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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VIII - N. 40 - Marzo-Aprile 2002 ✓ Il sistema in cui viviamo è proprio un sistema democratico? ✓ Troppo Stato, troppa Italia ✓ Devolution: Padania non fa rima con Gran Bretagna ✓ Lombardo-Veneto e Impero asburgico 40 La Libera Compagnia Padana Quaderni Padani Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara Tel. 333-1416352 E-mail: [email protected] Sito Internet: www.laliberacompagniapadana.com Direttore Responsabile: Alberto E. Cantù Direttore Editoriale: Gilberto Oneto Redazione: Alfredo Croci Corrado Galimberti Elena Percivaldi Andrea Rognoni Gianni Sartori Carlo Stagnaro Grafica: Laura Guardinceri Sui Quaderni sono pubblicati testi di: Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante, Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Augusto Barbera, Fabrizio Bartaletti, Alessandro Barzanti, Batsòa, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Massimo Bonini, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Gustavo Buratti, Beppe Burzio, Luca Busatti, Lorenzo Busi, Ugo Busso, Massimo Cacciari, Giulia Caminada Lattuada, Alessandro Campi, Antonio Cardellicchio, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo De Leonardis, Alexandre Del Valle, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Gigi Ferrario, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Roberto Formigoni, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli, Corrado Galimberti, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Marco Giabardo, Davide Gianetti, Renato Giarretta, Giacomo Giovannini, Flavio Grisolia, Michela Grosso, Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Aldo Marocco, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian Merlo, Martino Mestolo, Ettore Micol, Gianfranco Miglio, Leo Miglio, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Patrizia Patrucco, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Giulio Pizzati, Mario Predabissi, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Alberto Quadrio Curzio, Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar, Romano Redini, Rocco Ronza, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Hans Sedlmayr, Marco Signori, Giovanni Simonis, Stefano Spagocci, Marcello Staglieno, Alessandro Storti, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Stefano Talamini, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Alessandro Vitale, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili. Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95 Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti a “La Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. Il materiale non viene restituito. Periodico Bimestrale Anno VIII - N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Troppo Stato, troppa Italia - Brenno Il sistema in cui viviamo è proprio un sistema democratico? - Gian Luigi Lombardi Cerri Devolution: Padania non fa rima con Gran Bretagna - Stefano Spagocci Resistenza fiscale - Gianfranco Miglio Per la riattivazione culturale dei territori - Giulia Caminada Lattuada I militari lombardi e veneti nell’Imperial Regio Esercito (1848-1866) - Alberto Lembo Lombardo-Veneto e Impero asburgico - Corrado Galimberti Documenti informativi sull’Impero asburgico Legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867 La stella ed il triskele - I Celti e Israele: confronto fra due civiltà antiche - Patrizia Patrucco Organizzazione politico-amministrativa della Repubblica Veneta - a cura dell’Associazione 1 3 5 8 9 10 17 24 26 28 30 L’insediamento di Monte Bibele - Alessandro Barzanti 34 Francesco Formenton: un federalista vicentino - Renato Giarretta 41 La bandiera di libertà dell’Arpitania Cisalpina - Joseph Henriet 44 La trota marmorata - Gigi Ferrario 45 Gallignano: annotazioni su un borgo padano - Mario Predabissi 47 La Libertà degli Altri 52 Biblioteca Padana 56 Culturale “Bepi Viscovich” - Treviso Troppo Stato, troppa Italia D al dibattito politico degli ultimi mesi sembrano sformandoli in discussioni, in pettegolezzi, in orge essere spariti il liberismo e la Padania. Tanti di parole inconcludenti. Nel frattempo, chi voleva sembrano fin troppo occupati in problemi di ribaltare tutto viene coinvolto, circuito, blandito, governo e di sottogoverno, tanti sono presi da alchi- comperato e poi – passato il pericolo – buttato via. mie governative, da codicilli, leggi e cabale ammini- Oggi non si discute più di libertà o di cambiamenti strative. Pare che non si voglia più cambiare radical- epocali, di indipendenza, di autodeterminazione o mente le cose ma che si voglia procedere adelante secessione, ma ci si perde in infiniti minuetti su arcon juicio, per piccoli passi, silenziosamente, facen- ticoli di legge, su interpretazioni, in defatiganti do finta di niente o di camminare nel senso opposto, schermaglie su dettagli insignificanti e sull’assegnafacendo cambiamenti che non diano fastidio al siste- zione di cadreghe e di strapuntini. ma. I soli cambiamenti che non danno fastidio al siNon è cambiato nulla, non si è ottenuto nulla: sostema sono quelli che non cambiano niente. E quin- lo qualche patetica concessione lessicale: oggi si di non si cambia nulla. chiama federalismo il solito centralismo, si chiama Negli anni passati il mondo autonomista, ma an- decentramento la solita moltiplicazione delle buroche l’intera comunità padana e – di riflesso – la re- crazie, si chiama federalismo solidale la solita rapina pubblica italiana erano invece stati percorsi da venti istituzionalizzata, si chiama federalismo fiscale l’autumultuosi di cambiamento delle tasse. Il rimento radicale, di ribaltamento e la distorbaltamento generale sione del significato di strutture vecchie, delle parole finiscono obsolete e oppressive. per generare odio e diNon ci si poteva realisprezzo anche per il sisticamente aspettare gnificato che quelle nessun esito sconvolparole avevano all’origente (è un paese che gine. Se autonomia e di suo non ha mai federalismo – ad esemcambiato nulla) ma pio – erano stati invenche – vista l’entità dei tati per dare più libertà tuoni – cadesse almee meno tasse, oggi si no un po’ di pioggia chiamano autonomia e che ripulisse l’aria. E federalismo manovre invece, niente! che portano meno liDopo 15 anni e pasbertà e più tasse, e tutti sa di lotte autonomiste finiscono per odiare e padaniste ci si trova autonomia e federaliMostro a due teste. Disegno di Silvio Cadelo oggi ad affrontare gli smo e rimpiangere il stessi, eterni procentralismo più bieco: blemi. Con la sola differenza che i problemi si sono la libertà era poca anche allora ma almeno si pagavaincancreniti e sono stati quasi metabolizzati: la no- no meno tasse. stra gente è stanca e sfiduciata da continui inutili Non è neppure vero che le cose non siano cambiaassalti contro un muro di gomma i cui difensori si te: sono peggiorate. Oggi c’è ancora più Stato, ancosono fatti ancora più furbi. Dopo un primo momen- ra più Italia. Lo Stato è dappertutto. Forse non proto di terrore, quando hanno davvero avuto paura duce più in prima persona panettoni o automobili che tutto venisse ribaltato, questi hanno capito che ma ne condiziona diffusione, prezzo e sapore. Forse basta fare passare il tempo (il pelasgico “ha da passà le ferrovie non sono più “dello Stato” ma non funa nuttata” è diventato l’universale rimedio per ogni zionano lo stesso, è lo Stato che le gestisce, che ascosa), che per non risolvere i problemi basta parlar- sume (e non licenzia), che fissa le tariffe e tiene ne e parlarne fino alla noia e all’esaurimento, tra- sporchi i cessi. È sempre lo Stato che si occupa di Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 1 pensioni, malattie, scuole. Se ha ceduto qualcosa lo ha fatto a favore di carrozzoni pubblici (e monopolistici) o di altri enti pubblici, sempre senza trasferire loro i soldi per gestirli. Se qualche baraccone non è più “statale” in senso lessicale, è comunque “pubblico”. Poco importa al cittadino se il funzionario che lo assilla (dietro un vetro bisunto e un’unghia del mignolo a paletta) sia pagato dallo Stato, dalla Regione o da qualche altro marchingegno burocratico gestito da politicanti e da inamovibili maneghetta. Il cittadino padano è sempre solo quello che paga (sempre di più) e riceve (sempre di meno). C’è dunque troppo Stato: ci sono troppi funzionari, troppe leggi, troppi uffici, troppi balzelli, troppi parassiti, troppi codici, troppi onorevoli ed eccellenze, troppe auto blu, troppo di tutto ciò che è pubblico. Ma c’è anche troppa Italia, con i suoi modi mediterranei di gestire lo Stato, con i suoi funzionari pelasgici neghittosi e arroganti, con i suoi malavitosi, con le mazzette e le tangenti, con le mamme dei soldati e i mammasantissima, con pedofili, pizza e poliziotti televisivi, con le soap opere partenopee, i giudici cavallerizzi, comunisti, intoccabili e sanniti. Ci sono troppe marcette patriottiche, inni nazionali, e tricolori difesi dal Codice Rocco, ci sono troppi furbi, finti invalidi, cassintegrati a vita, statali dal posto fisso, lavoratori in nero, lavoratori socialmente utili, lavoratori finti. Troppi guitti e registi sapüta, attrici sbernardite, vulcani e smottamenti, televisioni piene di accenti gutturali mediterranei, politici mafiosi, stallieri, faccendieri a agazioloieri. Si è perso il senso della nostra battaglia che è contro il troppo Stato e contro la troppa Italia, che è liberista e padanista. Ci siamo lasciati impegolare in turgori confessionali, in questioni di provette e di fecondazioni, in menate demografiche, in melasse familistiche, nel paciocco dello statuto dei lavoratori, in rogatorie, in falsiinbilancio, in diecimila pietanze che non c’entrano con la nostra battaglia di libertà e di indipendenza. Anzi no, c’entrano e come: sono menate stataliste e italianiste, sono la brodaglia con cui lo Stato italiano e l’Italia statalista cercano di invischiare la battaglia di libertà. E purtroppo ci riescono. Italia e Stato vanno bene assieme, è lo statalismo che ha inventato l’Italia e il suo patriottismo, e che ne ha permesso la sopravvivenza, è l’Italia mediterranea che ha inventato lo statalismo più appiccicoso e inefficiente. Qui non potrebbe sopravvivere lo statalismo senza l’italianità, e senza lo statalismo (e i suoi codici e sbirri) l’Italia tornerebbe a essere solo una espressione geografica. Non si combatte lo statalismo senza combattere l’italianità o peggio in nome dell’italianità come dicono di fare certe destre (ed alcuni sedicenti indi2 - Quaderni Padani pendentisti). Non si combatte l’italianità nazionalista in nome dello statalismo internazionalista come hanno fatto le sinistre per decenni (ora sono stataliste e italianiste proprio come i fascisti). Statalismo (di Stato, di Regione, di qualsiasi altra forma oppressiva e illiberale che non sia la perfetta espressione della libera volontà di aggregazione delle comunità e delle loro identità più profonde) e italianismo (patriottico, nazionalistico fintofederalista o pateticodecentralista) vivono in una perfetta simbiosi parassitaria a danno della gente padana. Se vogliamo davvero (ricominciare, o non smettere di) combattere la nostra battaglia di libertà e di autonomia dobbiamo combattere contro il mostro che ha due teste altrettanto fameliche e pestifere. È l’ideologia stessa dello statalismo, con la sua prepotente occupazione di tutti gli spazi individuali e comunitari, che va combattuta. Lo Stato va smagrito energicamente e ridotto a poche mansioni essenziali (la politica estera, i gradi alti di giustizia, la difesa, funzioni di indirizzo e di coordinamento) e gli va assolutamente tolto il controllo delle risorse economiche. Non serve infatti cercare amministratori o funzionari più onesti e capaci, o fare leggi di controllo più avvedute: finchè ci sarà qualcuno che gestisce un potere non affidato e controllato dal basso, che decide per gli altri o qualcuno che usa i soldi degli altri, ci sarà sempre qualcuno che fa porcate o che ruba. Sgonfiando lo Stato e il suo costoso apparato oppressivo si sgonfia anche l’Italia: l’idea stessa di Italia sopravvive grazie alle leggi fasciste, ai tanti corpi di polizia, a un sistema scolastico inetto e propagandistico, ad apparati repressivi e ricatti economici basati sull’arbitrio di distribuire risorse rapinate a una parte di cittadini. Lo Stato pretende giustificazione ideale dal concetto di Italia che si è inventato per una sorta di legittimazione morale. Sgonfiando l’Italia lo Stato resta solo un macchinario di rapina, una grossa associazione di parassiti che vivono alle spalle dei ceti produttivi. Vanno sgonfiati tutti e due, e contemporaneamente. Se ci si depura solo dello Stato, l’Italia conserva le sue tossine e finirà inevitabilmente per ricostruire un marchingegno di sfruttamento che le permetta di sopravvivere. Se ci si libera solo dell’Italia, lo Stato si inventerà un altro Golem ammantato di finta sacralità per coprire le proprie inevitabili e fisiologiche malefatte. Oltre a tutto, chi oggi vive di Stato si è – indipendente dalla propria origine – intimamente italianizzato e dovrà per forza ricostruirsi un pantano nel quale poter sopravvivere. Il mostro ha due teste: vanno recise entrambe. C’è troppo Stato, c’è troppa Italia. E c’è poca libertà. Brenno Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Il sistema in cui viviamo è proprio un sistema democratico? di Gian Luigi Lombardi-Cerri È una domanda che sempre più spesso un numero crescente di cittadini si pone. Tenteremo di dare una risposta per ciò che riguarda l’Italia, anche se la stessa problematica si presenta all’estero, pur variando sensibilmente da nazione a nazione, con una percentuale di variazione strettamente connessa alla sensazione che ha la gente di far parte o meno di un meccanismo democratico. Ma veniamo all’Italia. Democrazia è un vocabolo che ci si ritrova tra i piedi a ogni stormir di fronde. Lo usano più spesso del lecito persone e partiti che di tradizione democratica ne hanno assai poca, talchè l’uso dell’avverbio e dell’aggettivo, appiccicato al vocabolo che definisce la funzione tende quasi sempre a coprire l’esatto contrario. Di un sistema definito democratico il soggetto più importante è (o almeno dovrebbe essere) il popolo: il quale popolo, non potendo governare direttamente lo fa attraverso suoi rappresentanti. Ma qui viene il bello! Chi sceglie i rappresentanti? Tutti salvo il popolo. I candidati sono infatti scelti dalle segreterie dei partiti attraverso lotte a coltello sulle quali meglio è stendere un pietoso velo. Può un Rossi qualsiasi candidarsi al di fuori di un qualsivoglia partito? Ci provi. I candidati sono quindi scelti da una congrega che con il cosiddetto popolo ha ben poco a che fare. E il popolo che fa? Vota . Ma avendo solo due alternative. O sceglie nel mazzo dei partiti. O non va a votare (cosa che si verifica sempre più spesso e che viene spiegata elegantemente, nonché evasivamente con il termine di “astensione fisiologica”). Se uno decide di votare allora deve scegliere tra i programmi che i partiti gli presentano. Ed eccoci ai programmi. Salvo piccole sfumature sono tutti uguali, poiché, oltretutto, stanno nel generico il più possibile per non compromettersi, talchè letto un programma sono letti tutti. A elezioni fatte vince un partito (anche se sistematicamente dichiarano tutti di aver vinto). Credete forse che realizzi quanto promesso? Neanche per sogno. Il noto Giulio nazionale davanti ad una precisa domanda in proposito rivoltagli dal sottoscritto ha risposto: “Ma una promessa elettorale non è una cambiale che si può portare all’incasso!” Capito? Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 E per evitare equivoci i padri fondatori della Costituzione si sono subito premurati di scrivere a caratteri di scatola che “il mandato parlamentare non è vincolante”, con un significato così chiaro da non richiedere ulteriori spiegazioni. Vediamo da vicino la vita parlamentare. Un neofita si aspetterebbe di vedere dibattere, in Commissione e in aula, leggi relative a problemi scottanti. Niente di più errato. Si discutono invece, nella maggior parte dei casi leggi di ben scarsa utilità. Il risultato è che oggi ci troviamo in funzione 150.000 leggi (così dicono gli ottimisti), 250.000 leggi (secondo i pessimisti). È chiaro che in questa massa di regole il furbo riesce a trovare tutto e il suo contrario. Il senso che pervade tutte le attività parlamentari è quello in base al quale il popolo è l’ultimo pensiero di chi legifera, per cui spesso l’idea ricorrente non è quella di realizzare “il volere del popolo”, bensì “il bene del popolo”. Chiara d ifferenza tra il principio della democrazia e quello della dittatura. Ed è così conculcata l’idea di “fare il bene del popolo” che quasi mai i parlamentari si preoccupano di sondare l’opinione del popolo stesso, salvo che, interpellando la stampa che, come è ben noto, costituisce casta a se sestante, sempre pronta a correre in aiuto del vincitore. Nei rari casi in cui il popolo è stato interpellato attraverso referendum, si è fatto di tutto per confondere le carte in tavola e nei casi in cui gli elettori si sono espressi con chiarezza, (come ad esempio per l’abolizione del ministero dell’agricoltura) i detentori del potere hanno cambiato solamente il nome dell’ente che la gente voleva fosse abolito. Le poche volte che i parlamentari hanno la chiara sensazione di come la pensi la gente fanno finta di farla interpellare ufficialmente attraverso la stampa (come nel caso della pena di morte, nel caso del blocco dell’immigrazione clandestina e in moltissime altre situazioni), per evitare il pericolo di clamorosi dissensi da referendum. Nei casi di dissensi che inopinatamente sfuggano al controllo sono pronti gli slogan tampone: “fascista” (tutte le volte che un tizio esprime un pensiero diverso, anche se ormai in disuso perché a furia di ripeterlo la gente si è chiaramente scocciata); “razzista” (usandolo senza preoccuparsi della logica e del suo significato espresso dai vocabolari delle lingua italiana); “qualunquista” (epiteQuaderni Padani - 3 to che viene rivolto a tutti coloro che usano criticare l’attuale “sistema” di governo). La stessa pignolesca mania di Stato centralista è un chiaro indice di come si voglia tenere l’elettore il più lontano possibile dai centri decisionali. Nella palude di una democrazia sempre più latitante si è sviluppato il cancro della burocrazia. Burocrazia non vuole solo dire lentezza operativa (e quindi maggiori costi a carico del cittadino), ma anche potere ben maggiore del potere dei Parlamentari. La burocrazia ha infatti le seguenti possibilità di inficiare leggi che le creino disturbi: 1.- Non redigere il Regolamento attuativo, per cui una legge, anche se approvata dai due rami del Parlamento, rimane inoperante. 2.- Redigere un Regolamento che capovolga i contenuti della legge. Il Regolamento, infatti, dovrebbe solo dettagliare le modalità applicative di una legge. Invece, spesso e volentieri costituisce una legge surrettizia che modifica la prima nelle parti che alla burocrazia danno fastidio. 3.- Emettere le cosiddette Circolari esplicative, che più che esplicative sono imperative. Attraverso spiegazioni volte a chiarire dubbi interpretativi di una Legge, si forniscono “certezze” che vanno spesso contro lo spirito della legge stessa. Di questo il potere ha sempre approfittato a piene mani. Un altro punto da evidenziare, che mette in risalto il crescente allontanamento dalla democrazia, è rappresentato dal comportamento dei Parlamentari eletti. Costoro, invece di verificare continuamente se il loro comportamento è consono ai desiderata degli elettori, mantengono i contatti o esclusivamente con una ristretta cerchia di “amici” o attraverso incontri pubblici in cui tutto è permesso salvo il sia pure corretto ed educato contraddittorio. Per evitare guai hanno perfino ingessato le vecchie “tribune elettorali” della televisione, dove, almeno tra di loro, parlavano a ruota libera. Di questi e altri punti di vera antidemocrazia si potrebbe scrivere un corposo volume. Davanti a questo sfacelo è possibile intravedere alcune linee operative volte a modificare la rotta riportandola in direzione della democrazia? Certamente. Prima condizione - Attuare un vero sistema federale, costruito partendo dall’unità di base (la famiglia) e risalendo via via alla struttura centrale (molto piccola) dello Stato. Parlare di devolution è solo cercare di imbrogliare le carte in tavola. Se si vuole realizzare un sistema federale per passi successivi, lo si dica chiaramente e si indichino i modi e le tappe. Seconda condizione - Sentire sempre il parere degli elettori su temi di vitale importanza (ad esempio, chi 4 - Quaderni Padani ci ha mai interpellato per sapere se volevamo o meno entrare nella zona Euro?), tenendo conto alla lettera del risultato del referendum. Terza condizione - Nessun parlamentare, per nessuna condizione può essere eletto per più di due volte. Si eviterà così il professionismo politico. Gestire la cosa pubblica, checchè ne dicano gli ignoranti di organizzazione, è come gestire una grande azienda, con la differenza che l’obiettivo può essere non solo di tipo economico, ma anche di tipo sociale (purchè economicamente sostenibile). Quarta condizione - Per essere eleggibili occorre aver superato i 55 anni, ossia occorre aver terminato la proprio carriera avendo mangiato del pane acquistato con il sudore della fronte. A questo punto il cittadino eletto potrà portare la propria esperienza di vita al Governo del paese e, soprattutto, non essendo più facilmente ricattabile. Così come i cittadini, prima di avviarsi al lavoro, dovrebbero ritornare a prestare un periodo della loro vita al servizio della collettività, analogamente, alla fine della carriera, dovrebbero dare alla collettività i frutti della loro esperienza. Quinta condizione - Semplificare leggi e regolamenti, attraverso l’obbligo dei Testi unici e una normativa cogente sulle modalità di stesura dei regolamenti. Il celebre dettame “non è ammessa l’ignoranza della Legge” ha ormai il sapore di una tragica barzelletta. Chiaramente per la composizione di leggi e regolamenti occorre dare una parola importante a esperti di organizzazione e di comunicazione, diversamente ci si troverà sempre davanti a concetti fumosi e a frasi sibilline. Sesta condizione - Occorre varare il sistema dello spoiling, ossia i ministri si scelgono i capi di gabinetto e i funzionari più importanti. I non scelti vanno a casa: se sono veramente bravi non avranno problemi a trovare nel privato un ottimo posto di lavoro, diversamente andranno a fare altrove il lavoro più attinente alle loro reali caratteristiche e capacità. Settima condizione - Vanno create regole per cui tutti (nessuno escluso) i dipendenti dello Stato possono, in determinate condizioni di errori o di demerito, essere mandati a casa e non trasferiti (magari in città che offrano migliori prospettive). Senza che si attuino almeno queste sette condizioni, ci si trova davanti a una dittatura surrettizia in cui c’è sì la libertà di parola, ma non c’è nessuno che dia ascolto, così come nei paesi chiaramente autoritari si trovava sì la libertà di voto, ma con il voto incanalato nella “giusta direzione”. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Devolution: Padania non fa rima con Gan Bretagna di Stefano Spagocci D evolution: questa parola magica risuona spesso e volentieri nei discorsi di esponenti leghisti più o meno noti. Il ragionamento è certo chiaro e rispettabile: le circostanze storiche impediscono il perseguimento di una scelta indipendentista, la cosiddetta “entrata in Europa” ci ha privati di una formidabile arma, nessuno comunque è disposto a lottare più di tanto per la Padania. Puntiamo dunque ad ottenere quello che si può e confidiamo nell’evoluzione della storia, che svuoterà di significato i vecchi stati nazionali. Discorso rispettabile, lo ripetiamo. Ma con grossi rischi, se non correttamente inteso. Alcuni dubbi A proposito di devolution, si cita spesso e volentieri l’esempio scozzese. In Scozia, si afferma, la devolution ha portato a una rinnovata coscienza identitaria e a una forte autonomia. Ciò è sostanzialmente vero, peraltro. Almeno se non si confonde la Gran Bretagna con il Regno Unito, data l’infelice situazione dell’Irlanda del Nord (della quale non discutiamo in questa sede). E se non si dimentica che la devolution in Scozia ha suscitato assai meno entusiasmi di quanto si pensi (ma essere più realisti del re è tipico vizio italico, e purtroppo anche padano). Non vogliamo affatto negare la positività del processo devoluzionistico in Gran Bretagna. Gran Bretagna, e non solo Scozia, per non dimenticare il Galles o le tensioni autonomiste nella stessa Inghilterra, realtà che esistono, anche se le cornamuse fanno più folklore. Ciò di cui dubitiamo è che quello scozzese possa essere un esempio trasportabile meccanicamente da noi. E che, addirittura, una sua non corretta applicazione possa rafforzare quella italianità dalla quale noi bramiamo di liberarci (e dalla quale pensiamo, paradossalmente ma non troppo, che anche gli italiani peninsulari dovrebbero bramare di liberarsi). Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 La Scozia… Spieghiamoci dunque meglio. La filosofia che sottende la devolution scozzese è in effetti quella di una coesistenza tra lo stato nazione britannico e le sue piccole patrie. Unità nella diversità, secondo uno slogan ormai degradato dall’uso politicamente corretto che se ne è fatto. Ma in quali condizioni la Scozia ha affrontato la devolution? In Scozia esiste una forte coscienza identitaria. Coscienza che non è sempre stata posseduta dagli Scozzesi, come spesso invece si afferma. Coscienza rinata (o forse anche nata, almeno nelle forma attuale) nell’ultimo cinquantennio. Coscienza che, nella forma “celtica” quale noi la conosciamo oggi, non è comunque anteriore al XVIII secolo. Ma coscienza che oggi esiste in una parte molto rilevante della popolazione. Gli Scozzesi sono dunque giunti alla devolution sorretti da una forte coscienza identitaria. E’ quindi automatico per loro identificarsi nella piccola patria. Riguardo alla grande patria, non si può negare che in Gran Bretagna sia assente la tronfia retorica del nazionalismo italiano. Non si può negare come ogni britannico conosca le proprie origini etniche e riconosca la presenza di diverse identità etnoculturali all’interno del proprio stato. A nostro parere, non si può nemmeno negare che la storia della Gran Bretagna sia a suo modo una grande storia. Questo senza nulla togliere al fatto che all’Inghilterra dei pirati preferiamo di gran lunga quella del Medioevo delle abbazie e delle cattedrali. In Gran Bretagna ci sono quindi le premesse, per chi rifugge dagli indipendentismi, per identificasi in una grande patria unita nelle diversità delle piccole patrie. A scanso di equivoci, precisiamo di non stare facendo propaganda allo stato britannico. Noi sosteniamo ardentemente l’Europa dei popoli, di cui la Scozia sarebbe una colonna portante. Diciamo solo che chi in Gran Bretagna rifugge Quaderni Padani - 5 dal discorso indipendentista, per realismo o per convinzione, può far coesistere grande patria e piccola patria in maniera rispettabile. E soprattutto senza compromettere la costruzione di un’identità nazionale scozzese, e dunque le prospettive di una futura indipendenza. … e la Padania A nostro avviso, la situazione in Padania è invece molto diversa. La coscienza identitaria, anche a livello delle singole regioni/nazioni, è debole. Una parte notevole della popolazione ignora le proprie radici o le rifiuta coscientemente, ritenendo che parlare di identità locali sia una superstizione del passato. Chi conosce le proprie radici dà spesso all’identità locale un significato nostalgico e folkloristico, che non mina in alcun modo i dogmi dell’italianità. Dogmi cui magari non si crede fino in fondo, ma che si accettano come un fatto della vita. Questo per quanto riguarda le piccole patrie. Per quanto riguarda la grande patria (che noi ovviamente rifuggiamo dal definire così), sappiamo tutti quanta tronfia retorica si celi dietro l’italianità. Quante ore spese a sonnecchiare sui banchi di scuola, cullati da insegnanti intenti a trasmetterci i dogmi dell’italianità, leggendo senza convinzione testi vecchi e ampollosi. Sappiamo di cosa è fatta la cosiddetta italianità. L’orgoglio di considerarsi furbastri mediterranei. Il pressappochismo elevato a sistema. Il sentimentalismo peggiore. Cuore che fa rima con amore. Il razzismo al contrario di chi non sa mettere piede fuori dai propri confini senza disprezzare le civiltà percepite come nordiche. O, da parte colta, il riconoscere tutte queste caratteristiche come tipicamente italiane per poi, a seconda dei giorni, o considerarle ineliminabili oppure auspicare una nuova Italia, laica liberale ed avanzata, che però da 150 anni non arriva mai. I rischi che corriamo Certo, con questa “grande patria” non è facile, e salutare, identificarsi. E noi dubitiamo che dell’italianità si possano dare altre interpretazioni. A meno di persuadere gli abitanti dell’area geografica italiana che le loro più profonde identità siano residui di un passato da dimenticare o da confinare solo nell’ambito nostalgico. Troppo diverse sono le storie e le mentalità tra il sud ed il nord dell’area geografica italiana, per pensare di farle convivere in uno stato da 6 - Quaderni Padani tutti rispettato e sentito proprio. Possono convivere, questo sì, nell’ambito di una concezione dell’italianità furbastra e mediterranea nel peggior senso della parola. D’altra parte, il tentativo di creare dei buoni cittadini italiani, riconciliati sotto il segno di una religione civica della patria italica, ci sembrano destinati a fallire. Questo nonostante il massiccio contrattacco che il nazionalismo italiano ha sferrato negli ultimi tempi. Con poche reazioni, occorre dirlo, e anzi con qualche accondiscendenza, da parte del Movimento che a tale nazionalismo dovrebbe opporsi. Ed è questa arrendevolezza, anche se giustificata da esigenze tattiche, che ci preoccupa. Vediamo infatti il rischio che il processo devolutivo divenga una scusa per ammansire il Movimento che lo ha promosso, convincendolo che sia arrivata l’ora di sotterrare l’ascia di guerra ed essere ragionevoli. Noi non disprezziamo affatto la ragionevolezza. Ma, come già detto, la Scozia è giunta alla devolution con una forte coscienza identitaria. E nell’ambito di uno stato nazionale che, a prescindere da ogni giudizio di valore, ha una grande storia alle spalle ed una grande tradizione di lealtà di molti suoi cittadini, anche scozzesi. La Padania arriverà alla devolution con una debole coscienza identitaria (o, meglio, con una coscienza identitaria espressa quasi sempre in forma di nostalgia e/o sterile borbottio) e con uno stato nazionale fondato su di una retorica vuota e ampollosa, uno stato mai veramente rispettato dai suoi cittadini se non in quanto dispensatore di favori e privilegi. La troppa ragionevolezza, nell’ambito italiano, rischia di seppellire il progetto padano, facendo tornare le tensioni identitarie nell’ambito folkloristico e nostalgico e impedendo di nuovo la messa in discussione del dogma dell’unità italiana. E poco importa se si parlerà di unità nella diversità: troppo radicata è in Italia la tendenza a cambiare tutto per non cambiare nulla, per potersi fidare di tale slogan. Ciò vale in modo particolare se ci riferisce alla Padania. Molti Padani hanno purtroppo l’abitudine di lamentarsi dello stato centrale, per poi non trarre alcuna conseguenza da tali lamentele. Hanno la tendenza a lamentarsi in privato della propria identità calpestata, per poi legittimare in pubblico l’italianità, quasi che la perdita di identità sia un processo ineluttabile, da contemplare senza troppo lamentarsi. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Cosa fare Sorge allora il problema di cosa fare per scongiurare questi rischi. Noi non vogliamo proporre un ritorno alla politica del tutto e subito, che a suo tempo ci ha portati a premature illusioni. Pensiamo però che non si debba rinunciare a perseguire l’indipendenza della Padania quale fine ultimo del processo devolutivo. Non c’è contraddizione, a nostro parere, tra l’agire politicamente con realismo e il mantenere l’obiettivo strategico dell’indipendenza padana. Pensiamo inoltre che si debba ingaggiare una dura battaglia identitaria a favore della Padania, battaglia che non è affatto in contraddizione con il perseguimento di una politica realistica. Senza una dura battaglia identitaria, con l’acquiescenza verso una rinata aggressività del nazionalismo italiano, con la troppa mansuetudine e con le professioni di fede verso l’unità italiana nella diversità, a nostro avviso la devolution potrà essere una trappola piuttosto che una vittoria. Non ci riteniamo sterili estremisti, ma riteniamo che quella tra Padania e Gran Bretagna sia una rima molto imperfetta. Note bibliografiche (1) Per una storia della Scozia, e della faticosa (ri)conquista della propria identità, si veda: P. Gulisano, Il Cardo e la Croce (Rimini: Il Cerchio, 1998). Interessanti i dati sulla lentissima conquista di consensi da parte dello Scottish National Party (quasi un cinquantennio). E sui Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 suoi continui ondeggiamenti, a nostro avviso straordinariamente simili, comprese le tentazioni unitariste, a quelli della Lega Nord. Ciò in risposta a chi, anche nella Lega Nord, tende a pensare che la Scozia abbia un naturale diritto all’indipendenza, mentre la Padania sarebbe condannata dalla storia a definirsi come sottonazione della cosiddetta “nazione italiana”. (2) Riguardo all’uso, ed abuso, del termine “celtico”, si veda, S.James, I Celti, Popolo Atlantico (Roma: Newton & Compton, 1999). Sebbene il testo di James possa essere letto come “anticeltico”, a nostro parere (e, ci sembra, a parere dell’Autore) esso dimostra come la Padania abbia gli stessi diritti della Scozia a rivendicare (o non rivendicare) la celticità quale fondamento della propria identità nazionale. È infatti un mito romantico quello della naturale celticità delle Isole Britanniche, ed in ogni caso i “Celti” (padani o scozzesi) di oggi sono inevitabilmente, e legittimamente, una reinvenzione di una passata identità. (3) Sull’italianità, e le menzogne che l’accompagnano, si veda il classico: S.Salvi, L’Italia non Esiste (Firenze: Camunia, 1996). Salvi, notoriamente, è un deciso sostenitore del diritto della Padania alla completa indipendenza. Per una visione disincantata del mito dell’italianità, proveniente da un autore meridionale e vicino alla sinistra, e per questo ancor più apprezzabile per l’onestà intellettuale dimostrata, si veda l’impietosa analisi di: A.Lepre, Italia Addio? (Milano: Mondadori, 1994). Quaderni Padani - 7 Resistenza fiscale* di Gianfranco Miglio È evidente che quando, dentro un sistema politico di antica tradizione, e quindi spesso irrigidito, si coagula una minoranza etnico-culturale, questa trova forti difficoltà e spesso ostacoli insormontabili nell’espandersi e, prima di tutto, nel farsi riconoscere. Ciò accade specialmente là dove l’ordinamento costituzionale non prevede percorsi praticabili per quanti chiedono di ripensare, in senso “autonomistico” o addirittura “federale”, l’assetto del sistema. Ed è proprio in una tale congiuntura che, prima di imboccare la via della ribellione e della secessione, i cittadini “minoritari” sono legittimati, a far valer il diritto naturale all’autodeterminazione, con il ricorso alla “disobbedienza civile”. Vale a dire rifiutandosi di rispettare innanzitutto quelle regole che, nel campo dei diritti civici e nella pubblica amministrazione, umiliano proprio la loro “diversità”. Arrivando poi naturalmente fino a mettere in causa il rispetto dei carichi fiscali, come segno di obbedienza verso un potere non sentito più come legittimo. L’investitura politica, con il passare del tempo, è diventata soprattutto, e primariamente, “mandato a tassare”: cioè licenza che i cittadini (inconsapevoli) accordano ai governanti di manipolare i loro redditi, e dunque una ricchezza “privata”, la quale, se accumulata nel rispetto della legge, dovrebbe essere invece intangibile. È evidente infatti che su quanto una persona guadagna - vivendo in mezzo ai suoi concittadini, scambiando le sue prestazioni con loro e osservando le regole giuridiche del “mercato” - né i concittadini stessi né i detentori del potere possono vantare alcuna pretesa, fondata sul diritto naturale. Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di gran lunga in prima fila tra gli atti di governo. La situazione si è recentemente molto aggravata perché la natura, la struttura e la dimensione delle operazioni finanziarie rendono difficilmente percepibili tali “estorsioni”. È notorio che, per accorgersi di un furto, bisogna avvertire materialmente l’atto dell’asportazione: se di una espropriazione i danneggiati non percepiscono 8 - Quaderni Padani l’effetto entro un certo arco di tempo, è come se il furto non fosse avvenuto. Senza dubbio, quando il prelievo, e soprattutto la sperequazione fiscale (vale a dire la cattiva amministrazione) incidono pesantemente e improvvisamente sul tenore di vita dei cittadini, questi ultimi si ribellano. Non è per caso se le maggiori rivoluzioni politiche d’Occidente (quella puritana nell’Inghilterra del Seicento, e quella francese del 1789) sono state innescate da gravi controversie in materia di tassazione. Soltanto la progressiva trasformazione in senso assolutistico della sovranità (e la crescente arroganza di chi la detiene) hanno condotto a pensare invece l’autorità politica come depositaria della sapienza economica, e arbitra esclusiva della fortuna dei cittadini, ridotti, con le loro risorse e i loro beni, alla totale mercé di chi quell’autorità impersona. Le maggioranze parlamentari di oggi hanno raggiunto, in tema di asservimento fiscale dei cittadini, risultati che i principi assoluti di un tempo non si erano mai sognati. Chi non appartiene alle categorie dei privilegiati e dei protetti, è ormai un suddito “taillable et corvéable à merci”. Mi rendo conto che agli occhi delle persone più timorate e amanti dell’ordine (ad ogni costo) la proposta disegnata in queste pagine di una concreta e organica “disobbedienza civile”, possa rappresentare una prospettiva di instabilità e di contestazioni delle istituzioni: la premessa ad un “disordine permanente”. È una impressione profondamente sbagliata. I popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che tornano poi ogni volta a rifondare, con più solida persuasione, l’ordinamento in cui vivono. La “disobbedienza civile” è così una sorta di “valvola di scarico”, la quale consente ai cittadini di evitare il pericolo dell’obbedienza per abitudine o pigrizia, e quindi di recuperare una fiducia attiva e convinta nel resto delle istituzioni. * Prefazione al Manuale di resistenza fiscale, pubblicato dal Governo Provvisorio della Padania nel novembre 1996 Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Per la riattivazione culturale dei territori Memoria e identità alla base del radicamento e del senso di appartenenza a una terra e alla sua gente. Appunti di vita di Giulia Caminada Lattuada O gni giorno compiamo gesti abituali, ci muoviamo al ritmo delle scadenze esterne o personali, coltiviamo memorie e progettiamo il futuro. E come noi tutte le altre persone. Le esperienze quotidiane sembrano solo frammenti di vita individuali, lontani dagli eventi collettivi più visibili e dai grandi mutamenti che attraversano la storia e la cultura. Eppure in questa trama minuta di tempi, di spazi, di gesti e di relazioni avviene quasi tutto ciò che è importante per la vita sociale. Qui si produce il senso di quello che facciamo e si radicano le energie da cui scaturiscono anche gli eventi clamorosi. Una fenomenologia dell’esperienza quotidiana è sempre parziale, come l’occhio di chi guarda, ma è il punto di partenza necessario per chiedersi come mai per noi e per tanti, i conti sembrano non più tornare. I ritmi accelerati del cambiamento, la molteplicità dei ruoli, l’eccesso di possibilità e di messaggi dilatano l’esperienza cognitiva ed affettiva degli individui che abitano un pianeta diventato società globale, in una misura che non ha paragone con nessuna cultura precedente dell’umanità. I punti di riferimento su cui individui e gruppo fondavano in passato la continuità della propria esistenza vengono meno. La ricerca di dimora dell’identità diventa così vicenda comune e l’individuo deve costituire e ricostruire la “propria casa” di fronte al mutamento incalzante degli eventi e delle relazioni. L’esperienza individuale e i fenomeni collettivi contemporanei riflettono allora potenzialità e dilemmi. Un mondo che scopre la complessità e la differenza non può sfuggire l’incertezza e chiede agli individui di mutare forma restando se stessi. La vita quotidiana porta i segni di questa tensione irrisolta. Le potenzialità e le incertezze di un mondo incommensurabilmente grande bussano pressantemente alle porte dell’essere che si trova sempre più bombardato da un villaggio globale che continuamente sembra minare i fondamenti dell’identità individuale e sociale. A fronte di questo dato di fatto, le radici restano però strettamente ancorate nel locale, nella piccola patria che dà limiti e certezze. La certezza della memoria, della conoscenza di lunga durata, del- Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 le relazioni e degli affetti che riemersi con grande forza nella storia permetteranno di far fronte a testa alta allo spauracchio della globalizzazione. Una globalizzazione il cui arresto è un’utopia ma che ci impone di resistere alla clonazione del cuore e delle intelligenze attraverso la doverosa presa di coscienza di sé al fine di farsi provocatori strumenti culturali a difesa di se stessi e delle comunità di cui si è parte, perché solo dalla riattivazione culturale e identitaria dei territori potrà scaturire un nuovo rinascimento culturale, sociale, dei vari settori dell’economia. La mondializzazione che mira ad omologare e ad appiattire le identità dei popoli per renderli succubi del valore unico dell’economia ha cozzato con le infinite identità locali che colorano la grandezza del mondo. Con l’uomo, i suoi valori tradizionali, le sue radici, la coscienza di sé. Con i luoghi dell’affetto che muovono le intelligenze e scaldano i cuori. L’identità è la capacità di riflessione su noi stessi ma è anche la percezione dell’appartenenza e la capacità di attribuirci gli effetti delle nostre azioni. Che equivale a dire il nostro radicamento e la nostra responsabilità. Ma nello stesso tempo essa esprime anche la nostra esigenza profonda di comunicazione e di relazione, che la struttura atomizzata nella società di massa tende a negarci. E affermando la radice sociale cerchiamo di resistere al processo di riduzione individualistica, alla frammentazione, alla specializzazione burocratico-amministrativa. La natura e la cultura umana si aprono, allora, alla nostra azione consapevole, al recepimento e alla presa di coscienza dei bisogni, segnali della mancanza che tocca a noi riconoscere ed elaborare culturalmente. Questo ci assegna una responsabilità a cui non possiamo più sfuggire. Quella di rispondere consapevolmente alla mancanza che ci costituisce, cioè di decidere chi siamo. Quando tentiamo di rispondere a questa domanda ci occupiamo della nostra identità. Con determinazione. A difesa di noi stessi, dei nostri figli, delle memorie sedimentate nel territorio che ci ha plasmato e che attraverso l’identità culturale ha plasmato il comune sentire di una terra e della sua gente. Quaderni Padani - 9 I militari lombardi e veneti nell’Imperial Regio Esercito (1848-1866) di Alberto Lembo L e regole che prevedevano la leva nei territori del Regno Lombardo Veneto furono definite nel 1820, nel quadro di un riassetto di tale materia esteso a tutti i territori dell’Impero. Il periodo di servizio militare era diviso in due fasi: otto anni di servizio effettivo e due anni nella riserva, ma, in realtà, si veniva posti in congedo (almeno per quanto riguardava la fanteria di linea ) dopo tre anni di servizio. La leva avveniva con estrazione a sorte, tra i chiamati delle varie classi, di un numero di coscritti pari alle necessità di copertura degli organici previsti in tempo di pace. Chi veniva estratto poteva trovare un sostituto che, a pagamento, fosse disposto a sostituirlo nell’obbligo; successivamente, dal 1848, per esattezza, si permise il riscatto dall’obbligo con un versamento diretto alle casse dello Stato. Il Regno Lombardo Veneto contribuiva alle necessità militari dell’Impero, che aveva una forza complessiva di terra in tempo di pace di circa 410.000 uomini, con l’arruolamento, ogni anno, di reclute destinate a entrare negli organici di otto reggimenti di fanteria “italiani”, cioè costituiti con militari di lingua italiana nativi del regno, inquadrati da ufficiali e sottufficiali di carriera che, indipendentemente dalla loro estrazione etnico-linguistica, dovevano conoscere l’italiano. Nel 1848 il Comando dell’Armata di stanza in Italia aveva sede a Milano; dal comandante, Feldmaresciallo conte Radetzky, dipendevano il I Corpo d’Armata, con sede sempre a Milano, e il II Corpo d’Armata, con Comando a Padova. I reggimenti di fanteria dell’I.R. esercito austriaco reclutati in Italia erano, dunque, otto (ognuno su tre battaglioni di circa 1200 uomini), più due battaglioni di cacciatori e due battaglioni presidiari di guarnigione a Venezia e a Mantova, e costituivano oltre un terzo della Fanteria austriaca, che contava nei territori italiani circa 70.000 uomini, e ben oltre la metà della Marina (I.R.Veneta Marina, dove numerosissimi erano anche gli ufficiali di lingua italia- Bandiere dell’esercito asburgico: reggimentale di fanteria (aquila sul verso); bandiera “gialla” (uguale sul verso) e di guerra. 10 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Gradi dell’esercito e della marina asburgici na, uno dei quali, l’ammiraglio Silvestro Dandolo, un patrizio veneto che aveva iniziato la sua carriera come “nobile di nave” – oggi diremmo guardiamarina - agli ordini dell’ammiraglio veneto Angelo Emo) giunse addirittura al comando della stessa nel 1847. I reggimenti “italiani” erano il n.13 “Wimpffen” (costituito con reclute delle provincie di Padova, Vicenza e Venezia), il n.16 “Conte Zannini”, poi, dal 1859, “Werhnardt”, (reclutato nel vicentino e nel trevigiano), il n. 23 “Ceccopieri” (costituito da lombardi di varia provenienza), il n. 26 “Ferdinando d’Este” (reclutato a Udine e provincia), il n.38 “Haugwitz” (costituito da veronesi e bresciani), il n. 43 “Geppert” (costituito da comaschi), il n. 44 “Arciduca Alberto” (formato da milanesi) e il n. 45 “Arciduca Sigismondo” (con reclute del basso veronese e del rodigino); due battaglioni di Cacciatori a piedi, il n. 8 e il n.11, con reclute di varia provenienza, e i due battaglioni presidiari sopra ricordati, completavano le truppe di fanteria. I reggimenti “italiani” erano dislocati nei territori dell’Impero secondo una logica che vedeva il terzo battaglione di ogni reggimento restare nella zona di leva e gli altri due dislocati in funzione delle necessità militari generali. I regAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 gimenti n. 38, 43 e 44 erano stanziati in varie località del Regno e così pure la maggior parte del n. 45, almeno fino alla vigilia della campagna del 1859. Secondo l’Almanach de Gotha del 1848 vi erano complessivamente 67.344 militari su una popolazione di 4.803.289, il che conferma che il periodo di servizio effettivo era di circa tre anni. Questo considerevole numero di soldati di nazionalità italiana presenti tra le forze imperiali e, per di più , inquadrati in reparti omogenei, pone il duplice problema del loro comportamento durante gli avvenimenti insurrezionali del 1848 e le campagne militari del periodo tra il 1848 e il 1866, e di come i comandi austriaci impiegarono i militari di lingua italiana e nazionalità lombardo-veneta. Dobbiamo dire, a questo punto, per amore di verità (il che nulla toglie al valore dei singoli e all’immagine dell’Italia di oggi) che gli eventi del 1848 e degli anni successivi scossero profondamente i contemporanei che vi furono coinvolti ma il coinvolgimento “patriottico” e filounitario fu limitato ad ambienti piuttosto ristretti, economicamente e culturalmente, e non toccarono, se non in qualche caso (cito gli esempi di Venezia, Vicenza, Brescia e Milano) l’intera popolazione. Quaderni Padani - 11 Certamente anche l’esercito fu toccato dal vento rivoluzionario e vi furono diserzioni tra i militari, almeno nei primi momenti, quando a tutti sembrava che l’Impero austriaco fosse ormai prossimo a sfasciarsi, ma le diserzioni non furono molte e non ebbero, soprattutto, motivazioni politiche: infatti di contro alla solida tradizione militare e al solido inquadramento nei reparti mancò un tentativo di indottrinamento politico da parte dei “rivoluzionari” nei confronti dei militari di leva. Lo spirito di corpo, il sentirsi guidati da comandanti capaci che seppero tenere in pugno i loro uomini e che non si risparmiarono nei combattimenti, spesso lasciandovi la vita, ma anche altri fattori, come l’innata diffidenza dei contadini veneti per novità troppo profonde e difficili da recepire in tempi brevi ma anche una esplicita scelta di campo a favore della tradizione e della legittimità fecero sì che l’esercito “tenesse”. Di quell’esercito facevano parte alcuni uomini di alto valore militare e morale che giunsero poi a ricoprire elevati gradi nell’esercito del Regno d’Italia, con scelte dei singoli che evidenziarono opposte tendenze ugualmente meritevoli di rispetto: ricorderò, a questo proposito, i due casi del vicentino Ottavio Framarin (1825-1902 ) e del padovano Antonio Baldissera (1838-1917). Il primo, caporale di leva nel 3° battaglione del reggimento di fanteria n. 16 “Conte Zannini”, nel marzo del 1848 disertò con alcuni commilitoni e dopo aver combattuto a Sorio con i “crociati trevigiani” e poi, col grado di tenente, a Vicenza e a Venezia, si arruolò nell’esercito piemontese e poi in quello italiano giungendo per meriti e capacità al grado di Maggior Generale. Il secondo, di poverissima famiglia, fu ammesso a frequentare l’accademia militare di Wiener-Neustadt a spese dell’imperatrice e ne uscì con i gradi di ufficiale nel 1857. Invitato da amici ed estimatori a emigrare e a passare con l’esercito italiano, con prospettive di brillante carriera, rifiutò più volte l’invito. Non ancora trentenne, con il grado di capitano di Stato Maggiore, si distinse nella campagna del 1866 sul fronte prussiano meritando l’altissima decorazione militare di Cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa. Solo quando il Veneto fu ceduto dall’Austria ed entrò a far parte del Regno d’Italia, Antonio Baldissera si arruolò nell’esercito italiano in cui fece una carriera degna delle sue qualità, dimostrandosi, nel periodo tra il 1887 e il 1889, come uno dei migliori comandanti delle truppe coloniali italiane. Nel 1896 gli fu addirittura affidato il comando di tali forze ma, durante il viaggio per raggiungere l’Africa, le truppe, mal guidate dall’ex garibaldino Baratieri, furono portate al disastro di Adua. Nel 1904 ebbe la nomina a Senatore del Regno. Inserisco un altro breve riferimento al comportamento della nobiltà veneta con due esempi contrapposti: il vicentino conte Pier Eleonoro Negri, ufficiale piemontese fino dal 1848, medaglia d’oro al Garigliano, e il veronese conte Carlo de Bernini, capitano di cavalleria nell’I.R. Parata delle guardie imperiali 12 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 esercito. Come esempio di comportamento di un intero reparto italiano l’autorevole diario Memorie di un veterano austriaco (di un anonimo alto ufficiale dello Stato Maggior) ricorda il reggimento n. 44 “Arciduca Alberto” che, pur essendo composto tutto da milanesi, uscì da Milano con le altre truppe il 23 marzo e vi tornò solo in agosto, dopo aver partecipato a tutta la campagna. I comandi austriaci, infatti, non si posero nemmeno il problema della nazionalità, da loro non sentito, e impiegarono con molta disinvoltura le truppe di nazionalità italiana non solo durante la campagna del 1848 ma anche nel 1859 a Magenta, e nel 1866, questa volta, però, sul fronte prussiano. Un dipinto esposto all’Heeresmuseum di Vienna rappresenta soldati veneti del reggimento “Haugwitz” che scortano a Vienna la loro bandiera dopo la sconfitta di Koniggratz. Ma restiamo all’ordine cronologico degli avvenimenti. Nella primavera del 1848 l’Europa fu investita da una ventata rivoluzionaria che coinvolse troni e governi. L’Austria ne fu pesantemente colpita e un moto rivoluzionario scoppiò nella stessa Vienna. In Italia i moti insurrezionali che partirono da Venezia e si diffusero in gran parte del Veneto si saldarono con i paralleli moti di Milano e della Lombardia. Gli Austriaci sgomberarono Venezia il 23 marzo, Padova e Vicenza il 25, mentre il Feldmaresciallo Radetzky lasciava Milano con la sua guarnigione nella notte tra il 22 e il 23; luogo di raccolta delle forze austriache era la zona compresa tra le fortezze di Verona, la “capitale” militare del Regno Lombardo Veneto, Mantova, Peschiera e Legnago, il cosiddetto “Quadrilatero”. La ritirata si svolse in modo sostanzialmente ordinato, sotto l’esperta guida del Radetzky, e portò la maggior parte delle truppe ad attestarsi su queste posizioni difensive, senza gravi perdite o defezioni che potessero minarne l’efficienza. Le forze austriache si raggrupparono, quindi, intorno a Verona e da qui partì la manovra di riconquista del regno che Radetzky volle avviare contravvenendo agli ordini ricevuti ma agendo in sintonia con altri due uomini che furono i veri salvatori dell’Impero: il FML (Feldmarshalleutnant: Tenente Generale) principe Alfredo di Windisch-Graetz, che riconquistò Praga e Vienna, e il FML Joseph Jellaèiè, che sottomise l’Ungheria. I soldati “italiani” di Radetzky furono tra i Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Ufficiale d’ordinanza dello Stato Maggiore Generale Imperiale protagonisti delle prime operazioni militari. L’8 aprile 1848 ebbe luogo la battaglia di Sorio, primo fatto d’armi in campo aperto tra insorti e truppe regolari, che finì con la disfatta dei volontari a opera dei fanti dei reggimenti “italiani” “Haugwitz” e “Geppert” (nn.38 e 43), ben comandati dal maggior generale principe Federico di Liechtenstein, che ritroveremo con molti dei suoi uomini alla presa di Vicenza nel giugno successivo. Nel corso del periodo storico considerato, anche altri militari italiani, appartenenti agli eserQuaderni Padani - 13 citi degli altri Stati che allora costituivano la realtà geopolitica italiana, reagirono alla propaganda unitaria, sabauda o mazziniana che fosse, in modo nettamente contrario e sulla base di diverse motivazioni ed è giusto e logico ricordare qui anche loro, anche per le connessioni che vi furono con l’I.R. Esercito austriaco. È noto che lo stato italiano più strettamente collegato all’Austria era il Ducato di Modena. Nel 1859, allo scoppio della guerra, Francesco V non ebbe un attimo di esitazione. Unico tra i sovrani italiani, prese aperta posizione in favore dell’Austria e si dedicò con energia a consolida- Uniformi della seconda metà dell’Ottocento dell’esercito asburgico re le difese del ducato e a riorganizzare il piccolo esercito estense. Alla vigilia della guerra le milizie ducali potevano contare su 176 ufficiali e 3.479 uomini di truppa. A questi numeri bisogna poi aggiungere 860 riservisti. Il 4 giugno arrivò la notizia della sconfitta austriaca nella battaglia di Magenta. Milano era stata evacuata e le truppe imperiali si erano ritirate dietro il Mincio. I ducati di Modena e Parma restavano in tal modo totalmente scoperti. 