voto incanalato
nella “giusta direzione”.
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Devolution: Padania
non fa rima con Gan Bretagna
di Stefano Spagocci
D
evolution: questa parola magica risuona
spesso e volentieri nei discorsi di esponenti leghisti più o meno noti. Il ragionamento è certo chiaro e rispettabile: le circostanze
storiche impediscono il perseguimento di una
scelta indipendentista, la cosiddetta “entrata in
Europa” ci ha privati di una formidabile arma,
nessuno comunque è disposto a lottare più di
tanto per la Padania. Puntiamo dunque ad ottenere quello che si può e confidiamo nell’evoluzione della storia, che svuoterà di significato i
vecchi stati nazionali. Discorso rispettabile, lo
ripetiamo. Ma con grossi rischi, se non correttamente inteso.
Alcuni dubbi
A proposito di devolution, si cita spesso e volentieri l’esempio scozzese. In Scozia, si afferma, la devolution ha portato a una rinnovata
coscienza identitaria e a una forte autonomia.
Ciò è sostanzialmente vero, peraltro. Almeno se
non si confonde la Gran Bretagna con il Regno
Unito, data l’infelice situazione dell’Irlanda del
Nord (della quale non discutiamo in questa sede). E se non si dimentica che la devolution in
Scozia ha suscitato assai meno entusiasmi di
quanto si pensi (ma essere più realisti del re è
tipico vizio italico, e purtroppo anche padano).
Non vogliamo affatto negare la positività del
processo devoluzionistico in Gran Bretagna.
Gran Bretagna, e non solo Scozia, per non dimenticare il Galles o le tensioni autonomiste
nella stessa Inghilterra, realtà che esistono, anche se le cornamuse fanno più folklore. Ciò di
cui dubitiamo è che quello scozzese possa essere un esempio trasportabile meccanicamente da
noi. E che, addirittura, una sua non corretta applicazione possa rafforzare quella italianità dalla quale noi bramiamo di liberarci (e dalla quale
pensiamo, paradossalmente ma non troppo, che
anche gli italiani peninsulari dovrebbero bramare di liberarsi).
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
La Scozia…
Spieghiamoci dunque meglio. La filosofia che
sottende la devolution scozzese è in effetti quella di una coesistenza tra lo stato nazione britannico e le sue piccole patrie. Unità nella diversità, secondo uno slogan ormai degradato dall’uso politicamente corretto che se ne è fatto.
Ma in quali condizioni la Scozia ha affrontato la
devolution?
In Scozia esiste una forte coscienza identitaria. Coscienza che non è sempre stata posseduta
dagli Scozzesi, come spesso invece si afferma.
Coscienza rinata (o forse anche nata, almeno
nelle forma attuale) nell’ultimo cinquantennio.
Coscienza che, nella forma “celtica” quale noi la
conosciamo oggi, non è comunque anteriore al
XVIII secolo. Ma coscienza che oggi esiste in
una parte molto rilevante della popolazione. Gli
Scozzesi sono dunque giunti alla devolution
sorretti da una forte coscienza identitaria. E’
quindi automatico per loro identificarsi nella
piccola patria.
Riguardo alla grande patria, non si può negare che in Gran Bretagna sia assente la tronfia
retorica del nazionalismo italiano. Non si può
negare come ogni britannico conosca le proprie
origini etniche e riconosca la presenza di diverse identità etnoculturali all’interno del proprio
stato. A nostro parere, non si può nemmeno negare che la storia della Gran Bretagna sia a suo
modo una grande storia. Questo senza nulla togliere al fatto che all’Inghilterra dei pirati preferiamo di gran lunga quella del Medioevo delle
abbazie e delle cattedrali. In Gran Bretagna ci
sono quindi le premesse, per chi rifugge dagli
indipendentismi, per identificasi in una grande
patria unita nelle diversità delle piccole patrie.
A scanso di equivoci, precisiamo di non stare
facendo propaganda allo stato britannico. Noi
sosteniamo ardentemente l’Europa dei popoli,
di cui la Scozia sarebbe una colonna portante.
Diciamo solo che chi in Gran Bretagna rifugge
Quaderni Padani - 5
dal discorso indipendentista, per realismo o per
convinzione, può far coesistere grande patria e
piccola patria in maniera rispettabile. E soprattutto senza compromettere la costruzione di
un’identità nazionale scozzese, e dunque le prospettive di una futura indipendenza.
… e la Padania
A nostro avviso, la situazione in Padania è invece molto diversa. La coscienza identitaria, anche a livello delle singole regioni/nazioni, è debole. Una parte notevole della popolazione ignora le proprie radici o le rifiuta coscientemente,
ritenendo che parlare di identità locali sia una
superstizione del passato.
Chi conosce le proprie radici dà spesso all’identità locale un significato nostalgico e folkloristico, che non mina in alcun modo i dogmi
dell’italianità. Dogmi cui magari non si crede fino in fondo, ma che si accettano come un fatto
della vita. Questo per quanto riguarda le piccole
patrie.
Per quanto riguarda la grande patria (che noi
ovviamente rifuggiamo dal definire così), sappiamo tutti quanta tronfia retorica si celi dietro
l’italianità. Quante ore spese a sonnecchiare sui
banchi di scuola, cullati da insegnanti intenti a
trasmetterci i dogmi dell’italianità, leggendo
senza convinzione testi vecchi e ampollosi. Sappiamo di cosa è fatta la cosiddetta italianità.
L’orgoglio di considerarsi furbastri mediterranei. Il pressappochismo elevato a sistema. Il
sentimentalismo peggiore. Cuore che fa rima
con amore. Il razzismo al contrario di chi non
sa mettere piede fuori dai propri confini senza
disprezzare le civiltà percepite come nordiche.
O, da parte colta, il riconoscere tutte queste caratteristiche come tipicamente italiane per poi,
a seconda dei giorni, o considerarle ineliminabili oppure auspicare una nuova Italia, laica liberale ed avanzata, che però da 150 anni non
arriva mai.
I rischi che corriamo
Certo, con questa “grande patria” non è facile, e salutare, identificarsi. E noi dubitiamo che
dell’italianità si possano dare altre interpretazioni. A meno di persuadere gli abitanti dell’area geografica italiana che le loro più profonde
identità siano residui di un passato da dimenticare o da confinare solo nell’ambito nostalgico.
Troppo diverse sono le storie e le mentalità tra
il sud ed il nord dell’area geografica italiana,
per pensare di farle convivere in uno stato da
6 - Quaderni Padani
tutti rispettato e sentito proprio. Possono convivere, questo sì, nell’ambito di una concezione
dell’italianità furbastra e mediterranea nel peggior senso della parola. D’altra parte, il tentativo di creare dei buoni cittadini italiani, riconciliati sotto il segno di una religione civica della
patria italica, ci sembrano destinati a fallire.
Questo nonostante il massiccio contrattacco
che il nazionalismo italiano ha sferrato negli
ultimi tempi. Con poche reazioni, occorre dirlo,
e anzi con qualche accondiscendenza, da parte
del Movimento che a tale nazionalismo dovrebbe opporsi.
Ed è questa arrendevolezza, anche se giustificata da esigenze tattiche, che ci preoccupa. Vediamo infatti il rischio che il processo devolutivo divenga una scusa per ammansire il Movimento che lo ha promosso, convincendolo che
sia arrivata l’ora di sotterrare l’ascia di guerra
ed essere ragionevoli. Noi non disprezziamo affatto la ragionevolezza. Ma, come già detto, la
Scozia è giunta alla devolution con una forte
coscienza identitaria. E nell’ambito di uno stato
nazionale che, a prescindere da ogni giudizio di
valore, ha una grande storia alle spalle ed una
grande tradizione di lealtà di molti suoi cittadini, anche scozzesi. La Padania arriverà alla devolution con una debole coscienza identitaria
(o, meglio, con una coscienza identitaria
espressa quasi sempre in forma di nostalgia e/o
sterile borbottio) e con uno stato nazionale fondato su di una retorica vuota e ampollosa, uno
stato mai veramente rispettato dai suoi cittadini
se non in quanto dispensatore di favori e privilegi.
La troppa ragionevolezza, nell’ambito italiano, rischia di seppellire il progetto padano, facendo tornare le tensioni identitarie nell’ambito folkloristico e nostalgico e impedendo di
nuovo la messa in discussione del dogma dell’unità italiana.
E poco importa se si parlerà di unità nella diversità: troppo radicata è in Italia la tendenza a
cambiare tutto per non cambiare nulla, per potersi fidare di tale slogan. Ciò vale in modo particolare se ci riferisce alla Padania. Molti Padani
hanno purtroppo l’abitudine di lamentarsi dello
stato centrale, per poi non trarre alcuna conseguenza da tali lamentele. Hanno la tendenza a
lamentarsi in privato della propria identità calpestata, per poi legittimare in pubblico l’italianità, quasi che la perdita di identità sia un processo ineluttabile, da contemplare senza troppo
lamentarsi.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Cosa fare
Sorge allora il problema di cosa fare per scongiurare questi rischi. Noi non vogliamo proporre un ritorno alla politica del tutto e subito, che
a suo tempo ci ha portati a premature illusioni.
Pensiamo però che non si debba rinunciare a
perseguire l’indipendenza della Padania quale
fine ultimo del processo devolutivo.
Non c’è contraddizione, a nostro parere, tra
l’agire politicamente con realismo e il mantenere l’obiettivo strategico dell’indipendenza padana. Pensiamo inoltre che si debba ingaggiare
una dura battaglia identitaria a favore della Padania, battaglia che non è affatto in contraddizione con il perseguimento di una politica realistica. Senza una dura battaglia identitaria, con
l’acquiescenza verso una rinata aggressività del
nazionalismo italiano, con la troppa mansuetudine e con le professioni di fede verso l’unità
italiana nella diversità, a nostro avviso la devolution potrà essere una trappola piuttosto che
una vittoria.
Non ci riteniamo sterili estremisti, ma riteniamo che quella tra Padania e Gran Bretagna
sia una rima molto imperfetta.
Note bibliografiche
(1) Per una storia della Scozia, e della faticosa
(ri)conquista della propria identità, si veda: P.
Gulisano, Il Cardo e la Croce (Rimini: Il Cerchio, 1998). Interessanti i dati sulla lentissima
conquista di consensi da parte dello Scottish
National Party (quasi un cinquantennio). E sui
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
suoi continui ondeggiamenti, a nostro avviso
straordinariamente simili, comprese le tentazioni unitariste, a quelli della Lega Nord. Ciò in
risposta a chi, anche nella Lega Nord, tende a
pensare che la Scozia abbia un naturale diritto
all’indipendenza, mentre la Padania sarebbe
condannata dalla storia a definirsi come sottonazione della cosiddetta “nazione italiana”.
(2) Riguardo all’uso, ed abuso, del termine
“celtico”, si veda, S.James, I Celti, Popolo Atlantico (Roma: Newton & Compton, 1999). Sebbene il testo di James possa essere letto come “anticeltico”, a nostro parere (e, ci sembra, a parere dell’Autore) esso dimostra come la Padania
abbia gli stessi diritti della Scozia a rivendicare
(o non rivendicare) la celticità quale fondamento della propria identità nazionale. È infatti un
mito romantico quello della naturale celticità
delle Isole Britanniche, ed in ogni caso i “Celti”
(padani o scozzesi) di oggi sono inevitabilmente, e legittimamente, una reinvenzione di una
passata identità.
(3) Sull’italianità, e le menzogne che l’accompagnano, si veda il classico: S.Salvi, L’Italia non
Esiste (Firenze: Camunia, 1996). Salvi, notoriamente, è un deciso sostenitore del diritto della
Padania alla completa indipendenza. Per una visione disincantata del mito dell’italianità, proveniente da un autore meridionale e vicino alla
sinistra, e per questo ancor più apprezzabile per
l’onestà intellettuale dimostrata, si veda l’impietosa analisi di: A.Lepre, Italia Addio? (Milano: Mondadori, 1994).
Quaderni Padani - 7
Resistenza fiscale*
di Gianfranco Miglio
È
evidente che quando, dentro un sistema
politico di antica tradizione, e quindi spesso irrigidito, si coagula una minoranza etnico-culturale, questa trova forti difficoltà e
spesso ostacoli insormontabili nell’espandersi e,
prima di tutto, nel farsi riconoscere. Ciò accade
specialmente là dove l’ordinamento costituzionale non prevede percorsi praticabili per quanti
chiedono di ripensare, in senso “autonomistico”
o addirittura “federale”, l’assetto del sistema.
Ed è proprio in una tale congiuntura che, prima di imboccare la via della ribellione e della secessione, i cittadini “minoritari” sono legittimati, a far valer il diritto naturale all’autodeterminazione, con il ricorso alla “disobbedienza civile”. Vale a dire rifiutandosi di rispettare innanzitutto quelle regole che, nel campo dei diritti civici e nella pubblica amministrazione, umiliano
proprio la loro “diversità”. Arrivando poi naturalmente fino a mettere in causa il rispetto dei
carichi fiscali, come segno di obbedienza verso
un potere non sentito più come legittimo.
L’investitura politica, con il passare del tempo,
è diventata soprattutto, e primariamente, “mandato a tassare”: cioè licenza che i cittadini (inconsapevoli) accordano ai governanti di manipolare i
loro redditi, e dunque una ricchezza “privata”, la
quale, se accumulata nel rispetto della legge, dovrebbe essere invece intangibile. È evidente infatti che su quanto una persona guadagna - vivendo
in mezzo ai suoi concittadini, scambiando le sue
prestazioni con loro e osservando le regole giuridiche del “mercato” - né i concittadini stessi né i
detentori del potere possono vantare alcuna pretesa, fondata sul diritto naturale.
Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di
ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi
dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente
disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di
gran lunga in prima fila tra gli atti di governo.
La situazione si è recentemente molto aggravata
perché la natura, la struttura e la dimensione
delle operazioni finanziarie rendono difficilmente percepibili tali “estorsioni”. È notorio che, per
accorgersi di un furto, bisogna avvertire materialmente l’atto dell’asportazione: se di una
espropriazione i danneggiati non percepiscono
8 - Quaderni Padani
l’effetto entro un certo arco di tempo, è come se
il furto non fosse avvenuto.
Senza dubbio, quando il prelievo, e soprattutto la sperequazione fiscale (vale a dire la cattiva
amministrazione) incidono pesantemente e improvvisamente sul tenore di vita dei cittadini,
questi ultimi si ribellano. Non è per caso se le
maggiori rivoluzioni politiche d’Occidente
(quella puritana nell’Inghilterra del Seicento, e
quella francese del 1789) sono state innescate da
gravi controversie in materia di tassazione.
Soltanto la progressiva trasformazione in senso assolutistico della sovranità (e la crescente
arroganza di chi la detiene) hanno condotto a
pensare invece l’autorità politica come depositaria della sapienza economica, e arbitra esclusiva
della fortuna dei cittadini, ridotti, con le loro risorse e i loro beni, alla totale mercé di chi quell’autorità impersona. Le maggioranze parlamentari di oggi hanno raggiunto, in tema di asservimento fiscale dei cittadini, risultati che i principi assoluti di un tempo non si erano mai sognati. Chi non appartiene alle categorie dei privilegiati e dei protetti, è ormai un suddito “taillable
et corvéable à merci”.
Mi rendo conto che agli occhi delle persone
più timorate e amanti dell’ordine (ad ogni costo)
la proposta disegnata in queste pagine di una
concreta e organica “disobbedienza civile”, possa rappresentare una prospettiva di instabilità e
di contestazioni delle istituzioni: la premessa ad
un “disordine permanente”.
È una impressione profondamente sbagliata. I
popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si
permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che tornano poi ogni volta a rifondare,
con più solida persuasione, l’ordinamento in cui
vivono. La “disobbedienza civile” è così una sorta
di “valvola di scarico”, la quale consente ai cittadini di evitare il pericolo dell’obbedienza per abitudine o pigrizia, e quindi di recuperare una fiducia attiva e convinta nel resto delle istituzioni.
* Prefazione al Manuale di resistenza fiscale, pubblicato dal
Governo Provvisorio della Padania nel novembre 1996
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Per la riattivazione culturale dei territori
Memoria e identità alla base del radicamento e del senso di appartenenza
a una terra e alla sua gente. Appunti di vita
di Giulia Caminada Lattuada
O
gni giorno compiamo gesti abituali, ci muoviamo al ritmo delle scadenze esterne o personali,
coltiviamo memorie e progettiamo il futuro. E
come noi tutte le altre persone. Le esperienze quotidiane sembrano solo frammenti di vita individuali,
lontani dagli eventi collettivi più visibili e dai grandi
mutamenti che attraversano la storia e la cultura.
Eppure in questa trama minuta di tempi, di spazi, di
gesti e di relazioni avviene quasi tutto ciò che è importante per la vita sociale. Qui si produce il senso di
quello che facciamo e si radicano le energie da cui
scaturiscono anche gli eventi clamorosi. Una fenomenologia dell’esperienza quotidiana è sempre parziale,
come l’occhio di chi guarda, ma è il punto di partenza necessario per chiedersi come mai per noi e per
tanti, i conti sembrano non più tornare. I ritmi accelerati del cambiamento, la molteplicità dei ruoli, l’eccesso di possibilità e di messaggi dilatano l’esperienza
cognitiva ed affettiva degli individui che abitano un
pianeta diventato società globale, in una misura che
non ha paragone con nessuna cultura precedente
dell’umanità. I punti di riferimento su cui individui e
gruppo fondavano in passato la continuità della propria esistenza vengono meno. La ricerca di dimora
dell’identità diventa così vicenda comune e l’individuo deve costituire e ricostruire la “propria casa” di
fronte al mutamento incalzante degli eventi e delle
relazioni. L’esperienza individuale e i fenomeni collettivi contemporanei riflettono allora potenzialità e
dilemmi. Un mondo che scopre la complessità e la
differenza non può sfuggire l’incertezza e chiede agli
individui di mutare forma restando se stessi. La vita
quotidiana porta i segni di questa tensione irrisolta.
Le potenzialità e le incertezze di un mondo incommensurabilmente grande bussano pressantemente
alle porte dell’essere che si trova sempre più bombardato da un villaggio globale che continuamente sembra minare i fondamenti dell’identità individuale e
sociale. A fronte di questo dato di fatto, le radici restano però strettamente ancorate nel locale, nella
piccola patria che dà limiti e certezze. La certezza
della memoria, della conoscenza di lunga durata, del-
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
le relazioni e degli affetti che riemersi con grande
forza nella storia permetteranno di far fronte a testa
alta allo spauracchio della globalizzazione. Una globalizzazione il cui arresto è un’utopia ma che ci impone di resistere alla clonazione del cuore e delle intelligenze attraverso la doverosa presa di coscienza di
sé al fine di farsi provocatori strumenti culturali a difesa di se stessi e delle comunità di cui si è parte, perché solo dalla riattivazione culturale e identitaria dei
territori potrà scaturire un nuovo rinascimento culturale, sociale, dei vari settori dell’economia.
La mondializzazione che mira ad omologare e ad
appiattire le identità dei popoli per renderli succubi
del valore unico dell’economia ha cozzato con le infinite identità locali che colorano la grandezza del
mondo. Con l’uomo, i suoi valori tradizionali, le sue
radici, la coscienza di sé. Con i luoghi dell’affetto che
muovono le intelligenze e scaldano i cuori. L’identità
è la capacità di riflessione su noi stessi ma è anche la
percezione dell’appartenenza e la capacità di attribuirci gli effetti delle nostre azioni. Che equivale a dire il nostro radicamento e la nostra responsabilità.
Ma nello stesso tempo essa esprime anche la nostra
esigenza profonda di comunicazione e di relazione,
che la struttura atomizzata nella società di massa
tende a negarci. E affermando la radice sociale cerchiamo di resistere al processo di riduzione individualistica, alla frammentazione, alla specializzazione
burocratico-amministrativa. La natura e la cultura
umana si aprono, allora, alla nostra azione consapevole, al recepimento e alla presa di coscienza dei bisogni, segnali della mancanza che tocca a noi riconoscere ed elaborare culturalmente. Questo ci assegna
una responsabilità a cui non possiamo più sfuggire.
Quella di rispondere consapevolmente alla mancanza
che ci costituisce, cioè di decidere chi siamo. Quando
tentiamo di rispondere a questa domanda ci occupiamo della nostra identità. Con determinazione. A difesa di noi stessi, dei nostri figli, delle memorie sedimentate nel territorio che ci ha plasmato e che attraverso l’identità culturale ha plasmato il comune sentire di una terra e della sua gente.
Quaderni Padani - 9
I militari lombardi e veneti
nell’Imperial Regio Esercito
(1848-1866)
di Alberto Lembo
L
e regole che prevedevano la leva nei territori del Regno Lombardo Veneto furono definite nel 1820, nel quadro di un riassetto di
tale materia esteso a tutti i territori dell’Impero. Il periodo di servizio militare era diviso in
due fasi: otto anni di servizio effettivo e due anni nella riserva, ma, in realtà, si veniva posti in
congedo (almeno per quanto riguardava la fanteria di linea ) dopo tre anni di servizio.
La leva avveniva con estrazione a sorte, tra i
chiamati delle varie classi, di un numero di coscritti pari alle necessità di copertura degli organici previsti in tempo di pace. Chi veniva
estratto poteva trovare un sostituto che, a pagamento, fosse disposto a sostituirlo nell’obbligo;
successivamente, dal 1848, per esattezza, si permise il riscatto dall’obbligo con un versamento
diretto alle casse dello Stato.
Il Regno Lombardo Veneto contribuiva alle
necessità militari dell’Impero, che aveva una
forza complessiva di terra in tempo di pace di
circa 410.000 uomini, con l’arruolamento, ogni
anno, di reclute destinate a entrare negli organici di otto reggimenti di fanteria “italiani”,
cioè costituiti con militari di lingua italiana nativi del regno, inquadrati da ufficiali e sottufficiali di carriera che, indipendentemente dalla
loro estrazione etnico-linguistica, dovevano conoscere l’italiano.
Nel 1848 il Comando dell’Armata di stanza in
Italia aveva sede a Milano; dal comandante,
Feldmaresciallo conte Radetzky, dipendevano il
I Corpo d’Armata, con sede sempre a Milano, e
il II Corpo d’Armata, con Comando a Padova.
I reggimenti di fanteria dell’I.R. esercito austriaco reclutati in Italia erano, dunque, otto
(ognuno su tre battaglioni di circa 1200 uomini), più due battaglioni di cacciatori e due battaglioni presidiari di guarnigione a Venezia e a
Mantova, e costituivano oltre un terzo della
Fanteria austriaca, che contava nei territori italiani circa 70.000 uomini, e ben oltre la metà
della Marina (I.R.Veneta Marina, dove numerosissimi erano anche gli ufficiali di lingua italia-
Bandiere dell’esercito asburgico: reggimentale di fanteria (aquila sul verso); bandiera “gialla”
(uguale sul verso) e di guerra.
10 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Gradi dell’esercito e della marina asburgici
na, uno dei quali, l’ammiraglio Silvestro Dandolo, un patrizio veneto che aveva iniziato la
sua carriera come “nobile di nave” – oggi diremmo guardiamarina - agli ordini dell’ammiraglio veneto Angelo Emo) giunse addirittura al
comando della stessa nel 1847.
I reggimenti “italiani” erano il n.13 “Wimpffen” (costituito con reclute delle provincie di
Padova, Vicenza e Venezia), il n.16 “Conte Zannini”, poi, dal 1859, “Werhnardt”, (reclutato nel
vicentino e nel trevigiano), il n. 23 “Ceccopieri”
(costituito da lombardi di varia provenienza), il
n. 26 “Ferdinando d’Este” (reclutato a Udine e
provincia), il n.38 “Haugwitz” (costituito da veronesi e bresciani), il n. 43 “Geppert” (costituito da comaschi), il n. 44 “Arciduca Alberto”
(formato da milanesi) e il n. 45 “Arciduca Sigismondo” (con reclute del basso veronese e del
rodigino); due battaglioni di Cacciatori a piedi,
il n. 8 e il n.11, con reclute di varia provenienza, e i due battaglioni presidiari sopra ricordati,
completavano le truppe di fanteria.
