omofobie 00002

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omofobie 00002
La discriminazione sul posto di lavoro Stati Uniti: l’affermazione giuridica del
divieto di discriminazione e i domestic partnership benefits
Università di Torino - Facoltà di Giurisprudenza
Tesi di laurea in Diritto Pubblico Comparato
I diritti civili degli omosessuali - Profili di diritto comparato aa 1997-1998
Relatore: Prof.ssa Elisabetta Palici di Suni Prat Stefano Fabeni
La discriminazione sul posto di lavoro costituisce uno degli elementi maggiormente rilevanti tra le
cause di violazione dei diritti civili delle persone omosessuali: negli Stati Uniti in particolare siritiene
che il settore del lavoro sia quello nel quale esse sono più esposte a forme discriminatorie, che si
verificano in particolare con la mancata assunzione, il licenziamento o differenti opportunitàdi
carriera; nonostante ciò la protezione da parte dell’ordinamento trova difficoltà ad affermarsi,
quando non è espressamente negata. La disamina della questione non può tuttavia avere luogo
senza prendere in considerazione la fondamentale distinzione tra impiego pubblico e privato,
soggetti a discipline differenti. Occorre altresì precisare che si focalizzerà l’attenzione sul settore
del pubblico impiego federale giacché, per evidenti ragioni, non potrà in questa sede farsi
riferimento alla disciplina costituzionale ed alle scelte giudiziali di ciascuno stato.
Il pubblico impiego.
Sebbene sino alla metà degli anni’60 l’omosessualità rappresentasse, insieme alle opinioni
politiche d’orientamento comunista, una discriminante nell’assunzione o una giusta causa di
licenziamento, in quanto considerata elemento negativo da estirpare dal governo federale,
attualmente il pubblico impiego rappresenta uno tra i settori più "sicuri": già a metà degli anni’ 70 si
riteneva inopportuno il licenziamento di un omosessuale, salvo che tale caratteristica fosse la
causa dell’inefficienza dell’ente pubblico; considerazione che diveniva divieto con il Civil Service
Reform Act del 1978 che, sebbene non facesse riferimento esplicito alla condotta omosessuale, e
prevedesse la possibilità del licenziamento per condotta immorale, indecente o scandalosa, fu
interpretato in quel senso dall’Office of Personnel Management. Recentemente alcuni ministeri ed
agenzie federali hanno introdotto criteri antidiscriminatori che ricomprendono espressamente
l’orientamento sessuale , e che sostanzialmente rafforzano le garanzie per i dipendenti
omosessuali, alla luce di cui le corti dovranno talora ritornare sulle proprie decisioni ed applicare
criteri più severi a favore dei dipendenti.
La tutela giuridica non è tuttavia ancora oggi precisamente definita, benché faccia capo
direttamente alla protezione costituzionale, di carattere sostanziale e procedurale, essendo il
Governo il datore di lavoro.
La protezione di carattere procedurale: il due process.
La protezione procedurale, riconducibile alla dottrina del due process, è stata invocata al fine di
delegittimare il licenziamento del pubblico impiegato omosessuale. A tal proposito è stato
affermato che, allorché l’impiegato possa rivendicare un interesse alla proprietà o alla libertà, il
licenziamento non potrà avvenire senza le forme di protezione procedurali all’uopo previste; il
primo interesse può essere invocato qualora le regole ufficiali in vigore diano luogo ad un interesse
legittimo alla prosecuzione del rapporto: in tal caso l’impiegato omosessuale potrà essere
licenziato soltanto allorché siano gli stessi regolamenti a prevedere espressamente
l’omosessualità tra le cause di licenziamento, come peraltro è avvenuto per i militari, escludendo in
questa circostanza la sussistenza di un interesse o di un’aspettativa, come indicato in Beller v.
Middendof; diversamente si ritiene prevalente la posizione del lavoratore. Si è fatto invece
riferimento al secondo interesse quando si è ritenuto che il licenziamento avrebbe danneggiato a
livello sociale l’impiegato pubblico, o lo avrebbe esposto alla stigmatizzazione, con le ovvie
conseguenze sulle future possibilità di impiego: in Beller i giudici hanno tuttavia respinto tale
ragionamento sul presupposto del fatto che il Governo non abbia mai diffuso notizie
sull’orientamento sessuale dell’impiegato licenziato; ed in Rich v. Secretary of the Army è stato
sostenuto che occorra escludere l’interesse se l’ex impiegato, attore nel procedimento, abbia
consentito alla diffusione di tale dato.
La protezione sostanziale ed il primo emendamento.
In un’altra ottica, è possibile verificare se i diritti del lavoratore possano essere protetti alla luce del
due process o dell’equalprotection del XIV emendamento, intesi tuttavia in senso sostanziale: a tal
proposito si è ulteriormente distinto tra la possibilità di applicare semplicemente la due process
review o l’equal protection review, ovvero di fare riferimento ad una delle forme di heightened
scrutiny.