14 - Quaderni Padani All’alba dell’11 di giugno, Francesco V uscì per l’ultima volta dal Palazzo ducale e passò in rassegna le sue truppe, che, a ranghi completi, scelsero di seguire il proprio sovrano e presero la via per Mantova. Il 14 giugno, quella che venne ribattezzata la Brigata Estense, si congiunse con le truppe austriache a Mantova, “salutata con fratellevoli e fragorosi evviva dalle truppe imperiali”. Benchè il Duca avesse fin dall’inizio concesso la libertà, a chi la voleva, di ritornare alle proprie famiglie e alle proprie case, finchè si mantenne viva la speranza di poter liberare con le armi le terre ducali, non si riscontrò alcun abbandono. Anzi, subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, la Brigata venne ingrossata da centinaia di volontari modenesi e reggiani, che, piuttosto che rispondere alla chiamata alle armi del nuovo governo, preferirono oltrepassare il Po per arruolarsi sotto le insegne del Duca. In questo modo la Brigata Estense superò i 5.000 uomini. Conclusa sfavorevolmente la guerra, che le milizie estensi furono costrette soltanto a osservare da lontano in quanto inquadrate a Solferino fra le truppe della riserva, gli effettivi calarono leggermente, ma la grande maggioranza dei soldati e degli ufficiali scelse di rimanere al servizio del Duca. La paga incerta, la lontananza dalla famiglia e le prospettive inesistenti non bastavano a far venir meno il legame di fedeltà al legittimo sovrano, come pure le offerte e le minacce del nuovo governo modenese, che promettevano ricompense e gradi a chi disertava e la perdita di ogni diritto a chi invece perseverava nel rifiuto. Col passare del tempo, tuttavia, presso gli ambienti governativi viennesi cominciarono a levarsi voci contrarie alla sopravvivenza di truppe “straniere” che venivano mantenute con fondi pubblici. Una soluzione si prospettò quando, il 18 aprile 1860, Papa Pio IX, colpito da tale esempio di fedeltà, avanzò la richiesta che la Brigata Estense passasse al suo servizio, ma le successive vicende belliche fecero sfumare anche questa possibilità. Il 24 settembre, in esecuzione di un ordine dell’Imperatore d’Austria, si compì l’ultimo atto: nello scenario di Villa Cappello, a Cartigliano Veneto, il Duca Francesco V, rivolse il suo saluto a 2.564 soldati e a 158 ufficiali, i fedelissimi che fino all’ultimo istante avevano scelto di restare al fianco del loro sovrano. La duchessa Adelgonda consegnò a ogni soldato una medaglia coniata per l’occasione con Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 l’iscrizione “Fidelitati et Constantiae in adversis”. Al termine venne ordinato il “sciogliete le righe”. Ma non tutti si arresero agli eventi e 782 uomini tra ufficiali, graduati e soldati chiesero e ottennero di passare al servizio dell’Imperatore d’Austria. Fra loro il tenente colonnello marchese Achille Tacoli, che si stabilirà in Austria diventando Consigliere Intimo di S.M.I.R. (Sua Maestà Imperiale e Reale), e il cui figlio Antonio seguirà le orme paterne prendendo servizio nell’esercito imperiale, dove era in forza ancora verso la fine del secolo. Un fratello di Achille, Alfonso, scelse di arruolarsi nelle truppe pontificie, dove raggiunse il grado di capitano dei dragoni. Ricordo ancora il modenese conte Scipione Scapinelli, che morirà nel 1914 col grado di Feldmarshalleutnant. Anche il Ducato di Parma aveva un piccolo esercito che contava nel 1858 circa 3.350 uomini (di cui 2.762 in servizio attivo). L’anno successivo, scoppiata la guerra, la Duchessa Reggente, dopo un breve periodo di governo di una Giunta Provvisoria, presto rovesciata da un pronunciamento dell’Esercito Ducale, lasciò definitivamente il ducato il 9 Giugno, scortata dalla Brigata Ducale, forte di 1.819 uomini, che fu poi sciolta a Gualtieri il successivo 11 Giugno, mentre 60 ufficiali e 150 soldati scortavano a Mantova le bandiere dei reparti e l’artiglieria. Anche questi militari furono messi in libertà il 12 giugno ma 45 soldati si arruolarono subito con la Brigata Estense, cui si aggiunsero, tra il Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Dicembre 1859 e l’Agosto 1861, altri 33 disertori, provenienti da Parma; una decina di ufficiali (ricordo il tenente Albino Belicchi, che entrò in forza al reggimento “italiano” n. 16, il maggiore Lamoure e il colonnello principe Guido Meli Lupi di Soragna, già aiutante di campo del duca) entrarono nell’esercito austriaco. Alcuni ufficiali, come il capitano Caimi e il tenente Dodici, si arruolarono nell’Esercito Pontificio. Alcuni giovani ufficiali (ricordo i nomi di A. CavalieAlfiere dei Dragoni pontifici, 1865 Quaderni Padani - 15 ri, E. Bussarelli, V. Bassani e O. Dell’Oglio) si arruolarono nell’esercito delle Due Sicilie. Altri ufficiali, tra cui il generale Antonio Crotti, già comandante delle truppe parmensi, restarono al servizio personale del duca seguendolo nell’esilio in territorio austriaco. I pezzi della batteria di artiglieria che erano stati portati al sicuro e depositati nella fortezza di Mantova, furono donati al Papa che li aveva richiesti e furono “arruolati” nell’esercito pontificio. I soldati smobilitati rifiutarono, perlopiù, di arruolarsi nell’esercito sardo e successivamente in quello italiano. Si ha notizia, in proposito, di ripetuti arresti di renitenti alla leva e ai bandi di arruolamento del nuovo governo (tra la fine di luglio e la fine di ottobre 140 ex soldati ducali furono catturati e imprigionati), mentre scoppiavano nel piacentino moti insurrezionali, che vedevano protagonisti altri ex militari e che provocarono viva preoccupazione nelle nuove autorità. Questi fenomeni (renitenza e ribellione) durarono per parecchi mesi: da un rapporto ufficiale in data 24 novembre 1859 risulta che i renitenti alla leva, nella sola Piacenza, erano ben 242 e che la banda di un certo Boschi, già militare ducale, continuò la sua attività fino al 1866. Per quanto riguarda le truppe dell’Esercito Pontificio, bisogna considerare la situazione al momento del passaggio della frontiera da parte delle truppe del Regno d’Italia e una seconda fase, che vede lo Stato Pontificio limitato al solo territorio del cosiddetto “Patrimonio di San Pietro” fino al 1870. Nella prima fase le truppe pontificie contavano poco più di 15.000 uomini (di cui il grosso 16 - Quaderni Padani era costituito da una Brigata di Fanteria nazionale di 3.200 e 2 reggimenti esteri di circa 3.500). La sconfitta del 1860 portò alla perdita della maggior parte del territorio, ma non fermò la volontà di resistenza, anzi, l’afflusso di volontari si intensificò. Nel 1870 le forze armate pontificie arrivavano a circa 16.000 uomini, tra pontifici, italiani degli altri Stati preunitari e volontari esteri. L’ultima realtà da ricordare, senz’altro la più importante sotto vari profili, e anche la più conosciuta, è quella costituita dai militari dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, che vedeva alle armi oltre 92.500 uomini nell’esercito e una marina forte di oltre 120 unità con 750 cannoni e 7/8.000 uomini. Le vicende della guerra portarono molti uomini a sconfinare nello Stato pontificio o a darsi alla macchia. Dopo la resa delle fortezze e il trasferimento del re e del governo a Roma molti ufficiali lo seguirono anche in esilio, come i colonnelli Vincenzo Afan de Rivera e Gabriele Ussani mentre altri, come tre figli del siciliano Maresciallo di Campo Gaetano Afan de Rivera, si arruolarono nell’esercito austriaco. È interessante ricordare che, come andarono a combattere per Francesco II e per la libertà delle Due Sicilie legittimisti carlisti come il generale Borjès, caduta anche Roma andarono poi a combattere per Carlo VII di Spagna legittimisti borbonici, come il conte di Caserta, già combattente a Gaeta, a Mentana e a Roma, ma anche ex militari pontifici, fedeli a una visione del mondo inconciliabile con le realizzazioni politiche che progressivamente andavano affermandosi. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Lombardo-Veneto e Impero asburgico di Corrado Galimberti A d un recente convegno che si è tenuto a dizioni e origini etniche. Sebbene oggi lo abbiaMilano sulla figura del conte Josef Wenzel no dimenticato. Radetzky e il ruolo che il mitico marescialCerto questa non poteva essere la Weltanlo rivestì nel Regno Lombardo Veneto, un do- schauung delle persone meno istruite di metà cente universitario della Cattolica ha spiegato Ottocento. Ma se è per questo, il “popolo” non che Lombardi e Veneti – da lui mai riconosciuti sapeva neppure dell’esistenza del mondo medicome tali, ma etichettati tout court come italia- terraneo in cui gli amici dell’Italia l’avrebbero ni – si dimostrarono in gran parte fedeli all’Im- fatto sprofondare. pero asburgico solo per un motivo: la lealtà che La lealtà nei confronti della Chiesa cattolica, nutrivano nei confronti della Chiesa cattolica. la diffidenza o meglio l’aperta ostilità nei conSi sarà anche guadagnato il Paradiso, ma il pro- fronti dei nuovi “valori” che il retaggio della Rifessore ha cannato. voluzione francese e dell’Illuminismo stava imNeppure gli studiosi italianisti meno attenti e ponendo in Europa, furono solo alcuni dei moche, ancor oggi, rifiutano di accettare una tivi che spinsero molti Lombardi e Veneti a starealtà storica per loro molto spiacevole, posso- re dalla parte di Cecco Beppe. Non certo i prinno sostenere una simile tesi. Molti Veneti e cipali né, tantomeno, gli unici. Lombardi furono filo-asburgici perché l’ammiUn esempio? Carlo Cattaneo. Questo personistrazione imperiale era efficiente, corretta e naggino non amava certo il Papato, nè Franceonesta. Garantiva ordine, pace e benessere a sco Giuseppe, ma, pur chiedendo autonomia tutti i popoli dell’Impero. E, in particolare, of- per la propria Terra, la concepiva solo come uno friva pari dignità a ogni realtà etnica che lo co- Stato amministrato dagli Asburgo. stituiva. Basti pensare che l’Austria - contrariaCattaneo - figura oggi mitizzata e di cui tutti mente al Lombardo-Veneto - non era neppure cercano di appropriarsi - sapeva che solo la Mitun Regno, ma solo un Arteleuropa poteva rappreciducato. E che molte mi- L’arciduca Alberto, il vincitore di Custo- sentare e garantire il denoranze, nella seconda za, nel 1866 stino, la vocazione e l’imetà dell’Ottocento, fudentità della Lombardia. rono annientate politicaDel resto, finché sul Lommente e culturalmente bardo-Veneto sventolò la non dalle leggi e dai funbandiera con l’aquila bicizionari austriaci, ma da pite, Carlo Cattaneo visse, quegli stessi popoli che, lavorò e combatté le prodopo aver invocato a gran prie battaglie a Milano. voce autonomia e libertà Non se ne andò in esilio. dagli Asburgo, cercarono Ma non appena sulla Madi cancellare ogni diverdonnina venne issato il sità. tricolore (di nuovo: ma la Gli austriaci erano l’uChiesa non era minacciata nica garanzia per tenere i proprio da quella bandiepopoli lombardo e veneto ra?) levò le tende e si traancorati al mondo mittesferì in Svizzera. Sino alla leuropeo cui appartengofine dei suoi giorni. no per storia, cultura, traVale inoltre la pena di riAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 17 cordare che il 26 marzo 1848, concluse le Cinque giornate di Milano, e allontanati temporaneamente gli Austriaci dalla capitale lombarda, furono proprio i parroci a distribuire ai Milanesi i manifesti che inneggiavano all’“Italia libera” e a Pio IX, il Papa che aveva appoggiato la rivoluzione. Il popolo lombardo, però, non si dimostrò particolarmente interessato né all’“Italia libera” né a Pio IX. Che si sentisse tutt’altro che pronto ad abbracciare quel nuovo amore chiamato Italia? Gli storici ci ricordano che quando il maresciallo Radetzky si apprestava a ritornare a Milano, dopo esserne stato scacciato il 23 marzo 1848, era tranquillo. E ne aveva tutte le ragioni. Perchè lui non era stato mai preso a fucilate dai milanesi. Ma Carlo Alberto, il Savoia che si era trattenuto nella capitale lombarda solo pochi giorni per propagandare il suo Regno d’Italia, sì. Insomma, sapere che un Savoia, dopo pochi giorni dall’aver fatto assaggiare ai Milanesi i tipici provvedimenti del “Bel Paese” (tasse per finanziare la guerra contro l’Austria) era stato costretto a fuggire da Milano, di notte, come un ladro, lasciava ben sperare. O no? Le parole del podestà Paolo Bassi, indirizzate a Redetzky che si era ritirato nel “Quadrilatero”, non lasciano adito a dubbi: “La città è calma e si prepara ad accogliere come si conviene le truppe imperiali”. Quanto i milanesi si sentissero poco figli della Lupa è testimoniato anche da altri episodi. Riportano le testimonianze del tempo, accuratamente censurate dai libri di storia dell’Italia democratica, fascista, monarchica, repubblicana, cattocomunista o forzitaliota: “Numerosi erano i volti che ci ringraziavano in silenzio, con gli occhi colmi di lacrime di gioia per averli liberati”. Commoventi le parole gridate dalla folla che, dopo le cinque giornate, attendeva Radetzky in Porta Romana: “semm staa minga nünc, hinn staa i sciuri!” (Non siano stati noi, sono stati i nobili). Il popolo come poteva del resto volersi allontanare da chi garantiva ordine, pace e benessere? Ormai anche i militanti di Alleanza nazionale e Rifondazione Comunista riconoscono che la Lombardia austriaca fu uno degli Stati meglio amministrati del vecchio continente e uno dei più prosperi dell’Impero asburgico. Furono infatti gli Austriaci, dopo l’oppressione (quella sì) spagnola, a fare rinascere da un punto di vista non solo economico, ma anche L’affondamento della Re d’Italia a Lissa 18 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Il rientro degli Austriaci a Milano (1848) civile, culturale, artistico e sociale la Lombardia. Già a partire del Settecento. Maria Teresa e il figlio Giuseppe II prima, così come Ferdinando e Francesco Giuseppe poi, lasciarono segni indelebilmente positivi. In campo culturale, giuridico, amministrativo, urbanistico ed educativo la Lombardia austriaca conobbe un rapido progresso non appena l’amministrazione dell’aquila bicipite se ne prese cura. E furono una quantità enorme i provvedimenti, dai più semplici a quelli di più alto spessore, che resero la vita ai Lombardi degna di essere vissuta. Un breve elenco: gli austriaci introdussero in Lombardia la numerazione civica e le targhe agli angoli delle strade. Riordinarono il sistema dei dazi, favorendo il commercio, abolirono i vecchi regimi corporativi della “manomorta” e i “fidecommessi” favorendo lo sviluppo di manifatture tessili e seriche legate alla gelsicoltura e alla bachicoltura, diedero impulso alla nascita delle prime industrie lombarde con le filande a vapore. Introdussero nuove tecniche industriali, nel mondo della chimica e della metallurgia. In campo culturale diedero spazio ai grandi architetti che cambiarono la fisionomia di MilaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 no e la arricchirono di splendidi palazzi, giardini e ville. Incoraggiarono gli artisti dell’ebanisteria e dell’intaglio che divennero famosi in tutta Europa. Fondarono l’accademia di Brera, fecero costruire la Scala e la Cassa di risparmio. Ampliarono l’università di Pavia, riorganizzarono l’esercizio della medicina, della chirurgia e delle farmacie. Completarono, invece di distruggere, gli archi eretti per celebrare i fasti di un paese nemico come la Francia, dedicandoli alla Pace (dall’arco di porta Cicca, passando appunto per quello della Pace) e ne fecero erigere di nuovi. Fecero costruire la prima linea ferroviaria del Lombardo Veneto (la Milano-Monza) inaugurata dalla locomotiva “Lombardia”. E ampliarono, oltre alla rete ferroviaria, anche quella stradale - basti pensare al Passo dello Stelvio - e le vie d’acqua navigabili dei Navigli. A Milano introdussero i servizi pubblici e l’illuminazione delle strade, prima con le lampade Argand (che sostituirono le lampade a petrolio) poi con l’illuminazione a gas (con 377 becchi sparsi in ogni angolo della città, in funzione tutta la notte). Nel 1844, inaugurarono i primi impianti per la distribuzione di acqua potabile, i primi bagni Quaderni Padani - 19 pubblici, la prima piscina pubblica, il primo servizio pubblico degli omnibus a cavallo. Fecero costruire nuovi ospedali (si pensi al Fatebenesorelle, l’ottantaquattresimo ospedale della Lombardia), asili per bambini, ricoveri per anziani. Fecero ripristinare le scuole dei Barnabitt, e aprirono persino un istituto per riabilitare gli ex carcerati. Fecero costruire nuove chiese e restaurare quelle fatiscenti di San Sempliciano, Sant’Ambrogio, del Carmine e molte altre. Fecero ridisegnare il centro di Milano arricchendolo di caffè e negozi, e anticipando di oltre un secolo il salotto della “Milano da bere” degli anni Ottanta, ma superandola di gran lunga per classe, eleganza e, soprattutto, onestà. Introdussero persino la commissione del pubblico decoro per rendere Milano una bella città (no, niente condoni….). Destinarono a uso pubblico i giardini di Palazzo Dugnani annettendoli ai giardini pubblici e creando un’area verde tra le più grandi dell’Impero. Fecero perfino sloggiare dalla pizza del Duomo i venditori ambulanti che fanno oggi assomigliare Milano a una favela brasiliana. Insomma, si occuparono del benessere di coloro che amministravano. Non dei propri interessi. A testimoniare il fatto che il clima culturale e politico era tutt’altro che buio, vale la pena di ricordare che fu proprio nella Lombardia amministrata dagli Asburgo che vissero, crebbero e operarono intellettuali come Verri, Parini, Berchet, Beccaria, Cantù, Foscolo e Manzoni. Avrebbero potuto scrivere e tramandarci le loro opere se le condizioni di vita create dagli Austriaci fossero state improntate alla repressione più bieca, come ci è stato ripetuto dalle elementari all’Università? Gli Austriaci avrebbero potuto, come fanno tuttora molti governi nel mondo, mantenere i popoli amministrati nell’ignoranza, impedendo a Lombardi e Veneti di prendere coscienza della proprie condizioni e, di conseguenza, di ribellarsi. Scelsero un’altra strada. Nel Regno Lombardo-Veneto favorirono il popolo, le masse, e si inimicarono i nobili, che furono esclusi dalla sala dei bottoni perché inaffidabili, inefficienti, infingardi, traditori. E fecero bene. Del resto la sensibilità democratica dei nobili lombardi si tradusse in un categorico rifiuto quando Carlo Cattaneo propose loro di far votare i cittadini sull’annessione della Lombardia al 20 - Quaderni Padani Piemonte. Gli fu risposto che non era il caso… Chi potè votare – i Veneti – si scontrò subito con una delle principali caratteristiche italiche: la propensione innata alla truffa. Perché una truffa fu il cosiddetto plebiscito. Sul voto del 21 e 22 ottobre 1866 che sancì l’annessione del Veneto al Regno d’Italia i nostri docenti hanno steso un velo pietoso, chi di silenzio, chi di menzogne. Chi di tutte e due. I risultati della trombonata all’italiana, però, parlano da sè. E sono cifre che farebbero sbellicare dalle risate, non fosse che hanno affogato i Veneti e noi tutti nella pummarola. Qualche dato. La corte di appello di Venezia rese pubblico l’esito del plebiscito. Gli aventi diritto al voto erano 646.789 (su una popolazione di 2.485.983 persone): i voti contrari all’annessione all’Italia furono 70, le schede nulle 72. Gli altri, tutti a favore. Wow! Persino lo storico britannico (e filo-italiano) D. Mack Smith, nella sua Storia d’Italia, mette in dubbio questa pagliacciata. Difficile credere a una percentuale di favorevoli del 99,99%. Persino le targhe celebrative del “plebiscito” in Veneto non ce la contano giusta. Secondo una targa celebrativa posta a Venezia, i “sì” furono 641. 758. Su una lapide di Padova, invece, leggiamo che i voti favorevoli furono alcune migliaia in più: 647.246. Ma i “no” ammontavano comunque a 69. Neanche il mago Zurlì avrebbe potuto fare meglio. Particolari interessanti sul plebiscito vennero a galla anche da convinti italianisti: tale S. Eupani scrisse ad esempio che a Malo, paesino in provincia di Vicenza “le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col sì e col no di colore diverso; ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al Presidente che lo deponeva nell’urna”. Tutti, insomma, venivano a sapere se un cittadino aveva votato a favore o contro l’annessione del Veneto all’Italia. Una consultazione davvero all’insegna della trasparenza. Ad ogni modo, sui veri sentimenti “filoitaliani” dei veneti è fenomenale una commedia del Pittarini che, a proposito del plebiscito scrisse ne Le elezioni comunali in villa: 1° contadino: ciò chui ghetu metesto ti sulle schene? 2° contadino: mi gnente, me le gha consegnà el cursore scrite e tuto. 1° contadino: e anca mi istesso, manco faiga. 2° contadino: manco secade. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 L’ultima stampa di tale commedia risale al Gli Italiani, appena il Veneto cadde sotto le 1912. L’ha dovuta ripescare la Liga Veneta negli sgrinfie dei Savoia, introdussero la coscrizione anni 80. Sino ad allora, silenzio. obbligatoria. Avevano bisogno di soldati, insomL’autore non era certo un filoasburgico che ma, per far accrescere l’amore verso la bella Itaintendeva infangare il glorioso plebiscito trico- lia. lore. Tanto è vero che nel 1859 fu persino arreNon aumentarono solo le baionette, ma pure stato dalle autorità austriache per le sue attività gli ignoranti: l’analfabetismo passò dal 62 % al anti-imperiali. 69%. Sicuri di essere amati dalla popolazione, Un’altra importante testimonianza sulla vera gli Italiani arrivarono persino al punto di proinatura de referendum ci è giunta dal noto ex bire le processioni religiose perchè pericolose pregiudicato Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due per l’ordine pubblico. Il Veneto, per farla breve, Mondi (per l’appunto) scrisse: “La corruzione piombò nel periodo più buio della sua storia. dei publicisti nei plebisciti, nei collegi elettora- Tanto che decine di migliaia di persone emigrali, nella Camera, nei rono in Sud America. ministeri, nei tribuIl feldmaresciallo Radetzky Il resto è storia dei nali… fu alzata a sigiorni nostri. stema di governo”. I Veneti si sentivano Voilà. Garibaldi, del così italiani che eraresto, come scrive il no stati sino a pochi già citato Mack Smith mesi prima dall’an“si infuriò perché i nessione all’Italia, Veneti non si erano l’ossatura non solo sollevati per conto della marina, ma proprio, neppure nelpersino dell’esercito le campagne, dove austriaco. sarebbe stato facile Vale la pena di ricorfarlo”. dare che prima di acImpeccabile il comquisire una nuova mento del quotidiano “patria” (?!) avevano anti-austriaco l’Arena combattuto in molte di Verona che, il 9 battaglie quelli che gennaio 1868, scrissarebbero diventati se: “Fra le mille radi lì a poco i loro gioni per cui noi concittadini. E in alaborrivamo l’austriacuni casi, come a Cuco regime, ci infastistoza e a Lissa, avediva sommamente la vano loro inflitto cocomplicazione e il centi e sonore sconprofluvio delle leggi e fitte. dei regolamenti, l’ecIl nome del corpo in cessivo numero di cui prestavano serviimpiegati e specialzio e di cui andavano mente di guardie e orgogliosi non lascia gendarmi, di poliadito a dubbi: Österziotti, di spie. Chi di reische-Venezianinoi avrebbe mai attesche Marine. so che il governo itaSia l’equipaggio che liano avesse tre volte la maggior parte detanto di regolamenti, gli ufficiali provenitre volte tanto di pervano dall’area di linsonale di pubblica sigua veneta dell’Imcurezza, tre volte pero. La lingua partanto di carabinieri lata a bordo delle naecc…”. vi era il veneto. E la Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 21 lingua veneta parlava coi marinai l’ammiraglio Wilhelm Tegetthof, che aveva studiato nel Collegio Marino di Venezia. I sentimenti di molti Veneti erano schiettamente filoaustriaci tanto che l’ammiraglio Angelo Iachino scrisse nel 1866: “non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando nel luglio 1866, si cominciò a parlare della cessione di Venezia all’Italia”. Nella citata battaglia di Lissa, la corazzata Re d’Italia venne speronata dall’ammiraglia della marina austro-veneta Ferdinand Max. Affondò in pochi minuti con l’ammiraglio Tagetthoff che spronava l’equipaggio al grido di “daghe dentro, daghe dentro!”