I reggimenti “italiani” erano dislocati nei territori dell’Impero secondo una logica che vedeva il terzo battaglione di ogni reggimento restare nella zona di leva e gli altri due dislocati in
funzione delle necessità militari generali. I regAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
gimenti n. 38, 43 e 44 erano stanziati in varie
località del Regno e così pure la maggior parte
del n. 45, almeno fino alla vigilia della campagna del 1859. Secondo l’Almanach de Gotha del
1848 vi erano complessivamente 67.344 militari
su una popolazione di 4.803.289, il che conferma che il periodo di servizio effettivo era di circa tre anni. Questo considerevole numero di
soldati di nazionalità italiana presenti tra le forze imperiali e, per di più , inquadrati in reparti
omogenei, pone il duplice problema del loro
comportamento durante gli avvenimenti insurrezionali del 1848 e le campagne militari del
periodo tra il 1848 e il 1866, e di come i comandi austriaci impiegarono i militari di lingua italiana e nazionalità lombardo-veneta.
Dobbiamo dire, a questo punto, per amore di
verità (il che nulla toglie al valore dei singoli e
all’immagine dell’Italia di oggi) che gli eventi
del 1848 e degli anni successivi scossero profondamente i contemporanei che vi furono
coinvolti ma il coinvolgimento “patriottico” e
filounitario fu limitato ad ambienti piuttosto ristretti, economicamente e culturalmente, e non
toccarono, se non in qualche caso (cito gli
esempi di Venezia, Vicenza, Brescia e Milano)
l’intera popolazione.
Quaderni Padani - 11
Certamente anche l’esercito fu toccato dal
vento rivoluzionario e vi furono diserzioni tra i
militari, almeno nei primi momenti, quando a
tutti sembrava che l’Impero austriaco fosse ormai prossimo a sfasciarsi, ma le diserzioni non
furono molte e non ebbero, soprattutto, motivazioni politiche: infatti di contro alla solida
tradizione militare e al solido inquadramento
nei reparti mancò un tentativo di indottrinamento politico da parte dei “rivoluzionari” nei
confronti dei militari di leva.
Lo spirito di corpo, il sentirsi guidati da comandanti capaci che seppero tenere in pugno i
loro uomini e che non si risparmiarono nei
combattimenti, spesso lasciandovi la vita, ma
anche altri fattori, come l’innata diffidenza dei
contadini veneti per novità troppo profonde e
difficili da recepire in tempi brevi ma anche una
esplicita scelta di campo a favore della tradizione e della legittimità fecero sì che l’esercito “tenesse”. Di quell’esercito facevano parte alcuni
uomini di alto valore militare e morale che
giunsero poi a ricoprire elevati gradi nell’esercito del Regno d’Italia, con scelte dei singoli che
evidenziarono opposte tendenze ugualmente
meritevoli di rispetto: ricorderò, a questo proposito, i due casi del vicentino Ottavio Framarin (1825-1902 ) e del padovano Antonio Baldissera (1838-1917).
Il primo, caporale di leva nel 3° battaglione
del reggimento di fanteria n. 16 “Conte Zannini”, nel marzo del 1848 disertò con alcuni commilitoni e dopo aver combattuto a Sorio con i
“crociati trevigiani” e poi, col grado di tenente,
a Vicenza e a Venezia, si arruolò nell’esercito
piemontese e poi in quello italiano giungendo
per meriti e capacità al grado di Maggior Generale. Il secondo, di poverissima famiglia, fu ammesso a frequentare l’accademia militare di
Wiener-Neustadt a spese dell’imperatrice e ne
uscì con i gradi di ufficiale nel 1857. Invitato da
amici ed estimatori a emigrare e a passare con
l’esercito italiano, con prospettive di brillante
carriera, rifiutò più volte l’invito. Non ancora
trentenne, con il grado di capitano di Stato
Maggiore, si distinse nella campagna del 1866
sul fronte prussiano meritando l’altissima decorazione militare di Cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa. Solo quando il Veneto fu ceduto dall’Austria ed entrò a far parte del Regno d’Italia,
Antonio Baldissera si arruolò nell’esercito italiano in cui fece una carriera degna delle sue
qualità, dimostrandosi, nel periodo tra il 1887 e
il 1889, come uno dei migliori comandanti delle truppe coloniali italiane. Nel 1896 gli fu addirittura affidato il comando di tali forze ma, durante il viaggio per raggiungere l’Africa, le truppe, mal guidate dall’ex garibaldino Baratieri, furono portate al disastro di Adua. Nel 1904 ebbe
la nomina a Senatore del Regno.
Inserisco un altro breve riferimento al comportamento della nobiltà veneta con due esempi
contrapposti: il vicentino conte Pier Eleonoro
Negri, ufficiale piemontese fino dal 1848, medaglia d’oro al Garigliano, e il veronese conte Carlo de Bernini, capitano di cavalleria nell’I.R.
Parata delle guardie imperiali
12 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
esercito. Come esempio di comportamento di
un intero reparto italiano l’autorevole diario
Memorie di un veterano austriaco (di un anonimo alto ufficiale dello Stato Maggior) ricorda il
reggimento n. 44 “Arciduca Alberto” che, pur
essendo composto tutto da milanesi, uscì da Milano con le altre truppe il 23 marzo e vi tornò
solo in agosto, dopo aver partecipato a tutta la
campagna. I comandi austriaci, infatti, non si
posero nemmeno il problema della nazionalità,
da loro non sentito, e impiegarono con molta
disinvoltura le truppe di nazionalità italiana
non solo durante la campagna del 1848 ma anche nel 1859 a Magenta, e nel 1866, questa volta, però, sul fronte prussiano. Un dipinto esposto all’Heeresmuseum di Vienna rappresenta
soldati veneti del reggimento “Haugwitz” che
scortano a Vienna la loro bandiera dopo la sconfitta di Koniggratz.
Ma restiamo all’ordine cronologico degli avvenimenti. Nella primavera del 1848 l’Europa fu
investita da una ventata rivoluzionaria che
coinvolse troni e governi. L’Austria ne fu pesantemente colpita e un moto rivoluzionario scoppiò nella stessa Vienna. In Italia i moti insurrezionali che partirono da Venezia e si diffusero in
gran parte del Veneto si saldarono con i paralleli moti di Milano e della Lombardia.
Gli Austriaci sgomberarono Venezia il 23
marzo, Padova e Vicenza il 25, mentre il Feldmaresciallo Radetzky lasciava Milano con la sua
guarnigione nella notte tra il 22 e il 23; luogo
di raccolta delle forze austriache era la zona
compresa tra le fortezze di Verona, la “capitale”
militare del Regno Lombardo Veneto, Mantova,
Peschiera e Legnago, il cosiddetto “Quadrilatero”.
La ritirata si svolse in modo sostanzialmente
ordinato, sotto l’esperta guida del Radetzky, e
portò la maggior parte delle truppe ad attestarsi
su queste posizioni difensive, senza gravi perdite o defezioni che potessero minarne l’efficienza.
Le forze austriache si raggrupparono, quindi,
intorno a Verona e da qui partì la manovra di riconquista del regno che Radetzky volle avviare
contravvenendo agli ordini ricevuti ma agendo
in sintonia con altri due uomini che furono i
veri salvatori dell’Impero: il FML (Feldmarshalleutnant: Tenente Generale) principe Alfredo di
Windisch-Graetz, che riconquistò Praga e Vienna, e il FML Joseph Jellaèiè, che sottomise l’Ungheria.
I soldati “italiani” di Radetzky furono tra i
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Ufficiale d’ordinanza dello Stato Maggiore Generale Imperiale
protagonisti delle prime operazioni militari. L’8
aprile 1848 ebbe luogo la battaglia di Sorio, primo fatto d’armi in campo aperto tra insorti e
truppe regolari, che finì con la disfatta dei volontari a opera dei fanti dei reggimenti “italiani” “Haugwitz” e “Geppert” (nn.38 e 43), ben
comandati dal maggior generale principe Federico di Liechtenstein, che ritroveremo con molti dei suoi uomini alla presa di Vicenza nel giugno successivo.
Nel corso del periodo storico considerato, anche altri militari italiani, appartenenti agli eserQuaderni Padani - 13
citi degli altri Stati che allora costituivano la
realtà geopolitica italiana, reagirono alla propaganda unitaria, sabauda o mazziniana che fosse,
in modo nettamente contrario e sulla base di
diverse motivazioni ed è giusto e logico ricordare qui anche loro, anche per le connessioni che
vi furono con l’I.R. Esercito austriaco.
È noto che lo stato italiano più strettamente
collegato all’Austria era il Ducato di Modena.
Nel 1859, allo scoppio della guerra, Francesco V
non ebbe un attimo di esitazione. Unico tra i
sovrani italiani, prese aperta posizione in favore
dell’Austria e si dedicò con energia a consolida-
Uniformi della seconda metà dell’Ottocento
dell’esercito asburgico
re le difese del ducato e a riorganizzare il piccolo esercito estense.
Alla vigilia della guerra le milizie ducali potevano contare su 176 ufficiali e 3.479 uomini di
truppa. A questi numeri bisogna poi aggiungere
860 riservisti.
Il 4 giugno arrivò la notizia della sconfitta austriaca nella battaglia di Magenta. Milano era
stata evacuata e le truppe imperiali si erano ritirate dietro il Mincio. I ducati di Modena e Parma restavano in tal modo totalmente scoperti.
14 - Quaderni Padani
All’alba dell’11 di giugno, Francesco V uscì per
l’ultima volta dal Palazzo ducale e passò in rassegna le sue truppe, che, a ranghi completi,
scelsero di seguire il proprio sovrano e presero
la via per Mantova.
Il 14 giugno, quella che venne ribattezzata la
Brigata Estense, si congiunse con le truppe austriache a Mantova, “salutata con fratellevoli e
fragorosi evviva dalle truppe imperiali”. Benchè
il Duca avesse fin dall’inizio concesso la libertà,
a chi la voleva, di ritornare alle proprie famiglie
e alle proprie case, finchè si mantenne viva la
speranza di poter liberare con le armi le terre
ducali, non si riscontrò alcun abbandono. Anzi,
subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia,
la Brigata venne ingrossata da centinaia di volontari modenesi e reggiani, che, piuttosto che
rispondere alla chiamata alle armi del nuovo
governo, preferirono oltrepassare il Po per arruolarsi sotto le insegne del Duca. In questo
modo la Brigata Estense superò i 5.000 uomini.
Conclusa sfavorevolmente la guerra, che le
milizie estensi furono costrette soltanto a osservare da lontano in quanto inquadrate a Solferino fra le truppe della riserva, gli effettivi calarono leggermente, ma la grande maggioranza
dei soldati e degli ufficiali scelse di rimanere al
servizio del Duca. La paga incerta, la lontananza dalla famiglia e le prospettive inesistenti non
bastavano a far venir meno il legame di fedeltà
al legittimo sovrano, come pure le offerte e le
minacce del nuovo governo modenese, che promettevano ricompense e gradi a chi disertava e
la perdita di ogni diritto a chi invece perseverava nel rifiuto.
Col passare del tempo, tuttavia, presso gli
ambienti governativi viennesi cominciarono a
levarsi voci contrarie alla sopravvivenza di truppe “straniere” che venivano mantenute con fondi pubblici. Una soluzione si prospettò quando,
il 18 aprile 1860, Papa Pio IX, colpito da tale
esempio di fedeltà, avanzò la richiesta che la
Brigata Estense passasse al suo servizio, ma le
successive vicende belliche fecero sfumare anche questa possibilità.
Il 24 settembre, in esecuzione di un ordine
dell’Imperatore d’Austria, si compì l’ultimo atto: nello scenario di Villa Cappello, a Cartigliano Veneto, il Duca Francesco V, rivolse il suo
saluto a 2.564 soldati e a 158 ufficiali, i fedelissimi che fino all’ultimo istante avevano scelto
di restare al fianco del loro sovrano.
La duchessa Adelgonda consegnò a ogni soldato una medaglia coniata per l’occasione con
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
l’iscrizione “Fidelitati et Constantiae in adversis”. Al termine venne ordinato il “sciogliete le
righe”. Ma non tutti si arresero agli eventi e 782
uomini tra ufficiali, graduati e soldati chiesero
e ottennero di passare al servizio dell’Imperatore d’Austria. Fra loro il tenente colonnello marchese Achille Tacoli, che si stabilirà in Austria
diventando Consigliere Intimo di S.M.I.R. (Sua
Maestà Imperiale e Reale), e il cui figlio Antonio
seguirà le orme paterne prendendo servizio nell’esercito imperiale, dove era in forza ancora
verso la fine del secolo.
Un fratello di Achille,
Alfonso, scelse di arruolarsi nelle truppe pontificie, dove raggiunse il
grado di capitano dei
dragoni. Ricordo ancora
il modenese conte Scipione Scapinelli, che
morirà nel 1914 col grado di Feldmarshalleutnant.
Anche il Ducato di
Parma aveva un piccolo
esercito che contava nel
1858 circa 3.350 uomini
(di cui 2.762 in servizio
attivo). L’anno successivo, scoppiata la guerra,
la Duchessa Reggente,
dopo un breve periodo di
governo di una Giunta
Provvisoria, presto rovesciata da un pronunciamento dell’Esercito Ducale, lasciò definitivamente il ducato il 9 Giugno, scortata dalla Brigata Ducale, forte di
1.819 uomini, che fu poi
sciolta a Gualtieri il successivo 11 Giugno, mentre 60 ufficiali e 150 soldati scortavano a Mantova le bandiere dei reparti
e l’artiglieria.
Anche questi militari
furono messi in libertà il
12 giugno ma 45 soldati
si arruolarono subito
con la Brigata Estense,
cui si aggiunsero, tra il
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Dicembre 1859 e l’Agosto 1861, altri 33 disertori, provenienti da Parma; una decina di ufficiali
(ricordo il tenente Albino Belicchi, che entrò in
forza al reggimento “italiano” n. 16, il maggiore
Lamoure e il colonnello principe Guido Meli
Lupi di Soragna, già aiutante di campo del duca) entrarono nell’esercito austriaco. Alcuni ufficiali, come il capitano Caimi e il tenente Dodici, si arruolarono nell’Esercito Pontificio. Alcuni giovani ufficiali (ricordo i nomi di A. CavalieAlfiere dei Dragoni pontifici, 1865
Quaderni Padani - 15
ri, E. Bussarelli, V. Bassani e O. Dell’Oglio) si
arruolarono nell’esercito delle Due Sicilie. Altri
ufficiali, tra cui il generale Antonio Crotti, già
comandante delle truppe parmensi, restarono al
servizio personale del duca seguendolo nell’esilio in territorio austriaco. I pezzi della batteria
di artiglieria che erano stati portati al sicuro e
depositati nella fortezza di Mantova, furono donati al Papa che li aveva richiesti e furono “arruolati” nell’esercito pontificio.
I soldati smobilitati rifiutarono, perlopiù, di
arruolarsi nell’esercito sardo e successivamente
in quello italiano. Si ha notizia, in proposito, di
ripetuti arresti di renitenti alla leva e ai bandi di
arruolamento del nuovo governo (tra la fine di
luglio e la fine di ottobre 140 ex soldati ducali
furono catturati e imprigionati), mentre scoppiavano nel piacentino moti insurrezionali, che
vedevano protagonisti altri ex militari e che
provocarono viva preoccupazione nelle nuove
autorità.
Questi fenomeni (renitenza e ribellione) durarono per parecchi mesi: da un rapporto ufficiale in data 24 novembre 1859 risulta che i renitenti alla leva, nella sola Piacenza, erano ben
242 e che la banda di un certo Boschi, già militare ducale, continuò la sua attività fino al
1866.
Per quanto riguarda le truppe dell’Esercito
Pontificio, bisogna considerare la situazione al
momento del passaggio della frontiera da parte
delle truppe del Regno d’Italia e una seconda fase, che vede lo Stato Pontificio limitato al solo
territorio del cosiddetto “Patrimonio di San
Pietro” fino al 1870.
Nella prima fase le truppe pontificie contavano poco più di 15.000 uomini (di cui il grosso
16 - Quaderni Padani
era costituito da una Brigata di Fanteria nazionale di 3.200 e 2 reggimenti esteri di circa
3.500).
La sconfitta del 1860 portò alla perdita della
maggior parte del territorio, ma non fermò la
volontà di resistenza, anzi, l’afflusso di volontari si intensificò. Nel 1870 le forze armate pontificie arrivavano a circa 16.000 uomini, tra pontifici, italiani degli altri Stati preunitari e volontari esteri.
L’ultima realtà da ricordare, senz’altro la più
importante sotto vari profili, e anche la più conosciuta, è quella costituita dai militari dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, che vedeva
alle armi oltre 92.500 uomini nell’esercito e
una marina forte di oltre 120 unità con 750
cannoni e 7/8.000 uomini.
Le vicende della guerra portarono molti uomini a sconfinare nello Stato pontificio o a darsi alla macchia. Dopo la resa delle fortezze e il
trasferimento del re e del governo a Roma molti
ufficiali lo seguirono anche in esilio, come i colonnelli Vincenzo Afan de Rivera e Gabriele Ussani mentre altri, come tre figli del siciliano
Maresciallo di Campo Gaetano Afan de Rivera,
si arruolarono nell’esercito austriaco.
È interessante ricordare che, come andarono
a combattere per Francesco II e per la libertà
delle Due Sicilie legittimisti carlisti come il generale Borjès, caduta anche Roma andarono poi
a combattere per Carlo VII di Spagna legittimisti borbonici, come il conte di Caserta, già combattente a Gaeta, a Mentana e a Roma, ma anche ex militari pontifici, fedeli a una visione del
mondo inconciliabile con le realizzazioni politiche che progressivamente andavano affermandosi.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Lombardo-Veneto
e Impero asburgico
di Corrado Galimberti
A
d un recente convegno che si è tenuto a dizioni e origini etniche. Sebbene oggi lo abbiaMilano sulla figura del conte Josef Wenzel no dimenticato.
Radetzky e il ruolo che il mitico marescialCerto questa non poteva essere la Weltanlo rivestì nel Regno Lombardo Veneto, un do- schauung delle persone meno istruite di metà
cente universitario della Cattolica ha spiegato Ottocento. Ma se è per questo, il “popolo” non
che Lombardi e Veneti – da lui mai riconosciuti sapeva neppure dell’esistenza del mondo medicome tali, ma etichettati tout court come italia- terraneo in cui gli amici dell’Italia l’avrebbero
ni – si dimostrarono in gran parte fedeli all’Im- fatto sprofondare.
pero asburgico solo per un motivo: la lealtà che
La lealtà nei confronti della Chiesa cattolica,
nutrivano nei confronti della Chiesa cattolica. la diffidenza o meglio l’aperta ostilità nei conSi sarà anche guadagnato il Paradiso, ma il pro- fronti dei nuovi “valori” che il retaggio della Rifessore ha cannato.
voluzione francese e dell’Illuminismo stava imNeppure gli studiosi italianisti meno attenti e ponendo in Europa, furono solo alcuni dei moche, ancor oggi, rifiutano di accettare una tivi che spinsero molti Lombardi e Veneti a starealtà storica per loro molto spiacevole, posso- re dalla parte di Cecco Beppe. Non certo i prinno sostenere una simile tesi. Molti Veneti e cipali né, tantomeno, gli unici.
Lombardi furono filo-asburgici perché l’ammiUn esempio? Carlo Cattaneo. Questo personistrazione imperiale era efficiente, corretta e naggino non amava certo il Papato, nè Franceonesta. Garantiva ordine, pace e benessere a sco Giuseppe, ma, pur chiedendo autonomia
tutti i popoli dell’Impero. E, in particolare, of- per la propria Terra, la concepiva solo come uno
friva pari dignità a ogni realtà etnica che lo co- Stato amministrato dagli Asburgo.
stituiva. Basti pensare che l’Austria - contrariaCattaneo - figura oggi mitizzata e di cui tutti
mente al Lombardo-Veneto - non era neppure cercano di appropriarsi - sapeva che solo la Mitun Regno, ma solo un Arteleuropa poteva rappreciducato. E che molte mi- L’arciduca Alberto, il vincitore di Custo- sentare e garantire il denoranze, nella seconda za, nel 1866
stino, la vocazione e l’imetà dell’Ottocento, fudentità della Lombardia.
rono annientate politicaDel resto, finché sul Lommente e culturalmente
bardo-Veneto sventolò la
non dalle leggi e dai funbandiera con l’aquila bicizionari austriaci, ma da
pite, Carlo Cattaneo visse,
quegli stessi popoli che,
lavorò e combatté le prodopo aver invocato a gran
prie battaglie a Milano.
voce autonomia e libertà
Non se ne andò in esilio.
dagli Asburgo, cercarono
Ma non appena sulla Madi cancellare ogni diverdonnina venne issato il
sità.
tricolore (di nuovo: ma la
Gli austriaci erano l’uChiesa non era minacciata
nica garanzia per tenere i
proprio da quella bandiepopoli lombardo e veneto
ra?) levò le tende e si traancorati al mondo mittesferì in Svizzera. Sino alla
leuropeo cui appartengofine dei suoi giorni.
no per storia, cultura, traVale inoltre la pena di riAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 17
cordare che il 26 marzo 1848, concluse le Cinque giornate di Milano, e allontanati temporaneamente gli Austriaci dalla capitale lombarda,
furono proprio i parroci a distribuire ai Milanesi i manifesti che inneggiavano all’“Italia libera”
e a Pio IX, il Papa che aveva appoggiato la rivoluzione.
Il popolo lombardo, però, non si dimostrò
particolarmente interessato né all’“Italia libera”
né a Pio IX. Che si sentisse tutt’altro che pronto
ad abbracciare quel nuovo amore chiamato Italia?
Gli storici ci ricordano che quando il maresciallo Radetzky si apprestava a ritornare a Milano, dopo esserne stato scacciato il 23 marzo
1848, era tranquillo. E ne aveva tutte le ragioni.
Perchè lui non era stato mai preso a fucilate
dai milanesi. Ma Carlo Alberto, il Savoia che si
era trattenuto nella capitale lombarda solo pochi giorni per propagandare il suo Regno d’Italia, sì. Insomma, sapere che un Savoia, dopo pochi giorni dall’aver fatto assaggiare ai Milanesi i
tipici provvedimenti del “Bel Paese” (tasse per
finanziare la guerra contro l’Austria) era stato
costretto a fuggire da Milano, di notte, come un
ladro, lasciava ben sperare. O no?
Le parole del podestà Paolo Bassi, indirizzate
a Redetzky che si era ritirato nel “Quadrilatero”, non lasciano adito a dubbi: “La città è calma e si prepara ad accogliere come si conviene
le truppe imperiali”.
Quanto i milanesi si sentissero poco figli della
Lupa è testimoniato anche da altri episodi. Riportano le testimonianze del tempo, accuratamente censurate dai libri di storia dell’Italia democratica, fascista, monarchica, repubblicana,
cattocomunista o forzitaliota: “Numerosi erano i
volti che ci ringraziavano in silenzio, con gli occhi colmi di lacrime di gioia per averli liberati”.
Commoventi le parole gridate dalla folla che,
dopo le cinque giornate, attendeva Radetzky in
Porta Romana: “semm staa minga nünc, hinn
staa i sciuri!” (Non siano stati noi, sono stati i
nobili).
Il popolo come poteva del resto volersi allontanare da chi garantiva ordine, pace e benessere?
Ormai anche i militanti di Alleanza nazionale
e Rifondazione Comunista riconoscono che la
Lombardia austriaca fu uno degli Stati meglio
amministrati del vecchio continente e uno dei
più prosperi dell’Impero asburgico.
Furono infatti gli Austriaci, dopo l’oppressione (quella sì) spagnola, a fare rinascere da un
punto di vista non solo economico, ma anche
L’affondamento della Re d’Italia a Lissa
18 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Il rientro degli Austriaci a Milano (1848)
civile, culturale, artistico e sociale la Lombardia. Già a partire del Settecento.
Maria Teresa e il figlio Giuseppe II prima, così
come Ferdinando e Francesco Giuseppe poi, lasciarono segni indelebilmente positivi.
In campo culturale, giuridico, amministrativo, urbanistico ed educativo la Lombardia austriaca conobbe un rapido progresso non appena l’amministrazione dell’aquila bicipite se ne
prese cura.
E furono una quantità enorme i provvedimenti, dai più semplici a quelli di più alto spessore, che resero la vita ai Lombardi degna di essere vissuta.