Con riguardo alla prima delle ipotesi le corti sono state chiamate a determinare ai sensi del due
process se il licenziamento o la mancata assunzione dovuti all’orientamento sessuale possano
essere razionalmente collegati al pregiudizio governativo derivante dal fatto dell’omosessualità. In
particolare per la prima volta in Norton v. Macy è stato escluso che il pubblico impiegato potesse
essere licenziato per il solo fatto di essere omosessuale, qualora non fosse dimostrabile la
sussistenza di un nesso logico tra la condotta del lavoratore e l’efficienza del servizio. Nella
fattispecie un impiegato della National Aeronautics and Space Administration, dopo essere stato
arrestato per infrazioni stradali in compagnia di un altro uomo ed avere ammesso ai superiori di
praticare occasionalmente rapporti omosessuali, fatto peraltro negato alle autorità di polizia, era
stato licenziato dall’ente per condotta immorale, indecente e scandalosa che denotavano una
personalità inadatta ad un ruolo professionale in un ente governativo. La Corte d’appello,
rovesciando la decisione del giudice di primo grado, affermò nell’opinione del giudice Bazelon che i
motivi del licenziamento non potessero essere arbitrari, ma che, in presenza dei limiti costituzionali
della libertà e della riservatezza, dovesse essere dimostrato il nesso logico con il pregiudizio
derivante al servizio governativo dalla condotta. La corte respinse il giudizio di immoralità espresso
nella causa del licenziamento, in quanto affermò che, sebbene tale giudizio fosse frutto della
considerazione della maggioranza dei consociati, non fosse una funzione dell’ente governativo
quella di obbligare i dipendenti al rispetto dei canoni di conformità nell’ambito delle loro vite private,
escludendo peraltro che nella situazione in oggetto l’immoralità della condotta potesse avere
conseguenze sull’attività lavorativa del dipendente o sull’immagine dell’ente, o che il fatto stesso
dell’omosessualità fosse incompatibile con il ruolo del lavoratore, per determinate caratteristiche
psicologiche dell’individuo o per il rischio di estorsioni. In considerazione piuttosto della
competenza e dell’abilità dell’impiegato la corte ritenne che il licenziamento fosse ingiustificato.
Soltanto nell’opinione dissenziente il giudice Tamm affermò che il rischio di estorsioni e di
discredito pubblico potessero avere effetto sull’efficienza del servizio dell’ente. Il criterio poc’anzi
delineato incontra tuttavia alcuni limiti allorché siano stati ritenuti degni di tutela gli interessi
governativi: a tal proposito è stata affermata la legittimità del licenziamento per il discredito al
Governo recato da persone dichiaratamente omosessuali, con rischio evidente di discriminazione
nei confronti di conviventi dello stesso sesso, ovvero per l’incompatibilità rispetto a taluni ruoli.
Prendendo invece in considerazione la possibilità di fare uso dell’heightened scrutiny review
nell’applicazione della due process clause o dell’equal protection clause del XIV emendamento, si
sono delineate talune diverse soluzioni, le quali hanno come presupposto l’idea che gli
omosessuali costituiscano una classe sospetta o quasi-sospetta, e che di conseguenza il Governo
abbia l’onere dimostrare la sussistenza rispettivamente di un interesse necessario o di un
interesse legittimo per il conseguimento di un obiettivo, tale da giustificare il sacrificio del diritto
fondamentale del dipendente. Con riguardo al primo aspetto, occorre precisare che gli attori in
diversi procedimenti hanno fatto riferimento, senza riscontro da parte dei giudici, alla due proces
clause ed all’equalprotection of the law: così in Beller i giudici hanno escluso che i regolamenti
governativi che prevedono tra le cause di licenziamento l’attuazione di condotte omosessuali
violino il diritto fondamentale di privacy ai sensi della due process clause, come d’altra parte
successivamente confermato in Hardwick. Ed in Childer v. Dallas Police Department i giudici
hanno convalidato il licenziamento dell’attore, dichiaratamente omosessuale, in considerazione del
fatto che la sua condotta, ritenuta in flagrante violazione delle norme penali dello stato, benché tale
violazione sia soltanto presunta, escluda la protezione del due process: il licenziamento viene
altresì fondato sul rational basis test, in quanto le tensioni e la mancanza di fiducia tra colleghi,
nonché il rischio dell’approvazione tacita che snaturerebbe le funzioni del Dipartimento di polizia,
integrano l’interesse legittimo dell’ente pubblico.
Allo stesso modo si è tentato di affermare la natura di classe quasi-sospetta degli omosessuali, le
cui ragioni avrebbero peraltro trovato conferma nelle pesanti forme discriminatorie presenti e
passate con riguardo all’occupazione, facendo altresì riferimento all’equal protection: a riguardo in
High Tech Gays v. Defense Industrial Security Clearance Office il giudice di primo grado aveva
riconosciuto l’illegittimità del rifiuto della security clearance, l’autorizzazione governativa per
l’assunzione di talune funzioni negli enti federali, sul presupposto dell’intermediate scrutiny. In
quest’ottica è stata esclusa la possibilità che la pronuncia della Corte Suprema in Hardwick
potesse precludere il riferimento all’heightened scrutiny, giacché in quella circostanza era negato il
diritto fondamentale alla pratica di atti omosessuali, mentre le classificazioni attuate nel contesto in
oggetto riguarderebbero il carattere dell’omosessualità intesa come identità ed attrazione affettiva
e sessuale verso persone dello stesso sesso. Tuttavia è stato osservato come Hardwick abbia
inciso negativamente sulla situazione degli impiegati pubblici omosessuali in generale, poiché si
tende, come peraltro espresso in Padula v. Webster, a sovrapporre l’identità e la condotta: in ogni
caso, e non soltanto negli stati in cui la sodomia è illegale o negli enti in cui la condotta
omosessuale è motivo legittimo di discriminazione, la mancata considerazione della fondamentale
distinzione, peraltro evidente nelle considerazioni che seguiranno, è causa di una paradossale
situazione in cui un individuo può vedersi legittimamente negato un diritto o un interesse per il
mero desiderio o per l’orientamento, ancorché non praticato, verso una condotta o una scelta di
vita.