. E quando la Re d’Italia colò a picco, il grido udito da vincitori e vinti fu: “Viva San Marco”. Come sottolineato dagli studiosi più autorevoli, l’edificio monarchico degli Asburgo seppe resistere alle orde rivoluzionarie del 1848 grazie all’unità che regnava tra le file dell’esercito imperiale, composto da 79 distretti di leva: 58 reggimenti di fanteria, 18 reggimenti di frontiera e 1 reggimento di Jäger, i cacciatori tirolesi (tra i quali, naturalmente c’erano anche i Trentini. Gli altri corpi, cavalleria, artiglieria eccetera, traevano le reclute dagli stessi distretti di leva di fanteria). L’esercito era diviso in 12 comandi generali: quello del Lombardo Veneto aveva sede a Verona. Il sistema di reclutamento permetteva di dividere la maggior parte dell’esercito in termini di nazionalità: tra i 58 reggimenti di fanteria, due provenivano ad esempio dall’Austria superiore, due dall’Austria inferiore, cinque dalla Moravia/Slesia, quattro dal Veneto e quattro dalla Lombardia. Tra la cavalleria leggera, tre reggimenti dalla Boemia, un reggimento dall’Austria superiore e inferiore e un reggimento dal Lombardo-Veneto. In tempo di pace l’esercito imperiale era composto nel seguente modo: 22,5% Ungheresi 21,5% Cechi (di cui molti, però, di lingua tedesca) 16,1% Austriaci 16,5% Polacchi 9,2% Sloveni e Croati 8,7% Lombardo-veneti 5,4 % Rumeni. Come si può facilmente constatare, la componente austriaca era una netta minoranza dell’e22 - Quaderni Padani sercito asburgico. Le sorti dell’Impero erano insomma in mano a militari che, chi non comprende l’essenza e l’anima dell’Impero asburgico, chiamerebbe “stranieri”. Nel 1847, un anno prima della rivoluzione, nel 45° fanteria, i cognomi in lingua italiana erano numerosi: 5 capitani su 14; 1 primo capitano su 5; 6 tenenti su 20; 12 sottotenenti su 39; 18 cadetti su 37. Insomma: su 115 ufficiali e cadetti, 42, ovvero il 36,5% avevano un cognome “italiano”. Un caso, quello del 45° fanteria? No, naturalmente. Ecco qualche altro dato su cui riflettere: avevano cognomi lombardi o veneti il 30% degli effettivi del 23° fanteria, il 42% del 38° fanteria, il 24% del 44° fanteria, il 32 % del 16° fanteria e il 17% del 26° fanteria. Il Lombardo-Veneto era tutt’altro che militarizzato. Basti pensare che, come l’Ungheria, aveva una percentuale di soldati inferiore a quella di molte altre nazionalità dell’Impero. 6.333 soldati per milione di abitanti nel Lombardo-Veneto e 5.367 per l’Ungheria. La percentuale aumenta a 11.715 soldati per milione di abitanti per l’Austria, 11.458 per la Galizia e ben 16.744 per la Moravia/Slesia. Alcuni reggimenti cambiavano spesso città, ma rimanevano all’interno dei propri confini regionali. Il 38° reggimento, ad esempio, composto da Lombardi, tra il 1830 ed il 1848 non si allontanò dalla Lombardia, fatta eccezione per un anno (1839) trascorso a Dubrovnik/Ragusa, un anno a Fiume (1841), un anno a Udine (1843), e un anno in Veneto nel 1846. Prima della rivoluzione le diserzioni furono un fatto puramente sporadico tra i sodati lombardo-veneti. Basti pensare che tra il 1818 e il 1848 gli agenti segreti di Metternich, a Milano riferirono di un solo caso di tradimento. E anche questo fu un affare definito di “piccola scala, pienamente chiarito a soddisfazione delle autorità”. Quando la polizia politica scoprì tre traditori lombardi che aderivano alla Giovine Italia, il conte Hartig, nella risposta a Metternich, osservò che “è perfettamente vero che da un punto di vista militare la condotta delle truppe lombarde è finora irreprensibile. Né si può rimproverare loro alcunché riguardo alla disciplina o in merito al giuramento prestato”. Ma fu lo stesso Radetzky a testimoniare la fedeltà delle truppe lombardo-venete. Al culmine dello sciopero del tabacco, nel gennaio 1848, Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 scrisse al conte Hardegg: “Vostra eccellenza poI drammi famigliari, insomma, erano tutt’altrà immaginare l’agitazione fra le truppe, ma tro che rari. E, a volte, sfociavano appunto nella io resto soddisfatto del loro spirito e, partico- diserzione. Atteggiamento di cui si resero prolarmente degli italiani”. Anche se, a onor del tagonisti anche alcuni soldati austriaci che sovero, Radetzky, si dimostrò troppo ottimista. gnavano la repubblica. Perché non furono pochi a tradire. Ma gli amici Concludiamo questo omaggio all’Impero dell’Italia non si illudano. Non si trattava di asburgico e a una dinastia che per prima, nella amore per la penisola. Quando Radetzky chiese storia moderna, si pose il problema del federaliconto delle milizie del Tirolo di lingua tedesca, smo, con le parole di Carlo Cattaneo. Un persosi sentì rispondere dalle truppe sfiaccate: naggio che, come già detto, non guardò agli Au“quanto al giorno striaci con particolaper ogni uomo?”. E re tenerezza, ma che la loro prima dichiatributò loro parole razione fu che avrebdi ammirazione e ribero combattuto sospetto. E li consilo se il nemico saderò come i migliori rebbe arrivato daamministratori della vanti alle porte di casua Terra. sa. “Ogni anno segnò I nobili motivi desempre per noi qualgli Italiani e dei loro che nuovo grado di amichetti sono del prosperità; ogni anresto riassumibili no più vasta la erte nelle nobilissime pastradale, ogni anno role di un certo capipiù folta la piantatano Bertini che, vegione dei gelsi, pridendo i soldati restii ma riservata ai colli, a sollevarsi contro poi distesa in veri l’Impero disse: “Perboschi sui piani delché non volete diserl’Olio e dell’Adda, e tare? Per mancanza salita fin a mille di denaro? Ma c’è metri di altezza nelsempre qualche mole valli alpine, prodo per trovarne: asduttrice di un’annua salteremo il primo raccolta di cento ufficio postale sulla milioni di franchi in nostra strada”. Onoun territorio che re al merito a un vecorrisponde alla ro italiano. ventiseiesima parte Non va inoltre didella Francia. Semmenticato che i mopre più diffuse, ma tivi di diserzione più accurate e quinnon erano solo di ordi meno insalubri le dine ideale, politico irrigazioni; si mutao militare, ma erano Illustrazione allegorica dei vincitori di Lissa: no in buone case i anche legati alla na- l’ammiraglio Tegetthoff con i suoi ufficiali e ma- tuguri dei contadini; tura umana. Nel sen- rinai penetra in tutti i coso che su una communi rurali il prinpagnia di 200 effettivi, solo a quattro soldati era cipio dell’istruzione; tolta cogli asili dell’infanpermesso sposarsi. Gli altri erano costretti a in- zia la rozzezza dei figli della plebe; gli studi trattenere relazioni con donne del posto. E ogni delle lettere e delle arti consentiti anche al sesvolta che la compagnia si spostava, la donna do- so gentile; e con solenni mostre viene diffuso veva essere abbandonata. Se un soldato era in- l’amore delle belle arti nel popolo”. namorato cotto… C’è bisogno di aggiungere altro? Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 23 Documenti informativi sull’Impero asburgico P er inquadrare meglio le informazioni storiche illustrate dai due articoli precedenti, vengono qui riportati alcuni documenti riferiti all’Impero Asburgico. Vengono innanzitutto fornite alcune annotazioni statistiche sulla composizione e sui caratteri dell’Esercito Imperiale alla vigilia della guerra del 1848. Tutte le informazioni sono tratte da: Alan Sked, Radetzky e le armate imperiali. L’Impero d’Austria e l’esercito asburgico nella rivoluzione del 1848 (Bologna: Il Mulino, 1983). Popolazioni Wellische (italiane) erano presenNumero di reggimenti suddivisi per provenienza Regione di provenienza Numero dei reggimenti Fanteria Cavalleria Artiglieria Boemia Moravia/Slesia Galizia Lombardo-Veneto Ungheria Transilvania Austria 8 5 13 8 12 3 9 8 2 8 1 12 0 7 2 1 0 0 0 0 2 ti, oltre che in Lombardia e nel Veneto, anche in Carniola (il 46% degli abitanti delle province di Gradisca, Istria e Trieste nel 1914), in Tirolo (il 38% nel 1914), in Dalmazia (il 3%) e in Ungheria (il 44% degli abitanti di Fiume). Quelli che oggi vengono chiamati “italiani” erano fino alla metà dell’Ottocento detti nel mondo mitteleuropeo Welsch. La Padania era detta Walschland (o Welschland), i suoi abitanti Wellische, e il Tirolo Trentino Welschtirol. In molte lingue anglosassoni si usava indicare fin dalla loro formazione alto-medievale con i termini Walsche, Welsse, Walisch o Welisch le popolazioni straniere di origine celtica. È piuttosto sintomatico che i Padani (i soli “latini” con cui gli Austriaci avevano contatto diretto) venissero chiamati come gli Inglesi chiamano i Gallesi, e cioè Welsh. Situazione dell’Armata di Radetzky nel 1848 “Nel gennaio 1848 Radetzky comandava un’armata di 70-75.000 uomini divisi fra 61 battaglioni di fanteria, 36 squadroni di cavalleria e 108 batterie. Poiché non esistevano né cavalleria né artiglieria italiane, le sue truppe italiane erano esclusivamente di fanteria, e di fatto rappresentavano il più ampio contingente nazionale presente poi- Rapporto fra popolazione civile e militari reclutati nelle varie province dell’Impero Provincia Insegna dell’Impero Austro-Ungarico 24 - Quaderni Padani Austria inferiore Austria superiore Steiermark Carinzia e Carniola Küstenland Tirolo Boemia Moravia e Slesia Galizia Dalmazia Lombardia Veneto Ungheria Transilvania Confini Militari (Krajne) Abitanti (A) 1.375.400 844.914 966.863 757.395 477.702 830.948 4.112.085 2.162.086 4.718.991 384.572 2.516.420 2.137.608 12.039.400 2.069.600 1.147.383 Militari (M) Rapporto A/M 34.226 12.650 18.466 2.146 3.487 8.807 62.083 4.552 78.252 9.456 31.556 30.945 56.802 9.400 56.322 40,19 66,78 54,72 352,93 137,00 94,36 66,24 474,97 60,31 40,67 79,74 69,08 211,96 220,17 20,37 Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 ché dei 61 battaglioni, 9 erano ungheresi, 6 cechi, 24 italiani, 10 di slavi meridionali e 12 austriaci. In altre parole gli italiani erano in maggioranza relativa rispetto alle altre nazionalità nella armata d’Italia: essi costituivano il 39% della fanteria di Radetzky e circa il 33% del suo esercito complessivo”. (Alan Sked, op.cit., pag. 99) Inno Imperiale Vengono qui trascritte le prime strofe in italiano dell’Inno Imperiale, popolarmente chiamato “Serbidìola”, dalle sue primissime parole. La sua musica era stata composta da Joseph Haydn (1732-1809) su un inno scritto dal padre gesuita Haschka.. Serbi Dio l’Austriaco Regno, guardi il nostro Imperator! Nella fé che gli è sostegno regga noi con saggio amor! Difendiamo il serto avito che gli adorna il regio crin! Sempre d’Austria il soglio unito sia d’Absburgo col destin! La Carta Costituzionale dell’Impero Viene infine riprodotto il testo completo della Legge fondamentale dell’Impero, la Costituzione promulgata nel 1867 e rimasta in vigore fino al 1918. La Legge è ancora oggi estremamente interessante per la liberalità dei principi che assicura e costituisce la più evidente smentita di tutte le assurde accuse di despotismo per decenni lanciate contro il bonario Stato asburgico dalla propaganda italiana, proveniente da un paese dove talune delle libertà garantite dal documento del 1867 sono ancora un sogno a 135 anni di distanza. Giova in particolare soffermarsi su quanto enunciato dall’Articolo 19 del documento riportato e paragonarlo agli ottusi e oppressivi atteggiamenti che ancora oggi lo Stato italiano tiene nei confronti delle minoranze etno-linguistiche, e cioè di più della metà dei suoi “sudditi”. Siam concordi: in forze unite del potere il nerbo sta! Alte imprese fian compite se concordia in noi sarà. Siam fratelli, e un sol pensiero ne congiunga e un sol cor! Duri eterno questo Impero, salvi Iddio l’Imperator! Insegna del Regno Lombardo-Veneto Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Soldati austriaci fraternizzano con la popolazione lombarda. Litografia di A. Baumann La didascalia dice: “O Walschland (Italia settentrionale), tu ci hai dato molti dispiaceri, ma adesso t’abbiam spaccata noce wellische (italiana)!” Quaderni Padani - 25 Legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini pei Regni e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero coll’adesione d’ambedue le Camere del Consiglio dell’Impero trovo di emanare la seguente Legge fondamentale dello Stato sui diritti generali dei cittadini, e di ordinare quanto appresso: Articolo 1 Per tutte le persone pertinenti ai Regni e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero esiste un diritto generale di cittadinanza austriaca. La legge determina sotto quali condizioni si acquisti, si eserciti o si perda il diritto di cittadinanza austriaca. Articolo 2 Tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge. Articolo 3 I pubblici impieghi sono egualmente accessibili a tutti i cittadini. L’ammissione degli stranieri ai pubblici impieghi dipende dall’acquisto del diritto di cittadinanza austriaca. Articolo 4 Il libero passaggio delle persone e delle sostanze da un luogo all’altro del territorio dello Stato non soggiace ad alcuna restrizione. Tutti i cittadini, che dimorano in un comune e vi pagano le imposte sui loro beni stabili, sulle loro industrie e sui loro redditi, godono il diritto di elettorato e di eleggibilità nella rappresentanza comunale sotto le stesse condizioni come le persone pertinenti al comune. La libertà di emigrare non è limitata per parte dello Stato che dagli obblighi del servizio militare. Non si possono riscuotere tasse di esportazione delle sostanze se non per regime di reciprocità. Articolo 5 La proprietà è inviolabile. L’espropriazione contro la volontà del proprietario non può aver 26 - Quaderni Padani luogo che nei casi e nei modi determinati dalla legge. Articolo 6 Ogni cittadino può prendere dimora e domicilio in qualunque luogo del territorio dello Stato, può acquisirvi immobili di ogni specie e disporne liberamente, e può esercitarvi sotto le condizioni prescritte dalle leggi qualsiasi ramo d’industria. Per le manimorte il diritto di acquistare immobili e di disporne può essere limitato dalla legge per cause di pubblica utilità. Articolo 7 Ogni vincolo di sudditela inerente al possesso fondiario è per sempre abolito. Qualunque obbligazione e prestazione inerente ad un immobile per titolo di divisa proprietà è redimibile, ed in avvenire niun immobile potrà essere gravato da una tale prestazione che non sia redimibile. Articolo 8 La libertà personale è guarentita. La vigente Legge del 27 Ottobre 1862 a tutela della libertà personale (Bollettino delle leggi dell’Impero, n.87) è dichiarata parte integrale della presente Legge fondamentale dello Stato. Ogni arresto fatto o promulgato illegalmente obbliga lo Stato a risarcire il danno alla persona offesa. Articolo 9 Il diritto di domicilio è inviolabile. La vigente Legge del 27 Ottobre 1862 a tutela del diritto di domicilio (Bollettino delle leggi dell’Impero, n.98) è dichiarata parte integrale della presente Legge fondamentale dello Stato. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Articolo 10 Il segreto delle lettere è inviolabile, e le lettere, fuori del caso di legale arresto o visita domiciliare, non possono essere sequestrate che in casi di guerra o in base ad un mandato giudiziario conformemente alle leggi vigenti. Articolo 11 Il diritto di petizione spetta a chicchessia. Le corporazioni o società riconosciute dalla legge hanno solo il diritto di indirizzar petizioni in nome collettivo. Articolo 12 I cittadini hanno il diritto di radunarsi e di formare delle società. L’esercizio di questo diritto è regolato da leggi speciali. Articolo 13 Chiunque ha il diritto di esprimere la propria opinione, entro i limiti prescritti dalla legge, a voce, in iscritto, colla stampa o con immagini. La stampa non può essere assoggettata a censura, né limitata dal sistema di concessione. I divieti postali emanati dalle Autorità amministrative non sono applicabili agli stampati nazionali. Articolo 14 È guarentita ad ognuno la piena libertà di fede e di coscienza. Il godimento dei diritti civili e politici è indipendente dalla confessione religiosa; però la confessione religiosa non deve derogare agli obblighi inerenti alla cittadinanza. Nessuno può essere costretto ad un atto religioso o ad intervenire a funzioni ecclesiastiche, in quanto egli non sia soggetto all’autorità di un terzo che abbia per legge il diritto di costringervelo. Articolo 15 Ogni Chiesa ed ogni Società religiosa riconosciuta dalla legge ha il diritto di esercitare pubblicamente ed in comune la propria religione, regola ed amministra da sé i propri affari interni, rimane in possesso e in godimento dei propri istituti, fondazioni e fondi destinati a scopi di culto, d’istruzione e di beneficienza, ma soggiace, come ogni altra società, alle leggi generali dello Stato. Articolo 16 A coloro che professano una confessione religiosa non riconosciuta dalla legge è permesso Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 l’esercizio domestico della loro religione, in quanto tale esercizio non sia contrario alle leggi e ai buoni costumi. Articolo 17 La scienza e i suoi insegnamenti sono liberi. Ogni cittadino ha il diritto di fondare istituti d’istruzione e di educazione e di impartire l’istruzione, quando ne abbia provata la sua capacità nei modi prescritti dalla legge. L’istruzione domestica non soggiace a questa restrizione. Per l’istruzione religiosa nelle scuole deve provvedere la rispettiva Chiesa o Società religiosa. Allo Stato spetta il diritto di suprema direzione e sorveglianza su tutto il ramo dell’istruzione e dell’educazione. Articolo 18 È libero a ciascuno di scegliere il proprio stato e di istruirsi pel medesimo come e dove gli piaccia. Articolo 19 Tutte le nazioni dello Stato hanno uguali diritti, ed ogni singola nazione ha l’inviolabile diritto di conservare o coltivare la propria nazionalità e il proprio idioma. La parità di diritto di tutti gli idiomi del paese nelle scuole, negli uffici e nella vita pubblica è riconosciuta dallo Stato. Nei paesi, in cui abitano diverse nazioni, gli istituti di pubblica istruzione devono essere regolati in modo, che ognuna di queste nazioni trovi i mezzi necessari per istruirsi nel proprio idioma, senza l’obbligo d’imparare un altro idioma del paese. Articolo 20 Una legge speciale determinerà sotto quali condizioni l’Autorità governativa responsabile possa sospendere per un dato tempo e luogo i diritti citati negli articoli 8, 9, 10, 12 e 13. Vienna, addì 20 dicembre 1867 Francesco Giuseppe m.p. Barone di Beust m.p. Conte Taaffe m.p. Barone di Becke m.p. Barone di John m.p. Ten. Mar. Cavaliere di Hye m.p. Per ordine sovrano Bertardo Cavaliere di Meyer m.p. Quaderni Padani - 27 La stella ed il triskele I Celti e Israele: confronto fra due civiltà antiche di Patrizia Patrucco R itengo sia possibile formulare, sulla base di una comparazione oggettiva - e, perché no? anche induttiva e fantasiosa - tra la civiltà celtica e quella ebraica, alcune considerazioni sulla convergenza di taluni aspetti delle due culture. Trattasi di un percorso in sé ragionevole, in quanto da una siffatta analisi non solo emergono elementi rivelatori di un intreccio indissolubile tra le due culture - e, di conseguenza, tra i popoli -, ma si sgombra altresì il campo dalle accuse rivolte con leggerezza da parte di quanti farebbero coincidere il recupero di un patrimonio culturale ancestrale con le tesi che hanno indotto, nel secolo scorso, a suffragare i concetti di “purezza ariana” dietro ai quali si celava un’ideologia nazista a noi estranea. Argomentando, in via preliminare, dai simboli adottati dai Padani, si può già asserire che la scelta del verdiano Va’ Pensiero (avente ad oggetto l’episodio biblico della schiavitù degli Ebrei), appare come una metafora delle speranze del nostro popolo di assurgere a una condizione di emancipazione, di libertà, ma soprattutto ci accomuna, anche idealmente, a quella storia avente per oggetto un’altra schiavitù; e ancora: non appare privo di significato il fatto che il motivo della nostra “ruota” denominata “Sole delle Alpi” ricalchi il modello della stella a sei punte - il “Sigillo di Salomone”. Un primo excursus storico approda sicuramente a un risultato sociologico comune, quantomeno in una data epoca. Com’è noto, presso i Celti la condizione della donna era mirabilmente avanzata: parafrasando, si può pacificamente affermare che presso quella civiltà era l’uomo a essere pressoché uguale alla donna e non viceversa. Questa uguaglianza si riscontra altresì in Israele, ove già a partire dal XIII secolo a.C. è dato di notare che sullo scranno dei “giudici” sedeva, tra l’altro, anche una donna (Debora). Presso altre culture e, in particolare, in Grecia, la donna veniva considerata come “un bene da ereditare”, mentre a Roma il pater fami28 - Quaderni Padani lias aveva un controllo totale sulla moglie e le donne dovevano avere un tutore per la gestione dei loro affari; c’è da domandarsi se le donne orfane e prive di marito venissero considerate res nullius. Un esempio, tra tutti, dell’importanza del ruolo femminile promana dalla figura della druida Boudicca, regina degli Iceni, riconosciuta come comandante di guerra da parte dei Britanni nel 61 d.C.; al riguardo, Tacito afferma nei suoi Annales: “non è la prima volta che i Britanni sono stati guidati in battaglia da una donna”. La tradizione irlandese ritrae una società di profetesse, druide, dottoresse e donne dedite alla satira. La concezione cristiana implicante l’idea di peccato, concetto di forte impatto emotivo nell’opera di svilimento della donna nei secoli, era del tutto estranea alla cultura celtica: era invece diffusa l’idea di ricorrere a una guida spirituale, compito che generalmente veniva affidato ai druidi, in grado anche di predire il futuro. Nelle credenze e nei rituali dei druidi si ravvisano molti elementi simili a quelli dei primi profeti ebrei e - secondo alcuni studiosi - non si tratterebbe solo di pratiche comuni, ma di comuni radici razziali e religiose. Probabilmente essi chiamano direttamente in causa il ruolo dei druidi, del tutto analogo a quello di Melchisedech, Mosè, Elia e Salomone, nella loro veste di guide del popolo, in qualità di re-sacerdoti e di mediatori tra umanità e divinità. D’altro canto, come il decalogo e le altre leggi culturali e civili ricevuti da Mosè sul Monte Sinai diedero agli Ebrei la coscienza e la struttura di popolo, così, analogamente, le Leggi di Brehon amministrate dai druidi costituivano un punto di riferimento per gli abitanti celti della Gran Bretagna. Le Leggi di Brehon rappresentavano infatti un altrettanto sofisticato ed efficiente sistema etico-legale derivante con tutta probabilità da una pratica spirituale molto più antica: mentre da un lato enfatizzavano la libertà civile, l’uguaglianza di uomini e donne e i Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 diritti dell’individuo all’interno dell’equilibrio cosmico, dall’altro utilizzavano il concetto di solidarietà nei confronti dei soggetti più deboli anziani e bambini - come una sorta di cemento sociale per riunire la collettività. Ritornando al menzionato nesso etnico tra popolazioni celtiche e popolazioni ebraiche, può risultare significativo un accenno allo studio di Sir John Morris Jones sulla “Sintassi pre-ariana nel celtico insulare” (1899): lo studioso osservava che, per quanto le lingue celtiche fossero classificate tra le lingue europee, la loro sintassi apparteneva tuttavia al gruppo camitico-semitico che include, tra l’altro, anche l’ebraico; conclusioni, queste, che parevano avallare il movimento cosiddetto degli “Israeliti britannici”, che asserivano che i Celti fossero una delle tribù perdute di Israele. Non ho certo la pretesa di sciogliere tale nodo: sarà sufficiente soltanto richiamare in primo luogo, al fine di non banalizzare la diatriba, la circostanza che anche l’origine degli Ebrei non rivela elementi antropologici certi (sostenuti soltanto da alcune correnti di antisemitismo). Infatti, gli stessi caratteri fisici ritenuti pertinenti a un’omogeneità razziale (naso ricurvo, capelli crespi, colorito scuro, eccetera) compaiono anche in altre popolazioni mediterranee; a loro volta, alcuni caratteri somatici sono sicuramente conseguenti all’isolamento dei ghetti, prodotto di particolari circostanze contingenti. In secondo luogo, per quanto concerne i Celti, le fonti riferiscono l’esistenza di almeno due distinti tipi razziali: uno di statura alta, capelli biondi o rossi, occhi azzurri o verdi, naso aquilino, l’altro di statura media, capelli bruni, occhi castani, naso carnoso. Ne consegue pertanto che un’eventuale obiezione fondata su connotazioni puramente fisiche non risulterebbe risolutiva. Quanto alle comuni radici rituali e linguistiche, Tim Wallace Murphy e Marilyn Hopkins, nella loro opera su “Rosslyn, Guardian of the Secrets of the Holy Graal”, osservano, incidentalmente, la rassomiglianza sconcertante tra il costume dei bardi celtici di non pronunciare il nome di Dio, onde evitare il disonore, e il divieto ebraico di pronunciare il Tetragramma (l’impronunciabile nome di Dio); si noti altresì che la pronuncia corretta del sacro nome di Dio tra le popolazioni semitiche era Yaíu o Yahu, perfetto equivalente del gallese. Pur non essendoci pervenuta nei dettagli la conoscenza della religione dei Celti, è certo che essi credevano nell’immortalità dell’anima: non Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 è casuale che le celebrazioni delle nascite avvenissero con cordoglio, a causa