Un breve elenco: gli austriaci introdussero in
Lombardia la numerazione civica e le targhe
agli angoli delle strade. Riordinarono il sistema
dei dazi, favorendo il commercio, abolirono i
vecchi regimi corporativi della “manomorta” e
i “fidecommessi” favorendo lo sviluppo di manifatture tessili e seriche legate alla gelsicoltura e
alla bachicoltura, diedero impulso alla nascita
delle prime industrie lombarde con le filande a
vapore. Introdussero nuove tecniche industriali, nel mondo della chimica e della metallurgia.
In campo culturale diedero spazio ai grandi
architetti che cambiarono la fisionomia di MilaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
no e la arricchirono di splendidi palazzi, giardini e ville. Incoraggiarono gli artisti dell’ebanisteria e dell’intaglio che divennero famosi in
tutta Europa. Fondarono l’accademia di Brera,
fecero costruire la Scala e la Cassa di risparmio. Ampliarono l’università di Pavia, riorganizzarono l’esercizio della medicina, della chirurgia e delle farmacie.
Completarono, invece di distruggere, gli archi eretti per celebrare i fasti di un paese nemico come la Francia, dedicandoli alla Pace (dall’arco di porta Cicca, passando appunto per
quello della Pace) e ne fecero erigere di nuovi.
Fecero costruire la prima linea ferroviaria del
Lombardo Veneto (la Milano-Monza) inaugurata dalla locomotiva “Lombardia”. E ampliarono,
oltre alla rete ferroviaria, anche quella stradale
- basti pensare al Passo dello Stelvio - e le vie
d’acqua navigabili dei Navigli.
A Milano introdussero i servizi pubblici e l’illuminazione delle strade, prima con le lampade
Argand (che sostituirono le lampade a petrolio)
poi con l’illuminazione a gas (con 377 becchi
sparsi in ogni angolo della città, in funzione
tutta la notte).
Nel 1844, inaugurarono i primi impianti per
la distribuzione di acqua potabile, i primi bagni
Quaderni Padani - 19
pubblici, la prima piscina pubblica, il primo
servizio pubblico degli omnibus a cavallo.
Fecero costruire nuovi ospedali (si pensi al
Fatebenesorelle, l’ottantaquattresimo ospedale
della Lombardia), asili per bambini, ricoveri per
anziani. Fecero ripristinare le scuole dei Barnabitt, e aprirono persino un istituto per riabilitare gli ex carcerati.
Fecero costruire nuove chiese e restaurare
quelle fatiscenti di San Sempliciano, Sant’Ambrogio, del Carmine e molte altre. Fecero ridisegnare il centro di Milano arricchendolo di
caffè e negozi, e anticipando di oltre un secolo
il salotto della “Milano da bere” degli anni Ottanta, ma superandola di gran lunga per classe,
eleganza e, soprattutto, onestà.
Introdussero persino la commissione del pubblico decoro per rendere Milano una bella città
(no, niente condoni….).
Destinarono a uso pubblico i giardini di Palazzo Dugnani annettendoli ai giardini pubblici
e creando un’area verde tra le più grandi dell’Impero.
Fecero perfino sloggiare dalla pizza del Duomo i venditori ambulanti che fanno oggi assomigliare Milano a una favela brasiliana. Insomma, si occuparono del benessere di coloro che
amministravano. Non dei propri interessi.
A testimoniare il fatto che il clima culturale e
politico era tutt’altro che buio, vale la pena di ricordare che fu proprio nella Lombardia amministrata dagli Asburgo che vissero, crebbero e operarono intellettuali come Verri, Parini, Berchet,
Beccaria, Cantù, Foscolo e Manzoni. Avrebbero
potuto scrivere e tramandarci le loro opere se le
condizioni di vita create dagli Austriaci fossero
state improntate alla repressione più bieca, come ci è stato ripetuto dalle elementari all’Università?
Gli Austriaci avrebbero potuto, come fanno
tuttora molti governi nel mondo, mantenere i
popoli amministrati nell’ignoranza, impedendo
a Lombardi e Veneti di prendere coscienza della proprie condizioni e, di conseguenza, di ribellarsi. Scelsero un’altra strada.
Nel Regno Lombardo-Veneto favorirono il popolo, le masse, e si inimicarono i nobili, che furono esclusi dalla sala dei bottoni perché inaffidabili, inefficienti, infingardi, traditori. E fecero
bene.
Del resto la sensibilità democratica dei nobili
lombardi si tradusse in un categorico rifiuto
quando Carlo Cattaneo propose loro di far votare i cittadini sull’annessione della Lombardia al
20 - Quaderni Padani
Piemonte. Gli fu risposto che non era il caso…
Chi potè votare – i Veneti – si scontrò subito
con una delle principali caratteristiche italiche:
la propensione innata alla truffa. Perché una
truffa fu il cosiddetto plebiscito.
Sul voto del 21 e 22 ottobre 1866 che sancì
l’annessione del Veneto al Regno d’Italia i nostri
docenti hanno steso un velo pietoso, chi di silenzio, chi di menzogne. Chi di tutte e due.
I risultati della trombonata all’italiana, però,
parlano da sè. E sono cifre che farebbero sbellicare dalle risate, non fosse che hanno affogato i
Veneti e noi tutti nella pummarola.
Qualche dato. La corte di appello di Venezia
rese pubblico l’esito del plebiscito. Gli aventi diritto al voto erano 646.789 (su una popolazione
di 2.485.983 persone): i voti contrari all’annessione all’Italia furono 70, le schede nulle 72. Gli
altri, tutti a favore. Wow!
Persino lo storico britannico (e filo-italiano)
D. Mack Smith, nella sua Storia d’Italia, mette
in dubbio questa pagliacciata.
Difficile credere a una percentuale di favorevoli del 99,99%. Persino le targhe celebrative
del “plebiscito” in Veneto non ce la contano
giusta. Secondo una targa celebrativa posta a
Venezia, i “sì” furono 641. 758. Su una lapide di
Padova, invece, leggiamo che i voti favorevoli
furono alcune migliaia in più: 647.246. Ma i
“no” ammontavano comunque a 69. Neanche il
mago Zurlì avrebbe potuto fare meglio.
Particolari interessanti sul plebiscito vennero
a galla anche da convinti italianisti: tale S. Eupani scrisse ad esempio che a Malo, paesino in
provincia di Vicenza “le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col sì
e col no di colore diverso; ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio pronunciava
il proprio nome e consegnava il biglietto al Presidente che lo deponeva nell’urna”. Tutti, insomma, venivano a sapere se un cittadino aveva
votato a favore o contro l’annessione del Veneto
all’Italia. Una consultazione davvero all’insegna
della trasparenza.
Ad ogni modo, sui veri sentimenti “filoitaliani” dei veneti è fenomenale una commedia del
Pittarini che, a proposito del plebiscito scrisse
ne Le elezioni comunali in villa:
1° contadino: ciò chui ghetu metesto ti sulle
schene?
2° contadino: mi gnente, me le gha consegnà el
cursore scrite e tuto.
1° contadino: e anca mi istesso, manco faiga.
2° contadino: manco secade.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
L’ultima stampa di tale commedia risale al
Gli Italiani, appena il Veneto cadde sotto le
1912. L’ha dovuta ripescare la Liga Veneta negli sgrinfie dei Savoia, introdussero la coscrizione
anni 80. Sino ad allora, silenzio.
obbligatoria. Avevano bisogno di soldati, insomL’autore non era certo un filoasburgico che ma, per far accrescere l’amore verso la bella Itaintendeva infangare il glorioso plebiscito trico- lia.
lore. Tanto è vero che nel 1859 fu persino arreNon aumentarono solo le baionette, ma pure
stato dalle autorità austriache per le sue attività gli ignoranti: l’analfabetismo passò dal 62 % al
anti-imperiali.
69%. Sicuri di essere amati dalla popolazione,
Un’altra importante testimonianza sulla vera gli Italiani arrivarono persino al punto di proinatura de referendum ci è giunta dal noto ex bire le processioni religiose perchè pericolose
pregiudicato Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due per l’ordine pubblico. Il Veneto, per farla breve,
Mondi (per l’appunto) scrisse: “La corruzione piombò nel periodo più buio della sua storia.
dei publicisti nei plebisciti, nei collegi elettora- Tanto che decine di migliaia di persone emigrali, nella Camera, nei
rono in Sud America.
ministeri, nei tribuIl feldmaresciallo Radetzky
Il resto è storia dei
nali… fu alzata a sigiorni nostri.
stema di governo”.
I Veneti si sentivano
Voilà. Garibaldi, del
così italiani che eraresto, come scrive il
no stati sino a pochi
già citato Mack Smith
mesi prima dall’an“si infuriò perché i
nessione all’Italia,
Veneti non si erano
l’ossatura non solo
sollevati per conto
della marina, ma
proprio, neppure nelpersino dell’esercito
le campagne, dove
austriaco.
sarebbe stato facile
Vale la pena di ricorfarlo”.
dare che prima di acImpeccabile il comquisire una nuova
mento del quotidiano
“patria” (?!) avevano
anti-austriaco l’Arena
combattuto in molte
di Verona che, il 9
battaglie quelli che
gennaio 1868, scrissarebbero diventati
se: “Fra le mille radi lì a poco i loro
gioni per cui noi
concittadini. E in alaborrivamo l’austriacuni casi, come a Cuco regime, ci infastistoza e a Lissa, avediva sommamente la
vano loro inflitto cocomplicazione e il
centi e sonore sconprofluvio delle leggi e
fitte.
dei regolamenti, l’ecIl nome del corpo in
cessivo numero di
cui prestavano serviimpiegati e specialzio e di cui andavano
mente di guardie e
orgogliosi non lascia
gendarmi, di poliadito a dubbi: Österziotti, di spie. Chi di
reische-Venezianinoi avrebbe mai attesche Marine.
so che il governo itaSia l’equipaggio che
liano avesse tre volte
la maggior parte detanto di regolamenti,
gli ufficiali provenitre volte tanto di pervano dall’area di linsonale di pubblica sigua veneta dell’Imcurezza, tre volte
pero. La lingua partanto di carabinieri
lata a bordo delle naecc…”.
vi era il veneto. E la
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 21
lingua veneta parlava coi marinai l’ammiraglio
Wilhelm Tegetthof, che aveva studiato nel Collegio Marino di Venezia.
I sentimenti di molti Veneti erano schiettamente filoaustriaci tanto che l’ammiraglio Angelo Iachino scrisse nel 1866: “non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno
quando nel luglio 1866, si cominciò a parlare
della cessione di Venezia all’Italia”.
Nella citata battaglia di Lissa, la corazzata Re
d’Italia venne speronata dall’ammiraglia della
marina austro-veneta Ferdinand Max. Affondò
in pochi minuti con l’ammiraglio Tagetthoff
che spronava l’equipaggio al grido di “daghe
dentro, daghe dentro!”. E quando la Re d’Italia
colò a picco, il grido udito da vincitori e vinti
fu: “Viva San Marco”.
Come sottolineato dagli studiosi più autorevoli, l’edificio monarchico degli Asburgo seppe
resistere alle orde rivoluzionarie del 1848 grazie all’unità che regnava tra le file dell’esercito
imperiale, composto da 79 distretti di leva: 58
reggimenti di fanteria, 18 reggimenti di frontiera e 1 reggimento di Jäger, i cacciatori tirolesi
(tra i quali, naturalmente c’erano anche i Trentini. Gli altri corpi, cavalleria, artiglieria eccetera, traevano le reclute dagli stessi distretti di leva di fanteria). L’esercito era diviso in 12 comandi generali: quello del Lombardo Veneto
aveva sede a Verona.
Il sistema di reclutamento permetteva di dividere la maggior parte dell’esercito in termini di
nazionalità: tra i 58 reggimenti di fanteria, due
provenivano ad esempio dall’Austria superiore,
due dall’Austria inferiore, cinque dalla Moravia/Slesia, quattro dal Veneto e quattro dalla
Lombardia. Tra la cavalleria leggera, tre reggimenti dalla Boemia, un reggimento dall’Austria
superiore e inferiore e un reggimento dal Lombardo-Veneto. In tempo di pace l’esercito imperiale era composto nel seguente modo:
22,5% Ungheresi
21,5% Cechi (di cui molti, però, di lingua tedesca)
16,1% Austriaci
16,5% Polacchi
9,2% Sloveni e Croati
8,7% Lombardo-veneti
5,4 % Rumeni.
Come si può facilmente constatare, la componente austriaca era una netta minoranza dell’e22 - Quaderni Padani
sercito asburgico. Le sorti dell’Impero erano insomma in mano a militari che, chi non comprende l’essenza e l’anima dell’Impero asburgico, chiamerebbe “stranieri”.
Nel 1847, un anno prima della rivoluzione,
nel 45° fanteria, i cognomi in lingua italiana
erano numerosi: 5 capitani su 14; 1 primo capitano su 5; 6 tenenti su 20; 12 sottotenenti su
39; 18 cadetti su 37.
Insomma: su 115 ufficiali e cadetti, 42, ovvero
il 36,5% avevano un cognome “italiano”.
Un caso, quello del 45° fanteria? No, naturalmente.
Ecco qualche altro dato su cui riflettere: avevano cognomi lombardi o veneti il 30% degli effettivi del 23° fanteria, il 42% del 38° fanteria, il
24% del 44° fanteria, il 32 % del 16° fanteria e
il 17% del 26° fanteria.
Il Lombardo-Veneto era tutt’altro che militarizzato. Basti pensare che, come l’Ungheria,
aveva una percentuale di soldati inferiore a
quella di molte altre nazionalità dell’Impero.
6.333 soldati per milione di abitanti nel Lombardo-Veneto e 5.367 per l’Ungheria. La percentuale aumenta a 11.715 soldati per milione di
abitanti per l’Austria, 11.458 per la Galizia e
ben 16.744 per la Moravia/Slesia.
Alcuni reggimenti cambiavano spesso città,
ma rimanevano all’interno dei propri confini
regionali. Il 38° reggimento, ad esempio, composto da Lombardi, tra il 1830 ed il 1848 non si
allontanò dalla Lombardia, fatta eccezione per
un anno (1839) trascorso a Dubrovnik/Ragusa,
un anno a Fiume (1841), un anno a Udine
(1843), e un anno in Veneto nel 1846.
Prima della rivoluzione le diserzioni furono
un fatto puramente sporadico tra i sodati lombardo-veneti. Basti pensare che tra il 1818 e il
1848 gli agenti segreti di Metternich, a Milano
riferirono di un solo caso di tradimento. E anche questo fu un affare definito di “piccola scala, pienamente chiarito a soddisfazione delle autorità”.
Quando la polizia politica scoprì tre traditori
lombardi che aderivano alla Giovine Italia, il
conte Hartig, nella risposta a Metternich, osservò che “è perfettamente vero che da un punto di vista militare la condotta delle truppe
lombarde è finora irreprensibile. Né si può rimproverare loro alcunché riguardo alla disciplina o in merito al giuramento prestato”.
Ma fu lo stesso Radetzky a testimoniare la fedeltà delle truppe lombardo-venete. Al culmine
dello sciopero del tabacco, nel gennaio 1848,
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
scrisse al conte Hardegg: “Vostra eccellenza poI drammi famigliari, insomma, erano tutt’altrà immaginare l’agitazione fra le truppe, ma tro che rari. E, a volte, sfociavano appunto nella
io resto soddisfatto del loro spirito e, partico- diserzione. Atteggiamento di cui si resero prolarmente degli italiani”. Anche se, a onor del tagonisti anche alcuni soldati austriaci che sovero, Radetzky, si dimostrò troppo ottimista. gnavano la repubblica.
Perché non furono pochi a tradire. Ma gli amici
Concludiamo questo omaggio all’Impero
dell’Italia non si illudano. Non si trattava di asburgico e a una dinastia che per prima, nella
amore per la penisola. Quando Radetzky chiese storia moderna, si pose il problema del federaliconto delle milizie del Tirolo di lingua tedesca, smo, con le parole di Carlo Cattaneo. Un persosi sentì rispondere dalle truppe sfiaccate: naggio che, come già detto, non guardò agli Au“quanto al giorno
striaci con particolaper ogni uomo?”. E
re tenerezza, ma che
la loro prima dichiatributò loro parole
razione fu che avrebdi ammirazione e ribero combattuto sospetto. E li consilo se il nemico saderò come i migliori
rebbe arrivato daamministratori della
vanti alle porte di casua Terra.
sa.
“Ogni anno segnò
I nobili motivi desempre per noi qualgli Italiani e dei loro
che nuovo grado di
amichetti sono del
prosperità; ogni anresto riassumibili
no più vasta la erte
nelle nobilissime pastradale, ogni anno
role di un certo capipiù folta la piantatano Bertini che, vegione dei gelsi, pridendo i soldati restii
ma riservata ai colli,
a sollevarsi contro
poi distesa in veri
l’Impero disse: “Perboschi sui piani delché non volete diserl’Olio e dell’Adda, e
tare? Per mancanza
salita fin a mille
di denaro? Ma c’è
metri di altezza nelsempre qualche mole valli alpine, prodo per trovarne: asduttrice di un’annua
salteremo il primo
raccolta di cento
ufficio postale sulla
milioni di franchi in
nostra strada”. Onoun territorio che
re al merito a un vecorrisponde alla
ro italiano.
ventiseiesima parte
Non va inoltre didella Francia. Semmenticato che i mopre più diffuse, ma
tivi di diserzione
più accurate e quinnon erano solo di ordi meno insalubri le
dine ideale, politico
irrigazioni; si mutao militare, ma erano Illustrazione allegorica dei vincitori di Lissa: no in buone case i
anche legati alla na- l’ammiraglio Tegetthoff con i suoi ufficiali e ma- tuguri dei contadini;
tura umana. Nel sen- rinai
penetra in tutti i coso che su una communi rurali il prinpagnia di 200 effettivi, solo a quattro soldati era cipio dell’istruzione; tolta cogli asili dell’infanpermesso sposarsi. Gli altri erano costretti a in- zia la rozzezza dei figli della plebe; gli studi
trattenere relazioni con donne del posto. E ogni delle lettere e delle arti consentiti anche al sesvolta che la compagnia si spostava, la donna do- so gentile; e con solenni mostre viene diffuso
veva essere abbandonata. Se un soldato era in- l’amore delle belle arti nel popolo”.
namorato cotto…
C’è bisogno di aggiungere altro?
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 23
Documenti informativi
sull’Impero asburgico
P
er inquadrare meglio le informazioni storiche illustrate dai due articoli precedenti,
vengono qui riportati alcuni documenti riferiti all’Impero Asburgico. Vengono innanzitutto fornite alcune annotazioni statistiche sulla
composizione e sui caratteri dell’Esercito Imperiale alla vigilia della guerra del 1848. Tutte le
informazioni sono tratte da: Alan Sked, Radetzky e le armate imperiali. L’Impero d’Austria
e l’esercito asburgico nella rivoluzione del 1848
(Bologna: Il Mulino, 1983).
Popolazioni Wellische (italiane) erano presenNumero di reggimenti suddivisi per provenienza
Regione
di provenienza
Numero dei reggimenti
Fanteria Cavalleria Artiglieria
Boemia
Moravia/Slesia
Galizia
Lombardo-Veneto
Ungheria
Transilvania
Austria
8
5
13
8
12
3
9
8
2
8
1
12
0
7
2
1
0
0
0
0
2
ti, oltre che in Lombardia e nel Veneto, anche in
Carniola (il 46% degli abitanti delle province di
Gradisca, Istria e Trieste nel 1914), in Tirolo (il
38% nel 1914), in Dalmazia (il 3%) e in Ungheria (il 44% degli abitanti di Fiume). Quelli che
oggi vengono chiamati “italiani” erano fino alla
metà dell’Ottocento detti nel mondo mitteleuropeo Welsch. La Padania era detta Walschland (o
Welschland), i suoi abitanti Wellische, e il Tirolo
Trentino Welschtirol. In molte lingue anglosassoni si usava indicare fin dalla loro formazione
alto-medievale con i termini Walsche, Welsse,
Walisch o Welisch le popolazioni straniere di
origine celtica. È piuttosto sintomatico che i Padani (i soli “latini” con cui gli Austriaci avevano
contatto diretto) venissero chiamati come gli
Inglesi chiamano i Gallesi, e cioè Welsh.
Situazione dell’Armata di Radetzky nel 1848
“Nel gennaio 1848 Radetzky comandava un’armata di 70-75.000 uomini divisi fra 61 battaglioni
di fanteria, 36 squadroni di cavalleria e 108 batterie. Poiché non esistevano né cavalleria né artiglieria italiane, le sue truppe italiane erano esclusivamente di fanteria, e di fatto rappresentavano
il più ampio contingente nazionale presente poi-
Rapporto fra popolazione civile e militari reclutati nelle varie province dell’Impero
Provincia
Insegna dell’Impero Austro-Ungarico
24 - Quaderni Padani
Austria inferiore
Austria superiore
Steiermark
Carinzia e Carniola
Küstenland
Tirolo
Boemia
Moravia e Slesia
Galizia
Dalmazia
Lombardia
Veneto
Ungheria
Transilvania
Confini Militari (Krajne)
Abitanti (A)
1.375.400
844.914
966.863
757.395
477.702
830.948
4.112.085
2.162.086
4.718.991
384.572
2.516.420
2.137.608
12.039.400
2.069.600
1.147.383
Militari (M) Rapporto A/M
34.226
12.650
18.466
2.146
3.487
8.807
62.083
4.552
78.252
9.456
31.556
30.945
56.802
9.400
56.322
40,19
66,78
54,72
352,93
137,00
94,36
66,24
474,97
60,31
40,67
79,74
69,08
211,96
220,17
20,37
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
ché dei 61 battaglioni, 9 erano ungheresi, 6 cechi,
24 italiani, 10 di slavi meridionali e 12 austriaci.
In altre parole gli italiani erano in maggioranza
relativa rispetto alle altre nazionalità nella armata d’Italia: essi costituivano il 39% della fanteria
di Radetzky e circa il 33% del suo esercito complessivo”. (Alan Sked, op.cit., pag. 99)
Inno Imperiale
Vengono qui trascritte le prime strofe in italiano dell’Inno Imperiale, popolarmente chiamato “Serbidìola”, dalle sue primissime parole. La
sua musica era stata composta da Joseph Haydn
(1732-1809) su un inno scritto dal padre gesuita
Haschka..
Serbi Dio l’Austriaco Regno,
guardi il nostro Imperator!
Nella fé che gli è sostegno
regga noi con saggio amor!
Difendiamo il serto avito
che gli adorna il regio crin!
Sempre d’Austria il soglio unito
sia d’Absburgo col destin!
La Carta Costituzionale dell’Impero
Viene infine riprodotto il testo completo della
Legge fondamentale dell’Impero, la Costituzione promulgata nel 1867 e rimasta in vigore fino al 1918. La Legge è ancora oggi estremamente interessante per la liberalità dei principi
che assicura e costituisce la più evidente smentita di tutte le assurde accuse di despotismo per
decenni lanciate contro il bonario Stato asburgico dalla propaganda italiana, proveniente da
un paese dove talune delle libertà garantite dal
documento del 1867 sono ancora un sogno a
135 anni di distanza. Giova in particolare soffermarsi su quanto enunciato dall’Articolo 19 del
documento riportato e paragonarlo agli ottusi e
oppressivi atteggiamenti che ancora oggi lo
Stato italiano tiene nei confronti delle minoranze etno-linguistiche, e cioè di più della metà
dei suoi “sudditi”.
Siam concordi: in forze unite
del potere il nerbo sta!
Alte imprese fian compite
se concordia in noi sarà.
Siam fratelli, e un sol pensiero
ne congiunga e un sol cor!
Duri eterno questo Impero,
salvi Iddio l’Imperator!
Insegna del Regno Lombardo-Veneto
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Soldati austriaci fraternizzano con la popolazione lombarda. Litografia di A. Baumann
La didascalia dice: “O Walschland (Italia settentrionale), tu ci hai dato molti dispiaceri, ma adesso t’abbiam
spaccata noce wellische (italiana)!”