Le istanze precedentemente indicate sono tuttavia state respinte, talvolta in sede d’appello, dai
giudici, i quali hanno piuttosto preferito applicare il semplice rational basis test, con il quale è stata
ripudiata la possibilità di ammettere la discriminazione fine a sé stessa, ma sono stati ritenuti degni
di considerazione gli interessi semplici del Governo, riaffermando nella sostanza una posizione
molto vicina a quella già assunta in Norton. Un ulteriore elemento su cui è stata fondata la tutela
dei dipendenti pubblici federali è consistito nel riferimento al I emendamento, giacché è stata
ammessa in talune circostanza la violazione del diritto alla libertà di espressione: infatti, con
particolare riferimento all’eventualità del licenziamento, è stato osservato che esso è spesso
riconducibile ad affermazioni rese dall’impiegato. A tale riguardo le corti hanno elaborato un criterio
volto ad accertare i casi in cui il licenziamento costituisca una forma discriminatoria: in particolare è
stata operata una distinzione tra affermazioni rese dal lavoratore aventi carattere privato o
pubblico. Nel primo caso è stata esclusa la possibilità di ammettere la protezione del I
emendamento, come peraltro affermato in Johnson v. Orr ed in Rowland v. Mad River Local
School District. Nel secondo caso è stato al contrario sostenuto che le affermazioni siano
riconducibili al diritto sopra indicato, e che di conseguenza la corte dovrà bilanciare, come assunto
dai giudici della Corte Suprema in Pickering v. Board of Education, gli interessi del lavoratore con
gli interessi dello stato che legittimano la disciplina imposta ai dipendenti, la quale limiti un loro
diritto fondamentale. Occorre a questo punto definire cosa possa intendersi per affermazioni di
carattere pubblico: a tale riguardo occorre fare riferimento alla natura "politica" della dichiarazione
della propria omosessualità, ovvero all’intenzione di identificarsi con un gruppo sociale al fine di
mettere in luce gli atteggiamenti discriminatori posti in essere contro di esso, giacchè il
presupposto per il confronto sociale in vista dell’affermazione dei diritti civili è il coming out, ma
anche di esprimere il proprio dissenso nei confronti della concezione tradizionale della sessualità e
dei ruoli dei sessi, garantendo quindi la molteplicità delle Weltanschauungen.
A tal riguardo occorre tuttavia sottolineare che antecedentemente in Childers i giudici hanno
piuttosto fatto riferimento ad un concetto generale di riservatezza, escludendo la seconda istanza
dell’attore fondata sul I emendamento, giacché la pubblicità della propria omosessualità è stata
ritenuta confliggente con l’interesse legittimo del datore di lavoro alla protezione della propria
immagine pubblica. Si è più volte detto che, avendo i giudici respinto sino ad oggi la possibilità di
applicare l’heightened scrutiny, il diverso trattamento dei dipendenti omosessuali sia ammesso
qualora lo stato possa dimostrare la sussistenza di un interesse razionale: è opportuno pertanto
soffermarsi in conclusione, rimandando altresì alle indicazioni contenute in Norton, sulle ragioni
che secondo le corti giustificano l’azione dell’ente governativo. In primo luogo occorre premettere il
fatto che non sia possibile una valutazione di carattere generale, poiché lo stato è riuscito peraltro
a far valere interessi specifici in taluni settori, mentre in altri casi, come già affermato in Norton, è
stata affermata la natura discriminatoria della disparità di trattamento. Così nel settore scolastico
sono stati talora ammessi mancate assunzioni e licenziamenti: in McConnell v. Anderson l’ente
scolastico ha sostenuto che l’insegnante omosessuale pregiudichi l’immagine della scuola in
quanto la sua presenza sottintenderebbe l’approvazione tacita del suo comportamento; altre volte
è stato fatto generico riferimento all’immoralità del comportamento omosessuale o agli "effetti
deleteri sul processo educativo".