della morte di un’anima nell’altro mondo e, al contrario, quelle della morte con gioia, in quanto nascita in un aldilà fantastico. Si può anche ipotizzare che essi esprimessero la loro paura nei confronti della “fine del mondo” allorché alla domanda rivolta a un capo celtico su cosa temesse di più questi rispondeva: “Temiamo soltanto che il cielo cada sulle nostre teste”. In alcuni trattati di leggi irlandesi le prescrizioni di rito contenute nel giuramento di chi si impegnava a rispettare un patto invocavano, in soluzione di continuità con la tradizione, gli elementi naturali: “Saremo fedeli a meno che il cielo cada e ci schiacci, oppure la Terra si apra e ci inghiotta, oppure il mare si alzi e ci sommerga”. Dal momento che non risulta possibile un’esegesi di fonti scritte, si ascrive alla metempsicosi di Pitagora la tesi dell’immortalità dell’anima. Peraltro, si obietta che già il filosofo greco Posidonio affermava che il druido Abari aveva addestrato Pitagora e questi, a sua volta, aveva successivamente influenzato gli Esseni, cosicché le conoscenze druidiche sarebbero rifluite da Pitagora alla setta ebraica esoterica stanziata sulle rive del Mar Rosso. Un’altra testimonianza dell’attendibilità della tesi proviene da Clemente di Alessandria, il quale affermava che era stato Pitagora a recepire la dottrina druidica dell’immortalità dell’anima e non il contrario. Una ulteriore affinità tra le due culture sinora esaminate promana dalle leggende vissute dai due popoli in relazione al popolo egizio: si può leggere in chiave fantastica il sottile filo che lega il mito di Fetonte, di presunta discendenza egizia, scaraventato per mano divina nel fiume Eridano e l’episodio del Mar Rosso diviso in due a seguito di un intervento divino che permette agli Ebrei di sottrarsi all’inseguimento delle truppe egiziane. Per concludere la carrellata di similitudini, anche gli Ebrei conobbero la violenza romana e la sopraffazione perpetrata dai suoi governatori allorché Pompeo (64 a.c.) occupò Gerusalemme, espugnandone il tempio, sino all’epilogo del massacro di massa compiuto da Tito (70 d.C.) a seguito della rivolta contro l’Impero romano, ossia contro quell’oligarchia senatoriale che avrebbe trasformato tutti i territori conquistati in mere circoscrizioni doganali e popolato l’aldilà con paure terrene e la vita terrena con forme di corruzione a tutti i livelli. Quaderni Padani - 29 Organizzazione politico-amministrativa della Repubblica Veneta a cura dell’Associazione Culturale “Bepi Viscovich” - Treviso “I sistemi politici, le forme di governo, i regimi amministrativi non muoiono propriamente ma si trasformano in altri sistemi, in altre forme di governo, in altri regimi amministrativi. Gli ordinamenti politici del mondo si danno il cambio. Ma ciò che è ordinato, governato, amministrato, sia paese, sia popolo sia individuo sopravvive con la sua natura congenita, a tutti questi sconvolgimenti” (Franz Werfel). Fino a duecento anni fa, nell’area padana, esisteva una repubblica che nei momenti della sua massima espansione si estendeva dall’Adda alle terre “da mar” lungo la costa orientale del suo golfo fino a Candia (Creta): la Serenissima Repubblica Veneta. Per quasi mille anni essa seppe amministrare popoli di diversa razza, lingua e religione. Nei suoi domini il suo governo adottò il criterio di un semplice indirizzo amministrativo rispettando ordinamenti, istituzioni, leggi e consuetudini in modo da mantenere vivi per secoli istituti e strutture anche difformi da terra a terra, attuando un vero federalismo ante litteram. Per questa ragione questa repubblica fu detta Serenissima e il suo simbolo il fu il leone di San Marco. Per capire quale fosse il segreto che consentì a un villaggio di pescatori, quale era alle origini Venezia, di trasformarsi in uno degli stati più potenti d’Europa, ci sembra opportuno esaminare il suo sistema istituzionale, che forse potrebbe essere tuttora un esempio da imitare per molti stati del giorno d’oggi. Tuttora i libri scolastici di storia trattano l’argomento in maniera affatto superficiale ad usum delphini: si parla sprovvedutamente di repubblica oligarchica, si citano le leggende nere del consiglio dei dieci e tante altre amenità. A noi veneti sembra doveroso ristabilire la verità storica basandoci su fonti e documenti inoppugnabili Mettendo a confronto la struttura sociale e poli30 - Quaderni Padani tica di Venezia con quella di altre nazioni europee si possono rilevare notevoli diversità che resero Venezia un esempio unico sotto molti aspetti. La Serenissima Repubblica, si basava su un sistema politico-amministrativo orizzontale, non verticale. Per capire la nascita di questo sistema, diverso da quello strettamente gerarchico di derivazione feudale, è necessario considerare appieno il fatto che Venezia nasce e vive per secoli senza territorio e comunque, anche dopo la conquista della terraferma, rimarrà sempre sostanzialmente una città proiettata verso il mare. Per quanto riguarda le società basate sul territorio, se si considera come esse avessero un raggio d’azione politica e amministrativa molto più esteso, si comprende come ciò comportasse la necessità di una stretta rete di rapporti tra i detentori del potere. Inoltre tali rapporti dovevano essere rigidamente costituiti secondo una scala gerarchica: infatti, date le grandi distanze e le oggettive difficoltà di comunicazione, era logico che ogni grado inferiore dovesse rispondere del proprio operato a quello immediatamente superiore e più prossimo anche fisicamente. L’esistenza poi di un «patto personale» per l’investitura (il feudalesimo si basa infatti sul foedus, patto personale tra l’imperatore - o l’autorità - e i sottoposti) era dovuto alla necessità di rendere ancora più strette le «maglie» di questa rete di cariche data la lontananza fra le sedi dei preposti ma anche data la natura stessa del bene territoriale. Infatti un signore che controllasse una parte più o meno estesa di territorio, se avesse voluto contrapporsi ad altre autorità, avrebbe avuto proprio nelle risorse delle sue terre sufficienti garanzie di autonomia sotto forma sia di viveri e di beni che di persone; inoltre avrebbe potuto sfruttare la posizione geografica dei suoi possedimenti per bloccare economia e commerci di altri signori. Pertanto una struttura politico-amministratiAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 va strettamente verticistica dominava le società sate più al proprio benessere che a quello della sviluppatesi su tutto il territorio europeo. nazione. A Venezia, invece, la concentrazione di tutta la Possiamo invece, a ragione, definire Venezia popolazione in poco spazio comportava una vici- un’aristocrazia nell’accezione originaria del ternanza e continuità di rapporti tra i cittadini e un mine: àristos in greco significa migliore e cratìa diretto controllo nei confronti di coloro che rico- che vuol dire governo, dunque “governo dei miprivano cariche pubbliche. Da ciò nasceva anche gliori”. È importante sottolineare infatti che, difil senso del bene comune: «siamo tutti sulla stes- ferentemente da ciò che succedeva all’interno desa barca». A questo proposito è bene ricordare un gli altri stati europei l’aristocrazia a Venezia non particolare curioso: a Venezia i palazzi dei signori era imposta dall’alto per concessione del sovrano, erano accanto alle case dei poveri, anche questo ma era venuta a crearsi nei secoli proprio per l’edovrebbe far riflettere: nelle altre città di Europa mergere degli individui più capaci e meritevoli. c’erano i quartieri signorili però lontani dai quar- Nell’arco della storia veneziana il momento decitieri poveri, quasi a significare anche in questo sivo in cui vengono a consolidarsi e a fissarsi defimodo la differenza di classe. nitivamente il ruolo e il potere dell’aristocrazia è Un nobile veneziano se avesse voluto opporsi al il 1297, anno della Serrata del Maggior Consiglio. governo con tutti i propri mezzi, per quanto ricco fosse, non avrebbe certo potuto vivere nell’isolamento poiché rimaneva pur sempre in una città alla quale tutte le proprie attività erano legate, non avendo un territorio autonomo. Per questo i veneziani concepivano la partecipazione alla vita pubblica come un dovere (l’assegnazione di una carica non poteva essere rifiutata, anche a costo di spese personali) e per questo la Repubblica Serenissima si basava su un sistema politico-amministrativo orizzontale in cui le persone emergevano in virtù delle proprie capacità. Venezia fu dunque un valido Leone di San Marco con il libro aperto: Venezia è in pace. Basmodello di società meritocratica sorilievo sulle mura di Treviso e liberista. Proprio su meritocrazia e liberismo poggia l’evoluzione della forma di L’evoluzione degli organi di governo veneziani, governo della Nazione Veneta e il suo costituirsi e in particolare del Maggior Consiglio, avvenne in Repubblica Aristocratica. Questa che potrebbe conseguentemente alla crescita della città che alsembrare una connotazione negativa è, in realtà, largò man mano la sua attività e aumentò i suoi un’ulteriore prova di come Venezia abbia intro- abitanti. La serrata acquista dunque enorme riliedotto nel proprio sistema politico caratteristiche vo: è il momento in cui bisogna risolvere il prooriginali e spesso innovative. blema della proporzione della crescita numerica Non dobbiamo commettere l’errore di valutare della popolazione e il numero e la qualità delle fatti e situazioni del passato esclusivamente se- persone che devono rappresentarla. La serrata condo criteri di giudizio contemporanei: è neces- può essere definita come la selezione della classe saria infatti una comparazione con gli altri siste- dirigente veneziana basata però non su un «colpo mi europei del tempo. Vedremo allora intorno a di stato» o su un progetto oligarchico, bensì sulla questa Repubblica Aristocratica una distesa omo- tradizione elettiva delle cariche e perciò sul congenea (e assai poco rassicurante) di monarchie cetto meritocratico con apertura a un grande nuassolute, di re per diritto divino, di popoli senza mero di persone, dato che comprendeva le famivoce asserviti ad aristocrazie (per nascita) interes- glie di tutti quelli che avevano operato al servizio Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 31 della Repubblica da ben centoventicinque anni. Quest’ultimo fatto e la successiva crescita del numero dei componenti del Maggior Consiglio dimostrano proprio che non vi era stata con la Serrata una chiusura oligarchica nella Serenissima, ma che si voleva mantenere una forma di governo allargata al maggior numero di persone possibile, ferma restando la necessità di selezionare le persone più adatte a occuparsi della cosa pubblica. È quindi da sfatare l’opinione, diventata ormai un luogo comune, secondo la quale la Repubblica veneziana sarebbe stata retta da un potere oligarchico. La struttura politico-amministrativa della Serenissima era del tutto singolare e rispondeva a dei principi fondamentali molto diversi da quelli di matrice illuministica a cui noi tutti siamo stati abituati fin dalla costituzione degli Stati «moderni» di tipo centralista. Nella mentalità attuale, infatti, siamo abituati a separare nettamente i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e ad affidarli a degli organi istituzionali a sè stanti, centralizzati, di enormi proporzioni e molto difficilmente collegabili tra loro. Una tale organizzazione porta necessariamente a una incomunicabilità tra poteri dello Stato e, di conseguenza, a una mancanza di risposta ai problemi reali della gente. Non vi è la possibilità di seguire in modo unitario l’iter di un provvedimento dalla sua formazione alla sua attuazione e impatto sulla vita sociale e civile, alla sua eventuale modifica. A Venezia, invece, pur salvaguardando scrupolosamente la democrazia (il Maggior Consiglio assicurava la rappresentatività di tutta la popolazione), si dava anche agli altri organi istituzionali più importanti il diritto di emanare leggi, atti amministrativi, provvedimenti specifici, eccetera, attuando, di fatto, una correlazione fra i tre poteri, non limitando rigidamente l’ambito d’azione di ogni singolo organo. Questa peculiarità della vita politico-amministrativa veneziana rendeva il governo della Repubblica flessibile e adattabile alle necessità, oltre che rapido e puntuale nel soddisfare le esigenze della popolazione. Il «cuore» del governo veneziano era il Maggior Consiglio, istituzione allargata e rappresentativa di tutta la cittadinanza (e ciò è dimostrato anche dal grande numero dei suoi componenti in rapporto al numero degli abitanti). Il Maggior Consiglio aveva il compito di emanare le leggi di carattere generale e strutturale della Repubblica e quello di eleggere a sua volta i vari organi che si sarebbero occupati del bene pubblico, dando loro il mandato a esercitare i poteri legislativo, esecu32 - Quaderni Padani tivo e giudiziario per materie attinenti alle loro competenze. In sostanza avveniva che la rappresentanza dei cittadini, concepita come la loro parte migliore, più preparata e consapevole dei bisogni della nazione, dava le direttive fondamentali e, per quanto riguardava i problemi specifici, non governava direttamente ma doveva scegliere le persone più adatte a farlo. A sua volta il Senato, esercitando il proprio potere esecutivo, nominava i vari magistrati, provveditori, eccetera, quelli che oggi definiremmo i «tecnici», affinché si occupassero con cognizione di causa dei vari settori della vita della Repubblica. Nell’attuale forma di Stato, invece, le persone elette dalla popolazione sono quelle che detengono direttamente il potere legislativo su tutti gli argomenti indistintamente. Vi è quindi una sostanziale diversità tra ciò che succede nello stato attuale (sistema verticistico) e ciò che succedeva nella Repubblica Veneta (sistema orizzontale). Possiamo pertanto fare alcune ulteriori considerazioni sugli effetti della forma di governo precedentemente descritta: - Il rapporto tra numero degli abitanti e componenti del Maggior Consiglio (che aumentarono con l’espansione di Venezia ) era molto basso: vi era, quindi, un’ampia rappresentatività dei cittadini. - La struttura non verticistica, che privilegiava le competenze diffuse e non esclusive, era garanzia di semplicità e trasparenza nei rapporti tra le varie istituzioni e tra queste e la popolazione, limitando anche la complessità della «macchina» istituzionale. - La brevità e la frequente rotazione delle nomine non consentiva di «mettere radici» e scoraggiava la concezione personalistica del potere che poteva portare clientelismo e parassitismo. Ciò valeva anche per il Doge, unico a rivestire una carica vitalizia, ma sostanzialmente svuotata di potere effettivo. - Vi era un controllo reciproco tra i vari organi di governo che impediva la nascita di «feudi» privati. Ad ogni buon conto i governanti erano soggetti, al pari di tutti gli altri cittadini, agli inflessibili rigori della legge; nemmeno il Doge poteva sottrarvisi e i doveri dei patrizi erano maggiori dei loro diritti. - Caratteristica fondamentale degli istituti veneziani era la collegialità. Le responsabilità, infatti, venivano condivise da un alto numero di giudici e di politici e non vi era mai l’accentramento del potere in singole mani, neanche per il Doge. Nessuno godeva di maggior potere; esisteva, invece, Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 In definitiva l’organizzazione istituzionale veneziana può essere per tutti noi un esempio da seguire nella costruzione di una società che abbia veramente al centro l’uomo e che non sia funzionale agli interessi di qualche individuo, classe o corporazione, ma al benessere di tutta la comunità, cosa ragguardevole allora come oggi. “Urbem tibi dicatam conserva”: “Proteggi, o San Marco, questa città che si è data a te!”. Dettaglio del bassorilievo sulle mura di Treviso. un sistema collegiale in cui tutti si assumevano le responsabilità equamente. - Vi era un alto senso del dovere nei confronti di tutta la comunità e una forte responsabilizzazione personale. Così il patriziato veneziano, che nelle proprie mani deteneva ed esercitava il potere, anteponeva gli interessi della Nazione agli interessi personali e di fazione. Le istituzioni repubblicane impedirono, di fatto, a chiunque di sovvertire quelli che erano i fondamenti costitutivi della Nazione. La nobiltà veneziana finì, certamente, con l’estromettere il resto della cittadinanza dall’assunzione delle prerogative di governo, eppure nessuno a livello personale o, ancora, a livello di gruppo, si erse arbitrariamente a guida della Serenissima. Anche nei periodi più bui, la classe dirigente trovò unità e compattezza interna. - A Venezia non esistevano i partiti come li intendiamo oggi, in quanto essi nascono dopo la Rivoluzione Francese, cioè quando viene creato lo scontro di classe. Non essendoci i partiti tutto il sistema veneziano si basava sull’uomo, sui suoi programmi e le sue capacità di realizzarli e non esisteva, di conseguenza, quell’insieme di contrapposizioni o di accordi più o meno occulti che fa di molti attuali sistemi politici qualcosa di avulso dalla realtà e dai problemi dei cittadini. - Nella Serenissima la gestione della cosa pubblica aveva una propria continuità e stabilità. Questo era dovuto essenzialmente proprio alla mancanza di un sistema partitico nel quale a ogni nuova elezione forzatamente cambiano direttive, punti di riferimento e persone interessate. Infatti nel sistema partitico le cariche pubbliche spesso vengono considerate come sedie da lottizzare e da occupare per un tempo sufficientemente lungo per creare una rete di consensi. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Bibliografia esenziale ❐ Ass. Culturale Bepi Viscovich (A. Cadel – M. Camarotto – E.Celsi – M. Conte – P. Vallarelli), Ne la Tera de San Marco, el governo de la Serenissima (Soligo (TV): Amadeus, 2000) ❐ Boerio, G., Dizionario del dialetto veneziano (Milano: A. Martello, 1971). ❐ Cacciavillani, I., Le leggi veneziane sul territorio (1471-1789) (Padova: Signum, 1984) Cacciavillani, I., La Repubblica Serenissima (Padova: Signum, 1985) ❐ Cacciavillani, I., La legge comunale veneziana (1781) (Padova: Signum, 1986) ❐ Cacciavillani, I., La legge forense veneziana (1537) (Padova: Signum, 1987) ❐ Cacciavillani, I., Stato e Chiesa nel contado veneto sotto la Serenissima (Padova: Signum, 1989) ❐ Cappelletti G., Relazione storica sulle magistrature venete (Venezia: Grimaldo E.C., 1873) ❐ Cozzi, G. (a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XVI°- XVIII°), vol. II (Roma: Jouvenge, 1985) ❐ Da Mosto, A., I Dogi di Venezia (Firenze: Giunti Martello, 1983) ❐ Distefano G.- Paladini G., Storia di Venezia (Venezia: Supernova,Grafiche Biesse, 1996) ❐ Lane, C.F., Storia di Venezia (Torino: Einaudi, 1978) ❐ Pezzolo, L., “La finanza pubblica”, in “Storia di Venezia”, Enciclopedia Italiana Treccani, vol. VI (Roma, 1994) ❐ Sanudo, M., I diari, pagine scelte a cura di Margaroli P. (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1997) ❐ Urban, L., Processioni e feste dogali (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1998) ❐ Tafuri, M., Venezia e il Rinascimento (Torino: Einaudi, 1985) ❐ Vanzan Marchini N.E., I mali e i rimedi della Serenissima (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1995) ❐ Zordan, G., L’ordinamento giuridico veneziano (Padova: CLEUP, 1980) ❐ Zorzi, A., La Repubblica del leone (Milano: Rusconi, 1979) ❐ Zorzi, A., Una Città, una Repubblica, un Impero (Milano: Mondadori, 1989) Quaderni Padani - 33 L’insediamento di Monte Bibele di Alessandro Barzanti I Galli, già presenti fin dal VII secolo, hanno invaso più incisivamente la Padania meridionale alla fine del V e gli inizi del IV secolo. Tra le diverse popolazioni galliche, i Boi si sono insediati in un territorio occupato precedentemente dagli Etruschi, arrivando a ovest fino a Parma, a nord al Po, a nord-est al territorio dei Lingoni. A est e a sud-est il confine era segnato dal torrente Utens, l’Utente (attuale Montone, a sud di Ravenna). La sovrapposizione agli Etruschi ha dato luogo a forme di cultura composite, il cui esempio maggiormente significativo ci è dato dal sito archeologico di Monte Bibele, sulle colline bolognesi. I ritrovamenti che da circa trent’anni affiorano da questa terra fanno di questo luogo uno dei più interessanti siti etrusco-celtici. Dopo alcuni anni di scavi disorganizzati, nel 1978 l’Istituto di Archeologia dell’Università di Bologna ha deciso l’allestimento di un cantiere sotto la supervisione del professor Daniele Vitali che ancora oggi dirige gli scavi. Le campagne di scavo successive a questa data hanno permesso di ricostruire la storia complessiva del sito. Da allora sono stati rinvenuti un abitato, una ne- cropoli e due aree di culto. I dissotterramenti hanno permesso di capire che la storia di Monte Bibele è cominciata nel 3.000 a.C. nell’Età del Rame, ed è proseguita nell’Età del Bronzo recente (1.300-1.200 a. C.). In seguito il luogo è stato abbandonato e ripopolato nuovamente solo nel V secolo a.C. dagli Etruschi e poi, dal IV, dai Celti. Il villaggio etrusco-celtico di Monte Bibele ci affida immagini rare e affascinanti della vita quotidiana del tempo e ci illustra in modo affidabile come era strutturato quel particolare insediamento. Il territorio sul quale è sorto il villaggio è in forte pendenza e questo inconveniente è stato risolto brillantemente con una serie di terrazzamenti artificiali che, si è constatato, rispondevano a un severo piano regolatore. Questa tecnica è stata impiegata dagli Etruschi, che avevano forse continuato modalità apprese dai loro predecessori, con l’unica differenza di non avere utilizzato il pendio naturale della montagna ma di averlo fortemente modellato mediante muri di contenimento in sasso: quegli stessi muri che, anche se deteriorati dal tempo, sono ancora oggi ben visibili. I tetti Alari ed altre suppellettili rinvenute a Monte Bibele delle case erano inoltre inclinati verso valle in modo da far scorrere l’acqua piovana lungo le stradine che si snodavano davanti all’abitato. L’area abitativa si articolava su una decina di terrazzamenti artificiali raccordati da una serie di assi stradali disposti ortogonalmente. Ad ogni terrazzamento corrispondeva un isolato nel quale trovavano posto più unità abitative (sei-sette case). L’esplorazione dell’area ha evidenziato la presenza 34 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Ricostruzione di casa celtica al Museo di Monte Bibele di una quarantina di case, di cui ne sono state scavate sistematicamente una ventina, costituite da un vano unico a pianta quadrangolare di modeste dimensioni, di circa trentacinque-quaranta metri quadrati. Tuttavia i dati di scavo mostrano che in alcune case le superfici abitabili venivano moltiplicate sfruttando lo spazio in altezza mediante la creazione di un piano rialzato. Le abitazioni erano costruite prevalentemente in pietra arenaria con alzati composti da strutture lignee e argilla compressa (il cosiddetto “graticciato”), mentre la copertura, sostenuta da pilastri di legno, probabilmente era ad una sola falda, costruita con materiale stramineo deperibile. Il pavimento era in terra battuta. Nell’abitato sono state individuate anche aree di uso pubblico, come una cisterna circolare, profonda quattro metri per la raccolta di acqua sorgiva della capacità di circa ottantamila litri, e alcuni magazzini per la conservazione di derrate alimentari. Che l’acqua fosse molto importante per questo villaggio sarebbe confermato dall’origine del nome “Bibele” che qualcuno farebbe derivare dal verbo latino “bibo” che significa “bere”. Altri vi vedrebbero la radice dell’antica paroAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 la usata per indicare il castoro, un animale piuttosto frequente nella Padania dell’epoca. Sull’altro versante, a circa 200 metri a nordovest dell’abitato, sulla sommità denominata Monte Tamburino, si trova la necropoli. Qui gli scavi sono iniziati nel 1979 e hanno permesso di identificare fino a oggi 155 tombe che si riferiscono a un periodo compreso tra la metà del IV secolo a.C. e gli inizi del III a.C. La loro successione ne definisce l’età, infatti gli antichi hanno iniziato a collocare le tombe nella parte più alta del monte. Si tratta di fosse scavate nel terreno, a pianta rettangolare o a T. Le ricerche hanno portato a individuare riti funebri sia di inumazione che di cremazione. Interessantissimi sono poi i reperti di vasellame con bicchieri, scodelle e piatti. I dati epigrafici, che emergono dalle descrizioni vascolari delle prime file di tombe, hanno ribadito che i fondatori dell’insediamento sono stati Etruschi dell’Etruria padana. È stato inoltre confermato che le attività dei bibeliani spaziavano dall’agricoltura all’allevamento e al commercio. Sono stati ritrovati anche resti di frumento, uva, piselli, olive, ghiande, fave e mele. Una buona parte degli oggetti rinvenuti sono ora esposti nel Museo di Monterenzio. Quaderni Padani - 35 Il sito archeologico di Monte Bibele Il Museo civico Luigi Fantini Il Museo civico archeologico del Comune di Monterenzio raccoglie ed espone su oltre 250 metri quadrati le testimonianze del sito archeologico di Monte Bibele, che è l’emblema dei Celti a sud delle Alpi. Inaugurato nel 2000, raccoglie l’esposizione dei materiali già presenti nel “vecchio” museo realizzato nel 1983, le nuove scoperte effettuate negli ultimi anni e testimonianze provenienti dal territorio circostante che erano custodite in precedenza dalla Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna. Il sito archeologico di Monte Bibele costituisce da tempo uno dei punti di riferimento internazionale per gli studi e gli scavi di ambito celtico. La nuova esposizione permanente si propone di valorizzare i risultati delle campagne di scavo ampliando la sezione espositiva, anche attraverso iniziative di ampio respiro come convegni, seminari e cicli di conferenze, volte a valorizzare il patrimonio storico archeologico del territorio della Valle dell’Idice. Nella nuova struttura, che è su tre livelli, trovano spazio anche un laboratorio di restauro, un’au36 - Quaderni Padani la didattica, uno spazio per conferenze e un deposito. Ad esclusione di alcuni oggetti che erano già stati esposti in occasione della mostra sui Celti organizzata a Venezia nel 1991, la maggior parte dei reperti è stata mostrata