Quaderni Padani - 25
Legge fondamentale dello
Stato del 21 dicembre 1867
sui diritti generali dei cittadini pei Regni
e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero
coll’adesione d’ambedue le Camere del Consiglio dell’Impero trovo di emanare la seguente Legge fondamentale dello Stato sui diritti generali dei cittadini, e di ordinare quanto appresso:
Articolo 1
Per tutte le persone pertinenti ai Regni e Paesi
rappresentati nel Consiglio dell’Impero esiste un
diritto generale di cittadinanza austriaca.
La legge determina sotto quali condizioni si
acquisti, si eserciti o si perda il diritto di cittadinanza austriaca.
Articolo 2
Tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge.
Articolo 3
I pubblici impieghi sono egualmente accessibili a tutti i cittadini.
L’ammissione degli stranieri ai pubblici impieghi dipende dall’acquisto del diritto di cittadinanza austriaca.
Articolo 4
Il libero passaggio delle persone e delle sostanze da un luogo all’altro del territorio dello
Stato non soggiace ad alcuna restrizione.
Tutti i cittadini, che dimorano in un comune e
vi pagano le imposte sui loro beni stabili, sulle
loro industrie e sui loro redditi, godono il diritto
di elettorato e di eleggibilità nella rappresentanza comunale sotto le stesse condizioni come le
persone pertinenti al comune.
La libertà di emigrare non è limitata per parte
dello Stato che dagli obblighi del servizio militare.
Non si possono riscuotere tasse di esportazione delle sostanze se non per regime di reciprocità.
Articolo 5
La proprietà è inviolabile. L’espropriazione
contro la volontà del proprietario non può aver
26 - Quaderni Padani
luogo che nei casi e nei modi determinati dalla
legge.
Articolo 6
Ogni cittadino può prendere dimora e domicilio in qualunque luogo del territorio dello Stato,
può acquisirvi immobili di ogni specie e disporne
liberamente, e può esercitarvi sotto le condizioni
prescritte dalle leggi qualsiasi ramo d’industria.
Per le manimorte il diritto di acquistare immobili e di disporne può essere limitato dalla
legge per cause di pubblica utilità.
Articolo 7
Ogni vincolo di sudditela inerente al possesso
fondiario è per sempre abolito. Qualunque obbligazione e prestazione inerente ad un immobile per titolo di divisa proprietà è redimibile, ed
in avvenire niun immobile potrà essere gravato
da una tale prestazione che non sia redimibile.
Articolo 8
La libertà personale è guarentita.
La vigente Legge del 27 Ottobre 1862 a tutela
della libertà personale (Bollettino delle leggi
dell’Impero, n.87) è dichiarata parte integrale
della presente Legge fondamentale dello Stato.
Ogni arresto fatto o promulgato illegalmente
obbliga lo Stato a risarcire il danno alla persona
offesa.
Articolo 9
Il diritto di domicilio è inviolabile.
La vigente Legge del 27 Ottobre 1862 a tutela
del diritto di domicilio (Bollettino delle leggi
dell’Impero, n.98) è dichiarata parte integrale
della presente Legge fondamentale dello Stato.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Articolo 10
Il segreto delle lettere è inviolabile, e le lettere, fuori del caso di legale arresto o visita domiciliare, non possono essere sequestrate che in
casi di guerra o in base ad un mandato giudiziario conformemente alle leggi vigenti.
Articolo 11
Il diritto di petizione spetta a chicchessia.
Le corporazioni o società riconosciute dalla
legge hanno solo il diritto di indirizzar petizioni
in nome collettivo.
Articolo 12
I cittadini hanno il diritto di radunarsi e di
formare delle società. L’esercizio di questo diritto è regolato da leggi speciali.
Articolo 13
Chiunque ha il diritto di esprimere la propria
opinione, entro i limiti prescritti dalla legge, a
voce, in iscritto, colla stampa o con immagini.
La stampa non può essere assoggettata a censura, né limitata dal sistema di concessione. I
divieti postali emanati dalle Autorità amministrative non sono applicabili agli stampati nazionali.
Articolo 14
È guarentita ad ognuno la piena libertà di fede
e di coscienza.
Il godimento dei diritti civili e politici è indipendente dalla confessione religiosa; però la
confessione religiosa non deve derogare agli obblighi inerenti alla cittadinanza.
Nessuno può essere costretto ad un atto religioso o ad intervenire a funzioni ecclesiastiche, in
quanto egli non sia soggetto all’autorità di un terzo che abbia per legge il diritto di costringervelo.
Articolo 15
Ogni Chiesa ed ogni Società religiosa riconosciuta dalla legge ha il diritto di esercitare pubblicamente ed in comune la propria religione,
regola ed amministra da sé i propri affari interni, rimane in possesso e in godimento dei propri
istituti, fondazioni e fondi destinati a scopi di
culto, d’istruzione e di beneficienza, ma soggiace, come ogni altra società, alle leggi generali
dello Stato.
Articolo 16
A coloro che professano una confessione religiosa non riconosciuta dalla legge è permesso
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
l’esercizio domestico della loro religione, in
quanto tale esercizio non sia contrario alle leggi
e ai buoni costumi.
Articolo 17
La scienza e i suoi insegnamenti sono liberi.
Ogni cittadino ha il diritto di fondare istituti
d’istruzione e di educazione e di impartire l’istruzione, quando ne abbia provata la sua capacità nei modi prescritti dalla legge.
L’istruzione domestica non soggiace a questa
restrizione.
Per l’istruzione religiosa nelle scuole deve provvedere la rispettiva Chiesa o Società religiosa.
Allo Stato spetta il diritto di suprema direzione e sorveglianza su tutto il ramo dell’istruzione
e dell’educazione.
Articolo 18
È libero a ciascuno di scegliere il proprio stato e
di istruirsi pel medesimo come e dove gli piaccia.
Articolo 19
Tutte le nazioni dello Stato hanno uguali diritti, ed ogni singola nazione ha l’inviolabile diritto di conservare o coltivare la propria nazionalità e il proprio idioma.
La parità di diritto di tutti gli idiomi del paese
nelle scuole, negli uffici e nella vita pubblica è
riconosciuta dallo Stato.
Nei paesi, in cui abitano diverse nazioni, gli
istituti di pubblica istruzione devono essere regolati in modo, che ognuna di queste nazioni
trovi i mezzi necessari per istruirsi nel proprio
idioma, senza l’obbligo d’imparare un altro idioma del paese.
Articolo 20
Una legge speciale determinerà sotto quali
condizioni l’Autorità governativa responsabile
possa sospendere per un dato tempo e luogo i
diritti citati negli articoli 8, 9, 10, 12 e 13.
Vienna, addì 20 dicembre 1867
Francesco Giuseppe m.p.
Barone di Beust m.p.
Conte Taaffe m.p.
Barone di Becke m.p.
Barone di John m.p. Ten. Mar.
Cavaliere di Hye m.p.
Per ordine sovrano
Bertardo Cavaliere di Meyer m.p.
Quaderni Padani - 27
La stella ed il triskele
I Celti e Israele: confronto fra due civiltà antiche
di Patrizia Patrucco
R
itengo sia possibile formulare, sulla base di
una comparazione oggettiva - e, perché no?
anche induttiva e fantasiosa - tra la civiltà
celtica e quella ebraica, alcune considerazioni
sulla convergenza di taluni aspetti delle due
culture. Trattasi di un percorso in sé ragionevole, in quanto da una siffatta analisi non solo
emergono elementi rivelatori di un intreccio indissolubile tra le due culture - e, di conseguenza, tra i popoli -, ma si sgombra altresì il campo
dalle accuse rivolte con leggerezza da parte di
quanti farebbero coincidere il recupero di un patrimonio culturale ancestrale con le tesi che
hanno indotto, nel secolo scorso, a suffragare i
concetti di “purezza ariana” dietro ai quali si
celava un’ideologia nazista a noi estranea.
Argomentando, in via preliminare, dai simboli
adottati dai Padani, si può già asserire che la
scelta del verdiano Va’ Pensiero (avente ad oggetto l’episodio biblico della schiavitù degli
Ebrei), appare come una metafora delle speranze del nostro popolo di assurgere a una condizione di emancipazione, di libertà, ma soprattutto ci accomuna, anche idealmente, a quella
storia avente per oggetto un’altra schiavitù; e
ancora: non appare privo di significato il fatto
che il motivo della nostra “ruota” denominata
“Sole delle Alpi” ricalchi il modello della stella a
sei punte - il “Sigillo di Salomone”.
Un primo excursus storico approda sicuramente a un risultato sociologico comune, quantomeno in una data epoca. Com’è noto, presso i
Celti la condizione della donna era mirabilmente avanzata: parafrasando, si può pacificamente
affermare che presso quella civiltà era l’uomo a
essere pressoché uguale alla donna e non viceversa. Questa uguaglianza si riscontra altresì in
Israele, ove già a partire dal XIII secolo a.C. è
dato di notare che sullo scranno dei “giudici”
sedeva, tra l’altro, anche una donna (Debora).
Presso altre culture e, in particolare, in Grecia, la donna veniva considerata come “un
bene da ereditare”, mentre a Roma il pater fami28 - Quaderni Padani
lias aveva un controllo totale sulla moglie e le
donne dovevano avere un tutore per la gestione
dei loro affari; c’è da domandarsi se le donne orfane e prive di marito venissero considerate res
nullius. Un esempio, tra tutti, dell’importanza
del ruolo femminile promana dalla figura della
druida Boudicca, regina degli Iceni, riconosciuta
come comandante di guerra da parte dei Britanni nel 61 d.C.; al riguardo, Tacito afferma
nei suoi Annales: “non è la prima volta che i
Britanni sono stati guidati in battaglia da una
donna”.
La tradizione irlandese ritrae una società di
profetesse, druide, dottoresse e donne dedite alla
satira. La concezione cristiana implicante l’idea
di peccato, concetto di forte impatto emotivo
nell’opera di svilimento della donna nei secoli,
era del tutto estranea alla cultura celtica: era invece diffusa l’idea di ricorrere a una guida spirituale, compito che generalmente veniva affidato
ai druidi, in grado anche di predire il futuro.
Nelle credenze e nei rituali dei druidi si ravvisano molti elementi simili a quelli dei primi profeti ebrei e - secondo alcuni studiosi - non si tratterebbe solo di pratiche comuni, ma di comuni
radici razziali e religiose.
Probabilmente essi chiamano direttamente in
causa il ruolo dei druidi, del tutto analogo a
quello di Melchisedech, Mosè, Elia e Salomone,
nella loro veste di guide del popolo, in qualità di
re-sacerdoti e di mediatori tra umanità e divinità. D’altro canto, come il decalogo e le altre
leggi culturali e civili ricevuti da Mosè sul Monte
Sinai diedero agli Ebrei la coscienza e la struttura di popolo, così, analogamente, le Leggi di
Brehon amministrate dai druidi costituivano un
punto di riferimento per gli abitanti celti della
Gran Bretagna. Le Leggi di Brehon rappresentavano infatti un altrettanto sofisticato ed efficiente sistema etico-legale derivante con tutta
probabilità da una pratica spirituale molto più
antica: mentre da un lato enfatizzavano la libertà civile, l’uguaglianza di uomini e donne e i
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
diritti dell’individuo all’interno dell’equilibrio
cosmico, dall’altro utilizzavano il concetto di solidarietà nei confronti dei soggetti più deboli anziani e bambini - come una sorta di cemento
sociale per riunire la collettività.
Ritornando al menzionato nesso etnico tra popolazioni celtiche e popolazioni ebraiche, può
risultare significativo un accenno allo studio di
Sir John Morris Jones sulla “Sintassi pre-ariana
nel celtico insulare” (1899): lo studioso osservava che, per quanto le lingue celtiche fossero
classificate tra le lingue europee, la loro sintassi
apparteneva tuttavia al gruppo camitico-semitico che include, tra l’altro, anche l’ebraico; conclusioni, queste, che parevano avallare il movimento cosiddetto degli “Israeliti britannici”, che
asserivano che i Celti fossero una delle tribù
perdute di Israele. Non ho certo la pretesa di
sciogliere tale nodo: sarà sufficiente soltanto richiamare in primo luogo, al fine di non banalizzare la diatriba, la circostanza che anche l’origine degli Ebrei non rivela elementi antropologici
certi (sostenuti soltanto da alcune correnti di
antisemitismo).
Infatti, gli stessi caratteri fisici ritenuti pertinenti a un’omogeneità razziale (naso ricurvo,
capelli crespi, colorito scuro, eccetera) compaiono anche in altre popolazioni mediterranee; a
loro volta, alcuni caratteri somatici sono sicuramente conseguenti all’isolamento dei ghetti,
prodotto di particolari circostanze contingenti.
In secondo luogo, per quanto concerne i Celti,
le fonti riferiscono l’esistenza di almeno due distinti tipi razziali: uno di statura alta, capelli
biondi o rossi, occhi azzurri o verdi, naso aquilino, l’altro di statura media, capelli bruni, occhi
castani, naso carnoso. Ne consegue pertanto che
un’eventuale obiezione fondata su connotazioni
puramente fisiche non risulterebbe risolutiva.
Quanto alle comuni radici rituali e linguistiche,
Tim Wallace Murphy e Marilyn Hopkins, nella
loro opera su “Rosslyn, Guardian of the Secrets
of the Holy Graal”, osservano, incidentalmente,
la rassomiglianza sconcertante tra il costume
dei bardi celtici di non pronunciare il nome di
Dio, onde evitare il disonore, e il divieto ebraico
di pronunciare il Tetragramma (l’impronunciabile nome di Dio); si noti altresì che la pronuncia corretta del sacro nome di Dio tra le popolazioni semitiche era Yaíu o Yahu, perfetto equivalente del gallese.
Pur non essendoci pervenuta nei dettagli la
conoscenza della religione dei Celti, è certo che
essi credevano nell’immortalità dell’anima: non
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
è casuale che le celebrazioni delle nascite avvenissero con cordoglio, a causa della morte di
un’anima nell’altro mondo e, al contrario, quelle della morte con gioia, in quanto nascita in un
aldilà fantastico. Si può anche ipotizzare che essi esprimessero la loro paura nei confronti della
“fine del mondo” allorché alla domanda rivolta a
un capo celtico su cosa temesse di più questi rispondeva: “Temiamo soltanto che il cielo cada
sulle nostre teste”.
In alcuni trattati di leggi irlandesi le prescrizioni di rito contenute nel giuramento di chi si
impegnava a rispettare un patto invocavano, in
soluzione di continuità con la tradizione, gli elementi naturali: “Saremo fedeli a meno che il
cielo cada e ci schiacci, oppure la Terra si apra
e ci inghiotta, oppure il mare si alzi e ci sommerga”. Dal momento che non risulta possibile
un’esegesi di fonti scritte, si ascrive alla metempsicosi di Pitagora la tesi dell’immortalità dell’anima. Peraltro, si obietta che già il filosofo greco Posidonio affermava che il druido Abari aveva
addestrato Pitagora e questi, a sua volta, aveva
successivamente influenzato gli Esseni, cosicché
le conoscenze druidiche sarebbero rifluite da Pitagora alla setta ebraica esoterica stanziata sulle
rive del Mar Rosso.
Un’altra testimonianza dell’attendibilità della
tesi proviene da Clemente di Alessandria, il quale affermava che era stato Pitagora a recepire la
dottrina druidica dell’immortalità dell’anima e
non il contrario.
Una ulteriore affinità tra le due culture sinora
esaminate promana dalle leggende vissute dai
due popoli in relazione al popolo egizio: si può
leggere in chiave fantastica il sottile filo che lega
il mito di Fetonte, di presunta discendenza egizia, scaraventato per mano divina nel fiume Eridano e l’episodio del Mar Rosso diviso in due a
seguito di un intervento divino che permette
agli Ebrei di sottrarsi all’inseguimento delle
truppe egiziane.
Per concludere la carrellata di similitudini,
anche gli Ebrei conobbero la violenza romana e
la sopraffazione perpetrata dai suoi governatori
allorché Pompeo (64 a.c.) occupò Gerusalemme,
espugnandone il tempio, sino all’epilogo del
massacro di massa compiuto da Tito (70 d.C.) a
seguito della rivolta contro l’Impero romano,
ossia contro quell’oligarchia senatoriale che
avrebbe trasformato tutti i territori conquistati
in mere circoscrizioni doganali e popolato l’aldilà con paure terrene e la vita terrena con forme di corruzione a tutti i livelli.
Quaderni Padani - 29
Organizzazione
politico-amministrativa
della Repubblica Veneta
a cura dell’Associazione Culturale “Bepi Viscovich” - Treviso
“I
sistemi politici, le forme di governo, i regimi amministrativi non muoiono propriamente ma si trasformano in altri sistemi, in altre forme di governo, in altri regimi
amministrativi. Gli ordinamenti politici del
mondo si danno il cambio. Ma ciò che è ordinato, governato, amministrato, sia paese, sia popolo sia individuo sopravvive con la sua natura
congenita, a tutti questi sconvolgimenti” (Franz
Werfel).
Fino a duecento anni fa, nell’area padana, esisteva una repubblica che nei momenti della sua
massima espansione si estendeva dall’Adda alle
terre “da mar” lungo la costa orientale del suo
golfo fino a Candia (Creta): la Serenissima Repubblica Veneta. Per quasi mille anni essa seppe amministrare popoli di diversa razza, lingua e religione. Nei suoi domini il suo governo adottò il
criterio di un semplice indirizzo amministrativo
rispettando ordinamenti, istituzioni, leggi e consuetudini in modo da mantenere vivi per secoli
istituti e strutture anche difformi da terra a terra,
attuando un vero federalismo ante litteram. Per
questa ragione questa repubblica fu detta Serenissima e il suo simbolo il fu il leone di San Marco.
Per capire quale fosse il segreto che consentì a
un villaggio di pescatori, quale era alle origini Venezia, di trasformarsi in uno degli stati più potenti d’Europa, ci sembra opportuno esaminare il
suo sistema istituzionale, che forse potrebbe essere tuttora un esempio da imitare per molti stati
del giorno d’oggi.
Tuttora i libri scolastici di storia trattano l’argomento in maniera affatto superficiale ad usum
delphini: si parla sprovvedutamente di repubblica
oligarchica, si citano le leggende nere del consiglio dei dieci e tante altre amenità. A noi veneti
sembra doveroso ristabilire la verità storica basandoci su fonti e documenti inoppugnabili
Mettendo a confronto la struttura sociale e poli30 - Quaderni Padani
tica di Venezia con quella di altre nazioni europee
si possono rilevare notevoli diversità che resero
Venezia un esempio unico sotto molti aspetti.
La Serenissima Repubblica, si basava su un sistema politico-amministrativo orizzontale, non
verticale. Per capire la nascita di questo sistema,
diverso da quello strettamente gerarchico di derivazione feudale, è necessario considerare appieno
il fatto che Venezia nasce e vive per secoli senza
territorio e comunque, anche dopo la conquista
della terraferma, rimarrà sempre sostanzialmente
una città proiettata verso il mare.
Per quanto riguarda le società basate sul territorio, se si considera come esse avessero un raggio d’azione politica e amministrativa molto più
esteso, si comprende come ciò comportasse la necessità di una stretta rete di rapporti tra i detentori del potere. Inoltre tali rapporti dovevano essere rigidamente costituiti secondo una scala gerarchica: infatti, date le grandi distanze e le oggettive difficoltà di comunicazione, era logico che
ogni grado inferiore dovesse rispondere del proprio operato a quello immediatamente superiore
e più prossimo anche fisicamente.
L’esistenza poi di un «patto personale» per l’investitura (il feudalesimo si basa infatti sul foedus,
patto personale tra l’imperatore - o l’autorità - e i
sottoposti) era dovuto alla necessità di rendere ancora più strette le «maglie» di questa rete di cariche data la lontananza fra le sedi dei preposti ma
anche data la natura stessa del bene territoriale.
Infatti un signore che controllasse una parte
più o meno estesa di territorio, se avesse voluto
contrapporsi ad altre autorità, avrebbe avuto proprio nelle risorse delle sue terre sufficienti garanzie di autonomia sotto forma sia di viveri e di beni
che di persone; inoltre avrebbe potuto sfruttare la
posizione geografica dei suoi possedimenti per
bloccare economia e commerci di altri signori.
Pertanto una struttura politico-amministratiAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
va strettamente verticistica dominava le società sate più al proprio benessere che a quello della
sviluppatesi su tutto il territorio europeo.
nazione.
A Venezia, invece, la concentrazione di tutta la
Possiamo invece, a ragione, definire Venezia
popolazione in poco spazio comportava una vici- un’aristocrazia nell’accezione originaria del ternanza e continuità di rapporti tra i cittadini e un mine: àristos in greco significa migliore e cratìa
diretto controllo nei confronti di coloro che rico- che vuol dire governo, dunque “governo dei miprivano cariche pubbliche. Da ciò nasceva anche gliori”. È importante sottolineare infatti che, difil senso del bene comune: «siamo tutti sulla stes- ferentemente da ciò che succedeva all’interno desa barca». A questo proposito è bene ricordare un gli altri stati europei l’aristocrazia a Venezia non
particolare curioso: a Venezia i palazzi dei signori era imposta dall’alto per concessione del sovrano,
erano accanto alle case dei poveri, anche questo ma era venuta a crearsi nei secoli proprio per l’edovrebbe far riflettere: nelle altre città di Europa mergere degli individui più capaci e meritevoli.
c’erano i quartieri signorili però lontani dai quar- Nell’arco della storia veneziana il momento decitieri poveri, quasi a significare anche in questo sivo in cui vengono a consolidarsi e a fissarsi defimodo la differenza di classe.
nitivamente il ruolo e il potere dell’aristocrazia è
Un nobile veneziano se avesse voluto opporsi al il 1297, anno della Serrata del Maggior Consiglio.
governo con tutti i propri mezzi,
per quanto ricco fosse, non
avrebbe certo potuto vivere nell’isolamento poiché rimaneva
pur sempre in una città alla quale tutte le proprie attività erano
legate, non avendo un territorio
autonomo. Per questo i veneziani concepivano la partecipazione
alla vita pubblica come un dovere (l’assegnazione di una carica
non poteva essere rifiutata, anche a costo di spese personali) e
per questo la Repubblica Serenissima si basava su un sistema
politico-amministrativo orizzontale in cui le persone emergevano in virtù delle proprie capacità.
Venezia fu dunque un valido Leone di San Marco con il libro aperto: Venezia è in pace. Basmodello di società meritocratica sorilievo sulle mura di Treviso
e liberista. Proprio su meritocrazia e liberismo poggia l’evoluzione della forma di
L’evoluzione degli organi di governo veneziani,
governo della Nazione Veneta e il suo costituirsi e in particolare del Maggior Consiglio, avvenne
in Repubblica Aristocratica. Questa che potrebbe conseguentemente alla crescita della città che alsembrare una connotazione negativa è, in realtà, largò man mano la sua attività e aumentò i suoi
un’ulteriore prova di come Venezia abbia intro- abitanti. La serrata acquista dunque enorme riliedotto nel proprio sistema politico caratteristiche vo: è il momento in cui bisogna risolvere il prooriginali e spesso innovative.
blema della proporzione della crescita numerica
Non dobbiamo commettere l’errore di valutare della popolazione e il numero e la qualità delle
fatti e situazioni del passato esclusivamente se- persone che devono rappresentarla. La serrata
condo criteri di giudizio contemporanei: è neces- può essere definita come la selezione della classe
saria infatti una comparazione con gli altri siste- dirigente veneziana basata però non su un «colpo
mi europei del tempo. Vedremo allora intorno a di stato» o su un progetto oligarchico, bensì sulla
questa Repubblica Aristocratica una distesa omo- tradizione elettiva delle cariche e perciò sul congenea (e assai poco rassicurante) di monarchie cetto meritocratico con apertura a un grande nuassolute, di re per diritto divino, di popoli senza mero di persone, dato che comprendeva le famivoce asserviti ad aristocrazie (per nascita) interes- glie di tutti quelli che avevano operato al servizio
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 31
della Repubblica da ben centoventicinque anni.
Quest’ultimo fatto e la successiva crescita del
numero dei componenti del Maggior Consiglio
dimostrano proprio che non vi era stata con la
Serrata una chiusura oligarchica nella Serenissima, ma che si voleva mantenere una forma di governo allargata al maggior numero di persone
possibile, ferma restando la necessità di selezionare le persone più adatte a occuparsi della cosa
pubblica. È quindi da sfatare l’opinione, diventata
ormai un luogo comune, secondo la quale la Repubblica veneziana sarebbe stata retta da un potere oligarchico.