Complessa è poi la questione dei dipendenti nei settori militare e nelle forze dell’ordine, che verrà
preso in considerazione oltre, premettendo soltanto il riferimento dello stato alla necessità del
mantenimento dell’ordine, della morale, di evitare tensioni e ostilità, all’inidoneità psicologica e
comportamentale ai ruoli in oggetto. Una ulteriore ragione avanzata dallo stato riguarda la
violazione continuata delle norma penali in materia di sodomia da parte delle personeù
omosessuali, ma soprattutto il rischio di estorsioni che renderebbero poco opportuno l’affidamento
di incarichi presso taluni enti, quali C.I.A. o F.B.I.: in Padula i giudici hanno affermato la legittimità
della decisione del Federal Bureau of Investigation di non assumere una persona omosessuale, in
quanto il rischio di estorsioni sarebbe ancora più forte qualora il dipendente intendesse proteggere
il proprio partner. Soltanto recentemente è stato scelto di non sottoporre i candidati omosessuali a
verifiche speciali. Purtroppo in tutti i contesti sembra ancora emergere raramente una valutazione
delle capacità professionali del dipendente o del candidato, ma piuttosto traspare l’intenzione
spesso avallata dai giudici, di tenere in considerazione ai fini dell’esercizio di un’attività lavorativa
l’identità sessuale dei lavoratori.
Il caso Shahar v. Bowers.
Un caso recente certamente interessante è rappresentato da Shahar v. Bowers: pur delineandosi
infatti come una fattispecie attinente all’oggetto in esame, implica una serie di considerazioni
ulteriori. Robin Joy Brown, in seguito Shahar per il cambiamento del nome intercorso, accettò nel
settembre 1990 un lavoro presso il Georgia Department of Law che gli fu rifiutato l’anno
successivo, prima che potesse iniziarlo, dall’AttorneyGeneral dello Stato, Michael Bowers, già noto
per il caso Hardwick, venuto a conoscenza del fatto che nell’estate del 1991 la Shahar avrebbe
preso parte con la sua partner Francine Greenfield (poi Shahar) ad una cerimonia nuziale ebraica,
officiata da un rabbino appartenente alla corrente ricostruzionista, molto diffusa negli Stati Uniti,
che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Per questo la Shahar presentò ricorso
affermando la violazione dei diritti di associazione intima, della libertà di religione, dell’equal
protection e del due process, ai sensi del 42 U.S.C. § 1983. Bowers affermò di avere un preciso
dovere nel senso di mantenere l’integrità del Dipartimento e di preservarne il funzionamento,
precisò di non avere mai indagato sull’orientamento sessuale dell’attrice, sostenne che non
potesse ammettersi che un dipendente del Department of Law violasse le leggi penali dello Stato
sulla sodomia e quelle civili sul matrimonio e sullo stato civile. Shahar replicò affermando la natura
religiosa e privata della cerimonia, negando la violazione delle disposizioni civili, non essendosi
definita sposata, e di quelle penali: aggiunse che non potesse essere affermata la violazione delle
norme penali in misura diversa rispetto a quanto possa fare una qualsiasi coppia eterosessuale,
alla quale non è peraltro vietato rivelare fatti attinenti la vita privata.
Il giudice di primo grado riconobbe la fondatezza del riferimento al diritto di associazione, tuttavia,
applicando il bilanciamento elaborato in Pickering, ritenne prevalenti gli interessi del Department;
escluse altresì la violazione dell’equal protection clause, poiché ritenne che non fosse stato
dimostrato l’intento discriminatorio, mentre respinse il riferimento al due process. In sede d’appello
l’opinione di maggioranza del giudice Godbold riconobbe la fondatezza del riferimento al diritto
costituzionalmente protetto di associazione intima, come delineato in Roberts v. United States
Jaycees: fu focalizzato sul fatto che non esistesse alcuna pretesa di affermare uno stato civile o di
richiedere una licenza matrimoniale, ma che piuttosto occorresse considerare la natura religiosa
della cerimonia: la corrente ricostruzionista ebraica riconosce e celebra matrimoni tra persone
dello stesso sesso, creando uno stato fondato pertanto sulla religione; in questo senso fu
affermato un legame tra il diritto di associazione intima ed il diritto al libero esercizio della religione,
cui la stessa Corte Suprema in Department of Human Resources v. Smith aveva ammesso la
rilevanza nel contesto dei diritti degli impiegati pubblici.
I giudici ritennero che la natura ed il carattere della cerimonia stessero a fondamento delle istanze
riferite all’associazione intima, all’associazione espressiva, intesa come il diritto di associarsi per
praticare un’attività protetta dal I emendamento, ed alla libertà di religione, affermando la necessità
di applicare lo strict scrutiny per verificare la sussistenza di un interesse necessario da parte dello
stato che giustificasse la negazione del diritto. Fu altresì accolta la considerazione circa la
violazione dell’equal protection, sostenendosi che l’applicazione dello strict scrutiny non fosse da
riferire al fatto dell’omosessualità della ricorrente, ma piuttosto al criterio di revisione giudiziale
implicato nei casi relativi al diritto fondamentale alla pratica della religione, ancorché in riferimento
alla celebrazione di un matrimonio religioso omosessuale. Quest’ultima considerazione fu tuttavia
respinta dall’opinione concorrente, che sostenne al contrario la centralità della questione della
discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Il giudice dissenziente Kravitch condivise la
considerazione secondo cui erano implicati nella fattispecie i diritti fondamentali di associazione
intima ed espressiva delineati in Roberts, giacché il rifiuto dell’impiego fu ritenuto connesso e
conseguente alla scelta di unirsi alla compagna; tuttavia escluse l’applicazione dello strict scrutiny,
ma affermò che occorresse, in considerazione degli interessi dello stato in un caso relativo al
contesto del pubblico impiego, far uso del criterio delineato in Pickering: e, pur escludendo la
violazione di qualsiasi legge dello stato della Georgia, che sebbene possibile, non era dimostrata,
condivise l’opinione del giudice di primo grado, affermando la prevalenza degli interessi statali
sulla base di quanto affermato da Bowers.