per la prima volta al pubblico grazie all’inaugurazione della nuova sede. L’importanza scientifica di questi ritrovamenti è stata evidenziata grazie al colloquio internazionale “Celti ed Etruschi nell’Italia settentrionale dal V secolo a. C. alla romanizzazione” (Bologna, aprile 1985) e alla Mostra sui Celti (Venezia, Palazzo Grassi, 1991). Inoltre, in seguito all’importante incontro tra studiosi italiani e stranieri dal titolo “Tra mondo celtico e mondo italico: La Necropoli di Monte Bibele” (Roma, ottobre 1997), si è deciso di focalizzare l’attenzione della nuova esposizione sull’area archeologica di Monte Bibele, tenendo conto anche delle principali tappe della presenza umana nel territorio circostante. Sepoltura celtica Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Il percorso museale è articolato in 5 sezioni: nell’atrio una serie di pannelli e foto illustrano la storia degli scavi fatti in Appennino e sono esposti i ritrovamenti più recenti in una sorta di “spazio novità”; nella prima sala si trovano le testimonianze delle prime fasi di insediamento umano nelle valli dell’Idice e dello Zena ed è proposta una visione sintetica della più antica frequentazione dei relativi siti. Nelle vetrine parietali, che si alternano a pannelli didattici con carte e fotografie, i reperti vanno dalle più antiche fasi del Paleolitico alla romanità; la seconda sala è invece dedicata all’abitato di Monte Bibele, ed è affiancata dalla ricostruzione ‘’fedele’’ di una abitazione. La vita quotidiana è stata ricostruita attraverso gli oggetti messi in luce dagli scavi, ma anche attraverso pannelli esplicativi, fotografie, disegni, carte, piante e utili ricostruzioni dell’aspetto originario e delle modalità d’uso di alcuni strumenti come il telaio verticale, le zappe e i falcetti; la terza e quarta accolgono i più significativi corredi della necropoli di Monte Bibele: spade, foderi, elmi, vasellame da banchetto, pregevoli oggetti ornamentali e di abbigliamento, e alcuni materiali provenienti dalla necropoli di Monterenzio Vecchia. Il Museo raccoglie anche un buon numero di monete. Queste offrono un quadro molto articolato per provenienza e cronologia, a testimonianza dell’elevata vitalità dell’insediamento. Si tratta di monete riferibili alle emissioni romane “semilibrali” (quattro once) e “onciali” (un quadrante), di un vittoriato, di una moneta fusa della zecca di Cales e di quattro dramme padane in argento. Queste ultime rappresentano uno Costruzioni nel sito archeologico di Monte Bibele dei rinvenimenti più consistenti tra le rare attestazioni di monetizzazione celtica nell’area occupata dai Boi. Sono poi esposte didracme di Neapolis, romano-campane e una didracma campanotarantina. L’associazione di monete diverse provenienti dalla Magna Grecia ha portato gli studiosi a pensare che fossero il compenso dell’attività di mercenariato di qualcuno degli abitanti di Monte Bibele. Contatti con altri popoli sono testimoniati anche da particolari fogge ceramiche, come i Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 37 Planimetria del sito di Monte Bibele bicchieri con bugne e da una laminetta iscritta il cui testo è ancora allo studio. A una prima analisi la presenza della lettera “o” fa propendere per l’umbricità di questa testimonianza epigrafica. Altri materiali, in particolare alcune olle, e una fibula ad arco foliato liscio, hanno portato a ipotizzare la presenza di individui di etnia ligure all’interno del villaggio. La componente etnica che più di altre ha però influenzato il villaggio è senz’altro quella etrusca a testimonianza del si38 - Quaderni Padani gnificativo livello d’integrazione tra i più antichi abitanti ed i Boi. Lo si è dedotto dai corredi funebri e dalle iscrizioni sinistrorse in alfabeto etrusco settentrionale che riportano nomi tipici di famiglie etrusche di area padana. Il Museo presenta infine una consistente quantità di figurine di bronzo e vasellame ceramico raccolto nel deposito votivo di Monte Bibele, uno dei più significativi dell’Etruria Padana. La maggior parte dei bronzetti raffigura l’orante, cioè il Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 devoto in atteggiamento di preghiera. La struttura verrà gestita nei prossimi cinque anni dal Dipartimento di Archeologia, grazie ad una convenzione tra Comune di Monterenzio e l’Università di Bologna. All’interno del Museo sarà presto operativo il Centro Archeologico Internazionale di Monte Bibele, punto di incontro e dibattito per studiosi e studenti di tutta Europa. Su prenotazione vengono effettuate visite guidate sia all’esposizione permanente, sia all’area archeologica, che comprende i resti del villaggio etrusco-celtico e la relativa necropoli. Il museo organizza anche laboratori di didattica per le scuole elementari e medie.(1) Ma quando cessò di vivere il villaggio di Monte Bibele? L’abbondante testimonianza di ceramica liscia o suddipinta, principalmente etrusco-volterrana, ricopre un arco cronologico dal IV al II sec. a.C., con una concentrazione nel III sec. a.C. Anche le monete non vanno molto addentro al II sec. a.C. I reperti portano quindi a pensare che le tracce d’incendio disseminate su tutta la superficie del sito, e che hanno annientato l’abitato, siano ar(1) Il Museo Fantini è visitabile con i seguenti orari: Orario “estivo”: nei mesi da marzo a novembre,da martedì a venerdì ore 9-13. Sabato, domenica e festivi ore 9-13 e 15-18. Orario “invernale”: nei mesi da dicembre a febbraio è aperto solo il sabato e i giorni festivi ore 9-13 e 15-18. Giorni feriali: apertura su prenotazione per gruppi e scolaresche. Per informazioni: Museo civico archeologico “Luigi Fantini” Tel./fax. 051.929766, E-mail: [email protected]. Monte Bibele si trova tra le valli dello Zena e dell’Idice, in provincia di Bologna. Dall’autostrada A14 occorre uscire a S. Lazzaro oppure a Castel San Pietro e poi immettersi sulla SS 9 Emilia in direzione Monterenzio. Per chi proviene dalla statale Firenze-Bologna è opportuno invece uscire nei pressi dell’abitato di Monghidoro per raggiungere il paese di Quinzano, dove campeggiano i cartelli indicanti la direzione dell’area archeologica. A 3 chilometri c’è un piccolo parchegAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Telaio celtico gio, dopo il quale si può proseguire solo a piedi. Il percorso è in mezzo al verde e si giunge dopo circa venti minuti a un primo pannello informativo che riporta l’itinerario da seguire internamente a un bosco. L’insediamento è a Pianello di Col Savino, che si raggiunge in circa 30 minuti di cammino e poi, dopo altri 25 minuti, equivalenti a mezzo chilometro in linea d’aria, c’è il colle Tamburino con la necropoli. Lungo il percorso che collega l’abitato alla necropoli è stata individuata nel 1989 una stipe votiva. Poco distante, in seguito ai sondaggi effettuati, stanno affiorando nuove cose; gli archeologi però non ne parlano e non danno indicazioni per individuare il sito. Prima di renderlo pubblico, per evitare che tombaroli professionisti li precedano, aspettano i finanziamenti necessari ad aprire i nuovi cantieri. Il Museo si trova invece a Monterenzio in via Idice 180/1. Quaderni Padani - 39 rivate all’improvviso all’inizio del II secolo a.C. Risalgono probabilmente quindi alla fine del III - inizio del II sec. a.C., in relazione alle operazioni di conquista effettuate dai romani nell’area bolognese. Dalle cronache sappiamo che la distruzione per incendio era prassi normale della conquista e della repressione romana. La particolarità di Monte Bibele deriva dal fatto, piuttosto anoma- dine geografico, economico-commerciale e di collegamenti. Evidentemente la localizzazione di Monte Bibele doveva trovare origine in qualche altro elemento che deve essere, a un certo punto, venuto meno. Estremamente interessante a questo proposito è la notizia riferita da Fabien Régnier circa la possibile conservazione proprio a Monte Bibele di una “pietra di sovranità”, segno identitario delle tribù dei Boi ma forse anche di tutta la confederazione di popoli cisalpini simile alla notissima “pietra del destino” degli Scozzesi, ma anche di quella della foresta dei Carnuti in Gallia, di quella del Rütli in Helvetia, dei Britanni a Mona (o sulla Collina Bianca di Londinum) e dei Celtiberi (a Nemetobriga o a Brigantium).( 2 ) L’esistenza di questo fortissimo segno di identità e sacralità, così tipico delle culture celtiche, potrebbe spiegare la fine definitiva di questo insediamento: sia che i Romani vi ci siano accaniti con particolare brutalità impedendo qualsiasi ricostruzione (come per Cartagine), sia che i Celti avessero portato la “pietra di sovranità” altrove ritenendo perciò inutile la riedificazione di quel centro fino ad allora così importante. In ogni caso si deve essere paradossalmente grati alla brutalità romana che ha permesso, a molti secoli di distanza, la scoperta di così importanti Ricostruzione della sepoltura di un guerrriero celtico testimonianze archeologiche che, in tutti gli altri centri padani, sono lo, che l’insediamento non sia stato ricostruito. scomparse sotto stratificazioni insediative succeTutti gli altri centri padani sono in seguito in- dutesi con grande sistematicità nel corso degli fatti stati riedificati dagli abitanti superstiti o da eventi storici. genti in genere provenienti dalle aree di collina e di montagna circostanti. Non ci sono ovvia- Bibliografia mente indicazioni incontrovertibili circa il mo- ❐ Daniele Vitali (a cura di), Monterenzio e la tivo del definitivo abbandono del sito, che pure valle dell’Idice (Monterenzio (BO): Casa della era stato abitato per secoli da tutte le popolazio- Cultura, 1990) ni e civiltà che si erano succedute nell’area. È ❐ AA.VV., I Celti (Catalogo della mostra di palazstato però ipotizzato che l’anomalia potesse es- zo Grassi, Venezia, Milano: Gruppo Editoriale sere legata a qualche specifica particolarità del Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1991) sopratposto e alle vere motivazioni della sua colloca- tutto ai capitoli: “I Celti in Italia” (pag. 220 e sezione che dovevano perciò essere diverse da guenti), e “Abitato e necropoli di Monte Bibele”. quelle “normali” che hanno permesso la durata nel tempo di gran parte degli insediamenti padani sulla base di una consolidata “legge di per- (2) Fabien Régnier, La Pierre de Souverainté (Vincennes: sistenza”, legata in genere a motivazioni di or- Editions du Nemeton, 1998), pag. 33 40 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Francesco Formenton: un federalista vicentino di Renato Giarretta N ella primavera del 1848 nei popoli d’Europa si manifestarono con forza e contemporaneamente due rivendicazioni: indipendenza nazionale e democrazia. Per il popolo veneto concretamente ciò significò ribellarsi alla dominazione asburgica e instaurare una nuova repubblica. La storiografia sabauda prima e italiana poi, si è ben guardata dall’evidenziare la componente federalista della rivoluzione veneta del 1848, nonostante fin dai primi giorni della rivolta veneziana, fosse chiara la volontà di un ritorno ad un libero stato Veneto inserito in una confederazione di stati italiani. Numerosi sono i documenti attestanti le posizioni espresse dai grandi protagonisti veneziani di quegli eventi ovvero Daniele Manin(1) e Nicolò Tommaseo(2), ma quelle idee non erano confinate entro Venezia, bensì erano diffuse anche in tutto il Veneto. Quando il 17 marzo 1848 fu proclamata a Venezia la Repubblica Veneta, in tutte le città venete sorsero dei Comitati Dipartimentali che aderirono immediatamente al nuovo governo indipendente. Anche a Vicenza l’adesione fu immediata, ma furono poste due condizioni “Per tale adesione non si intende pregiudicare in guisa alcuna né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia né una speciale confederazione dei due stati…né la generale confederazione degli stati italiani”.(3) Le posizioni del Comitato quindi erano federaliste e repubblicane in totale sintonia con le idee di Manin e Tommaseo. A Vicenza nell’aprile del 1848 fu pubblicata un’opera di carattere politico e sociale: Catechismo Politico al Popolo. L’autore era Francesco Formenton o meglio “il cittadino Francesco Formenton“ nato a Vicenza il 25 giugno 1799, laureato a Padova in matematica, direttore ai lavori stradali a Vicenza fino al 1856. Esiliato per i moti del 1848, Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 tornò più tardi a Vicenza dove morì il 4 dicembre del 1874. Nel Catechismo Politico al Popolo Formenton espone con estrema chiarezza le proprie convinzioni relative alla forma di stato che il Veneto, libero e sovrano, avrebbe dovuto avere rapportandosi con gli altri stati italiani. Il trattato fu concepito come dialogo-intervista tra un ipotetico intervistatore e un giovane di circa vent’anni. Il momento storico in cui si svolge il racconto è quella della primavera del 1848, quando Venezia e il Veneto si erano liberati (momentaneamente ) dalla dominazione asburgica. Nella prima parte vengono esposti i motivi della rivolta contro la Casa d’Austria “(…) quel governo era tristo dovunque, tristissimo nel Regno Lombardo-Veneto (…) non v’era che dispotismo, arbitrio, rapacità, ipocrisia, oppressione, guerra nascosta contro il sapere, contro le civili virtù, contro il progresso, contro le libertà (…). Gli atti furono empii ed atroci: non (furono) rispettate le cose sacre, non gli averi, non le persone, non il sangue umano, non sesso, non età….( il governo austriaco) traea oro, non patate dall’Italia. Ma il Regno Lombardo-Veneto gli è sfuggito“.(4) Successivamente vengono messi in evidenza i diritti fondamentali dei popoli; “Ogni popolo ha il diritto sovrano di scegliere quella forma di governo che più trova consentaneo alle sue circostanze, alle sue tendenze: il diritto di farsi le leggi che reputa più utili, sempre che non offendano gli altri popoli: di abrogare o modificare le leggi rese cattive dalle variate condizioni nazionali: di eleggere i suoi rappresentanti e i suoi magistrati e di (1)Dennis Mack Smith, Il Risorgimento Italiano, pagg. 402407 (2) Ibidem, pagg. 281-283 (3)Vicenza Illustrata, pag. 410 (4) Francesco Formenton, Catechismo Politico al Popolo, pag. 6 Quaderni Padani - 41 cambiarli se al dovere mancano: ha il diritto di nazionalità, diritto supremo, inviolabile, inestinguibile (…)”.(5) Nella parte successiva del trattato, Formenton affronta la questione relativa alle forme di governo possibili e dopo una bocciatura decisa sia del Governo Dispotico, sia del Governo Monarchico Costituzionale, esprime la totale adesione al Governo Repubblicano: ”Il Governo Dispotico esige dai popoli obbedienza passiva: il Monarca vuol essere il padrone assoluto: i sudditi vivono e posseggono alcune cose per una grazia del Despota: ei può trarre chi gli aggrada al carcere, all’esilio, alla morte: può imporre tributi a suo piacimento, ed empiere di eserciti minacciosi le loro terre. Egli fa la guerra o la pace per vantaggi privati e dinastici; vuole territori o ne compera; ne conquista se ha forza, e se crede tornagli utile alle sue mire. Il Despota perseguita chi dice la verità, chi sostiene il diritto, il giusto: spegne ogni sentimento generoso di nazionalità, di patria, di eroismo, di virtù. Il Dispotismo è il trionfo dei malvagi, la ruina dei buoni cittadini; è il regno della volontà privata, non della legge. E tutte queste scelleraggini copronsi di sublime ipocrisia, e di orribili perfidie. Il Governo Monarchico Costituzionale è un regime politico, nel quale v’ha un Re per capo: ma egli deve governare a seconda di uno Statuto o legge fondamentale (…). Tutti i supremi poteri menzionati (legislativo, esecutivo, giudiziario) devono essere garantiti con apposite istituzioni (…). Ma i Re seppero non di rado eluderle, e corrompere ogni buon sistema di Governo, facendosi Despoti e Tiranni. Napoleone spense le libertà; Carlo X e Luigi Filippo I diedero altre lezioni di grande importanza. Il diadema stracciò la Carta (…). Nella Repubblica non vi ha Re, ossia non ammettesi un capo con regie attribuzioni. Un Presidente non ha le facoltà di un Re. (…) chiaro apparisce che la Repubblica democratica avvicina gli uomini alla eguaglianza, più di ogni altra forma di Governo. E credo che come più le nazioni saliranno a civiltà, più alla Democrazia tenderanno. (…) Nel Lombardo e Veneto evvi a fondare un nuovo Governo: i Principi nostri non vi hanno, non possono avervi ingerenza veruna: i Lombardo-Veneti possiedono facoltà sovrana e piena di scegliere quella forma di Governo che può meglio convenire alla loro sorte, al loro benessere. Gli altri popoli italiani non vi s’immischiano punto! Un 42 - Quaderni Padani popolo che alla patria fa il sacrificio degli averi, delle agiatezze, della vita: un popolo che giura di morire sotto le ruine delle proprie città, anzi che sottomettersi di nuovo a signoria forestiera: un popolo che co’ petti e poche armi ha sconfitto ordinati eserciti, e che risoluto insegue il nemico, onde cacciarlo dalla sua terra: un popolo forte nella lotta, generoso nella vittoria, umano co’ più feroci distruggitori: un popolo che, fatta qualche eccezione, fa buon uso della libertà della parola e della stampa (…) è meritevole della Repubblica Democratica. Nei Lombardi e Veneti voi travate tutti questi notabili fatti (…). Nel Veneto e nella Lombardia la forza morale della legge esiste (…)”.(6) Successivamente Formenton affronta il problema dei rapporti tra che il nuovo Stato Lombardo-Veneto e gli altri Stati italiani; qui il Catechismo Politico al Popolo si rivela di grande interesse e nonostante sia datato di oltre 150 anni, si rivela più attuale di molta letteratura pseudofederalista di oggi. “Ma qui non si vuole né smembrare né disgiungere: si tratta invece di sapere come verrà sistemato ciò che formava il Regno LombardoVeneto. Tal’altro cittadino esclama: Unitevi, Lombardi e Veneti, al Piemonte: se no come vorreste essere forte contro gli stranieri? Io rispondo: colla Italica Confederazione, diretta dal Parlamento Italiano. E l’unità italiana? Vorreste dunque cacciar i Principi che onorevolmente sostennero, difesero, e vollero l’italica libertà ed indipendenza? Ma voi, come noi, diceste che ciò non sia. Accontentiamoci dell’unità Italiana colla santa tutela del supremo Nazionale Congresso. Fuori di ciò vedrei l’Italiana Repubblica, non la Monarchia.“( )”E diciamo che una Repubblica, ove il popolo ha forza e conservi moderazione, reca libertà più estese, che la Costituzionale Monarchia (…) i Lombardi e Veneti hanno dottrina, valore, energia, fermezza, per instabilire la Repubblica, e per consolidarla“.(8) Più avanti elencando le condizioni di in buon governo viene ripreso il concetto di indipendenza nazionale: “Ogni popolo ha naturale diritto alla sua Indipendenza. Fuori ogni straniero dominio! O sarà spenta la vostra nazionalità (…). La Indipendenza Italiana è di due maniere: ver(5) Ibidem, pag. 8 (6) Ibidem, pagg. 9-16 (7) Ibidem, pag. 16 (8) Ibidem, pag. 19 Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 so le genti esterne e verso il nemico o le genti interne. Ogni popolo, grande o piccolo, è per diritto indipendente da qualunque altro popolo. Suppongasi che uno o più popoli italiani si aggreghino ad altro popolo pure italiano: ci vuole libera volontà, libera adesione, regolarmente espressa, dei popoli contraenti. Un capo, un cittadino, alcuni cittadini, se non v’ha apposito mandato del popolo, non possono disporre della sorte dei loro concittadini”.(9) Successivamente vengono affrontate altre problematiche sociali e politiche quali la Libertà e la Eguaglianza: ”L’uomo nasce libero ed indipendente. La società deve conservarlo libero e indipendente, quant’è possibile, avuto riguardo al bene di tutti i membri del corpo politico (…) il cittadino può fare tutto quello che la legge positiva non vieta; e deve fare tutto ciò che la legge sociale prescrive. In tal modo si evita il dispotismo, la tirannia, il disordine (…). Nelle libertà nostre è importante quella della parola e della stampa“.(10 ) “L’Eguaglianza che dicemmo non importa l’eguaglianza di fortune nei cittadini, le quali dipendono da varie combinazioni. La Sanità, i talenti, l’attività e le circostanze buone e cattive che circondano la vita degli uomini sono di- Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 verse e diversamente fruttano. Tutti sanno che gli eccessi della ricchezza e della miseria nuocono; il che merita riflesso e legale rimedio. Ma l’eguaglianza assoluta in tutte le cose, il Comunismo, è impossibile, assurdo (…). Un popolo qualsiasi è in diritto uguale a qualunque altro popolo, perché la eguaglianza è fra i primi doni che Dio impartì agli uomini, e perciò ai popoli. Quindi ogni popolo può governare come meglio gli piace“.(11) Anche nella parte conclusiva Formenton ritorna sul concetto di sovranità dei popoli e non lascia dubbi su quali avrebbero dovuto essere i rapporti tra gli stati italiani, un progetto ben diverso da quello ideato e, ahimè, realizzato prima dai Savoia e poi dalla Repubblica italiana. La rivolta del 1848 si concluse tragicamente per il popolo veneto che ritornò a essere suddito di diversi padroni: restano comunque numerose testimonianze di una rivoluzione indipendentista e federalista ben diversa da un risorgimento tutto nazionaltricolore. (9) Ibidem, pagg. 23-24 (10) Ibidem, pag. 24 (11) Ibidem, pag. 25 Quaderni Padani - 43 La bandiera di libertà dell’Arpitania Cisalpina di Joseph Henriet N ei primi anni 70, il Movimento Arpitania propone come bandiera delle regioni francoprovenzali attorno al Monte Bianco una croce bianca in campo rosso, corredata da una banda verticale nera con tre stelle; le stelle stavano a significare le tre porzioni della’Arpitania divise: il Vallese che, pur godendo di sovranità propria, fa parte della Confederazione Elvetica, la Savoia sotto dominio francese e la Valdaosta che assieme alle Valli montane del Canavese, si trova sotto il dominio italiano. Quando nacque la Lega in Valdaosta, nel 1993, essa propose di recuperare in parte la bandiera arpitana e adottò come bandiera della “nazione” valdostana la croce bianca in campo rosso e nero, con il nero posto in basso e il rosso in alto; l’Alberto da Giussano in giallo campeggiava al centro: fu questo il simbolo che rappresentò il movimento leghista valdostano. Nel 1998 la Lega, assieme la Movimento degli Indipendentisti valdostani, decise di adottare tale bandiera, senza l’Alberto da Giussano, come simbolo dell’aspirazione all’indipendenza e al federalismo della Valdaosta inserita nella futura Confederazione europea dei Popoli e delle Comunità. La simbologia della nostra bandiera è densa di significati. Prima di tutto sia la croce che i colori fanno parte della tradizione storica. La croce è legata all’Impero Romano Germanico sotto l’influenza del quale la Valle restò per parecchi secoli. La croce è simbolo antichissimo, precristiano; risale al periodo neolitico; è un simbolo antropomorfo che ritroviamo in numerose incisioni rupestri. La croce è simbolo di vita. Secondo una interessante interpretazione i quattro bracci della croce significano le quattro forze che, a detta dell’antica filosofia, reggono il mondo e ne permettono la vita: fuoco, aria, acqua e terra. Molto curiosamente la scienza moderna è in accordo col fatto che la vita sia “retta” da quattro “elementi”, che però non sono gli stessi che credevano gli antichi; quattro sono le “basi azotate”(denina, timina, citosina e guanina) che costituiscono i geni e quindi la registrazione e la trasmissione della Vita. La croce è simbolo di resurrezione: l’iconografia cristia44 - Quaderni Padani na sovente rappresenta il Cristo risorto con una croce in mano. La croce della nostra bandiera significa quindi la volontà del nostro popolo risorgere, di esistere e vivere come popoli liberi, per la qualcosa è necessario non dimenticare le nostre radici che sprofondano fino nel neolitico, quando con la grande, ancora d’importanza irripetuta, rivoluzione agricola nacque l’odierna Europa. È curioso constatare infine che le comunità, le nazioni e gli stati che maggiormente hanno caratteristiche tipiche della civiltà europea inalberano ancora sui loro vessilli il simbolo della croce; essi si trovano curiosamente nella fascia marginale e nelle zone montuose conservatrici del nostro continente: i popoli che si affacciano sull’Atlantico (Baschi, Bretoni, Scozzesi, Norvegesi e Svedesi) e quelli della zona alpina che va dal Rodano fino all’Istria. Il popolo arpitano è fra questi. I colori rosso e nero della nostra bandiera sono colori storici. Già la famiglia nobile degli Challant li prediligeva sui suoi stemmi. I colori rosso e nero caratterizzano anche lo stemma del Ducato d’Aosta, preesistente la Ducato di Savoia. I colori rosso e nero, su proposta del canonico Bréan, insigne e quasi solitaria figura di sacerdote patriota, furono inalberati, durante la lotta di liberazione partigiana valdostana dal colonialismo fascista, dagli autonomisti di Emile Chanoux e costituiscono ora la bandiera della Regione. Il colore nero che occupa i due quarti inferiori simboleggia la terra, la base su cui opera la Vita, il territorio su cui sono vissuti i nostri antenati, lo scenario che ha visto le gesta dei nostri gloriosi antenati, dai Salassi ai Saraceni alpini, le valli che ci rivedranno liberi. Il rosso invece, che occupa i due quarti superiori, rappresenta il fuoco che deve riaccendersi in noi per potere, qual fiamma ossidrica, fondere le catene di prigionieri, temprare i nostri cuori e rendere lama tagliente la nostra volontà di lottare per l’indipendenza. Nessuna altra bandiera può meglio indicare la voglia di libertà del nostro popolo. È auspicabile poi che la nostra bandiera di libertà venga adottata anche dalle Valli montane del Canavese e che rappresenti la comunità tutta dell’Arpitania cisalpina. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 La trota marmorata di Gigi Ferrario D i tutti gli endemismi che Madre natura ha regalato alla Padania, uno è particolarmente significativo. Si tratta di un pesce, un salmonide, la “trota marmorata” (Salmo trutta marmoratus), di bellezza unica. Tipica abitatrice del Po e di tutti i suoi affluenti, è presente in queste acque da sempre ed è considerata la Regina delle Trote, e la trota padana per eccellenza. È un pesce snello, robusto, che predilige le acque ossigenate e limpide. La sua livrea è colorata in modo variegato con striature che assomigliano a quelle marmoree (da qui il nome) che si disgiungono in macchie più o meno grosse sul capo. Può raggiungere il metro di lunghezza e il peso di 10 kg. Ricercata per le sue carni squisite è considerata dai pescatori una pre- da non facile per la sua scaltrezza e diffidenza, quindi la sua cattura è molto ambita. Questo pesce ha fatto dannare e gioire generazioni di pescatori e ha creato addirittura leggende su di sé. Questa abitatrice dei nostri fiumi padani deve però ora convivere con altri tipi di trota. Vediamo il perché. Sembra che l’albero genealogico integro sia Due immagini di Trota marmorata da considerarsi, per alcuni, cosa fastidiosa o quanto meno stravagante. Infatti nei primi anni del secolo scorso è cominciata quella che si può definire una sistematica alterazione genetica. Un certo commenAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 45 dator Rizzetti - milanese - pensò - bontà sua - di migliorare questa specie e introdusse nelle acque della Sesia, dell’Oglio e dell’Adda, trote che nulla avevano a che vedere con la nostra. Si trattava di trote foreste della specie Salmo macrostigrna che vivono solamente nelle acque della Sardegna, Sicilia e Tunisia. Il risultato è che incrociandosi con queste ultime, la “marmorata” in buona parte ha perso le caratteristiche che la distinguono. Ma evidentemente non bastava. Tant’è che, dopo un decennio, questa volta con l’avallo degli ambientalisti, delle società di pesca eccetera, si introdusse un altro tipo di trota, di ceppo atlantico, spacciandola per trota di fiume. Si trattava della “trota fario” (Salmo trutta fario) detta anche “trota bruna”. La “trota marmorata” è stata ulteriormente depauperata delle proprie qualità genetiche, quindi la perdita delle striature della livrea, sostituite da macule di vari colori (ibridismo). Ma ancora, pescatori di nome ma non di spirito, ci hanno riprovato con una ulteriore specie, questa volta proveniente dall’America del Nord: la “trota iridata” o “trota arcobaleno” (Salmo trutta gairdneri), che in 46 - Quaderni Padani comune con le altre ha solo il prenome Salmo. Questa volta si è trattato addirittura di una specie da noi sterile, che nelle nostre acque è riuscita ad acclimatarsi molto bene, avendo meno esigenze delle altre. Ma occupa comunque nicchie ecologiche tali da contendere il cibo e lo spazio alle specie precedenti. Per la “marmorata” è finita? È stata colonizzata completamente? No! Per fortuna vi sono luoghi dove resiste strenuamente all’invasione genetica. Sono i tratti alti dei fiumi dove si è rifugiata. Solo da pochi anni ci si è accorti che si stava perdendo un patrimonio ittico di particolare pregio… Occorre perciò, se si vuole il ritorno nelle nostre acque di questa specie autoctona, salvaguardare gli esemplari rimasti e, attraverso allevamenti adeguati (per altro non facilmente gestibili, visto la selvaticità dei soggetti), reintrodurli negli spazi originari. Non vogliamo trote a ogni costo e che naturalmente non ci appartengono. Vogliamo invece che questo splendido pesce riacquisti la sua identità tornando a ripopolare i nostri fiumi, torrenti e fontanili. È un nostro simbolo di padanità. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Gallignano: annotazioni su un borgo padano* di Mario Pedrabissi G allignano si trova pochi chilometri a nord di Soncino, in provincia di Cremona. Il suo territorio è completamente pianeggiante. Lo strato coltivo è sottile con grossi ciottoli arrotondati (da cui il locale nomignolo scherzoso di “Gallignano sul sasso”) e il sottofondo è formato da ghiaia e sabbia. Qua e là affiorano isole di argilla gialla e grigia. Il fiume Oglio scorre verso Sud congiungendosi, attraverso una specie di istmo, con l’altura sulla quale è sorto il borgo fortificato di Soncino (metri 85 s.l.m.). Al di là, si trova il ciglione irregolare di quella che nell’antichità doveva essere una grande palude che, in questa zona, pare si chiamasse Lago Martino e che andava poi a congiungersi con le paludi del Lago Gerundo, formato dalle esondazioni del Serio e dell’Adda oltre che dai numerosi fontanili che danno gran quantità d’acqua limpida a una temperatura di 14-15 gradi. Oggi ne esiste ancora, sul territorio di Gallignano, una trentina più altre piccole teste che immettono acqua nel rami principali lungo il loro percorso. Da sempre le popolazioni residenti hanno migliorato le risorgive con opere di scavo e di assestamento, incanalando lo scorrere delle acque per prosciugare le aree circostanti e per portare l’acqua nelle campagne a livello più basso. In pochi anni, campi fradici adatti solo alla produzione di erba da “marcita”, (prato irrigato con un velo continuo di acqua, perché seguiti a vegetare e dia tagli d’erba anche nella stagione fredda) hanno potuto essere arati e coltivati per produzioni molto più redditizie. E’ praticamente certo che queste opere di bonifica furono iniziate in epoche Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 lontane, quando i primi cacciatori, che si avventurarono su queste terre, si trasformarono in agricoltori. L’Oglio, che nell’antichità era una importante via di comunicazione, ha favorito la conoscenza del territorio da parte dei primi abitatori delle valli alpine che scendevano il fiume a bordo delle loro canoe scavate nei tronchi, e conservate in numerosi reperti archeologici. Oggetti di selce (punte di freccia, raschiatoi, ecce- Presunta pianta del Lago Gerundo tera) sono stati rinvenuti dal Gruppo Archeologico Aquaria nel territorio di Gallignano, a riprova del passaggio o forse anche dello stazionamento di nostri progenitori che qui volevano fermarsi, anche temporaneamente, impiantan- * Informazioni tratte dal lavoro di ricerca eseguito dal “Gruppo Archeologico Aquaria” di Gallignano Quaderni Padani - 47 scoperti “ruderi dissepolti sul finire dello scorso secolo presso l’antico Santuario di Santa Maria in Villavetere (Villa Vedra)”. Dalle ricerche del Gruppo Archeologico (che dalla mitica Aquaria ha preso il nome) e dagli scavi eseguiti nel 1994 dalla Soprintendenza Archeologica di Milano è stato accertato che nel territorio attorno al centro abitato di Gallignano esisteva un notevole agglomerato di epoca celtica e romana. Che si tratti di Aquaria è da dimostrare, approfondendo ricerche archeologiche e stuLibera ricostruzione del Borgo Fortificato di Soncino nel 1700: il di- diando documenti. Cosegno è comunque interessante perché evidenzia la rocca e la robusta me poi l’antico nome di struttura difensiva delle mura con le quattro porte munite di ponte le- Aquaria si sia trasforvatoio sul fossato mato in Gallignano viene spiegato dallo stesso do forse officine per la produzione di oggetti di Galantino col fatto che “la popolazione cenometallo, da tempo noti alle genti di montagne mane cremonese, ottenuta dal dittatore Cesare ricche di minerali., ma ancora sconosciuti a la cittadinanza romana, votasse nel comizi chi, da secoli, viveva nella pianura. A questa ascritta alla tribù Aniese, da cui Gallusanius, possibilità fa pensare il “ripostiglio” rinvenuto Gallianienses, Gallignanesi, Gallignano”. alla fine del secolo scorso presso Cascina GranLo studioso cremasco Don Angelo Aschedadoffio a nord-ovest di Soncino: conteneva pani mini, ponendo alcuni dubbi sulla derivazione di rame e frammenti di attrezzi in rame e bron- del nome da un castrum della tribù Aniense, inzo pronti per la fusione. dica altre possibili spiegazioni: che derivi dai saAnche Gallignano, come ogni piccolo centro cerdoti della divinità Agreste Cibele, cui poteva abitato, ha cercato le origini del proprio nome. essere dedicato il Bosco Sacro posto sull’altoNe ha parlato per primo Francesco Galantino, piano e che venivano chiamati gallici, da cui autore della Storia di Soncino (pubblicata nel Gallicianus Locus, Gallignano; oppure che deri1869), riportando le conclusioni di storici di vi dal nome delle rozze calzature di pelle adatte epoche precedenti, i quali affermavano che Son- per camminare nel fango e nell’acqua, in uso cino era stata costruita sulle rovine di una città presso le tribù pre-romane della zona, e che vecenomane (Aquaria) distrutta dai soldati roma- nivano chiamate “galliche” (come ancora venini dei consoli Lucio Cassio Longino e Lucio Co- vano chiamate “galosce” le sovrascarpe di gommelio Cinna nel 127 a.C.. Secondo Galantino, la ma usate fino a qualche decennio fa), da cui il città distrutta si sarebbe dovuta trovare a cin- nome di Galliciani agli abitanti che le calzavaque chilometri a nord dell’attuale Soncino e no. Una ulteriore ipotesi lega il nome alla lavoquindi sul territorio di Gallignano. A sostegno razione della terracotta derivata dall’argilla predella sua tesi portava anche l’osservazione che sente in gran copia nella zona. Nelle antiche il nome di questa città (Aquaria) era particolar- fornaci, la cui presenza è stata documentata nemente adatto proprio per questa zona, “solcata gli ultimi tempi in località Bosco Vecchio, venida copiose sorgenti” presso la quale erano stati vano prodotte, oltre ai laterizi da costruzione, 48 - Quaderni Padani Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 anche stoviglie per cucina e per tavola, nonché che aveva indebolito la posizione romana nella anfore e pentole: ebbene, tali manufatti veniva- Valle padana, i Celti Boi e Insubri riuscirono a no dai Romani chiamati genericamente calices distruggere la colonia romana di Piacenza e a e, probabilmente, “calicianum” il centro dove cingere d’assedio Cremona. Ma fu l’ultimo suserano situate le fabbriche degli artigiani vasai. sulto di libertà: Roma riprese il controllo di tutNon dovrebbero esserci dubbi che il territorio te le strade di comunicazione e dei guadi del Po di Gallignano sia stato stabilmente abitato anche (197 a.C.). E, per fronteggiare i continui attacprima della conquista romana. Probabilmente il chi dei Celti, stabilì che le terre della pianura vivere quotidiano era molto più felice prima del- padana fossero centuriate e suddivise tra i vetela dominazione: bastava avventurarsi nella fore- rani dell’esercito e il Senato inviò ben 6000 fasta per trovare con facilità la selvaggina; la pesca miglie per abitare le colonie a nord del Po. Delnei fossati o nella laguna e la coltivazione di pic- la prima centuriazione rimangono solo poche coli appezzamenti di terra davano di che vivere tracce, mentre è ancora facilmente individuabisenza problemi alle tribù che qui abitavano. I le la seconda che ha visto il territorio interessaprimi a stabilirsi su questo terto alla distribuzione di terre ritorio sono forse stati i Camucedute al veterani di Cesare ni della montagna; seguiti poi (41 a.C.), che erano però in certamente dai Celti. Infatti, i larga parte cisalpini. recenti scavi nella zona Bosco Il periodo di sviluppo di GalliVecchio, a nord-est di Gallignano avviene durante e dopo gnano, testimoniano che la l’età augustea. Tutta la progrande villa romana venuta alvincia di Cremona divenne la luce era stata costruita su importante in quel periodo una abitazione preesistente; e per i suoi prodotti agricoli, gli il rinvenimento nella zona di allevamenti di bestiame, la laceramica celtica e di una vorazione delle pelli e per i la“Dracma Padana Celtica Insuterizi: il Mercatus di Cremona bre” (coniata a imitazione di viene spesso citato dalle fonti una “dracma marsigliese”) sta dell’epoca. a confermare la presenza dei Quando l’esercito di Vitellio Celti. venne sconfitto a Bedriaco Del resto le notizie storiche (69 d.C.) e Cremona venne raaffermano che Galli Boi e Insa al suolo, Gallignano evitò subri erano presenti nella Cila distruzione grazie alla sua salpina almeno dal V secolo posizione molto più a nord e a.C.. I Romani hanno occupaquindi fu pronta al nuovo svito questa zona a partire dalla luppo prodotto dalla ricostrusconfitta inflitta ai Celti che zione di Cremona e dell’auerano stanziati a ovest del fiumento della produzione di me Oglio nel 222 alla congrano imposto da Vespasiano. fluenza tra l’Adda e il Po. La Le antiche divinità dei Celti Regio X, Venetia et Histria, vennero in parte sostituite. aveva come confine occidenta- Un’antica carta del territorio a Presso la chiesa di Villavetere ovest dell’Oglio le proprio il fiume Oglio. È (l’appellativo “vetere” dato ai quindi accertato che anche santuari nel contado o a chiequesto territorio, a nord del Po, a ovest dell’O- se nelle città, spesso ricorda località “pagane” glio e ad est dell’Adda, era abitato dai Celti. Lo su cui il cristianesimo si è imposto), durante i storico Polibio (210-121 a.C.), descrivendo la lavori di disboscamento (siamo verso la fine del Cisalpina come terra ricca per la fertilità del 1600, inizio 1700) venne alla luce un’ara dediterreno, afferma che questa prosperità, unita al- cata a Giove. Nel volume Soncino - La bella stola presenza di facili vie di comunicazione, spin- ria di Ermete Rossi,(1) viene descritta l’iscriziose i Romani a garantirsi la difesa a nord con la costruzione delle colonie di Cremona e Piacenza (218 a.C.). Dopo la seconda guerra punica (1) Soresina(Cr): Edizioni Grafiche Rossi, 1995 Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 Quaderni Padani - 49 ne e ne viene tentata l’interpretazione: IOVI L. VARIUS L. F. BERGINUS D. P. S. L. M. Interpretata come: IOVI LUCIUS VARIUS, LUCI FILIUS BERGINUS, DE PECUNIA SUA LOCAVIT MONUMENTUM A GIOVE LUCIO VARIO FIGLIO DI LUCIO BERGINO CON IL SUO DENARO COLLOCO’ IL MONUMENTO. Il Professor Giuseppe Pontiroli riporta, nella sua pubblicazione “Bolli laterizi romani a Gallignano nel Cremonese”,(2) l’iscrizione come sarebbe nel Corpus Inscriptionum Latinarum del Mommsen. Essa risulta leggermente diversa da quella riportata dal Galantino: IOVI L. VARIUS Q. F. BARGIN D. P. S. L. M. Vi è una “Q” invece della “L” dopo il nome di Varius, e Berginus è diventato “Bargin”. Diversa è quindi anche l’interpretazione delle abbreviazioni: IOVI LUCIUS VARIUS QUINTI FILIUS BERGINUS DE PECUNIA SUA LOCUS MONUMENTI Il nome stesso del donatore dell’altare, Bargino o Bergino della Famiglia dei Vari, riconduce al dio Bergino, divinità dei Monti, propria dei Galli Cenomani. Un mistero avvolge l’ara: a parte queste informazioni, non se ne conosce il destino. Magari è stata gettata, come materiale inutile, oppure un ignaro agricoltore della zona l’ha ritenuta più utile come peso per il suo erpice troppo leggero o come incastro per una paratoia, o è finita nella collezione di qualche “appassionato”. 50 - Quaderni Padani La storia di Soncino, l’importante borgo fortificato di cui Gallignano è frazione, fa da riferimento, per le epoche successive, più a leggende che a fatti storici documentati. Così è per la fondazione del nucleo abitato attribuito a un comandante dei Goti, certo Lanfranco, che si sarebbe stabilito sull’altura di Soncino nell’anno 387-388 (e comunque prima del 400 secondo l’opinione del Muratori). Nel 401, Alarico, dopo l’occupazione di Bergamo, avrebbe posto sotto il suo dominio anche il territorio di Gallignano prima della conquista della Venezia. Poi giunsero i Bizantini (553) e, dopo una ventina d’anni, i Longobardi di Alboino (572). Pare che a Soncino abbia chiuso i suoi giorni il figlio della regina Teodolinda, Adaloaldo, cacciato dalla reggia di Pavia o per una congiura o per la sua pazzia (628). Sua moglie, la regina Matilde (forse figlia di Teodoberto, re dei Franchi), avrebbe finanziato la costruzione della chiesa di San Pietro fuori le Mura e dell’Eremo di San Zeno a sud di Soncino. Poi, nel 773, arrivarono i Franchi di Carlo Magno. Al 5 maggio 785 risale il più antico documento che porta il nome di Gallignano: nel Codice Diplomatico Longobardo si parla di un Giorgioni che firma, nella “carta del soldo del prezzo di una Vigna situata sotto le mura della città di Bergamo”, con una croce come testimonio. Testualmente le parole che riguardano Gallignano sono: “Signo x manus Giorgioni de Galliniano fil. Q. Agefri Teste”. Carlo Magno concedeva al suo vassallo Astergio di Limoges Soncino e il suo territorio, e quindi anche Gallignano. In questo periodo probabilmente era ancora abitata la zona del Bosco Vecchio: è stata ritrovata infatti una moneta di Lotario proprio sulla montagnola dove era situata una cascina ora scomparsa. Quando gli Ungari giunsero a saccheggiare Brescia, furono rinforzate le difese di Soncino che, nel Diploma di Berengario I venne chiamato per la prima volta “Castrum Soncini”. Il 24 marzo 1023, in un atto di compravendita a firma Gauselmus, notalo del Sacro Palazzo dell’Imperatore Enrico II nel Castello di Monte Odano (Montodine), viene riportato per la prima volta il nome di Galeniano.( 3) Nel docu(2) Convegno Archeologico Regionale: Milano, 1980 (3) I nomi dei paesi subiscono nel corso dei secoli numerose variazioni: una targa del Touring, infissa sul muro dell’Osteria Chiametti, durante il ventennio fascista, portava ancora il nome di Gallegnano. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 mento viene scritto il nome di un Gallignanese che avrebbe fatto da mediatore tra le parti.(4) Si trattava di un certo Teodaldum de Galeniano, messo del Vescovo Landolfo di Cremona, che faceva vendere 27 pezze di terra in Arzago per 25 libbre di denari di “buon argento”. Il documento è interessante perché testimonia di un periodo nel quale avveniva l’integrazione definitiva fra le varie genti che nel tempo si erano stabilite nel territorio. Infatti, il terreno acquistato era di proprietà di Ribaldo e Ottone suo fratello, di “legge germanica” e della moglie di Ribaldo, Wida, di origine longobarda: le due razze erano già legate da stretti vincoli di parentela. Si hanno notizie anche di un secondo Gallignanese, amico del Vescovo di Cremona: si tratta di un certo Albertus de Galiniano che fa da testimonio a una investitura fatta dal Vescovo Arnolfo di possedimenti e casamenti siti in Aufoningo a due cugini, Viligelmo e Valdo di Calugate (atto del 17/06/1074). Le città si stavano affrancando dai feudatari e nascevano i liberi Comuni. Nel 1098 Cremona è già riconosciuta come Comunità autonoma: nel Diploma di Investitura fatto da Matilde di Canossa di Crema e dell’Isola Fulcheria, si fa espresso riferimento agli uomini del Comune di Cremona oltre a quelli della Chiesa. E nel 1120 in città già governano i Consoli. Tre anni prima, nel 1117, il territorio di Soncino, e quindi presumibilmente anche Gallignano che fino ad allora dipendeva dal Comitato di Bergamo, si unì a Cremona. Anche Soncino era ormai indipendente come Comunità tanto che l’anno successivo, nel 1118, venne firmato un trattato di fedeltà tra Soncino e Cremona e del giuramento si fecero garanti sette famiglie di nobili di Soncino e i Settemviri di Cremona. Da questo accordo si ebbero probabilmente vantaggi economici per tutto il territorio e quindi anche a Gallignano alcune famiglie si arricchirono e diventarono importanti. Infatti, alcuni anni dopo, e precisamente il 30 marzo 1136, un non meglio precisato “Marchese qui vocatur de Galegnano” (“detto di Gallignano”) con sua moglie Imilda e suo figlio Ottolerius con la moglie Ermengarda di “legge longobarda”, vendono sei pezze di terreno a Casalbuttanoa un certo Baldo Pedrobono di Cremona. Il signor Marchese forse non potè godere del ricavato della vendita: infatti nell’ottobre dello stesso anno la Comunità di Soncino pagò cara l’Alleanza stretta con Cremona. L’Imperatore Lotario II, alzato tribunale in RoncaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 glia e avendo sentito le lamentele dei Milanesi, a lui fedelissimi, contro i Cremonesi a causa della Città di Crema, venne in persona all’assalto di Soncino, espugnandolo e distruggendolo a ferro e fuoco. Anche il territorio di Gallignano subì gravi danni per le scorrerie dei soldati. Il 19 marzo 1147 troviamo tre fratelli (Adam, Bombellum e Petrum Bonum) figli del fu Petri de Galegnano prendere un terreno aratorio in Caselle (forse Cascina Caselle?) da un certo Stancionus di Solarolo e Giovanni e Otto di Scandolara: i Gallignanesi si davano agli affari anche in terre lontane, specie per quel tempi. Nel 1149 Soncino è con Cremona nella battaglia a Castelnuovo Bocca d’Adda contro i Milanesi. Nel 1162, Federico I Imperatore concedeva il castello di Soncino al Cremonesi: questi, memori della collaborazione a suo tempo avuta dai Soncinesi, allacciarono rapporti amichevoli con il borgo. La partecipazione di Cremona alla Lega Lombarda dei 1176 la rese invisa all’Imperatore. Nel giugno del 1186, quando il Barbarossa volle dare una lezione alla città ribelle, ne invase il territorio con l’aiuto dei Milanesi, dei Bresciani e dei Piacentini. Mentre Cremona venne risparmiata grazie all’intervento presso l’Imperatore del Vescovo Siccardo, la peggio toccò al territorio più a nord: vennero infatti distrutti Castel Manfredi (Castelleone) e Soncino. Soncino risorse in pochi anni e, nel 1192, i Consoli di Cremona rinnovarono il Patto di Amicizia con il borgo. L’anno successivo, nel 1193, ritornarono i Milanesi che si vendicarono dell’aiuto dato dai Soncinesi anche ai Lodigiani, distruggendo e incendiando. Le notizie storiche parlano di Soncino, ma i danni maggiori li subivano, certamente, le abitazioni isolate e le località fuori dalle mura. Gallignano aveva una torre-castello, ma la struttura difensiva di Gallignano era ben poca cosa rispetto alla sicurezza del borgo fortificato di Soncino, posto in posizione strategica sopra il promontorio sporgente sulle paludi del Lago Martino. E proprio l’impossibilità per i nemici di conquistare Soncino fu spesso la causa delle disgrazie di Gallignano, che subì infinite distruzioni, specialmente durante il periodo delle lotte furibonde tra i Comuni e tra i Signori delle varie città. (4) Si vede che questa professione i Gallignanesi l’hanno sempre saputa esercitare: sino a una trentina d’anni fa erano ancora una decina le famiglie Gallignanesi che traevano sostentamento dall’attività di mediatore del capofamiglia. Quaderni Padani - 51 La Libertà degli Altri Intervista - A venti anni dal martirio dei dieci prigionieri repubblicani a Long Kesh, Laurence Mc Keown ricorda i suoi compagni “morti perché altri fossero liberi Laurence Mc Keown è rimasto segregato a Long Kesh per sedici anni ed ha preso parte alla protesta del 1981 che costò la vita a Bobby Sands e ad altri nove militanti repubblicani. Dopo settanta giorni di sciopero della fame, quando ormai era già in coma, i suoi familiari hanno acconsentito a farlo alimentare artificialmente, ma soltanto perché il governo inglese aveva lasciato intendere che le richieste dei prigionieri sarebbero state accettate nella sostanza, come poi è accaduto. Precedentemente aveva partecipato a tutte le lotte condotte dai prigionieri dal 1976, quando entrò in carcere: da quella detta “delle coperte” alla “protesta della sporcizia”, fino agli scioperi della fame. Mc Keown è stato anche uno dei principali redattori della rivista The Captive Voice e di tutte le ampie attività culturali che hanno coinvolto i detenuti politici irlandesi. Ha pubblicato poesie e racconti e da un suo testo è stato ricavato il film The Visit di Orla Walsh. Insieme ad altri due ex detenuti, Brian Campbell e Felim O’Hagan, ha scritto il libro Norneekly Ser52 - Quaderni Padani ve my Time. Nel libro è riportata anche una testimonianza di Bik Mc Farlane (scelto da Sands per sostituirlo come responsabile della cellula dell’IRA nella loro cella), probabilmente l’ultimo dei prigionieri repubblicani che vide Bobby Sands ancora vivo, al cinquantaseiesimo giorno di sciopero della fame. “Il cancello si richiuse cigolando dietro di me, quando entrai nel reparto e un infermiere mi indicò la cella dove si trovava Bobby. Fu una vista che mi terrorizzò. Era tenuto leggermente sollevato da dei grossi cuscini, ma era come se il suo corpo emaciato ci sprofondasse dentro. Non riusciva a vedere chi era entrato nella stanza. Mi spostai attorno al letto e mi sedetti accanto a lui. C’era così tanto dolore nel suo volto che potevo quasi sentirne l’agonia. Appariva così fragile e delicato in quel suo silenzioso mondo che mi ritrovai a bisbigliare per paura di disturbare qualche pace interiore. Sembrava ingeneroso introdursi in quel silenzio… Ancora qualche minuto e gli presi delicatamente la mano, non c’era più nulla da aggiungere. Aveva avuto ragione tanto tempo prima. Non lo avrei tradito nel momento della fine. Me ne sarei andato e avrei atteso pazientemente, mentre se ne andava lentamente dalla vita. Stavo per andarmene quando lui mi guardò con un’espressione di dolore e mormorò: “Sto morendo, compagno, sto morendo”. D. Nel suo libro, che raccoglie le testimonianze di ben 387 ex prigionieri politici, riporta anche quella di Filim O’Hagan che decise di non aderire allo sciopero della fame “perché avevo paura di morire e specialmente di quella morte così lunga e lenta”. Lei invece non esitò ad aggiungere il suo nome nella lista dei volontari. Come se lo spiega a tanti anni di distanza? R. Bisogna dire come sia quasi impossibile capire perché siamo arrivati a quella decisione estrema senza sapere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti, dopo che nel ’76 ci era stato tolto lo status di prigionieri di guerra. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di porvi rimedio. Allora eravamo tutti molto giovani, tra i venti e i trent’anni. La maggior parte era entrata in carcere ancora adolescente. Tra di noi c’era molta unione, molta solidarietà… È poi importante sottolineare che da parte nostra c’erano delle forti convinzioni politiche, le stesse che ci avevano portato a entrare nell’IRA, ben sapendo che la prospettiva della prigione era facilmente prevedibile, come del resto anche quella della morte. Vedere poi con i propri occhi la dura repressione subita dai detenuti non aveva fatto altro che rafforzare le nostre convinzioni. Il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarci, di farci apparire come delinquenti comuni. Dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali. Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 D. Da Thomas Ashe, morto per essere stato sottoposto all’alimentazione forzata nel 1917, a Michael Fitzgerald, Joseph Murphy e Terence Mc Sweeney (morti nel carcere di Brixton nel 1920) fino ad Andrew Sullivan e Dennis Barry (nel 1923 nel carcere di Monioy)… i detenuti politici irlandesi morti in sciopero della fame nel corso del novecento sono almeno ventidue. Certamente tutti voi conoscevate questi precedenti e non potevate farvi illusioni sul comportamento inglese. Si può quindi affermare che la vostra fu una scelta meditata? R. Nel nostro caso la decisione non fu certo presa alla leggera ma ormai non c’erano alternative. Per quanto mi riguarda ero ben consapevole che questo sciopero (successivo a quello dell’80, poi sospeso) sarebbe stato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno; chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto. Naturalmente avevo pensato molto a quali sarebbero state le conseguenze per la mia famiglia… Io almeno non ero sposato e non avevo figli, diversamente da altri volontari come Bobby Sands. D. Un’ultima considerazione su quel tragico momento… R. Come è noto, le nostre cinque richieste vennero poi sostanzialmente accettate, dopo la morte del decimo volontario (Micky Devine dell’INLA n.d.r.). Quindi io ritengo che quei nostri dieci compagni non avrebbero dovuto morire, così come non avrebbero doAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 vuto morire tutti quei bambini colpiti dai proiettili di plastica durante le manifestazioni di protesta dell’81. Il loro martirio ha permesso ai prigionieri di ottenere quanto richiedevano, ma ha anche evidenziato la natura politica del conflitto nord irlandese. Inoltre ha confermato e rafforzato i profondi legami dei prigionieri con la loro comunità. Ho potuto verificare direttamente come i prigionieri rilasciati vengano considerati persone di grande integrità. La gente comprende che si sono sacrificati per gli altri, per la loro comunità. Ancora repressione contro il popolo Sahrawi In un comunicato del 21 novembre 2001 l’Associazione nazionale di solidarietà con il popolo sahrawi (ANSPS) ha deplorato la nuova ondata di violenza che si è scatenata sugli abitanti sahrawi della città di Smara nei territori del Sahara Occidentale occupati dal Marocco. Successivamente molti degli arrestati sarebbero stati sottoposti a maltrattamenti e torture. I fatti risalgono a sabato 17 novembre quando le forze dell’ordine marocchine si sono esibite in cariche e pestaggi di inaudita violenza contro un gruppo di civili sahrawi che effettuavano un pacifico sit-in di protesta. La manifestazione era nata per sottolineare di fronte all’opinione pubblica internazionale che il governo del Marocco non solo non sta mantenendo le promesse di miglioramento di vita nei territori occupati ma li sottopone ad uno stato La Libertà degli Altri d’assedio permanente. “Un numero elevato di persone – si legge nel comunicato- sono state ferite, arrestate in modo arbitrario, detenute senza garanzie e interrogate sotto tortura”. Inoltre le abitazioni di altri civili sahrawi sono state letteralmente assaltate e i loro abitanti picchiati dalle forze di sicurezza marocchine. Tali aggressioni seguono altre violenze scatenate dalle forze dell’ordine in occasione delle proteste della popolazione sahrawi contro la visita del re Mohammed VI nei territori occupati all’inizio di novembre e contro la progettata visita nella città santa di Smara. A seguito della sollevazione popolare la visita a Smara è stata poi annullata per “motivi tecnici”. A seguito di tale repressione numerosissime persone sono ancora in carcere e si ignorano le loro condizioni di detenzione. La città rimane inaccessibile. Del resto sempre in novembre era stato impedito a Danielle Mitterrand, presidente della Fondazione France Liberté di viaggiare nei territori sahrawi. Tutto indica che le autorità marocchine non vogliono la presenza di osservatori indipendenti nei territori occupati del Sahara Occidentale. L’ANSPS ha anche protestato per la passività della Missione delle Nazioni Unite nel Sahara Occidentale (MINURSO) di fronte alla politica delle autorità marocchine. A questo proposito l’ANSPS dichiara di “ Quaderni Padani - 53 La Libertà degli Altri invitare il segretario generale dell’Onu Kofi Annan a mettere un termine a tutte le manovre dilatorie che hanno finora impedito l’attuazione del piano di pace dell’Onu in vista della tenuta di un referendum di autodeterminazione del popolo sahrawi”. È evidente che tale ritardo ha gravissime conseguenze: lascia libertà al Marocco di scatenare una sanguinosa repressione, costringe una parte del popolo sahrawi a vivere in esilio in condizioni materiali durissime, minaccia la pace e la stabilità di una regione vicina all’Europa, contribuisce al permanere di pericolose tensioni e di violazioni gravissime dei diritti umani fondamentali. La Turchia inaugura la sua partecipazione alla “guerra contro il terrorismo” con una strage a Istambul Con un tempismo degno di miglior causa, la Turchia ha colto l’occasione della lotta al terrorismo per risolvere con la violenza le questioni interne. Il giorno 22 novembre, alle ore 14, oltre mille agenti e militari, preceduti da decine di blindati e ruspe e accompagnati da un forte fuoco di cecchini appostati sui tetti, hanno dato l’assalto al piccolo quartiere di Armutlu a Istanbul, dove da più di un anno prosegue il dramma dello sciopero della fame di decine 54 - Quaderni Padani di ex detenuti politici e di loro familiari contro la generalizzazione delle celle d’isolamento, con la solidarietà della popolazione. Secondo l’IHD (Associazione per i diritti umani), che ha inviato osservatori sul luogo, il bilancio (provvisorio) è tragico: si contano sei morti, decine di feriti anche gravi e centinaia di arresti, oltre alla distruzione con il fuoco di almeno una delle “Case della resistenza”. Le altre abitazioni dei militanti in sciopero della fame sono state invase dal fumo di lacrimogeni e gas tossici. Almeno due persone, fra cui il portavoce del digiuno Haydar Bozkurt, si sarebbero uccisi con il fuoco per protesta, mentre è probabile che gli altri siano stati uccisi dalla polizia. Naturalmente non bisogna dimenticare che già per la strage nelle carceri del 19 dicembre 2000 l’autopsia rivelò che molti dei “suicidi” erano stati deliberatamente dati alle fiamme dalla polizia. Ai 32 prigionieri morti durante quella irruzione si sono aggiunti altri 46 (quarantasei) morti per fame dentro e fuori dalle prigioni, nel vergognoso silenzio del mondo; è assai probabile che il bilancio sia destinato ad aumentare vertiginosamente. Anche se lo sciopero venisse sospeso almeno centocinquanta persone riporteranno conseguenze fisiche e psicologiche irreparabili. La luce verde alla strage, più volte minacciata e annunciata dal ministro della Giustizia Sami Turk, è ovviamente legata alla partecipazione turca alle operazioni in Afghanistan: il regime adesso ritiene di ave- re le mani libere nella repressione di ogni dissenso e nel rilancio della politica del terrore di stato. Un preciso segnale era venuto pochi giorni prima quando Gurhan Kockar, dirigente del partito filokurdo Hadep (HALKIN DEMOKRASI PARTISI), era stato assassinato dai militari sulla porta di casa a Dogubevazit. Attualmente sono più di diecimila i detenuti politici rinchiusi nelle prigioni turche. Ad opporsi al trasferimento nelle nuove celle di segregazione sono soprattutto i militanti kurdi e di alcune formazioni della sinistra rivoluzionaria turca. Le celle di isolamento recentemente introdotte nelle carceri turche riducono a nulla le capacità fisiche e intellettuali dei detenuti, tagliandoli fuori da ogni rapporto sociale. Non sono previsti spazi per la vita comune, non ci sono stanze per vedere la televisione o ascoltare la radio, leggere o fare ginnastica. Questo sistema inoltre e alquanto punitivo anche per i parenti. Al momento delle visite le madri dei detenuti si devono svestire per le perquisizioni corporali effettuate da personale non identificato (non si sa se si tratta di gendarmi o di civili). Nemmeno gli avvocati possono incontrare liberamente i loro assistiti. E’ sicuramente da condannare la quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica, sia turca che europea. Se quella turca è in parte comprensibile dato che , dopo il colpo di stato del 1980, la società è ancora terrorizzata e non in grado di organizzarsi adeguatamente, quella europea è quantomeno indecente. In un primo Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 tempo l’Europa si era atteggiata a severo osservatore della situazione (come avvenne durante lo sciopero della fame del 1996, costato la vita di dodici militanti), ma successivamente ha mostrato comprensione e incoraggiamento per la politica repressiva dello stato turco, sostenendo che anche da noi esiste il sistema a celle di isolamento. Bougainville: difesa della Terra e autodeterminazione Probabilmente la lunga lotta degli indigeni di Bougainville avrebbe meritato più attenzione e sostegno sia da parte dei movimenti che considerano l’autodeterminazione dei popoli un valore che da parte delle associazioni ambientaliste. Una lotta condotta ad armi impari dagli isolani contro l’esercito ben armato di Papua Nuova Guinea (PNG), fino a qualche anno fa uno degli stati maggiormente indiziati dall’ONU e dalle ONG per violazioni dei Diritti Umani. Gli abitanti dell’isola (in totale 160.000) hanno combattuto “con ogni mezzo necessario” senza alcun aiuto esterno contro le devastanti attività delle multinazionali, in particolare contro una miniera di rame a cielo aperto e per l’autonomia di Bougainville dal governo di PNG. Bougainville si trova in prossimità delle Isole Salomone, nel Pacifico meridionale, sottoposta al governo di PNG dal 1975. Sei anni prima una ditta australiana, la CRA, sussidiaria della multinazionale Rio Tinto Zinc (qualcuno la ricorderà nella lista delle multinaAnno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 zionali che finanziavano il regime dell’apartheid in Sudafrica negli anni ottanta) aveva aperto una miniera di rame nonostante le proteste della popolazione. A causa dell’apertura della miniera centinaia di abitanti persero la casa, le terre, i diritti di pesca. Ampi tratti di giungla vennero disboscati per far posto alle infrastrutture e nei venti anni successivi la miniera a cielo aperto, profonda mezzo chilometro, aveva ormai raggiunto i sette chilometri di diametro. La resistenza degli abitanti si era sempre mantenuta nell’ambito della nonviolenza: proteste pacifiche, manifestazioni, petizioni, richieste di risarcimenti… Verso la fine degli anni Ottanta, dopo quasi due decenni di lotte pacifiche duramente represse dalla polizia, alcuni militanti cominciarono ad impadronirsi degli esplosivi della compagnia mineraria, utilizzandoli per compiere sabotaggi contro edifici e macchinari. Immediata la risposta del governo di PNG che inviò l’esercito ad occupare l’isola, aiutato nelle operazioni dall’Australia che esigeva l’immediata riapertura della miniera. Ufficialmente l’Australia ha sempre negato di essere coinvolta direttamente nella questione ma in realtà ha fornito a PNG trentadue milioni di dollari in aiuti militari. Inoltre consiglieri militari dell’esercito australiano hanno collaborato costantemente con le truppe di PNG nella repressione. La flotta e l’aviazione australiana hanno inoltre garantito un efficace blocco totale dell’isola, impedendo anche l’invio di medicinali. Infatti non mancarono vittime La Libertà degli Altri anche tra coloro che tentavano di forzare il blocco per portare aiuti o permettere la fuga dei profughi. Intanto l’esercito di Papua Nuova Guinea bruciava villaggi, deportava gli abitanti e rinchiudeva migliaia di persone in campi di concentramento, cercando così di isolare la popolazione dalla guerriglia del BRA (Bougainville Revolutionary Army), costituitosi nel 1988. Non riuscendo a sradicare la resistenza nel 1997 il governo di PNG si rivolse ad una compagnia di mercenari, la “Sandine international” di Londra che dispone di parecchie centinaia di uomini ben addestrati sotto il comando di ex ufficiali del Sudafrica specializzati in antiguerriglia. Fortunatamente per gli abitanti di Bougainville, quando l’attacco era ormai imminente, i gravi disordini con incendi e saccheggi scoppiati nella capitale Port Moresby e i contrasti tra mondo politico e vertici militari portarono alla caduta del governo. Nell’estate del 1997 iniziarono i colloqui di pace tra governo e BRA, in una situazione complessivamente favorevole per la resistenza. Attualmente nell’isola sono ancora presenti soldati di PNG, ma confinati nelle caserme. In parte la situazione resta confusa ma con alcuni punti fermi: la volontà della popolazione di chiudere definitivamente la miniera e la richiesta di una autentica autonomia. A cura di Gianni Sartori Quaderni Padani - 55 Biblioteca Padana Capitan Slaff e altre storie, Davide Bernasconi Van De Sfroos Gh’era un teemp préma del teemp, che stremava anca el demoni,… così esordisce la ballata, di Davide Bernasconi, in arte Van De Sfroos che coi suoi recenti successi in dialetto laghèe ha sancito l’interesse e l’attenzione al dialetto da parte di numerosissimi giovani. Capitan Slaff e altre storie, storia da cantastorie è la nuova veste di Davide Bernasconi, il suo esordio come scrittore. Una ballata pubblicata in un volumetto e incisa su cd con accompagnamento musicale. E Capitan Slaff è un altro modo di dare voce al dialetto come lingua non subalterna, capace di esprimere tutte le emozioni, i sentimenti – spesso quelli più veri – che hanno contribuito, talvolta con la loro immediatezza e vivacità d’espressione, a creare un tessuto linguistico-sociale e culturale comune, un repertorio di miti, di immagini e di memorie collettive, qualche volta assopite ma pronte a rivelarci un’appartenenza comune. Una ballata che attraverso i suoi suoni e la sua poesia si rivolge al pubblico più ampio, non da ultimo quello dei giovanissimi, un’ampia fascia che sempre più conosce e apprezza il cantautore lariano. Storie che piacciano perché parlano della vita e richiamano alla mente figure presenti nella mente di ciascuno di noi. E per dirla con le parole di Davide Bernasconi in Capitan Slaff, “le storie della zia e della maestra, il nonno che ricostruiva l’Iliade, l’Odissea e l’Amleto, riassumendomi le vicende in dialetto e, a volte, mescolando i personaggi. E poi storie di partigiani, di 56 - Quaderni Padani emigrati ritornati, di legionari pentiti e fuggiti… Il calcio, la guerra, gente che camminava sulla luna, gente che inciampava sulla terra. Garibaldi e Silver Surfer; Orlando, Long John Silver e il mio bisnonno Peppino. Storie. Vere o false non importava: da storie venivamo e storie saremmo diventati… Le vicende del pirata Slaff e del Toni nascono per gioco, scotendo e prendendo a calci il barattolo della fantasia…”. E Capitan Slaff ci chiede di ascoltare. Di ascoltare il suono che si leva da ogni terra contro ogni logica di mercato e consumistica, che è anche suono di memoria e che ci fa parte di una storia che viene da lontano e che dà identità culturale a una terra e alla sua gente. Giulia Caminada Lattuada Paolo Zanoni Bossi e la rivoluzione tradita Venezia: Editoria Universitaria, 2001 Pagg. 131 - e 10,00 Sono moltissimi quelli che, per i motivi più svariati, hanno lasciato il più grande movimento autonomista di Padania. La più parte se ne è andata in silenzio. Molti si sono lasciati andare a dichiarazioni di delusione, di continuità di lotta fuori dalle strutture del partito, di rimpianto e - troppi - di rancore o di rinnegamento delle idee passate fatto di funambolismi e immorali acrobazie ideologiche. Sono stati solo tre quelli che hanno però avuto la capacità e anche l’impegno intellettuale e civile di mettere per iscritto le proprie esperienze a beneficio della cronaca, della storia e di tutti quelli che sono interessati a capire cosa è successo. Aveva cominciato molti anni fa Roberto Gremmo con il suo Contro Roma, che è rimasto un documento prezioso sui primi anni del leghismo, ma che risentiva del clima di contrapposizione anche dura di quegli ormai lontani anni e di cui il suo autore era stato protagonista. Era apparso, tempo dopo, Io Bossi e la Lega di Gianfranco Miglio, scritto forse troppo “a caldo” dal grande professore ma nel quale si trova una analisi dura ma lucidissima e lungimirante del leghismo. Si trattava in entrambi i casi di due grandi protagonisti che avevano vissuto in una condizione di osservatori privilegiati ma in qualche misura esterni al vitale groviglio degli entusiasmi del mondo della militanza di base. Il volume che è stato appena pubblicato, Bossi e la rivoluzione tradita, è diverso dagli altri due perché l’autore, Paolo Zanoni, è un giovane militante che è cresciuto politicamente e umanamente all’interno del movimento, che ne ha vissuto tutte le gioie e le delusioni “da dentro”, in mezzo a quelle tante migliaia di persone che si sono immedesimate col progetto padanista e ne hanno quasi fatto una ragione di vita. L’autore racconta la sua vicenda osservandola dall’interno, dal bel mezzo dell’azione, delle passioni e delle amarezze. Lo fa con grande serenità e onestà. La cosa che viene più facile è sparlare di un’amante Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 che ha tradito, trasformando l’amore in odio rancoroso e spirito di rivalsa o di vendetta. A Zanoni va riconosciuto che non si è mai lasciato andare in nulla del genere: da ogni parola, da ogni riga, viene fuori l’intensità del suo impegno e la forza delle sue convinzioni. Si ha una visione diversa del movimento e delle sue pulsioni e si capisce veramente quale sia stata la forza vera e l’energia potenziale che si è sviluppata in Padania negli ultimi anni di un Novecento finito un po’ mestamente. Vi si trova l’impegno nel voler effettuare un’analisi, nel cercare risposte, nel capire dove e chi ha sbagliato, come è stato possibile sciupare una occasione forse irripetibile. Non ci sono attacchi, non ci sono insulti, non c’è nessun tentativo di scaricare la croce addosso a nessuno: questa è la vera forza e bellezza di questo libro in cui tutti i militanti e tutti i padanisti non possono non riconoscersi. Non è un “come eravamo”, e neanche un “come avremmo potuto essere” ma un “come avremmo dovuto essere” per farcela. Sono tante pagine di amarezza e di lucidità dietro le quali non scompare però mai la speranza. Non a caso, il libro si conclude riportando le parole che l’indipendentista basco Arnaldo Otegi ha pronunciato al funerale di una giovane etarra (patriota): “Come tu ti sei creata, altri si creeranno; il combattimento è il cammino”. G.O. Ettore Beggiato, Il referendum del 1866: la grande truffa (Venezia: Editoria Universitaria, …) La storiografia ufficiale, come è ben noto al lettori dei Quaderni, ha sempre presentato il raggiungimento dell’Unità d’Italia come una spontanea sollevazione di popoli oppressi per secoli da dominatori Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002 stranieri o autoctoni; popoli desideros, finalmente, di riunirsi sotto un’unica bandiera e casa regnante, quella dei Savoia, che, per puro spirito filantropico, si è accollata l’onere di portare avanti, riuscendovi, questa difficile impresa. Fortunatamente, tuttavia, esistono anche storici controcorrente che hanno cercato di scardinare questo quadretto idilliaco sottolineando, da una parte, il mero desiderio della dinastia sabauda di ampliare il proprio territorio, ed entrare cosi nel novero delle grandi potenze europee e, dall’altra, l’assenza totale di coscienza “nazionale” delle popolazioni i cui territori sarebbero andati a comporre il Regno d’Italia. All’interno di questa corrente storiografica revisionista nei confronti dell’epopea risorgimentale, si inserisce il libro di Ettore Beggiato, noto esponente dell’autonomismo veneto, intitolato Il Referendum del 1866: la grande truffa che, come il titolo suggerisce, esamina gli eventi che portarono all’annessione del Veneto al giovane e traballante Regno d’Italia. Come è noto, i Savoia, non possedendo il potenziale bellico necessario per poter muovere guerra all’Austria per conquistare il Veneto da essa posseduto dopo il trattato di Campoformio del 1797 (salvo la breve e luminosa esperienza della Repubblica di San Marco sotto la presidenza del Manin del 1848-49), approfittarono della guerra scoppiata tra la Prussia e l’Austria per attaccare quest’ultima quando essa era impegnata sul fronte prussiano. Nonostante la situazione politicomilitare fosse molto favorevole, gli Italiani furono sconfitti a Custoza e nella battaglia navale di Lissa. A proposito di Lissa, ecco una notazione particolare che nei libri di storia tradizionali è arduo trovare: molti marinai della flotta austriaca erano veneti e, una volta sconfitta la flotta italica, essi festeggiarono Biblioteca Padana la vittoria inneggiando a Venezia e a San Marco sperando che gli eventi bellici potessero preludere a una rinascita della Serenissima Repubblica Veneta. La storia, purtroppo, non andò in questa direzione: l’Austria, che aveva subito una pesante sconfitta sul fronte prussiano, si trovò costretta a cedere il Veneto ma, non riconoscendosi sconfitta sul fronte italiano, inferse un’ultima umiliazione ai Savoia cedendo il Veneto alla Francia che poi lo concesse all’Italia (pace di Vienna, 1866). Per salvare la faccia, i nuovi padroni del Veneto fecero attuare un referendum per sancire l’annessione al Regno d’Italia. Referendum, dunque, che serviva soltanto a confermare ciò che era già stato irrevocabilmente deciso dai plenipotenziari dei sovrani nelle sale ovattate del castello di Schönbrunn; una barzelletta dall’esito scontatissimo, in quanto il voto non era segreto poiché le schede che recavano la scritta SI e NO erano di colore diverso, la popolazione, in gran parte analfabeta, faticava a capire per che cosa stesse votando e infine la propaganda martellante dei nuovi conquistatori a cui anche il clero diede un grosso contributo tacciava di vigliaccheria chiunque si fosse espresso contro l’annessione. Questa è, come sottolinea con puntuale documentazione ed amara ironia l’Autore, la verità storica, forse più banale e meno intrisa di virtù eroico-patriottiche di come ci è sempre stata presentata ma sicuramente più utile per comprendere i fenomeni politici che hanno segnato la storia della Padania e del Veneto negli ultimi anni. Elena Erri Quaderni Padani - 57 Biblioteca Padana Sergio Salvi Nascita della Toscana. Storia e storie della marca di Tuscia Firenze: Le lettere, 2001 Pagg. 444 - e 25,30 Sono pochissimi gli autori che possono vantare il credito che Sergio Salvi ha accumulato nella formazione di una cultura autonomista. Da ormai tre decenni questo toscano colto e appassionato ci fornisce materia di studio e di riflessione ma anche strumenti cul- turali di lotta identitaria. Ha cominciato con le minoranze etnolinguistiche, ha continuato con il più feroce e intelligente sbertucciamento del nazionalismo italione con il fondamentale L’Italia non esiste (che è stato fatto sparire dalla circolazione e che il mondo autonomista continua masochisticamente a non ristampare), ha fatto autobotti di flebo di identità a padani pavidi ed emaciati.È infatti paradossalmente proprio il movimento padanista quello che ha ac58 - Quaderni Padani cumulato i maggiori debiti nei confronti di Salvi che si è conquistato, fuori di ogni dubbio, il merito di essere “il più padanista dei non padani”. In qualche modo continua la sua impagabile missione anche in questa ultima fatica che ha dedicato a studiare e svelare le origini storiche della sua Toscana. Poche altre nazioni o comunità possono vantare una così dettagliata e appassionata certificazione di nascita. Il libro descrive con una dovizia infinita di dettagli e di annotazioni i secoli nei quali, a cavallo dei primi due millenni cristiani, si è formata la Toscana moderna, in realtà la Toscana tout court. Quello che rende gradevoli e ineguagliabili i libri del Salvi è proprio la partecipazione con cui descrive le vicende e le persone, quasi come se partecipasse accalorato a una partita della sua Fiorentina: non riesce ad essere neutrale. Ha una precisa posizione su tutto, è entusiasticamente partigiano e lo dice. È cosa che lo fa superiore a tutti gli accademici che pretendono di trattare asetticamente la storia ma che storpiano con ipocrita partigianeria ideologica. Salvi è spinto dall’amore per le identità forti e per le loro libertà: la sua narrazione è un torrente in piena che avvolge tutto con notizie, rimandi, spiegazioni, collegamenti e interpretazioni. Parla di Toscana ma ci racconta di Impero, di Costantinopoli, della Sicilia e di vicende moderne che sono logicamente conseguenti a quelle storie, lontane nel tempo ma così vicine e attuali per continuità ideale e contenuti morali. Anche trattando della sua terra, Salvi non tralascia di descrivere vicende padane: si trovano più informazioni ed elementi di padanità qui che nella più parte di libri sussiegosamente dedicati in veste “ufficiale” alla Cisalpina. Vi troviamo notizie sulle evo- luzioni del potere, sulle eresie e sulla storia religiosa, sui rapporti fra le città, sulla nascita dei Comuni, sulla toponomastica e sul formarsi dell’identità padana in parallelo con quella toscana. È una antica comunanza che risale alle lontane e sfortunate lotte di Celti ed Etruschi contro i Romani, all’essere rimaste terre dell’Impero (la parte “europea” dello stivale), nell’avere vissuto la stessa intensa esperienza comunale e rinascimentale, fino all’essere – ancora oggi – vittime della stessa oppressione. Il libro non può mancare nello scaffale di ogni autonomista ma – in particolare – di tutti i padanisti: la Padania vi compare dietro ogni angolo e spesso è protagonista della narrazione. Naturalmente l’oggetto principale della trattazione è la Toscana e la toscanità di cui Salvi descrive e colloca con precisione e correttezza origini e struttura, liberando il campo da ogni residuo di ambiguità storiografica italianista che introduce spesso a sproposito idee di una etrusticità un po’ fantasiosa o rimandi medicei. Oltre ai contenuti, il lavoro è estremamente godibile per almeno altre tre particolarità: la ricca dotazione cartografica (che è una lodevole costante dei libri del Salvi), la precisione delle note e l’entusiasmante opulenza dei rimandi, e il modo di scrivere simpatico e a volte addirittura scanzonato. È un piacere sentire Salvi nelle sue conferenze (credo sia uno dei pochi studiosi che non abbia mai fatto annoiare nessuno) ed è una gioia leggerlo. Su quest’opera ha lavorato per anni ed è un gigantesco, fondamentale tassello nel grande mosaico policromatico della storia delle autonomie. Ci piacerebbe che la sua prossima fatica riguardasse la nascita della Padania. Gilberto Oneto Anno VIII, N. 40 - Marzo-Aprile 2002