La struttura politico-amministrativa della Serenissima era del tutto singolare e rispondeva a dei
principi fondamentali molto diversi da quelli di
matrice illuministica a cui noi tutti siamo stati
abituati fin dalla costituzione degli Stati «moderni» di tipo centralista. Nella mentalità attuale, infatti, siamo abituati a separare nettamente i tre
poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e ad affidarli a degli organi istituzionali a sè stanti, centralizzati, di enormi proporzioni e molto difficilmente collegabili tra loro.
Una tale organizzazione porta necessariamente
a una incomunicabilità tra poteri dello Stato e, di
conseguenza, a una mancanza di risposta ai problemi reali della gente. Non vi è la possibilità di
seguire in modo unitario l’iter di un provvedimento dalla sua formazione alla sua attuazione e
impatto sulla vita sociale e civile, alla sua eventuale modifica. A Venezia, invece, pur salvaguardando
scrupolosamente la democrazia (il Maggior Consiglio assicurava la rappresentatività di tutta la popolazione), si dava anche agli altri organi istituzionali più importanti il diritto di emanare leggi,
atti amministrativi, provvedimenti specifici, eccetera, attuando, di fatto, una correlazione fra i tre
poteri, non limitando rigidamente l’ambito d’azione di ogni singolo organo. Questa peculiarità della
vita politico-amministrativa veneziana rendeva il
governo della Repubblica flessibile e adattabile alle necessità, oltre che rapido e puntuale nel soddisfare le esigenze della popolazione.
Il «cuore» del governo veneziano era il Maggior
Consiglio, istituzione allargata e rappresentativa
di tutta la cittadinanza (e ciò è dimostrato anche
dal grande numero dei suoi componenti in rapporto al numero degli abitanti). Il Maggior Consiglio aveva il compito di emanare le leggi di carattere generale e strutturale della Repubblica e
quello di eleggere a sua volta i vari organi che si
sarebbero occupati del bene pubblico, dando loro
il mandato a esercitare i poteri legislativo, esecu32 - Quaderni Padani
tivo e giudiziario per materie attinenti alle loro
competenze. In sostanza avveniva che la rappresentanza dei cittadini, concepita come la loro
parte migliore, più preparata e consapevole dei
bisogni della nazione, dava le direttive fondamentali e, per quanto riguardava i problemi specifici,
non governava direttamente ma doveva scegliere
le persone più adatte a farlo.
A sua volta il Senato, esercitando il proprio potere esecutivo, nominava i vari magistrati, provveditori, eccetera, quelli che oggi definiremmo i
«tecnici», affinché si occupassero con cognizione
di causa dei vari settori della vita della Repubblica.
Nell’attuale forma di Stato, invece, le persone
elette dalla popolazione sono quelle che detengono direttamente il potere legislativo su tutti gli
argomenti indistintamente.
Vi è quindi una sostanziale diversità tra ciò che
succede nello stato attuale (sistema verticistico) e
ciò che succedeva nella Repubblica Veneta (sistema orizzontale). Possiamo pertanto fare alcune
ulteriori considerazioni sugli effetti della forma di
governo precedentemente descritta:
- Il rapporto tra numero degli abitanti e componenti del Maggior Consiglio (che aumentarono
con l’espansione di Venezia ) era molto basso: vi
era, quindi, un’ampia rappresentatività dei cittadini.
- La struttura non verticistica, che privilegiava le
competenze diffuse e non esclusive, era garanzia
di semplicità e trasparenza nei rapporti tra le varie istituzioni e tra queste e la popolazione, limitando anche la complessità della «macchina» istituzionale.
- La brevità e la frequente rotazione delle nomine
non consentiva di «mettere radici» e scoraggiava
la concezione personalistica del potere che poteva
portare clientelismo e parassitismo.
Ciò valeva anche per il Doge, unico a rivestire
una carica vitalizia, ma sostanzialmente svuotata
di potere effettivo.
- Vi era un controllo reciproco tra i vari organi di
governo che impediva la nascita di «feudi» privati. Ad ogni buon conto i governanti erano soggetti, al pari di tutti gli altri cittadini, agli inflessibili
rigori della legge; nemmeno il Doge poteva sottrarvisi e i doveri dei patrizi erano maggiori dei
loro diritti.
- Caratteristica fondamentale degli istituti veneziani era la collegialità. Le responsabilità, infatti,
venivano condivise da un alto numero di giudici e
di politici e non vi era mai l’accentramento del
potere in singole mani, neanche per il Doge. Nessuno godeva di maggior potere; esisteva, invece,
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
In definitiva l’organizzazione istituzionale veneziana può essere per tutti noi un esempio da
seguire nella costruzione di una società che abbia
veramente al centro l’uomo e che non sia funzionale agli interessi di qualche individuo, classe o
corporazione, ma al benessere di tutta la comunità, cosa ragguardevole allora come oggi.
“Urbem tibi dicatam conserva”: “Proteggi, o
San Marco, questa città che si è data a te!”.
Dettaglio del bassorilievo sulle mura di Treviso.
un sistema collegiale in cui tutti si assumevano le
responsabilità equamente.
- Vi era un alto senso del dovere nei confronti di
tutta la comunità e una forte responsabilizzazione
personale. Così il patriziato veneziano, che nelle
proprie mani deteneva ed esercitava il potere, anteponeva gli interessi della Nazione agli interessi
personali e di fazione. Le istituzioni repubblicane
impedirono, di fatto, a chiunque di sovvertire
quelli che erano i fondamenti costitutivi della Nazione. La nobiltà veneziana finì, certamente, con
l’estromettere il resto della cittadinanza dall’assunzione delle prerogative di governo, eppure
nessuno a livello personale o, ancora, a livello di
gruppo, si erse arbitrariamente a guida della Serenissima. Anche nei periodi più bui, la classe dirigente trovò unità e compattezza interna.
- A Venezia non esistevano i partiti come li intendiamo oggi, in quanto essi nascono dopo la Rivoluzione Francese, cioè quando viene creato lo
scontro di classe. Non essendoci i partiti tutto il
sistema veneziano si basava sull’uomo, sui suoi
programmi e le sue capacità di realizzarli e non
esisteva, di conseguenza, quell’insieme di contrapposizioni o di accordi più o meno occulti che
fa di molti attuali sistemi politici qualcosa di
avulso dalla realtà e dai problemi dei cittadini.
- Nella Serenissima la gestione della cosa pubblica aveva una propria continuità e stabilità. Questo era dovuto essenzialmente proprio alla mancanza di un sistema partitico nel quale a ogni
nuova elezione forzatamente cambiano direttive,
punti di riferimento e persone interessate. Infatti
nel sistema partitico le cariche pubbliche spesso
vengono considerate come sedie da lottizzare e da
occupare per un tempo sufficientemente lungo
per creare una rete di consensi.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
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Quaderni Padani - 33
L’insediamento di Monte Bibele
di Alessandro Barzanti
I
Galli, già presenti fin dal VII secolo, hanno
invaso più incisivamente la Padania meridionale alla fine del V e gli inizi del IV secolo.
Tra le diverse popolazioni galliche, i Boi si sono
insediati in un territorio occupato precedentemente dagli Etruschi, arrivando a ovest fino a
Parma, a nord al Po, a nord-est al territorio dei
Lingoni. A est e a sud-est il confine era segnato
dal torrente Utens, l’Utente (attuale Montone, a
sud di Ravenna).
La sovrapposizione agli Etruschi ha dato luogo a forme di cultura composite, il cui esempio
maggiormente significativo ci è dato dal sito archeologico di Monte Bibele, sulle colline bolognesi. I ritrovamenti che da circa trent’anni affiorano da questa terra fanno di questo luogo
uno dei più interessanti siti etrusco-celtici.
Dopo alcuni anni di scavi disorganizzati, nel
1978 l’Istituto di Archeologia dell’Università di
Bologna ha deciso l’allestimento di un cantiere
sotto la supervisione del professor Daniele Vitali
che ancora oggi dirige gli scavi. Le campagne di
scavo successive a questa data hanno permesso
di ricostruire la storia complessiva del sito. Da
allora sono stati rinvenuti un abitato, una ne-
cropoli e due aree di culto. I dissotterramenti
hanno permesso di capire che la storia di Monte
Bibele è cominciata nel 3.000 a.C. nell’Età del
Rame, ed è proseguita nell’Età del Bronzo recente (1.300-1.200 a. C.). In seguito il luogo è
stato abbandonato e ripopolato nuovamente solo
nel V secolo a.C. dagli Etruschi e poi, dal IV, dai
Celti.
Il villaggio etrusco-celtico di Monte Bibele ci
affida immagini rare e affascinanti della vita
quotidiana del tempo e ci illustra in modo affidabile come era strutturato quel particolare insediamento.
Il territorio sul quale è sorto il villaggio è in
forte pendenza e questo inconveniente è stato
risolto brillantemente con una serie di terrazzamenti artificiali che, si è constatato, rispondevano a un severo piano regolatore. Questa tecnica
è stata impiegata dagli Etruschi, che avevano
forse continuato modalità apprese dai loro predecessori, con l’unica differenza di non avere
utilizzato il pendio naturale della montagna ma
di averlo fortemente modellato mediante muri
di contenimento in sasso: quegli stessi muri
che, anche se deteriorati dal tempo, sono ancora
oggi ben visibili. I tetti
Alari ed altre suppellettili rinvenute a Monte Bibele
delle case erano inoltre
inclinati verso valle in
modo da far scorrere
l’acqua piovana lungo
le stradine che si snodavano davanti all’abitato. L’area abitativa si
articolava su una decina di terrazzamenti artificiali raccordati da
una serie di assi stradali disposti ortogonalmente.
Ad ogni terrazzamento
corrispondeva un isolato nel quale trovavano
posto più unità abitative (sei-sette case). L’esplorazione dell’area ha
evidenziato la presenza
34 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Ricostruzione di casa celtica al Museo di Monte Bibele
di una quarantina di case, di cui ne sono state
scavate sistematicamente una ventina, costituite
da un vano unico a pianta quadrangolare di modeste dimensioni, di circa trentacinque-quaranta metri quadrati.
Tuttavia i dati di scavo mostrano che in alcune case le superfici abitabili venivano moltiplicate sfruttando lo spazio in altezza mediante la
creazione di un piano rialzato.
Le abitazioni erano costruite prevalentemente
in pietra arenaria con alzati composti da strutture lignee e argilla compressa (il cosiddetto
“graticciato”), mentre la copertura, sostenuta da
pilastri di legno, probabilmente era ad una sola
falda, costruita con materiale stramineo deperibile. Il pavimento era in terra battuta.
Nell’abitato sono state individuate anche aree
di uso pubblico, come una cisterna circolare,
profonda quattro metri per la raccolta di acqua
sorgiva della capacità di circa ottantamila litri, e
alcuni magazzini per la conservazione di derrate
alimentari. Che l’acqua fosse molto importante
per questo villaggio sarebbe confermato dall’origine del nome “Bibele” che qualcuno farebbe derivare dal verbo latino “bibo” che significa “bere”. Altri vi vedrebbero la radice dell’antica paroAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
la usata per indicare il castoro, un animale piuttosto frequente nella Padania dell’epoca.
Sull’altro versante, a circa 200 metri a nordovest dell’abitato, sulla sommità denominata
Monte Tamburino, si trova la necropoli. Qui gli
scavi sono iniziati nel 1979 e hanno permesso di
identificare fino a oggi 155 tombe che si riferiscono a un periodo compreso tra la metà del IV
secolo a.C. e gli inizi del III a.C. La loro successione ne definisce l’età, infatti gli antichi hanno
iniziato a collocare le tombe nella parte più alta
del monte. Si tratta di fosse scavate nel terreno,
a pianta rettangolare o a T. Le ricerche hanno
portato a individuare riti funebri sia di inumazione che di cremazione. Interessantissimi sono
poi i reperti di vasellame con bicchieri, scodelle
e piatti. I dati epigrafici, che emergono dalle descrizioni vascolari delle prime file di tombe,
hanno ribadito che i fondatori dell’insediamento
sono stati Etruschi dell’Etruria padana. È stato
inoltre confermato che le attività dei bibeliani spaziavano dall’agricoltura all’allevamento
e al commercio. Sono stati ritrovati anche resti
di frumento, uva, piselli, olive, ghiande, fave e
mele. Una buona parte degli oggetti rinvenuti
sono ora esposti nel Museo di Monterenzio.
Quaderni Padani - 35
Il sito archeologico di Monte Bibele
Il Museo civico Luigi Fantini
Il Museo civico archeologico del Comune di
Monterenzio raccoglie ed espone su oltre 250
metri quadrati le testimonianze del sito archeologico di Monte Bibele, che è l’emblema dei Celti a sud delle Alpi. Inaugurato nel 2000, raccoglie l’esposizione dei materiali già presenti nel
“vecchio” museo realizzato nel 1983, le nuove
scoperte effettuate negli ultimi anni e testimonianze provenienti dal territorio
circostante che erano custodite in
precedenza dalla Soprintendenza
Archeologica dell’Emilia Romagna. Il sito archeologico di Monte
Bibele costituisce da tempo uno
dei punti di riferimento internazionale per gli studi e gli scavi di
ambito celtico. La nuova esposizione permanente si propone di
valorizzare i risultati delle campagne di scavo ampliando la sezione
espositiva, anche attraverso iniziative di ampio respiro come
convegni, seminari e cicli di conferenze, volte a valorizzare il patrimonio storico archeologico del
territorio della Valle dell’Idice.
Nella nuova struttura, che è su
tre livelli, trovano spazio anche
un laboratorio di restauro, un’au36 - Quaderni Padani
la didattica, uno spazio per conferenze e
un deposito. Ad esclusione di alcuni oggetti
che erano già stati
esposti in occasione
della mostra sui Celti
organizzata a Venezia
nel 1991, la maggior
parte dei reperti è stata mostrata per la prima volta al pubblico
grazie all’inaugurazione della nuova sede.
L’importanza scientifica di questi ritrovamenti è stata evidenziata grazie al colloquio internazionale
“Celti ed Etruschi nell’Italia settentrionale
dal V secolo a. C. alla
romanizzazione” (Bologna, aprile 1985) e
alla Mostra sui Celti (Venezia, Palazzo Grassi,
1991). Inoltre, in seguito all’importante incontro tra studiosi italiani e stranieri dal titolo “Tra
mondo celtico e mondo italico: La Necropoli di
Monte Bibele” (Roma, ottobre 1997), si è deciso
di focalizzare l’attenzione della nuova esposizione sull’area archeologica di Monte Bibele, tenendo conto anche delle principali tappe della
presenza umana nel territorio circostante.
Sepoltura celtica
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Il percorso museale è articolato in 5 sezioni:
nell’atrio una serie di pannelli e foto illustrano
la storia degli scavi fatti in Appennino e sono
esposti i ritrovamenti più recenti in una sorta di
“spazio novità”; nella prima sala si trovano le testimonianze delle prime fasi di insediamento
umano nelle valli dell’Idice e dello Zena ed è
proposta una visione sintetica della più antica
frequentazione dei relativi siti. Nelle vetrine parietali, che si alternano a pannelli didattici con
carte e fotografie, i reperti vanno dalle più antiche fasi del Paleolitico alla romanità; la seconda
sala è invece dedicata all’abitato di Monte Bibele, ed è affiancata dalla ricostruzione ‘’fedele’’ di
una abitazione. La vita quotidiana è stata ricostruita attraverso gli oggetti messi in luce dagli
scavi, ma anche attraverso pannelli esplicativi,
fotografie, disegni, carte, piante e utili ricostruzioni dell’aspetto originario e delle modalità d’uso di alcuni strumenti come il telaio verticale, le
zappe e i falcetti; la terza e quarta accolgono i
più significativi corredi della necropoli di Monte
Bibele: spade, foderi, elmi, vasellame da banchetto, pregevoli oggetti ornamentali e di abbigliamento, e alcuni materiali provenienti dalla
necropoli di Monterenzio Vecchia.
Il Museo raccoglie anche un buon numero di
monete. Queste offrono un quadro molto articolato per provenienza e cronologia, a testimonianza dell’elevata vitalità dell’insediamento. Si
tratta di monete riferibili alle emissioni romane
“semilibrali” (quattro once) e “onciali” (un quadrante), di un vittoriato, di una moneta fusa
della zecca di Cales e di quattro dramme padane in argento. Queste ultime rappresentano uno
Costruzioni nel sito
archeologico di Monte Bibele
dei rinvenimenti più consistenti
tra le rare attestazioni di monetizzazione celtica nell’area occupata dai Boi. Sono poi esposte didracme di Neapolis, romano-campane e una didracma campanotarantina. L’associazione di monete diverse provenienti dalla Magna Grecia ha portato gli studiosi
a pensare che fossero il compenso
dell’attività di mercenariato di
qualcuno degli abitanti di Monte
Bibele. Contatti con altri popoli
sono testimoniati anche da particolari fogge ceramiche, come i
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 37
Planimetria del sito di Monte Bibele
bicchieri con bugne e da una laminetta iscritta il
cui testo è ancora allo studio. A una prima analisi la presenza della lettera “o” fa propendere per
l’umbricità di questa testimonianza epigrafica.
Altri materiali, in particolare alcune olle, e una
fibula ad arco foliato liscio, hanno portato a ipotizzare la presenza di individui di etnia ligure all’interno del villaggio. La componente etnica che
più di altre ha però influenzato il villaggio è
senz’altro quella etrusca a testimonianza del si38 - Quaderni Padani
gnificativo livello d’integrazione tra i più antichi
abitanti ed i Boi. Lo si è dedotto dai corredi funebri e dalle iscrizioni sinistrorse in alfabeto etrusco settentrionale che riportano nomi tipici di
famiglie etrusche di area padana.
Il Museo presenta infine una consistente quantità di figurine di bronzo e vasellame ceramico
raccolto nel deposito votivo di Monte Bibele, uno
dei più significativi dell’Etruria Padana. La maggior parte dei bronzetti raffigura l’orante, cioè il
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
devoto in atteggiamento di
preghiera.
La struttura verrà gestita nei
prossimi cinque anni dal Dipartimento di Archeologia,
grazie ad una convenzione tra
Comune di Monterenzio e l’Università di Bologna. All’interno del Museo sarà presto operativo il Centro Archeologico
Internazionale di Monte Bibele, punto di incontro e dibattito per studiosi e studenti di
tutta Europa. Su prenotazione
vengono effettuate visite guidate sia all’esposizione permanente, sia all’area archeologica, che comprende i resti del
villaggio etrusco-celtico e la
relativa necropoli. Il museo
organizza anche laboratori di
didattica per le scuole elementari e medie.(1)
Ma quando cessò di vivere
il villaggio di Monte Bibele?
L’abbondante testimonianza
di ceramica liscia o suddipinta,
principalmente etrusco-volterrana, ricopre un arco cronologico dal IV al II sec. a.C., con
una concentrazione nel III sec.
a.C. Anche le monete non vanno molto addentro al II sec.
a.C. I reperti portano quindi a
pensare che le tracce d’incendio disseminate su tutta la superficie del sito, e che hanno
annientato l’abitato, siano ar(1) Il Museo Fantini è visitabile con i seguenti orari: Orario
“estivo”: nei mesi da marzo a novembre,da martedì a venerdì
ore 9-13. Sabato, domenica e festivi ore 9-13 e 15-18. Orario
“invernale”: nei mesi da dicembre a febbraio è aperto solo il
sabato e i giorni festivi ore 9-13 e 15-18. Giorni feriali: apertura su prenotazione per gruppi e scolaresche.
Per informazioni: Museo civico archeologico “Luigi Fantini”
Tel./fax. 051.929766, E-mail: [email protected].
Monte Bibele si trova tra le valli dello Zena e dell’Idice, in
provincia di Bologna. Dall’autostrada A14 occorre uscire a S.
Lazzaro oppure a Castel San Pietro e poi immettersi sulla SS
9 Emilia in direzione Monterenzio. Per chi proviene dalla
statale Firenze-Bologna è opportuno invece uscire nei pressi
dell’abitato di Monghidoro per raggiungere il paese di Quinzano, dove campeggiano i cartelli indicanti la direzione dell’area archeologica. A 3 chilometri c’è un piccolo parchegAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Telaio celtico
gio, dopo il quale si può proseguire solo a piedi. Il percorso è
in mezzo al verde e si giunge dopo circa venti minuti a un
primo pannello informativo che riporta l’itinerario da seguire internamente a un bosco.
L’insediamento è a Pianello di Col Savino, che si raggiunge
in circa 30 minuti di cammino e poi, dopo altri 25 minuti,
equivalenti a mezzo chilometro in linea d’aria, c’è il
colle Tamburino con la necropoli. Lungo il percorso che collega l’abitato alla necropoli è stata individuata nel 1989 una
stipe votiva. Poco distante, in seguito ai sondaggi effettuati,
stanno affiorando nuove cose; gli archeologi però non ne
parlano e non danno indicazioni per individuare il sito. Prima di renderlo pubblico, per evitare che tombaroli professionisti li precedano, aspettano i finanziamenti necessari ad
aprire i nuovi cantieri. Il Museo si trova invece a Monterenzio in via Idice 180/1.
Quaderni Padani - 39
rivate all’improvviso all’inizio del II secolo a.C.
Risalgono probabilmente quindi alla fine del III
- inizio del II sec. a.C., in relazione alle operazioni di conquista effettuate dai romani nell’area
bolognese.
Dalle cronache sappiamo che la distruzione
per incendio era prassi normale della conquista
e della repressione romana. La particolarità di
Monte Bibele deriva dal fatto, piuttosto anoma-
dine geografico, economico-commerciale e di
collegamenti.
Evidentemente la localizzazione di Monte Bibele doveva trovare origine in qualche altro elemento che deve essere, a un certo punto, venuto meno. Estremamente interessante a questo
proposito è la notizia riferita da Fabien Régnier
circa la possibile conservazione proprio a Monte
Bibele di una “pietra di sovranità”, segno identitario delle tribù dei Boi ma forse anche di tutta la confederazione di popoli cisalpini simile alla notissima
“pietra del destino” degli Scozzesi,
ma anche di quella della foresta dei
Carnuti in Gallia, di quella del Rütli
in Helvetia, dei Britanni a Mona (o
sulla Collina Bianca di Londinum) e
dei Celtiberi (a Nemetobriga o a Brigantium).( 2 ) L’esistenza di questo
fortissimo segno di identità e sacralità, così tipico delle culture celtiche, potrebbe spiegare la fine definitiva di questo insediamento: sia che
i Romani vi ci siano accaniti con
particolare brutalità impedendo
qualsiasi ricostruzione (come per
Cartagine), sia che i Celti avessero
portato la “pietra di sovranità” altrove ritenendo perciò inutile la riedificazione di quel centro fino ad allora
così importante.
In ogni caso si deve essere paradossalmente grati alla brutalità romana
che ha permesso, a molti secoli di distanza, la scoperta di così importanti
Ricostruzione della sepoltura di un guerrriero celtico
testimonianze archeologiche che, in
tutti gli altri centri padani, sono
lo, che l’insediamento non sia stato ricostruito. scomparse sotto stratificazioni insediative succeTutti gli altri centri padani sono in seguito in- dutesi con grande sistematicità nel corso degli
fatti stati riedificati dagli abitanti superstiti o da eventi storici.
genti in genere provenienti dalle aree di collina
e di montagna circostanti. Non ci sono ovvia- Bibliografia
mente indicazioni incontrovertibili circa il mo- ❐ Daniele Vitali (a cura di), Monterenzio e la
tivo del definitivo abbandono del sito, che pure valle dell’Idice (Monterenzio (BO): Casa della
era stato abitato per secoli da tutte le popolazio- Cultura, 1990)
ni e civiltà che si erano succedute nell’area. È ❐ AA.VV., I Celti (Catalogo della mostra di palazstato però ipotizzato che l’anomalia potesse es- zo Grassi, Venezia, Milano: Gruppo Editoriale
sere legata a qualche specifica particolarità del Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1991) sopratposto e alle vere motivazioni della sua colloca- tutto ai capitoli: “I Celti in Italia” (pag. 220 e sezione che dovevano perciò essere diverse da guenti), e “Abitato e necropoli di Monte Bibele”.
quelle “normali” che hanno permesso la durata
nel tempo di gran parte degli insediamenti padani sulla base di una consolidata “legge di per- (2) Fabien Régnier, La Pierre de Souverainté (Vincennes:
sistenza”, legata in genere a motivazioni di or- Editions du Nemeton, 1998), pag. 33
40 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Francesco Formenton:
un federalista vicentino
di Renato Giarretta
N
ella primavera del 1848 nei popoli d’Europa si manifestarono con forza e contemporaneamente due rivendicazioni: indipendenza nazionale e democrazia.