L’ulteriore recente pronuncia sul caso Shahar ha tuttavia rovesciato le posizioni sopra indicate,
confermando la decisione del giudice di primo grado: i giudici d’appello, nell’opinione della
maggioranza del giudice Edmonson, escludono che occorra verificare se il diritto di associazione
intima riguardi anche i conviventi omosessuali, non ritenendo porsi la questione in questi termini:
piuttosto ritengono di dovere considerare le ragioni avanzate da Bowers, affermando peraltro la
legittimità della scelta nella valutazione delle opinioni sul controverso tema del matrimonio
omosessuale nell’assumere una persona al fine di verificare la conformità con l’orientamento
assunto nell’ambito dell’ente. Escludono inoltre che la fattispecie abbia attinenza con il diritto di
esercizio della religione, giacché la vicenda s’impernierebbe su di una condotta omosessuale
ripudiata dal datore di lavoro. E proprio perché la celebrazione di un matrimonio viene ritenuta
delineare una condotta, si rigetta la possibilità di qualsiasi riferimento a Romer. Alla luce di quanto
poc’anzi indicato, la corte esclude l’applicazione dello strict scrutiny, e ritiene prevalenti nel
bilanciamento gli interessi di Bowers, al quale si riconosce ampia discrezionalità nella scelta dei
dipendenti del Department, e la razionalità della motivazione secondo cui le idee
sull’omosessualità di un dipendente pregiudichino la possibilità che egli rappresenti credibilmente il
proprio ufficio, e quindi la stessa efficienza del Department. Le opinioni dissenzienti dei giudici
Godbold e Kravitch riaffermano i concetti espressi nella precedente pronuncia, aggiungendo che
l’atteggiamento di Bowers possa essere ricondotto all’animosità che sta alla base della
discriminazione, ripudiata in Romer. In una ulteriore opinione dissenziente, il giudice Barkett non
condivide il modo in cui di fatto è stato attuato il bilanciamento, ritenuto, contrariamente alle
indicazioni della Corte Suprema, appiattito sugli interessi dell’ente, e per nulla considerevole delle
istanze della Shahar.
Prendendo in esame l’intera vicenda Shahar, emergono considerazioni interessanti con riferimento
alla prima pronuncia dell’Eleventh Circuit: in quel caso si estende in una fattispecie concernente il
pubblico impiego, nonostante la peculiarità del contesto e l’implicazione di numerosi elementi
ulteriori, il concetto della protezione garantita dal I emendamento, la quale va peraltro a rafforzare
la disciplina sulla privacy tradizionalmente riferita al XIV emendamento, in relazione al diritto di
associazione intima, come affermato in Roberts; inoltre l’importanza della decisione consiste, in
termini più generali, nell’avere esplicitamente esteso alle persone omosessuali la stessa
protezione costituzionale garantita alle famiglie ed alle relazioni di tipo familiare delle coppie
eterosessuali. Certamente tutte le considerazioni debbono essere rivalutate e ridimensionate alla
luce dell’ultima pronuncia della stessa corte, che ha nella sostanza ricondotto il caso ad una tipica
fattispecie riguardante il pubblico impiego, mantenendosi nei limiti dell’applicazione dei canoni
elaborati dalle corti nel passato, definendo una chiave di lettura che riesce ad escludere ogni
riferimento a Romer, il cui riferimento all’animosità nei confronti dell’orientamento omosessuale
probabilmente avrebbe potuto proporsi come nuovo criterio nella determinazione degli intenti
discriminatori del Governo nei confronti dei pubblici impiegati omosessuali. Da notare invece che
manca qualsiasi riferimento ad Hardwick: sembrerebbe essersi compreso il senso della distinzione
tra status e condotta, salvo volere poi, come avvenuto nell’ultima decisione, definire un concetto
particolarmente esteso di condotta. Ciò che invece apparirebbe realmente superato è il riferimento
alle norme sulla sodomia, che pure erano state ampiamente chiamate in causa, ed al nesso logico
tra l’illiceità dei rapporti omosessuali e gli atteggiamenti discriminatori.
Gli impiegati pubblici statali e degli enti locali: cenni.
Come già anticipato, non potrà in questa sede essere presa in considerazione la posizione degli
impiegati pubblici dello stato, che tuttavia si ripropone in termini non dissimili da quanto già visto
con riferimento ai dipendenti federali; in particolare la dinamica della protezione costituzionale
statale potrà avvicinarsi alle indicazioni sopra delineate nei termini in cui sia delineata un’analogia
o l’identità tra norme costituzionali statali e federali. Un importante aspetto da porre in evidenza
consiste tuttavia nel fatto che, come noto, alcuni stati abbiano promulgato norme
antidiscriminatorie che includono tra le altre disposizioni specificamente dirette al pubblico impiego;
inoltre Illinois, Louisiana, Maryland, Michigan, New Mexico, New York, Ohio, Pennsylvania, Rhode
Island, Washington ed il District of Columbia vietano ogni forma di discriminazione nel settore in
oggetto.