Per il popolo veneto concretamente ciò significò ribellarsi alla dominazione asburgica e instaurare una nuova repubblica.
La storiografia sabauda prima e italiana poi, si
è ben guardata dall’evidenziare la componente
federalista della rivoluzione veneta del 1848,
nonostante fin dai primi giorni della rivolta veneziana, fosse chiara la volontà di un ritorno ad
un libero stato Veneto inserito in una confederazione di stati italiani.
Numerosi sono i documenti attestanti le posizioni espresse dai grandi protagonisti veneziani
di quegli eventi ovvero Daniele Manin(1) e Nicolò Tommaseo(2), ma quelle idee non erano
confinate entro Venezia, bensì erano diffuse anche in tutto il Veneto.
Quando il 17 marzo 1848 fu proclamata a Venezia la Repubblica Veneta, in tutte le città venete sorsero dei Comitati Dipartimentali che
aderirono immediatamente al nuovo governo
indipendente.
Anche a Vicenza l’adesione fu immediata, ma
furono poste due condizioni “Per tale adesione
non si intende pregiudicare in guisa alcuna né
la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia né una speciale confederazione
dei due stati…né la generale confederazione
degli stati italiani”.(3)
Le posizioni del Comitato quindi erano federaliste e repubblicane in totale sintonia con le
idee di Manin e Tommaseo.
A Vicenza nell’aprile del 1848 fu pubblicata
un’opera di carattere politico e sociale: Catechismo Politico al Popolo.
L’autore era Francesco Formenton o meglio
“il cittadino Francesco Formenton“ nato a Vicenza il 25 giugno 1799, laureato a Padova in
matematica, direttore ai lavori stradali a Vicenza fino al 1856. Esiliato per i moti del 1848,
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
tornò più tardi a Vicenza dove morì il 4 dicembre del 1874.
Nel Catechismo Politico al Popolo Formenton espone con estrema chiarezza le proprie
convinzioni relative alla forma di stato che il
Veneto, libero e sovrano, avrebbe dovuto avere
rapportandosi con gli altri stati italiani.
Il trattato fu concepito come dialogo-intervista tra un ipotetico intervistatore e un giovane
di circa vent’anni.
Il momento storico in cui si svolge il racconto è quella della primavera del 1848, quando Venezia e il Veneto si erano liberati (momentaneamente ) dalla dominazione asburgica.
Nella prima parte vengono esposti i motivi
della rivolta contro la Casa d’Austria “(…) quel
governo era tristo dovunque, tristissimo nel Regno Lombardo-Veneto (…) non v’era che dispotismo, arbitrio, rapacità, ipocrisia, oppressione,
guerra nascosta contro il sapere, contro le civili virtù, contro il progresso, contro le libertà
(…). Gli atti furono empii ed atroci: non (furono) rispettate le cose sacre, non gli averi, non
le persone, non il sangue umano, non sesso,
non età….( il governo austriaco) traea oro, non
patate dall’Italia. Ma il Regno Lombardo-Veneto gli è sfuggito“.(4) Successivamente vengono
messi in evidenza i diritti fondamentali dei popoli; “Ogni popolo ha il diritto sovrano di scegliere quella forma di governo che più trova
consentaneo alle sue circostanze, alle sue tendenze: il diritto di farsi le leggi che reputa più
utili, sempre che non offendano gli altri popoli:
di abrogare o modificare le leggi rese cattive
dalle variate condizioni nazionali: di eleggere i
suoi rappresentanti e i suoi magistrati e di
(1)Dennis Mack Smith, Il Risorgimento Italiano, pagg. 402407
(2) Ibidem, pagg. 281-283
(3)Vicenza Illustrata, pag. 410
(4) Francesco Formenton, Catechismo Politico al Popolo,
pag. 6
Quaderni Padani - 41
cambiarli se al dovere mancano: ha il diritto di
nazionalità, diritto supremo, inviolabile, inestinguibile (…)”.(5)
Nella parte successiva del trattato, Formenton affronta la questione relativa alle forme di
governo possibili e dopo una bocciatura decisa
sia del Governo Dispotico, sia del Governo Monarchico Costituzionale, esprime la totale adesione al Governo Repubblicano: ”Il Governo Dispotico esige dai popoli obbedienza passiva: il
Monarca vuol essere il padrone assoluto: i sudditi vivono e posseggono alcune cose per una
grazia del Despota: ei può trarre chi gli aggrada al carcere, all’esilio, alla morte: può imporre
tributi a suo piacimento, ed empiere di eserciti
minacciosi le loro terre. Egli fa la guerra o la
pace per vantaggi privati e dinastici; vuole territori o ne compera; ne conquista se ha forza, e
se crede tornagli utile alle sue mire. Il Despota
perseguita chi dice la verità, chi sostiene il diritto, il giusto: spegne ogni sentimento generoso di nazionalità, di patria, di eroismo, di virtù.
Il Dispotismo è il trionfo dei malvagi, la ruina
dei buoni cittadini; è il regno della volontà privata, non della legge.
E tutte queste scelleraggini copronsi di sublime ipocrisia, e di orribili perfidie.
Il Governo Monarchico Costituzionale è un
regime politico, nel quale v’ha un Re per capo:
ma egli deve governare a seconda di uno Statuto o legge fondamentale (…). Tutti i supremi
poteri menzionati (legislativo, esecutivo, giudiziario) devono essere garantiti con apposite
istituzioni (…). Ma i Re seppero non di rado
eluderle, e corrompere ogni buon sistema di
Governo, facendosi Despoti e Tiranni. Napoleone spense le libertà; Carlo X e Luigi Filippo I
diedero altre lezioni di grande importanza. Il
diadema stracciò la Carta (…). Nella Repubblica non vi ha Re, ossia non ammettesi un capo
con regie attribuzioni. Un Presidente non ha le
facoltà di un Re.
(…) chiaro apparisce che la Repubblica democratica avvicina gli uomini alla eguaglianza, più di ogni altra forma di Governo. E credo
che come più le nazioni saliranno a civiltà, più
alla Democrazia tenderanno. (…) Nel Lombardo e Veneto evvi a fondare un nuovo Governo: i
Principi nostri non vi hanno, non possono
avervi ingerenza veruna: i Lombardo-Veneti
possiedono facoltà sovrana e piena di scegliere
quella forma di Governo che può meglio convenire alla loro sorte, al loro benessere. Gli altri
popoli italiani non vi s’immischiano punto! Un
42 - Quaderni Padani
popolo che alla patria fa il sacrificio degli averi,
delle agiatezze, della vita: un popolo che giura
di morire sotto le ruine delle proprie città, anzi
che sottomettersi di nuovo a signoria forestiera: un popolo che co’ petti e poche armi ha
sconfitto ordinati eserciti, e che risoluto insegue il nemico, onde cacciarlo dalla sua terra:
un popolo forte nella lotta, generoso nella vittoria, umano co’ più feroci distruggitori: un popolo che, fatta qualche eccezione, fa buon uso
della libertà della parola e della stampa (…) è
meritevole della Repubblica Democratica. Nei
Lombardi e Veneti voi travate tutti questi notabili fatti (…). Nel Veneto e nella Lombardia
la forza morale della legge esiste (…)”.(6)
Successivamente Formenton affronta il problema dei rapporti tra che il nuovo Stato Lombardo-Veneto e gli altri Stati italiani; qui il Catechismo Politico al Popolo si rivela di grande
interesse e nonostante sia datato di oltre 150
anni, si rivela più attuale di molta letteratura
pseudofederalista di oggi.
“Ma qui non si vuole né smembrare né disgiungere: si tratta invece di sapere come verrà
sistemato ciò che formava il Regno LombardoVeneto. Tal’altro cittadino esclama: Unitevi,
Lombardi e Veneti, al Piemonte: se no come
vorreste essere forte contro gli stranieri? Io rispondo: colla Italica Confederazione, diretta
dal Parlamento Italiano. E l’unità italiana?
Vorreste dunque cacciar i Principi che onorevolmente sostennero, difesero, e vollero l’italica
libertà ed indipendenza? Ma voi, come noi, diceste che ciò non sia. Accontentiamoci dell’unità Italiana colla santa tutela del supremo Nazionale Congresso. Fuori di ciò vedrei l’Italiana
Repubblica, non la Monarchia.“( )”E diciamo
che una Repubblica, ove il popolo ha forza e
conservi moderazione, reca libertà più estese,
che la Costituzionale Monarchia (…) i Lombardi e Veneti hanno dottrina, valore, energia,
fermezza, per instabilire la Repubblica, e per
consolidarla“.(8)
Più avanti elencando le condizioni di in buon
governo viene ripreso il concetto di indipendenza nazionale: “Ogni popolo ha naturale diritto
alla sua Indipendenza. Fuori ogni straniero dominio! O sarà spenta la vostra nazionalità (…).
La Indipendenza Italiana è di due maniere: ver(5) Ibidem, pag. 8
(6) Ibidem, pagg. 9-16
(7) Ibidem, pag. 16
(8) Ibidem, pag. 19
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
so le genti esterne e verso il nemico o le genti
interne. Ogni popolo, grande o piccolo, è per
diritto indipendente da qualunque altro popolo.
Suppongasi che uno o più popoli italiani si aggreghino ad altro popolo pure italiano: ci vuole
libera volontà, libera adesione, regolarmente
espressa, dei popoli contraenti. Un capo, un cittadino, alcuni cittadini, se non v’ha apposito
mandato del popolo, non possono disporre della sorte dei loro concittadini”.(9)
Successivamente vengono affrontate altre problematiche sociali e politiche quali la Libertà e
la Eguaglianza: ”L’uomo nasce libero ed indipendente. La società deve conservarlo libero e
indipendente, quant’è possibile, avuto riguardo
al bene di tutti i membri del corpo politico (…)
il cittadino può fare tutto quello che la legge
positiva non vieta; e deve fare tutto ciò che la
legge sociale prescrive. In tal modo si evita il
dispotismo, la tirannia, il disordine (…). Nelle
libertà nostre è importante quella della parola
e della stampa“.(10 )
“L’Eguaglianza che dicemmo non importa
l’eguaglianza di fortune nei cittadini, le quali
dipendono da varie combinazioni. La Sanità, i
talenti, l’attività e le circostanze buone e cattive che circondano la vita degli uomini sono di-
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
verse e diversamente fruttano. Tutti sanno che
gli eccessi della ricchezza e della miseria nuocono; il che merita riflesso e legale rimedio. Ma
l’eguaglianza assoluta in tutte le cose, il Comunismo, è impossibile, assurdo (…). Un popolo
qualsiasi è in diritto uguale a qualunque altro
popolo, perché la eguaglianza è fra i primi doni
che Dio impartì agli uomini, e perciò ai popoli.
Quindi ogni popolo può governare come meglio
gli piace“.(11)
Anche nella parte conclusiva Formenton ritorna sul concetto di sovranità dei popoli e non
lascia dubbi su quali avrebbero dovuto essere i
rapporti tra gli stati italiani, un progetto ben diverso da quello ideato e, ahimè, realizzato prima dai Savoia e poi dalla Repubblica italiana.
La rivolta del 1848 si concluse tragicamente
per il popolo veneto che ritornò a essere suddito di diversi padroni: restano comunque numerose testimonianze di una rivoluzione indipendentista e federalista ben diversa da un risorgimento tutto nazionaltricolore.
(9) Ibidem, pagg. 23-24
(10) Ibidem, pag. 24
(11) Ibidem, pag. 25
Quaderni Padani - 43
La bandiera di libertà
dell’Arpitania Cisalpina
di Joseph Henriet
N
ei primi anni 70, il Movimento Arpitania propone
come bandiera delle regioni francoprovenzali attorno al Monte Bianco una croce bianca in campo
rosso, corredata da una banda verticale nera con tre
stelle; le stelle stavano a significare le tre porzioni della’Arpitania divise: il Vallese che, pur godendo di sovranità propria, fa parte della Confederazione Elvetica, la
Savoia sotto dominio francese e la Valdaosta che assieme alle Valli montane del Canavese, si trova sotto il dominio italiano.
Quando nacque la Lega in Valdaosta, nel 1993, essa
propose di recuperare in parte la bandiera arpitana e
adottò come bandiera della “nazione” valdostana la croce bianca in campo rosso e nero,
con il nero posto in basso e il rosso in alto; l’Alberto da Giussano
in giallo campeggiava al centro:
fu questo il simbolo che rappresentò il movimento leghista valdostano. Nel 1998 la Lega, assieme la Movimento degli Indipendentisti valdostani, decise di
adottare tale bandiera, senza l’Alberto da Giussano, come simbolo
dell’aspirazione all’indipendenza
e al federalismo della Valdaosta inserita nella futura
Confederazione europea dei Popoli e delle Comunità.
La simbologia della nostra bandiera è densa di significati. Prima di tutto sia la croce che i colori fanno parte
della tradizione storica. La croce è legata all’Impero Romano Germanico sotto l’influenza del quale la Valle restò per parecchi secoli. La croce è simbolo antichissimo, precristiano; risale al periodo neolitico; è un simbolo antropomorfo che ritroviamo in numerose incisioni rupestri. La croce è simbolo di vita. Secondo una interessante interpretazione i quattro bracci della croce
significano le quattro forze che, a detta dell’antica filosofia, reggono il mondo e ne permettono la vita: fuoco,
aria, acqua e terra. Molto curiosamente la scienza moderna è in accordo col fatto che la vita sia “retta” da
quattro “elementi”, che però non sono gli stessi che
credevano gli antichi; quattro sono le “basi azotate”(denina, timina, citosina e guanina) che costituiscono i geni e quindi la registrazione e la trasmissione della Vita.
La croce è simbolo di resurrezione: l’iconografia cristia44 - Quaderni Padani
na sovente rappresenta il Cristo risorto con una croce
in mano. La croce della nostra bandiera significa quindi
la volontà del nostro popolo risorgere, di esistere e vivere come popoli liberi, per la qualcosa è necessario non
dimenticare le nostre radici che sprofondano fino nel
neolitico, quando con la grande, ancora d’importanza
irripetuta, rivoluzione agricola nacque l’odierna Europa. È curioso constatare infine che le comunità, le nazioni e gli stati che maggiormente hanno caratteristiche tipiche della civiltà europea inalberano ancora sui
loro vessilli il simbolo della croce; essi si trovano curiosamente nella fascia marginale e nelle zone montuose
conservatrici del nostro continente: i popoli che si affacciano sull’Atlantico (Baschi,
Bretoni, Scozzesi, Norvegesi e
Svedesi) e quelli della zona alpina
che va dal Rodano fino all’Istria.
Il popolo arpitano è fra questi.
I colori rosso e nero della nostra
bandiera sono colori storici. Già
la famiglia nobile degli Challant
li prediligeva sui suoi stemmi. I
colori rosso e nero caratterizzano
anche lo stemma del Ducato
d’Aosta, preesistente la Ducato di
Savoia. I colori rosso e nero, su proposta del canonico
Bréan, insigne e quasi solitaria figura di sacerdote patriota, furono inalberati, durante la lotta di liberazione
partigiana valdostana dal colonialismo fascista, dagli
autonomisti di Emile Chanoux e costituiscono ora la
bandiera della Regione. Il colore nero che occupa i due
quarti inferiori simboleggia la terra, la base su cui opera
la Vita, il territorio su cui sono vissuti i nostri antenati,
lo scenario che ha visto le gesta dei nostri gloriosi antenati, dai Salassi ai Saraceni alpini, le valli che ci rivedranno liberi. Il rosso invece, che occupa i due quarti
superiori, rappresenta il fuoco che deve riaccendersi in
noi per potere, qual fiamma ossidrica, fondere le catene
di prigionieri, temprare i nostri cuori e rendere lama tagliente la nostra volontà di lottare per l’indipendenza.
Nessuna altra bandiera può meglio indicare la voglia di
libertà del nostro popolo. È auspicabile poi che la nostra
bandiera di libertà venga adottata anche dalle Valli
montane del Canavese e che rappresenti la comunità
tutta dell’Arpitania cisalpina.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
La trota marmorata
di Gigi Ferrario
D
i tutti gli endemismi che Madre natura ha
regalato alla Padania, uno è particolarmente significativo. Si tratta di un pesce,
un salmonide, la “trota marmorata” (Salmo
trutta marmoratus), di bellezza unica. Tipica
abitatrice del Po e di tutti i suoi affluenti, è presente in queste acque da sempre ed è considerata la Regina delle Trote, e la trota padana per
eccellenza. È un pesce
snello, robusto, che
predilige le acque ossigenate e limpide. La
sua livrea è colorata
in modo variegato con
striature che assomigliano a quelle marmoree (da qui il nome) che si disgiungono in macchie più o
meno grosse sul capo.
Può raggiungere il
metro di lunghezza e
il peso di 10 kg. Ricercata per le sue carni
squisite è considerata
dai pescatori una pre-
da non facile per la sua scaltrezza e diffidenza,
quindi la sua cattura è molto ambita. Questo
pesce ha fatto dannare e gioire generazioni di
pescatori e ha creato addirittura leggende su di
sé. Questa abitatrice dei nostri fiumi padani deve però ora convivere con altri tipi di trota. Vediamo il perché.
Sembra che l’albero genealogico integro sia
Due immagini di
Trota marmorata
da considerarsi,
per alcuni, cosa fastidiosa o quanto
meno stravagante.
Infatti nei primi
anni del secolo
scorso è cominciata quella che si può
definire una sistematica alterazione
genetica.
Un certo commenAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 45
dator Rizzetti - milanese - pensò - bontà sua - di
migliorare questa specie e introdusse nelle acque della Sesia, dell’Oglio e dell’Adda, trote che
nulla avevano a che vedere con la nostra. Si
trattava di trote foreste della specie Salmo macrostigrna che vivono solamente nelle acque
della Sardegna, Sicilia e Tunisia. Il risultato è
che incrociandosi con queste ultime, la “marmorata” in buona parte ha perso le caratteristiche che la distinguono.
Ma evidentemente non bastava. Tant’è che,
dopo un decennio, questa volta con l’avallo degli ambientalisti, delle società di pesca eccetera,
si introdusse un altro tipo di trota, di ceppo
atlantico, spacciandola per trota di fiume. Si
trattava della “trota fario” (Salmo trutta fario)
detta anche “trota bruna”. La “trota marmorata” è stata ulteriormente depauperata delle proprie qualità genetiche, quindi la perdita delle
striature della livrea, sostituite da macule di vari colori (ibridismo). Ma ancora, pescatori di
nome ma non di spirito, ci hanno riprovato con
una ulteriore specie, questa volta proveniente
dall’America del Nord: la “trota iridata” o “trota
arcobaleno” (Salmo trutta gairdneri), che in
46 - Quaderni Padani
comune con le altre ha solo il prenome Salmo.
Questa volta si è trattato addirittura di una
specie da noi sterile, che nelle nostre acque è
riuscita ad acclimatarsi molto bene, avendo meno esigenze delle altre. Ma occupa comunque
nicchie ecologiche tali da contendere il cibo e
lo spazio alle specie precedenti.
Per la “marmorata” è finita? È stata colonizzata completamente? No! Per fortuna vi sono
luoghi dove resiste strenuamente all’invasione
genetica. Sono i tratti alti dei fiumi dove si è rifugiata. Solo da pochi anni ci si è accorti che si
stava perdendo un patrimonio ittico di particolare pregio… Occorre perciò, se si vuole il ritorno nelle nostre acque di questa specie autoctona, salvaguardare gli esemplari rimasti e, attraverso allevamenti adeguati (per altro non facilmente gestibili, visto la selvaticità dei soggetti), reintrodurli negli spazi originari.
Non vogliamo trote a ogni costo e che naturalmente non ci appartengono. Vogliamo invece
che questo splendido pesce riacquisti la sua
identità tornando a ripopolare i nostri fiumi,
torrenti e fontanili. È un nostro simbolo di padanità.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Gallignano: annotazioni
su un borgo padano*
di Mario Pedrabissi
G
allignano si trova pochi chilometri a nord
di Soncino, in provincia di Cremona. Il suo
territorio è completamente pianeggiante.
Lo strato coltivo è sottile con grossi ciottoli arrotondati (da cui il locale nomignolo scherzoso
di “Gallignano sul sasso”) e il sottofondo è formato da ghiaia e sabbia. Qua e là affiorano isole
di argilla gialla e grigia. Il fiume Oglio scorre
verso Sud congiungendosi, attraverso una specie di istmo, con l’altura sulla quale è sorto il
borgo fortificato di Soncino
(metri 85 s.l.m.). Al di là, si trova il ciglione irregolare di quella che nell’antichità doveva essere una grande palude che, in
questa zona, pare si chiamasse
Lago Martino e che andava poi
a congiungersi con le paludi
del Lago Gerundo, formato dalle esondazioni del Serio e dell’Adda oltre che dai numerosi
fontanili che danno gran quantità d’acqua limpida a una temperatura di 14-15 gradi. Oggi
ne esiste ancora, sul territorio
di Gallignano, una trentina più
altre piccole teste che immettono acqua nel rami principali
lungo il loro percorso. Da sempre le popolazioni residenti
hanno migliorato le risorgive
con opere di scavo e di assestamento, incanalando lo scorrere
delle acque per prosciugare le
aree circostanti e per portare l’acqua nelle campagne a livello più basso. In pochi anni, campi
fradici adatti solo alla produzione di erba da
“marcita”, (prato irrigato con un velo continuo
di acqua, perché seguiti a vegetare e dia tagli
d’erba anche nella stagione fredda) hanno potuto essere arati e coltivati per produzioni molto più redditizie. E’ praticamente certo che queste opere di bonifica furono iniziate in epoche
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
lontane, quando i primi cacciatori, che si avventurarono su queste terre, si trasformarono in
agricoltori.
L’Oglio, che nell’antichità era una importante via di comunicazione, ha favorito la conoscenza del territorio da parte dei primi abitatori
delle valli alpine che scendevano il fiume a bordo delle loro canoe scavate nei tronchi, e conservate in numerosi reperti archeologici. Oggetti di selce (punte di freccia, raschiatoi, ecce-
Presunta pianta del Lago Gerundo
tera) sono stati rinvenuti dal Gruppo Archeologico Aquaria nel territorio di Gallignano, a riprova del passaggio o forse anche dello stazionamento di nostri progenitori che qui volevano
fermarsi, anche temporaneamente, impiantan-
*
Informazioni tratte dal lavoro di ricerca eseguito dal
“Gruppo Archeologico Aquaria” di Gallignano
Quaderni Padani - 47
scoperti “ruderi dissepolti sul finire dello
scorso secolo presso
l’antico Santuario di
Santa Maria in Villavetere (Villa Vedra)”.
Dalle ricerche del Gruppo Archeologico (che
dalla mitica Aquaria ha
preso il nome) e dagli
scavi eseguiti nel 1994
dalla Soprintendenza
Archeologica di Milano
è stato accertato che nel
territorio attorno al
centro abitato di Gallignano esisteva un notevole agglomerato di
epoca celtica e romana.