Le stesse considerazioni debbono farsi in relazione a sempre più numerosi enti locali i cui
regolamenti vietano ogni disparità di trattamento nei confronti dei dipendenti che trovi fondamento
sull’orientamento sessuale.
Nelle circostanze poc’anzi riferite ogni forma discriminatoria sul posto di lavoro non potrà che
essere ritenuta illegittima. E sebbene le norme locali e statali possano rappresentare uno
strumento di protezione efficace ed una risorsa fondamentale per i dipendenti pubblici, ma anche e
soprattutto per quelli privati nei termini in cui si dirà, esse sono tuttavia soggette ad alcuni
limitazioni: oltre al fatto ovvio di tutelare un numero limitato di dipendenti pubblici, le norme
possono essere impugnate ed annullate qualora fossero ritenute in conflitto con interessi federali o
con diritti costituzionali, ma soprattutto, come in effetti si è spesso verificato, possono essere
soggette ad invalidazione giudiziale o ad abrogazione mediante referendum . A quest’ultimo
proposito occorre tuttavia considerare il senso della pronuncia in Romer che, oltre ad indebolire le
posizioni discriminatorie, rafforza il senso delle norme in oggetto.
L’impiego privato.
Il settore privato costituisce l’ambito in cui le persone omosessuali sono maggiormente esposte
agli atteggiamenti discriminatori del datore di lavoro: basti considerare che nel 1980 un terzo dei
lavoratori omosessuali ed un quarto delle lavoratrici omosessuali dichiaravano di aver subito forme
discriminatorie, mentre il 17% dei gay lamentava di aver perso il lavoro o di non essere stato
assunto per via dell’orientamento sessuale.
A fronte della situazione, se i pubblici impiegati hanno in qualche modo potuto invocare la
protezione costituzionale, agli altri dipendenti è stata negata ogni forma di tutela, fatto che non ha
impedito, se non legittimato, le scelte discriminatrici dei datori di lavoro: ciò è dovuto peraltro alla
caratteristica del tradizionale rapporto di lavoro anglosassone, che secondo la dottrina di common
law, lascia al datore stesso la piena discrezione in merito al licenziamento del dipendente. In
mancanza di disposizioni specifiche a livello nazionale, si è tentata l’interpretazione delle norme
esistenti nel senso di ricomprendervi il divieto di discriminazione fondato sull’orientamento
sessuale, quando gli stati, gli enti locali ed i contratti collettivi di lavoro non sono intervenuti a
limitare la discrezionalità del datore di lavoro; la situazione, come si vedrà, è tuttavia
particolarmente allarmante.
La disciplina federale e l’E.N.D.A.
La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale non è attualmente vietata in modo esplicito
da alcuna disposizione di legge federale. Le uniche disposizioni antidiscriminatorie, cui peraltro i
lavoratori omosessuali e parte della dottrina hanno più volte fatto riferimento senza tuttavia
ottenere risultati, sono contenute nel title VII del Civil Rights Act del 1964; ai fini dell’applicazione
del title VII è stata istituita la Equal Employment Opportunity Commission (E.E.O.C.), che sino ad
ora ha respinto la possibilità che la norma intenda riferirsi all’orientamento sessuale. Due sono
state le vie attraverso cui si è tentato di estendere il concetto di discriminazione per ricomprendervi
l’orientamento sessuale: la prima si è fondata sull’interpretazione del termine "sesso", la seconda
sul concetto di stereotipizzazione sessuale. La prima ipotesi è stata respinta dai giudici in
DeSantis v. Pacific Telephone & Telegraph Co.: in quella circostanza gli attori addussero tre
motivazioni, non accolte dalla corte; in primo luogo fu sostenuto che il termine "sesso"
ricomprendesse non soltanto il genere, ma altresì l’identità e le preferenze sessuali: tale
considerazione fu respinta sulla base del precedente in Holloway v. Arthur Andersen & Co., nella
quale si affermò che nelle intenzioni del legislatore, come affermato altresì dalla E.E.O.C., il title
VII vietasse la discriminazione sulla base del genere, senza considerare le preferenze sessuali,
benché in realtà nessuna interpretazione del Congresso lo abbia stabilito. Respinti altresì le
ulteriori cosiddette teorie del diverso trattamento e del diverso impatto; si affermò infatti che la
discriminazione fondata sull’orientamento sessuale delineasse effettivamente un diverso
trattamento tra uomini e donne, giacché la donna sessualmente attratta da un uomo sarebbe stata
preferita rispetto all’uomo ugualmente attratto da un uomo: i giudici ritennero tuttavia che si
dovesse considerare la diversa circostanza della preferenza di una persona dello stesso sesso,
alla luce di cui uomini e donne erano parimenti considerati. Con riferimento a quanto indicato dalla
E.E.O.C. in merito al fatto che un lavoratore non potesse essere discriminato a causa della razza
di un amico, allo stesso modo si affermò che non potesse discriminarsi sulla base del sesso
dell’amico: la corte focalizzò tuttavia sulla natura dell’amicizia. I giudici esclusero infine che, come
affermato dagli attori, la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale colpisse in misura
superiore gli uomini, per una maggiore avversione nei confronti dell’omosessualità maschile ed un
presunto maggior numero di omosessuali maschi, poiché si ritenne volere individuare una funzione
specifica in una norma che al contrario proteggeva tutti gli uomini.
L’esclusione della protezione dei lavoratori omosessuali ai sensi del title VII fu peraltro affermata in
numerose circostanze ulteriori.
In una diversa ottica, la stereotipizzazione sessuale si fonda sul concetto, espresso dalla Corte
Suprema per la prima volta in Price Waterhouse v. Hopkins, secondo cui è riconducibile alla sfera
della discriminazione sessuale vietata dal title VII l’atteggiamento del datore di lavoro che attua un
diverso trattamento sulla base degli stereotipi che comunemente sono ritenuti caratterizzare i
sessi: così in Price Waterhouse i giudici condannarono l’atteggiamento del datore di lavoro che
rifiutò la collaborazione di una donna considerata poco "femminile".
La trasposizione di tale concetto sul piano dell’orientamento sessuale implica talune
considerazioni: è stato infatti sostenuto che l’omosessualità, come già affermato in precedenza, è
causa di discriminazione in quanto verrebbe a sconvolgere il sistema socialmente costruito dei
generi; se infatti la sessualità fa riferimento agli aspetti biologici della persona per le caratteristiche
anatomiche, fisiologiche, ormonali, cromosomiche, la nozione dei generi si fonda su di una
concezione bipolare e classificante in base a determinati luoghi comuni caratterizzanti socialmente
e culturalmente assunta, e sta all’origine della predominanza di un genere sull’altro, da cui peraltro
deriva il sessismo. Il sessismo diverrebbe in quest’ottica eterosessismo allorché venga
riconsiderato nel contesto delle relazioni coniugali e familiari, perpetuando il ruolo di predominanza
sociale del maschio, attuato mediante la stigmatizzazione dell’omosessualità e l’egemonia
dell’uomo sulla donna. Come già visto, l’omosessualità rappresenterebbe un pericolo in quanto
sconvolgerebbe tutto il sistema poc’anzi delineato, ed in particolare il ruolo di potere dell’uomo. In
quest’ottica se le corti riconoscono che la disuguaglianza di trattamento nei confronti della
lavoratrice mascolina costituisce una forma di discriminazione da censurare ai sensi del title VII, in
quanto fondata su di uno stereotipo sessuale, la stessa cosa dovrebbe potersi dire per il lavoratore
effemminato oppure omosessuale, giacché il diverso trattamento è comunque riconducibile ad un
pregiudizio che si basa su di una precisa concezione dei ruoli e delle caratteristiche dei generi
maschile e femminile. E se lo scopo del title VII è quello di rimuovere le forme di subordinazione
della donna sul posto di lavoro, esso non potrà che essere conseguito censurando ogni
stereotipizzazione, sessista o eterosessista, che di per sé afferma la posizione di predominio
dell’uomo. Tuttavia occorre rilevare che le corti hanno assunto una posizione di facciata, non
diretta ad estirpare i preconcetti: così in Smith v. Liberty Mutual Insurance Co. i giudici hanno
ritenuto legittimo il rifiuto di assumere un individuo effemminato per l’inappropriatezza delle
caratteristiche rispetto al sesso dello stesso. Ugualmente in Dillon v. Frank si è respinta la suddetta
interpretazione del title VII nei confronti di un omosessuale. Un ultimo accenno al title VII va fatto
con riguardo alla questione delle molestie sessuali sul posto di lavoro: se infatti alla norma in
oggetto si è fatto riferimento al fine di proteggere i lavoratori di entrambi i sessi dalle molestie,
anche da parte di una persona dello stesso sesso, la protezione delle persone omosessuali, nel
caso in cui l’ambiente di lavoro sia ostile ed i colleghi siano molesti per ragione dell’orientamento
sessuale, è stata nuovamente esclusa sulla base del ragionamento secondo cui quella causa non
è riconducibile al divieto fondato sul sesso del title VII. La tutela degli omosessuali in quest’ambito
sarà possibile soltanto in presenza delle norme antidiscriminatorie specifiche statali o locali.