Che si tratti di Aquaria
è da dimostrare, approfondendo ricerche
archeologiche e stuLibera ricostruzione del Borgo Fortificato di Soncino nel 1700: il di- diando documenti. Cosegno è comunque interessante perché evidenzia la rocca e la robusta me poi l’antico nome di
struttura difensiva delle mura con le quattro porte munite di ponte le- Aquaria si sia trasforvatoio sul fossato
mato in Gallignano viene spiegato dallo stesso
do forse officine per la produzione di oggetti di Galantino col fatto che “la popolazione cenometallo, da tempo noti alle genti di montagne mane cremonese, ottenuta dal dittatore Cesare
ricche di minerali., ma ancora sconosciuti a la cittadinanza romana, votasse nel comizi
chi, da secoli, viveva nella pianura. A questa ascritta alla tribù Aniese, da cui Gallusanius,
possibilità fa pensare il “ripostiglio” rinvenuto Gallianienses, Gallignanesi, Gallignano”.
alla fine del secolo scorso presso Cascina GranLo studioso cremasco Don Angelo Aschedadoffio a nord-ovest di Soncino: conteneva pani mini, ponendo alcuni dubbi sulla derivazione
di rame e frammenti di attrezzi in rame e bron- del nome da un castrum della tribù Aniense, inzo pronti per la fusione.
dica altre possibili spiegazioni: che derivi dai saAnche Gallignano, come ogni piccolo centro cerdoti della divinità Agreste Cibele, cui poteva
abitato, ha cercato le origini del proprio nome. essere dedicato il Bosco Sacro posto sull’altoNe ha parlato per primo Francesco Galantino, piano e che venivano chiamati gallici, da cui
autore della Storia di Soncino (pubblicata nel Gallicianus Locus, Gallignano; oppure che deri1869), riportando le conclusioni di storici di vi dal nome delle rozze calzature di pelle adatte
epoche precedenti, i quali affermavano che Son- per camminare nel fango e nell’acqua, in uso
cino era stata costruita sulle rovine di una città presso le tribù pre-romane della zona, e che vecenomane (Aquaria) distrutta dai soldati roma- nivano chiamate “galliche” (come ancora venini dei consoli Lucio Cassio Longino e Lucio Co- vano chiamate “galosce” le sovrascarpe di gommelio Cinna nel 127 a.C.. Secondo Galantino, la ma usate fino a qualche decennio fa), da cui il
città distrutta si sarebbe dovuta trovare a cin- nome di Galliciani agli abitanti che le calzavaque chilometri a nord dell’attuale Soncino e no. Una ulteriore ipotesi lega il nome alla lavoquindi sul territorio di Gallignano. A sostegno razione della terracotta derivata dall’argilla predella sua tesi portava anche l’osservazione che sente in gran copia nella zona. Nelle antiche
il nome di questa città (Aquaria) era particolar- fornaci, la cui presenza è stata documentata nemente adatto proprio per questa zona, “solcata gli ultimi tempi in località Bosco Vecchio, venida copiose sorgenti” presso la quale erano stati vano prodotte, oltre ai laterizi da costruzione,
48 - Quaderni Padani
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
anche stoviglie per cucina e per tavola, nonché che aveva indebolito la posizione romana nella
anfore e pentole: ebbene, tali manufatti veniva- Valle padana, i Celti Boi e Insubri riuscirono a
no dai Romani chiamati genericamente calices distruggere la colonia romana di Piacenza e a
e, probabilmente, “calicianum” il centro dove cingere d’assedio Cremona. Ma fu l’ultimo suserano situate le fabbriche degli artigiani vasai.
sulto di libertà: Roma riprese il controllo di tutNon dovrebbero esserci dubbi che il territorio te le strade di comunicazione e dei guadi del Po
di Gallignano sia stato stabilmente abitato anche (197 a.C.). E, per fronteggiare i continui attacprima della conquista romana. Probabilmente il chi dei Celti, stabilì che le terre della pianura
vivere quotidiano era molto più felice prima del- padana fossero centuriate e suddivise tra i vetela dominazione: bastava avventurarsi nella fore- rani dell’esercito e il Senato inviò ben 6000 fasta per trovare con facilità la selvaggina; la pesca miglie per abitare le colonie a nord del Po. Delnei fossati o nella laguna e la coltivazione di pic- la prima centuriazione rimangono solo poche
coli appezzamenti di terra davano di che vivere tracce, mentre è ancora facilmente individuabisenza problemi alle tribù che qui abitavano. I le la seconda che ha visto il territorio interessaprimi a stabilirsi su questo terto alla distribuzione di terre
ritorio sono forse stati i Camucedute al veterani di Cesare
ni della montagna; seguiti poi
(41 a.C.), che erano però in
certamente dai Celti. Infatti, i
larga parte cisalpini.
recenti scavi nella zona Bosco
Il periodo di sviluppo di GalliVecchio, a nord-est di Gallignano avviene durante e dopo
gnano, testimoniano che la
l’età augustea. Tutta la progrande villa romana venuta alvincia di Cremona divenne
la luce era stata costruita su
importante in quel periodo
una abitazione preesistente; e
per i suoi prodotti agricoli, gli
il rinvenimento nella zona di
allevamenti di bestiame, la laceramica celtica e di una
vorazione delle pelli e per i la“Dracma Padana Celtica Insuterizi: il Mercatus di Cremona
bre” (coniata a imitazione di
viene spesso citato dalle fonti
una “dracma marsigliese”) sta
dell’epoca.
a confermare la presenza dei
Quando l’esercito di Vitellio
Celti.
venne sconfitto a Bedriaco
Del resto le notizie storiche
(69 d.C.) e Cremona venne raaffermano che Galli Boi e Insa al suolo, Gallignano evitò
subri erano presenti nella Cila distruzione grazie alla sua
salpina almeno dal V secolo
posizione molto più a nord e
a.C.. I Romani hanno occupaquindi fu pronta al nuovo svito questa zona a partire dalla
luppo prodotto dalla ricostrusconfitta inflitta ai Celti che
zione di Cremona e dell’auerano stanziati a ovest del fiumento della produzione di
me Oglio nel 222 alla congrano imposto da Vespasiano.
fluenza tra l’Adda e il Po. La
Le antiche divinità dei Celti
Regio X, Venetia et Histria,
vennero in parte sostituite.
aveva come confine occidenta- Un’antica carta del territorio a Presso la chiesa di Villavetere
ovest dell’Oglio
le proprio il fiume Oglio. È
(l’appellativo “vetere” dato ai
quindi accertato che anche
santuari nel contado o a chiequesto territorio, a nord del Po, a ovest dell’O- se nelle città, spesso ricorda località “pagane”
glio e ad est dell’Adda, era abitato dai Celti. Lo su cui il cristianesimo si è imposto), durante i
storico Polibio (210-121 a.C.), descrivendo la lavori di disboscamento (siamo verso la fine del
Cisalpina come terra ricca per la fertilità del 1600, inizio 1700) venne alla luce un’ara dediterreno, afferma che questa prosperità, unita al- cata a Giove. Nel volume Soncino - La bella stola presenza di facili vie di comunicazione, spin- ria di Ermete Rossi,(1) viene descritta l’iscriziose i Romani a garantirsi la difesa a nord con la
costruzione delle colonie di Cremona e Piacenza (218 a.C.). Dopo la seconda guerra punica (1) Soresina(Cr): Edizioni Grafiche Rossi, 1995
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
Quaderni Padani - 49
ne e ne viene tentata l’interpretazione:
IOVI
L. VARIUS
L. F. BERGINUS
D. P. S. L. M.
Interpretata come:
IOVI
LUCIUS VARIUS,
LUCI FILIUS BERGINUS,
DE PECUNIA SUA LOCAVIT
MONUMENTUM
A GIOVE
LUCIO VARIO
FIGLIO DI LUCIO BERGINO
CON IL SUO DENARO
COLLOCO’ IL MONUMENTO.
Il Professor Giuseppe Pontiroli riporta, nella
sua pubblicazione “Bolli laterizi romani a Gallignano nel Cremonese”,(2) l’iscrizione come sarebbe nel Corpus Inscriptionum Latinarum del
Mommsen. Essa risulta leggermente diversa da
quella riportata dal Galantino:
IOVI
L. VARIUS
Q. F. BARGIN
D. P. S. L. M.
Vi è una “Q” invece della “L” dopo il nome di
Varius, e Berginus è diventato “Bargin”. Diversa
è quindi anche l’interpretazione delle abbreviazioni:
IOVI
LUCIUS VARIUS
QUINTI FILIUS BERGINUS
DE PECUNIA SUA LOCUS MONUMENTI
Il nome stesso del donatore dell’altare, Bargino o Bergino della Famiglia dei Vari, riconduce
al dio Bergino, divinità dei Monti, propria dei
Galli Cenomani.
Un mistero avvolge l’ara: a parte queste informazioni, non se ne conosce il destino. Magari è
stata gettata, come materiale inutile, oppure un
ignaro agricoltore della zona l’ha ritenuta più
utile come peso per il suo erpice troppo leggero
o come incastro per una paratoia, o è finita nella collezione di qualche “appassionato”.
50 - Quaderni Padani
La storia di Soncino, l’importante borgo fortificato di cui Gallignano è frazione, fa da riferimento, per le epoche successive, più a leggende
che a fatti storici documentati.
Così è per la fondazione del nucleo abitato attribuito a un comandante dei Goti, certo Lanfranco, che si sarebbe stabilito sull’altura di
Soncino nell’anno 387-388 (e comunque prima
del 400 secondo l’opinione del Muratori). Nel
401, Alarico, dopo l’occupazione di Bergamo,
avrebbe posto sotto il suo dominio anche il territorio di Gallignano prima della conquista della Venezia. Poi giunsero i Bizantini (553) e, dopo una ventina d’anni, i Longobardi di Alboino
(572). Pare che a Soncino abbia chiuso i suoi
giorni il figlio della regina Teodolinda, Adaloaldo, cacciato dalla reggia di Pavia o per una congiura o per la sua pazzia (628). Sua moglie, la
regina Matilde (forse figlia di Teodoberto, re dei
Franchi), avrebbe finanziato la costruzione della chiesa di San Pietro fuori le Mura e dell’Eremo di San Zeno a sud di Soncino. Poi, nel 773,
arrivarono i Franchi di Carlo Magno. Al 5 maggio 785 risale il più antico documento che porta
il nome di Gallignano: nel Codice Diplomatico
Longobardo si parla di un Giorgioni che firma,
nella “carta del soldo del prezzo di una Vigna
situata sotto le mura della città di Bergamo”,
con una croce come testimonio. Testualmente
le parole che riguardano Gallignano sono: “Signo x manus Giorgioni de Galliniano fil. Q.
Agefri Teste”.
Carlo Magno concedeva al suo vassallo Astergio di Limoges Soncino e il suo territorio, e
quindi anche Gallignano. In questo periodo
probabilmente era ancora abitata la zona del
Bosco Vecchio: è stata ritrovata infatti una moneta di Lotario proprio sulla montagnola dove
era situata una cascina ora scomparsa. Quando
gli Ungari giunsero a saccheggiare Brescia, furono rinforzate le difese di Soncino che, nel Diploma di Berengario I venne chiamato per la
prima volta “Castrum Soncini”.
Il 24 marzo 1023, in un atto di compravendita
a firma Gauselmus, notalo del Sacro Palazzo
dell’Imperatore Enrico II nel Castello di Monte
Odano (Montodine), viene riportato per la prima volta il nome di Galeniano.( 3) Nel docu(2) Convegno Archeologico Regionale: Milano, 1980
(3) I nomi dei paesi subiscono nel corso dei secoli numerose
variazioni: una targa del Touring, infissa sul muro dell’Osteria Chiametti, durante il ventennio fascista, portava ancora
il nome di Gallegnano.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
mento viene scritto il nome di un Gallignanese
che avrebbe fatto da mediatore tra le parti.(4) Si
trattava di un certo Teodaldum de Galeniano,
messo del Vescovo Landolfo di Cremona, che faceva vendere 27 pezze di terra in Arzago per 25
libbre di denari di “buon argento”. Il documento è interessante perché testimonia di un periodo nel quale avveniva l’integrazione definitiva
fra le varie genti che nel tempo si erano stabilite nel territorio. Infatti, il terreno acquistato
era di proprietà di Ribaldo e Ottone suo fratello,
di “legge germanica” e della moglie di Ribaldo,
Wida, di origine longobarda: le due razze erano
già legate da stretti vincoli di parentela. Si hanno notizie anche di un secondo Gallignanese,
amico del Vescovo di Cremona: si tratta di un
certo Albertus de Galiniano che fa da testimonio a una investitura fatta dal Vescovo Arnolfo
di possedimenti e casamenti siti in Aufoningo a
due cugini, Viligelmo e Valdo di Calugate (atto
del 17/06/1074).
Le città si stavano affrancando dai feudatari e
nascevano i liberi Comuni. Nel 1098 Cremona è
già riconosciuta come Comunità autonoma: nel
Diploma di Investitura fatto da Matilde di Canossa di Crema e dell’Isola Fulcheria, si fa
espresso riferimento agli uomini del Comune di
Cremona oltre a quelli della Chiesa. E nel 1120
in città già governano i Consoli. Tre anni prima,
nel 1117, il territorio di Soncino, e quindi presumibilmente anche Gallignano che fino ad allora dipendeva dal Comitato di Bergamo, si unì
a Cremona.
Anche Soncino era ormai indipendente come
Comunità tanto che l’anno successivo, nel
1118, venne firmato un trattato di fedeltà tra
Soncino e Cremona e del giuramento si fecero
garanti sette famiglie di nobili di Soncino e i
Settemviri di Cremona. Da questo accordo si
ebbero probabilmente vantaggi economici per
tutto il territorio e quindi anche a Gallignano
alcune famiglie si arricchirono e diventarono
importanti. Infatti, alcuni anni dopo, e precisamente il 30 marzo 1136, un non meglio precisato “Marchese qui vocatur de Galegnano”
(“detto di Gallignano”) con sua moglie Imilda e
suo figlio Ottolerius con la moglie Ermengarda
di “legge longobarda”, vendono sei pezze di terreno a Casalbuttanoa un certo Baldo Pedrobono
di Cremona. Il signor Marchese forse non potè
godere del ricavato della vendita: infatti nell’ottobre dello stesso anno la Comunità di Soncino
pagò cara l’Alleanza stretta con Cremona. L’Imperatore Lotario II, alzato tribunale in RoncaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
glia e avendo sentito le lamentele dei Milanesi,
a lui fedelissimi, contro i Cremonesi a causa
della Città di Crema, venne in persona all’assalto di Soncino, espugnandolo e distruggendolo a
ferro e fuoco. Anche il territorio di Gallignano
subì gravi danni per le scorrerie dei soldati.
Il 19 marzo 1147 troviamo tre fratelli (Adam,
Bombellum e Petrum Bonum) figli del fu Petri
de Galegnano prendere un terreno aratorio in
Caselle (forse Cascina Caselle?) da un certo
Stancionus di Solarolo e Giovanni e Otto di
Scandolara: i Gallignanesi si davano agli affari
anche in terre lontane, specie per quel tempi.
Nel 1149 Soncino è con Cremona nella battaglia a Castelnuovo Bocca d’Adda contro i Milanesi. Nel 1162, Federico I Imperatore concedeva il castello di Soncino al Cremonesi: questi,
memori della collaborazione a suo tempo avuta
dai Soncinesi, allacciarono rapporti amichevoli
con il borgo.
La partecipazione di Cremona alla Lega Lombarda dei 1176 la rese invisa all’Imperatore. Nel
giugno del 1186, quando il Barbarossa volle dare una lezione alla città ribelle, ne invase il territorio con l’aiuto dei Milanesi, dei Bresciani e
dei Piacentini. Mentre Cremona venne risparmiata grazie all’intervento presso l’Imperatore
del Vescovo Siccardo, la peggio toccò al territorio più a nord: vennero infatti distrutti Castel
Manfredi (Castelleone) e Soncino.
Soncino risorse in pochi anni e, nel 1192, i
Consoli di Cremona rinnovarono il Patto di
Amicizia con il borgo. L’anno successivo, nel
1193, ritornarono i Milanesi che si vendicarono
dell’aiuto dato dai Soncinesi anche ai Lodigiani,
distruggendo e incendiando. Le notizie storiche
parlano di Soncino, ma i danni maggiori li subivano, certamente, le abitazioni isolate e le località fuori dalle mura. Gallignano aveva una torre-castello, ma la struttura difensiva di Gallignano era ben poca cosa rispetto alla sicurezza
del borgo fortificato di Soncino, posto in posizione strategica sopra il promontorio sporgente
sulle paludi del Lago Martino. E proprio l’impossibilità per i nemici di conquistare Soncino
fu spesso la causa delle disgrazie di Gallignano,
che subì infinite distruzioni, specialmente durante il periodo delle lotte furibonde tra i Comuni e tra i Signori delle varie città.
(4) Si vede che questa professione i Gallignanesi l’hanno
sempre saputa esercitare: sino a una trentina d’anni fa erano
ancora una decina le famiglie Gallignanesi che traevano sostentamento dall’attività di mediatore del capofamiglia.
Quaderni Padani - 51
La Libertà
degli Altri
Intervista - A venti anni
dal martirio
dei dieci prigionieri
repubblicani a Long Kesh,
Laurence Mc Keown
ricorda i suoi compagni
“morti perché altri
fossero liberi
Laurence Mc Keown è rimasto
segregato a Long Kesh per sedici anni ed ha preso parte alla protesta del 1981 che costò
la vita a Bobby Sands e ad altri nove militanti repubblicani.
Dopo settanta giorni di sciopero della fame, quando ormai
era già in coma, i suoi familiari hanno acconsentito a farlo
alimentare artificialmente, ma
soltanto perché il governo inglese aveva lasciato intendere
che le richieste dei prigionieri
sarebbero state accettate nella
sostanza, come poi è accaduto.
Precedentemente aveva partecipato a tutte le lotte condotte
dai prigionieri dal 1976, quando entrò in carcere: da quella
detta “delle coperte” alla “protesta della sporcizia”, fino agli
scioperi della fame.
Mc Keown è stato anche uno
dei principali redattori della
rivista The Captive Voice e di
tutte le ampie attività culturali che hanno coinvolto i detenuti politici irlandesi.
Ha pubblicato poesie e racconti e da un suo testo è stato
ricavato il film The Visit di
Orla Walsh. Insieme ad altri
due ex detenuti, Brian Campbell e Felim O’Hagan, ha
scritto il libro Norneekly Ser52 - Quaderni Padani
ve my Time. Nel libro è riportata anche una testimonianza
di Bik Mc Farlane (scelto da
Sands per sostituirlo come responsabile della cellula dell’IRA nella loro cella), probabilmente l’ultimo dei prigionieri
repubblicani che vide Bobby
Sands ancora vivo, al cinquantaseiesimo giorno di sciopero
della fame.
“Il cancello si richiuse cigolando dietro di me, quando
entrai nel reparto e un infermiere mi indicò la cella dove
si trovava Bobby. Fu una vista
che mi terrorizzò. Era tenuto
leggermente sollevato da dei
grossi cuscini, ma era come
se il suo corpo emaciato ci
sprofondasse dentro. Non riusciva a vedere chi era entrato
nella stanza.
Mi spostai attorno al letto e
mi sedetti accanto a lui. C’era
così tanto dolore nel suo volto
che potevo quasi sentirne l’agonia.
Appariva così fragile e delicato in quel suo silenzioso mondo che mi ritrovai a bisbigliare per paura di disturbare
qualche pace interiore. Sembrava ingeneroso introdursi
in quel silenzio… Ancora
qualche minuto e gli presi delicatamente la mano, non c’era più nulla da aggiungere.
Aveva avuto ragione tanto
tempo prima. Non lo avrei
tradito nel momento della fine. Me ne sarei andato e avrei
atteso pazientemente, mentre
se ne andava lentamente dalla vita.
Stavo per andarmene quando
lui mi guardò con un’espressione di dolore e mormorò:
“Sto morendo, compagno, sto
morendo”.
D. Nel suo libro, che raccoglie le testimonianze di ben
387 ex prigionieri politici,
riporta anche quella di Filim
O’Hagan che decise di non
aderire allo sciopero della fame “perché avevo paura di
morire e specialmente di
quella morte così lunga e lenta”. Lei invece non esitò ad
aggiungere il suo nome nella
lista dei volontari. Come se lo
spiega a tanti anni di distanza?
R. Bisogna dire come sia quasi impossibile capire perché
siamo arrivati a quella decisione estrema senza sapere
cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti,
dopo che nel ’76 ci era stato
tolto lo status di prigionieri di
guerra.
Le condizioni dei prigionieri
erano brutali e nessuna forma
di protesta sembrava in grado
di porvi rimedio. Allora eravamo tutti molto giovani, tra i
venti e i trent’anni. La maggior parte era entrata in carcere ancora adolescente. Tra
di noi c’era molta unione,
molta solidarietà… È poi importante sottolineare che da
parte nostra c’erano delle forti
convinzioni politiche, le stesse che ci avevano portato a
entrare nell’IRA, ben sapendo
che la prospettiva della prigione era facilmente prevedibile,
come del resto anche quella
della morte.
Vedere poi con i propri occhi
la dura repressione subita dai
detenuti non aveva fatto altro
che rafforzare le nostre convinzioni.
Il governo britannico tentava
in tutti i modi di criminalizzarci, di farci apparire come
delinquenti comuni. Dovevamo ribellarci per dimostrare
che le nostre scelte e le nostre
azioni erano politiche, non
criminali.
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
D. Da Thomas Ashe, morto
per essere stato sottoposto
all’alimentazione forzata nel
1917, a Michael Fitzgerald,
Joseph Murphy e Terence Mc
Sweeney (morti nel carcere di
Brixton nel 1920) fino ad
Andrew Sullivan e Dennis
Barry (nel 1923 nel carcere
di Monioy)… i detenuti politici irlandesi morti in sciopero della fame nel corso del
novecento sono almeno ventidue. Certamente tutti voi conoscevate questi precedenti e
non potevate farvi illusioni
sul comportamento inglese.
Si può quindi affermare che
la vostra fu una scelta meditata?
R. Nel nostro caso la decisione non fu certo presa alla leggera ma ormai non c’erano alternative. Per quanto mi riguarda ero ben consapevole
che questo sciopero (successivo a quello dell’80, poi sospeso) sarebbe stato fino alle
estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista
dei volontari non sapevamo
quando sarebbe venuto il nostro turno; chi sarebbe morto
e chi sarebbe sopravvissuto.
Naturalmente avevo pensato
molto a quali sarebbero state
le conseguenze per la mia famiglia… Io almeno non ero
sposato e non avevo figli, diversamente da altri volontari
come Bobby Sands.
D. Un’ultima considerazione
su quel tragico momento…
R. Come è noto, le nostre cinque richieste vennero poi sostanzialmente accettate, dopo
la morte del decimo volontario (Micky Devine dell’INLA
n.d.r.). Quindi io ritengo che
quei nostri dieci compagni
non avrebbero dovuto morire,
così come non avrebbero doAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
vuto morire tutti quei bambini colpiti dai proiettili di plastica durante le manifestazioni di protesta dell’81. Il loro
martirio ha permesso ai prigionieri di ottenere quanto richiedevano, ma ha anche evidenziato la natura politica del
conflitto nord irlandese. Inoltre ha confermato e rafforzato
i profondi legami dei prigionieri con la loro comunità. Ho
potuto verificare direttamente
come i prigionieri rilasciati
vengano considerati persone
di grande integrità. La gente
comprende che si sono sacrificati per gli altri, per la loro
comunità.
Ancora repressione
contro
il popolo Sahrawi
In un comunicato del 21 novembre 2001 l’Associazione
nazionale di solidarietà con il
popolo sahrawi (ANSPS) ha
deplorato la nuova ondata di
violenza che si è scatenata sugli abitanti sahrawi della città
di Smara nei territori del
Sahara Occidentale occupati
dal Marocco. Successivamente
molti degli arrestati sarebbero
stati sottoposti a maltrattamenti e torture. I fatti risalgono a sabato 17 novembre
quando le forze dell’ordine
marocchine si sono esibite in
cariche e pestaggi di inaudita
violenza contro un gruppo di
civili sahrawi che effettuavano
un pacifico sit-in di protesta.
La manifestazione era nata per
sottolineare di fronte all’opinione pubblica internazionale
che il governo del Marocco
non solo non sta mantenendo
le promesse di miglioramento
di vita nei territori occupati
ma li sottopone ad uno stato
La Libertà
degli Altri
d’assedio permanente. “Un numero elevato di persone – si
legge nel comunicato- sono
state ferite, arrestate in modo
arbitrario, detenute senza garanzie e interrogate sotto tortura”. Inoltre le abitazioni di
altri civili sahrawi sono state
letteralmente assaltate e i loro
abitanti picchiati dalle forze di
sicurezza marocchine.
Tali aggressioni seguono altre
violenze scatenate dalle forze
dell’ordine in occasione delle
proteste della popolazione sahrawi contro la visita del re
Mohammed VI nei territori occupati all’inizio di novembre e
contro la progettata visita nella città santa di Smara. A seguito della sollevazione popolare la visita a Smara è stata
poi annullata per “motivi tecnici”.
A seguito di tale repressione
numerosissime persone sono
ancora in carcere e si ignorano
le loro condizioni di detenzione. La città rimane inaccessibile. Del resto sempre in novembre era stato impedito a
Danielle Mitterrand, presidente della Fondazione France Liberté di viaggiare nei territori
sahrawi. Tutto indica che le
autorità marocchine non vogliono la presenza di osservatori indipendenti nei territori
occupati del Sahara Occidentale.
L’ANSPS ha anche protestato
per la passività della Missione
delle Nazioni Unite nel Sahara
Occidentale (MINURSO) di
fronte alla politica delle autorità marocchine. A questo proposito l’ANSPS dichiara di “
Quaderni Padani - 53
La Libertà
degli Altri
invitare il segretario generale
dell’Onu Kofi Annan a mettere
un termine a tutte le manovre
dilatorie che hanno finora impedito l’attuazione del piano di
pace dell’Onu in vista della tenuta di un referendum di autodeterminazione del popolo
sahrawi”.
È evidente che tale ritardo ha
gravissime conseguenze: lascia
libertà al Marocco di scatenare
una sanguinosa repressione,
costringe una parte del popolo
sahrawi a vivere in esilio in
condizioni materiali durissime, minaccia la pace e la stabilità di una regione vicina all’Europa, contribuisce al permanere di pericolose tensioni
e di violazioni gravissime dei
diritti umani fondamentali.
La Turchia inaugura
la sua partecipazione
alla “guerra
contro il terrorismo”
con una strage
a Istambul
Con un tempismo degno di
miglior causa, la Turchia ha
colto l’occasione della lotta al
terrorismo per risolvere con
la violenza le questioni interne. Il giorno 22 novembre, alle ore 14, oltre mille agenti e
militari, preceduti da decine
di blindati e ruspe e accompagnati da un forte fuoco di cecchini appostati sui tetti, hanno dato l’assalto al piccolo
quartiere di Armutlu a Istanbul, dove da più di un anno
prosegue il dramma dello
sciopero della fame di decine
54 - Quaderni Padani
di ex detenuti politici e di loro
familiari contro la generalizzazione delle celle d’isolamento, con la solidarietà della popolazione.
Secondo l’IHD (Associazione
per i diritti umani), che ha inviato osservatori sul luogo, il
bilancio (provvisorio) è tragico: si contano sei morti, decine di feriti anche gravi e centinaia di arresti, oltre alla distruzione con il fuoco di almeno una delle “Case della resistenza”. Le altre abitazioni
dei militanti in sciopero della
fame sono state invase dal fumo di lacrimogeni e gas tossici.
Almeno due persone, fra cui il
portavoce del digiuno Haydar
Bozkurt, si sarebbero uccisi
con il fuoco per protesta,
mentre è probabile che gli altri siano stati uccisi dalla polizia. Naturalmente non bisogna dimenticare che già per la
strage nelle carceri del 19 dicembre 2000 l’autopsia rivelò
che molti dei “suicidi” erano
stati deliberatamente dati alle
fiamme dalla polizia. Ai 32
prigionieri morti durante
quella irruzione si sono aggiunti altri 46 (quarantasei)
morti per fame dentro e fuori
dalle prigioni, nel vergognoso
silenzio del mondo; è assai
probabile che il bilancio sia
destinato ad aumentare vertiginosamente. Anche se lo
sciopero venisse sospeso almeno centocinquanta persone
riporteranno conseguenze fisiche e psicologiche irreparabili.
La luce verde alla strage, più
volte minacciata e annunciata
dal ministro della Giustizia
Sami Turk, è ovviamente legata alla partecipazione turca alle operazioni in Afghanistan:
il regime adesso ritiene di ave-
re le mani libere nella repressione di ogni dissenso e nel rilancio della politica del terrore di stato. Un preciso segnale
era venuto pochi giorni prima
quando Gurhan Kockar, dirigente del partito filokurdo
Hadep (HALKIN DEMOKRASI
PARTISI), era stato assassinato dai militari sulla porta di
casa a Dogubevazit.
Attualmente sono più di diecimila i detenuti politici rinchiusi nelle prigioni turche.
Ad opporsi al trasferimento
nelle nuove celle di segregazione sono soprattutto i militanti kurdi e di alcune formazioni della sinistra rivoluzionaria turca. Le celle di isolamento recentemente introdotte nelle carceri turche riducono a nulla le capacità fisiche e
intellettuali dei detenuti, tagliandoli fuori da ogni rapporto sociale. Non sono previsti
spazi per la vita comune, non
ci sono stanze per vedere la
televisione o ascoltare la radio, leggere o fare ginnastica.
Questo sistema inoltre e alquanto punitivo anche per i
parenti.
Al momento delle visite le madri dei detenuti si devono svestire per le perquisizioni corporali effettuate da personale
non identificato (non si sa se
si tratta di gendarmi o di civili). Nemmeno gli avvocati possono incontrare liberamente i
loro assistiti.
E’ sicuramente da condannare
la quasi totale indifferenza
dell’opinione pubblica, sia
turca che europea. Se quella
turca è in parte comprensibile
dato che , dopo il colpo di stato del 1980, la società è ancora terrorizzata e non in grado
di organizzarsi adeguatamente, quella europea è quantomeno indecente. In un primo
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
tempo l’Europa si era atteggiata a severo osservatore della situazione (come avvenne
durante lo sciopero della fame
del 1996, costato la vita di dodici militanti), ma successivamente ha mostrato comprensione e incoraggiamento per
la politica repressiva dello stato turco, sostenendo che anche da noi esiste il sistema a
celle di isolamento.
Bougainville:
difesa della Terra
e autodeterminazione
Probabilmente la lunga lotta
degli indigeni di Bougainville
avrebbe meritato più attenzione e sostegno sia da parte dei
movimenti che considerano
l’autodeterminazione dei popoli un valore che da parte delle
associazioni ambientaliste.
Una lotta condotta ad armi
impari dagli isolani contro
l’esercito ben armato di Papua
Nuova Guinea (PNG), fino a
qualche anno fa uno degli stati maggiormente indiziati dall’ONU e dalle ONG per violazioni dei Diritti Umani. Gli
abitanti dell’isola (in totale
160.000) hanno combattuto
“con ogni mezzo necessario”
senza alcun aiuto esterno
contro le devastanti attività
delle multinazionali, in particolare contro una miniera di
rame a cielo aperto e per l’autonomia di Bougainville dal
governo di PNG.
Bougainville si trova in prossimità delle Isole Salomone,
nel Pacifico meridionale, sottoposta al governo di PNG dal
1975. Sei anni prima una ditta
australiana, la CRA, sussidiaria della multinazionale Rio
Tinto Zinc (qualcuno la ricorderà nella lista delle multinaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
zionali che finanziavano il regime dell’apartheid in Sudafrica negli anni ottanta) aveva
aperto una miniera di rame
nonostante le proteste della
popolazione. A causa dell’apertura della miniera centinaia di abitanti persero la casa, le terre, i diritti di pesca.
Ampi tratti di giungla vennero
disboscati per far posto alle
infrastrutture e nei venti anni
successivi la miniera a cielo
aperto, profonda mezzo chilometro, aveva ormai raggiunto
i sette chilometri di diametro.
La resistenza degli abitanti si
era sempre mantenuta nell’ambito della nonviolenza:
proteste pacifiche, manifestazioni, petizioni, richieste di risarcimenti…
Verso la fine degli anni Ottanta, dopo quasi due decenni di
lotte pacifiche duramente represse dalla polizia, alcuni militanti cominciarono ad impadronirsi degli esplosivi della
compagnia mineraria, utilizzandoli per compiere sabotaggi contro edifici e macchinari.
Immediata la risposta del governo di PNG che inviò l’esercito ad occupare l’isola, aiutato nelle operazioni dall’Australia che esigeva l’immediata riapertura della miniera.
Ufficialmente l’Australia ha
sempre negato di essere coinvolta direttamente nella questione ma in realtà ha fornito
a PNG trentadue milioni di
dollari in aiuti militari. Inoltre consiglieri militari dell’esercito australiano hanno collaborato costantemente con le
truppe di PNG nella repressione. La flotta e l’aviazione australiana hanno inoltre garantito un efficace blocco totale dell’isola, impedendo anche l’invio di medicinali. Infatti non mancarono vittime
La Libertà
degli Altri
anche tra coloro che tentavano di forzare il blocco per portare aiuti o permettere la fuga
dei profughi. Intanto l’esercito di Papua Nuova Guinea
bruciava villaggi, deportava
gli abitanti e rinchiudeva migliaia di persone in campi di
concentramento, cercando così di isolare la popolazione
dalla guerriglia del BRA (Bougainville Revolutionary Army), costituitosi nel 1988.
Non riuscendo a sradicare la
resistenza nel 1997 il governo
di PNG si rivolse ad una compagnia di mercenari, la “Sandine international” di Londra
che dispone di parecchie centinaia di uomini ben addestrati sotto il comando di ex ufficiali del Sudafrica specializzati in antiguerriglia. Fortunatamente per gli abitanti di
Bougainville, quando l’attacco
era ormai imminente, i gravi
disordini con incendi e saccheggi scoppiati nella capitale
Port Moresby e i contrasti tra
mondo politico e vertici militari portarono alla caduta del
governo. Nell’estate del 1997
iniziarono i colloqui di pace
tra governo e BRA, in una situazione complessivamente
favorevole per la resistenza.
Attualmente nell’isola sono
ancora presenti soldati di
PNG, ma confinati nelle caserme. In parte la situazione resta confusa ma con alcuni
punti fermi: la volontà della
popolazione di chiudere definitivamente la miniera e la richiesta di una autentica autonomia.
A cura di Gianni Sartori
Quaderni Padani - 55
Biblioteca
Padana
Capitan Slaff e altre storie,
Davide Bernasconi Van De Sfroos
Gh’era un teemp préma del teemp,
che stremava anca el demoni,…
così esordisce la ballata, di Davide
Bernasconi, in arte Van De Sfroos
che coi suoi recenti successi in
dialetto laghèe ha sancito l’interesse e l’attenzione al dialetto da
parte di numerosissimi giovani.
Capitan Slaff e altre storie, storia
da cantastorie è la nuova veste di
Davide Bernasconi, il suo esordio
come scrittore. Una ballata pubblicata in un volumetto e incisa su cd
con accompagnamento musicale.
E Capitan Slaff è un altro modo di
dare voce al dialetto come lingua
non subalterna, capace di esprimere tutte le emozioni, i sentimenti –
spesso quelli più veri – che hanno
contribuito, talvolta con la loro
immediatezza e vivacità d’espressione, a creare un tessuto linguistico-sociale e culturale comune,
un repertorio di miti, di immagini
e di memorie collettive, qualche
volta assopite ma pronte a rivelarci
un’appartenenza comune. Una ballata che attraverso i suoi suoni e la
sua poesia si rivolge al pubblico
più ampio, non da ultimo quello
dei giovanissimi, un’ampia fascia
che sempre più conosce e apprezza
il cantautore lariano. Storie che
piacciano perché parlano della vita
e richiamano alla mente figure
presenti nella mente di ciascuno di
noi. E per dirla con le parole di
Davide Bernasconi in Capitan
Slaff, “le storie della zia e della
maestra, il nonno che ricostruiva
l’Iliade, l’Odissea e l’Amleto, riassumendomi le vicende in dialetto
e, a volte, mescolando i personaggi. E poi storie di partigiani, di
56 - Quaderni Padani
emigrati ritornati, di legionari
pentiti e fuggiti… Il calcio, la
guerra, gente che camminava sulla luna, gente che inciampava sulla terra. Garibaldi e Silver Surfer;
Orlando, Long John Silver e il mio
bisnonno Peppino. Storie. Vere o
false non importava: da storie venivamo e storie saremmo diventati… Le vicende del pirata Slaff e
del Toni nascono per gioco, scotendo e prendendo a calci il barattolo della fantasia…”. E Capitan
Slaff ci chiede di ascoltare. Di
ascoltare il suono che si leva da
ogni terra contro ogni logica di
mercato e consumistica, che è anche suono di memoria e che ci fa
parte di una storia che viene da
lontano e che dà identità culturale
a una terra e alla sua gente.
Giulia Caminada Lattuada
Paolo Zanoni
Bossi e la rivoluzione tradita
Venezia: Editoria
Universitaria, 2001
Pagg. 131 - e 10,00
Sono moltissimi quelli che, per i
motivi più svariati, hanno lasciato
il più grande movimento autonomista di Padania. La più parte se ne
è andata in silenzio. Molti si sono
lasciati andare a dichiarazioni di
delusione, di continuità di lotta
fuori dalle strutture del partito, di
rimpianto e - troppi - di rancore o
di rinnegamento delle idee passate
fatto di funambolismi e immorali
acrobazie ideologiche. Sono stati
solo tre quelli che hanno però avuto la capacità e anche l’impegno intellettuale e civile di mettere per
iscritto le proprie esperienze a beneficio della cronaca, della storia e
di tutti quelli che sono interessati a
capire cosa è successo. Aveva cominciato molti anni fa Roberto
Gremmo con il suo Contro Roma,
che è rimasto un documento prezioso sui primi anni del leghismo,
ma che risentiva del clima di contrapposizione anche dura di quegli
ormai lontani anni e di cui il suo
autore era stato protagonista. Era
apparso, tempo dopo, Io Bossi e la
Lega di Gianfranco Miglio, scritto
forse troppo “a caldo” dal grande
professore ma nel quale si trova
una analisi dura ma lucidissima e
lungimirante del leghismo. Si trattava in entrambi i casi di due grandi protagonisti che avevano vissuto
in una condizione di osservatori
privilegiati ma in qualche misura
esterni al vitale groviglio degli entusiasmi del mondo della militanza
di base.
Il volume che è stato appena pubblicato, Bossi e la rivoluzione tradita, è diverso dagli altri due perché
l’autore, Paolo Zanoni, è un giovane militante che è cresciuto politicamente e umanamente all’interno
del movimento, che ne ha vissuto
tutte le gioie e le delusioni “da dentro”, in mezzo a quelle tante migliaia di persone che si sono immedesimate col progetto padanista e
ne hanno quasi fatto una ragione di
vita.
L’autore racconta la sua vicenda osservandola dall’interno, dal bel
mezzo dell’azione, delle passioni e
delle amarezze. Lo fa con grande
serenità e onestà. La cosa che viene
più facile è sparlare di un’amante
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
che ha tradito, trasformando l’amore in odio rancoroso e spirito di rivalsa o di vendetta. A Zanoni va riconosciuto che non si è mai lasciato andare in nulla del genere: da
ogni parola, da ogni riga, viene fuori l’intensità del suo impegno e la
forza delle sue convinzioni. Si ha
una visione diversa del movimento
e delle sue pulsioni e si capisce veramente quale sia stata la forza vera
e l’energia potenziale che si è sviluppata in Padania negli ultimi anni di un Novecento finito un po’
mestamente.
Vi si trova l’impegno nel voler effettuare un’analisi, nel cercare risposte, nel capire dove e chi ha sbagliato, come è stato possibile sciupare
una occasione forse irripetibile.
Non ci sono attacchi, non ci sono
insulti, non c’è nessun tentativo di
scaricare la croce addosso a nessuno: questa è la vera forza e bellezza
di questo libro in cui tutti i militanti e tutti i padanisti non possono
non riconoscersi. Non è un “come
eravamo”, e neanche un “come
avremmo potuto essere” ma un
“come avremmo dovuto essere” per
farcela. Sono tante pagine di amarezza e di lucidità dietro le quali
non scompare però mai la speranza. Non a caso, il libro si conclude
riportando le parole che l’indipendentista basco Arnaldo Otegi ha
pronunciato al funerale di una giovane etarra (patriota): “Come tu ti
sei creata, altri si creeranno; il
combattimento è il cammino”.
G.O.
Ettore Beggiato,
Il referendum del 1866:
la grande truffa (Venezia:
Editoria Universitaria, …)
La storiografia ufficiale, come è
ben noto al lettori dei Quaderni,
ha sempre presentato il raggiungimento dell’Unità d’Italia come una
spontanea sollevazione di popoli
oppressi per secoli da dominatori
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002
stranieri o autoctoni; popoli desideros, finalmente, di riunirsi sotto
un’unica bandiera e casa regnante,
quella dei Savoia, che, per puro
spirito filantropico, si è accollata
l’onere di portare avanti, riuscendovi, questa difficile impresa. Fortunatamente, tuttavia, esistono
anche storici controcorrente che
hanno cercato di scardinare questo quadretto idilliaco sottolineando, da una parte, il mero desiderio
della dinastia sabauda di ampliare
il proprio territorio, ed entrare cosi nel novero delle grandi potenze
europee e, dall’altra, l’assenza totale di coscienza “nazionale” delle
popolazioni i cui territori sarebbero andati a comporre il Regno d’Italia. All’interno di questa corrente
storiografica revisionista nei confronti dell’epopea risorgimentale,
si inserisce il libro di Ettore Beggiato, noto esponente dell’autonomismo veneto, intitolato Il Referendum del 1866: la grande truffa
che, come il titolo suggerisce, esamina gli eventi che portarono all’annessione del Veneto al giovane
e traballante Regno d’Italia. Come
è noto, i Savoia, non possedendo il
potenziale bellico necessario per
poter muovere guerra all’Austria
per conquistare il Veneto da essa
posseduto dopo il trattato di Campoformio del 1797 (salvo la breve e
luminosa esperienza della Repubblica di San Marco sotto la presidenza del Manin del 1848-49), approfittarono della guerra scoppiata
tra la Prussia e l’Austria per attaccare quest’ultima quando essa era
impegnata sul fronte prussiano.
Nonostante la situazione politicomilitare fosse molto favorevole, gli
Italiani furono sconfitti a Custoza
e nella battaglia navale di Lissa. A
proposito di Lissa, ecco una notazione particolare che nei libri di
storia tradizionali è arduo trovare:
molti marinai della flotta austriaca
erano veneti e, una volta sconfitta
la flotta italica, essi festeggiarono
Biblioteca
Padana
la vittoria inneggiando a Venezia e
a San Marco sperando che gli
eventi bellici potessero preludere a
una rinascita della Serenissima
Repubblica Veneta. La storia, purtroppo, non andò in questa direzione: l’Austria, che aveva subito
una pesante sconfitta sul fronte
prussiano, si trovò costretta a cedere il Veneto ma, non riconoscendosi sconfitta sul fronte italiano,
inferse un’ultima umiliazione ai
Savoia cedendo il Veneto alla Francia che poi lo concesse all’Italia
(pace di Vienna, 1866). Per salvare
la faccia, i nuovi padroni del Veneto fecero attuare un referendum
per sancire l’annessione al Regno
d’Italia. Referendum, dunque, che
serviva soltanto a confermare ciò
che era già stato irrevocabilmente
deciso dai plenipotenziari dei sovrani nelle sale ovattate del castello di Schönbrunn; una barzelletta
dall’esito scontatissimo, in quanto
il voto non era segreto poiché le
schede che recavano la scritta SI e
NO erano di colore diverso, la popolazione, in gran parte analfabeta, faticava a capire per che cosa
stesse votando e infine la propaganda martellante dei nuovi conquistatori a cui anche il clero diede un grosso contributo tacciava
di vigliaccheria chiunque si fosse
espresso contro l’annessione. Questa è, come sottolinea con puntuale documentazione ed amara ironia l’Autore, la verità storica, forse
più banale e meno intrisa di virtù
eroico-patriottiche di come ci è
sempre stata presentata ma sicuramente più utile per comprendere i
fenomeni politici che hanno segnato la storia della Padania e del
Veneto negli ultimi anni.
Elena Erri
Quaderni Padani - 57
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Sergio Salvi
Nascita della Toscana. Storia
e storie della marca di Tuscia
Firenze: Le lettere, 2001
Pagg. 444 - e 25,30
Sono pochissimi gli autori che
possono vantare il credito che Sergio Salvi ha accumulato nella formazione di una cultura autonomista. Da ormai tre decenni questo
toscano colto e appassionato ci
fornisce materia di studio e di riflessione ma anche strumenti cul-
turali di lotta identitaria. Ha cominciato con le minoranze etnolinguistiche, ha continuato con il
più feroce e intelligente sbertucciamento del nazionalismo italione con il fondamentale L’Italia
non esiste (che è stato fatto sparire
dalla circolazione e che il mondo
autonomista continua masochisticamente a non ristampare), ha fatto autobotti di flebo di identità a
padani pavidi ed emaciati.È infatti
paradossalmente proprio il movimento padanista quello che ha ac58 - Quaderni Padani
cumulato i maggiori debiti nei
confronti di Salvi che si è conquistato, fuori di ogni dubbio, il merito di essere “il più padanista dei
non padani”.
In qualche modo continua la sua
impagabile missione anche in questa ultima fatica che ha dedicato a
studiare e svelare le origini storiche della sua Toscana. Poche altre
nazioni o comunità possono vantare una così dettagliata e appassionata certificazione di nascita. Il
libro descrive con una dovizia infinita di dettagli e di annotazioni i
secoli nei quali, a cavallo dei primi
due millenni cristiani, si è formata
la Toscana moderna, in realtà la
Toscana tout court. Quello che
rende gradevoli e ineguagliabili i
libri del Salvi è proprio la partecipazione con cui descrive le vicende
e le persone, quasi come se partecipasse accalorato a una partita
della sua Fiorentina: non riesce ad
essere neutrale. Ha una precisa posizione su tutto, è entusiasticamente partigiano e lo dice. È cosa
che lo fa superiore a tutti gli accademici che pretendono di trattare
asetticamente la storia ma che
storpiano con ipocrita partigianeria ideologica.
Salvi è spinto dall’amore per le
identità forti e per le loro libertà:
la sua narrazione è un torrente in
piena che avvolge tutto con notizie, rimandi, spiegazioni, collegamenti e interpretazioni. Parla di
Toscana ma ci racconta di Impero,
di Costantinopoli, della Sicilia e di
vicende moderne che sono logicamente conseguenti a quelle storie,
lontane nel tempo ma così vicine e
attuali per continuità ideale e contenuti morali. Anche trattando
della sua terra, Salvi non tralascia
di descrivere vicende padane: si
trovano più informazioni ed elementi di padanità qui che nella più
parte di libri sussiegosamente dedicati in veste “ufficiale” alla Cisalpina. Vi troviamo notizie sulle evo-
luzioni del potere, sulle eresie e
sulla storia religiosa, sui rapporti
fra le città, sulla nascita dei Comuni, sulla toponomastica e sul formarsi dell’identità padana in parallelo con quella toscana. È una antica comunanza che risale alle lontane e sfortunate lotte di Celti ed
Etruschi contro i Romani, all’essere rimaste terre dell’Impero (la
parte “europea” dello stivale), nell’avere vissuto la stessa intensa
esperienza comunale e rinascimentale, fino all’essere – ancora
oggi – vittime della stessa oppressione. Il libro non può mancare
nello scaffale di ogni autonomista
ma – in particolare – di tutti i padanisti: la Padania vi compare dietro ogni angolo e spesso è protagonista della narrazione.
Naturalmente l’oggetto principale
della trattazione è la Toscana e la
toscanità di cui Salvi descrive e
colloca con precisione e correttezza origini e struttura, liberando il
campo da ogni residuo di ambiguità storiografica italianista che
introduce spesso a sproposito idee
di una etrusticità un po’ fantasiosa
o rimandi medicei.
Oltre ai contenuti, il lavoro è
estremamente godibile per almeno
altre tre particolarità: la ricca dotazione cartografica (che è una lodevole costante dei libri del Salvi),
la precisione delle note e l’entusiasmante opulenza dei rimandi, e il
modo di scrivere simpatico e a volte addirittura scanzonato. È un
piacere sentire Salvi nelle sue conferenze (credo sia uno dei pochi
studiosi che non abbia mai fatto
annoiare nessuno) ed è una gioia
leggerlo. Su quest’opera ha lavorato per anni ed è un gigantesco,
fondamentale tassello nel grande
mosaico policromatico della storia
delle autonomie.
Ci piacerebbe che la sua prossima
fatica riguardasse la nascita della
Padania.
Gilberto Oneto
Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002