Una soluzione auspicata e sinora inattuata è costituita dall’Employment Non-Discrimination Act
(ENDA), il quale, benché sia stato presentato al Congresso ogni anno a partire dal 1976, è stato
lasciato decadere innumerevoli volte e talora respinto al voto, nonostante che sia stato appoggiato,
soprattutto negli ultimi anni, da esponenti di tutte le forze politiche. Sul presupposto del fatto che
l’orientamento sessuale non abbia alcuna relazione con la capacità dell’individuo di contribuire alla
vita civile ed economica della società, ed in considerazione della stigmatizzazione sociale nei
confronti delle persone omosessuali, spesso storicamente escluse dalla partecipazione piena al
processo politico del paese e soggette a forme discriminatorie, particolarmente evidenti nel settore
dell’occupazione, lo scopo della proposta di legge è quello di sopperire al vuoto legislativo nella
protezione dalla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale; così l’ENDA viene riproposto
ogni anno, in versioni parzialmente differenti, e vieta ad ogni entità che offra opportunità di
occupazione o sia preposta alla promozione delle opportunità di impiego ogni forma di
discriminazione e di disparità di trattamento, ma anche di trattamento preferenziale o di previsione
di quote riservate, sulla base dell’orientamento sessuale; le norme in oggetto escludono
espressamente la previsione di benefici a favore dei partners ed esonerano dalla loro applicazione
le organizzazioni religiose, le Forze Armate, le imprese con meno di quindici dipendenti. Al fine
dell’applicazione della legge viene fatto riferimento alle disposizioni previste per la violazione del
title VII del Civil Rights Act del 1964, e negli stessi termini vengono estese le competenze
dell’E.E.O.C.; viene inoltre stabilito che gli stati stessi non sono immuni dal rispetto della disciplina,
ed in caso contrario possono essere convenuti presso le giurisdizioni competenti. Certamente
l’approvazione dell’ENDA costituirebbe un segnale forte da parte dello stato, e consentirebbe una
protezione estesa delle persone omosessuali in gran parte dei contesti occupazionali. In passato
sono stati altresì proposti emendamenti al title VII al fine di includervi l’orientamento sessuale: i
tentativi sono stati abbandonati per dare spazio all’approvazione dell’ENDA.
Le forme ulteriori di tutela e le politiche antidiscriminatorie delle aziende.
Oltre al riferimento alle disposizioni federali, sono stati individuati ulteriori rimedi giuridici i quali
sono stati fatti valere talora in sede giudiziale. In primo luogo è stata affermata la possibilità di
ondare l’illegittimità delle scelte discriminatorie, che necessariamente hanno carattere
discrezionale, su di una public policy exception: benché le corti abbiano preferito affermare principi
codificati, non sono tuttavia mancate fattispecie in cui licenziamenti arbitrari sono stati invalidati in
riferimento ai principi di politica pubblica, ed in particolare in Payne v. Rozendaal alla
considerazione che una decisione crudele ed improvvisa sia contraria alla concezione della
giustizia di ciascun consociato. Sino ad oggi tuttavia i principi in oggetto sono stati raramente
invocati per invalidare un atto discriminatorio nei confronti di un lavoratore omosessuale. Una
ulteriore forma di protezione potrebbe invece coinvolgere le associazioni sindacali, le qual spesso
si sono impegnate per l’affermazione dei diritti civili delle persone omosessuali: in particolare, in
considerazione del dovere di leale rappresentanza nei confronti dei lavoratori iscritti previsto ai
sensi del National Labor Relations Act, i contratti collettivi potrebbero impedire o consentire che sia
impugnato un licenziamento non dovuto a giusta causa. V’è infine da considerare la possibilità che
siano gli stessi datori di lavoro a delineare politiche antidiscriminatorie nell’ambito delle proprie
imprese; per quanto concerne l’orientamento sessuale, si stima che oltre il 60% dei datori di lavoro
affermino di escludere disparità di trattamento; talora le scelte antidiscriminatorie sono contenute
nei regolamenti aziendali: a questo proposito le corti hanno riconosciuto che la regola scritta o
orale possa considerarsi una sorta di clausola contrattuale che limita la discrezionalità del datore di
lavoro nella decisione del licenziamento del dipendente. Ciò è tuttavia stato escluso proprio con
riferimento al licenziamento di un lavoratore omosessuale, sulla base del fatto che mancasse un
espresso accordo reciproco tale da modificare la natura del rapporto di lavoro.
Gli interventi degli stati e degli enti locali.
Si è già detto più volte che taluni stati, oltre a numerose contee e città, vietano la discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale, e dei limiti cui le suddette discipline sono soggette;
generalmente, come peraltro noto, tali norme fanno altresì riferimento al settore del lavoro privato:
in questi casi è evidente che l’intervento pubblico limiti le scelte del datore di lavoro, alterando a
vantaggio del lavoratore il tipico rapporto di lavoro di common law. Se l’importanza delle norme in
oggetto è di palese rilevanza, non è sempre chiara la loro reale effettività, in quanto spesso i datori
di lavoro hanno omesso di trasporle nel contesto dei regolamenti aziendali: tuttavia l’intervento
normativo dello stato offre una protezione inequivocabile ai lavoratori, imponendo limiti da cui il
datore non può sottrarsi. L’importanza delle norme antidiscriminatorie statali nel contesto in
oggetto è poi particolarmente evidente allorché si consideri che esse rappresentano la più recente
espressione della concezione moderna dei diritti civili, elaborata negli anni’60 con riguardo alla
discriminazione razziale, ed applicata in seguito alla discriminazione sessuale, di cui il title VII
rappresenta nel settore del lavoro l’applicazione legislativa a livello federale. Una caratteristica
comune a gran parte delle discipline antidiscriminatorie, che peraltro caratterizzerebbe altresì
l’ENDA, è costituita dal fatto che generalmente sono escluse dall’applicazione delle norme in
oggetto le organizzazioni religiose, nonché gli istituti di carità o scolastici controllati dalle suddette
organizzazioni; lo scopo dell’eccezione consiste nell’offrire la possibilità a questo particolare datore
di lavoro di scegliere dipendenti che abbiano uguali opinioni etiche e religiose: talora è previsto che
sia data preferenza ad individui della stessa religione. La ragione dell’eccezione consiste nel
conflitto tra il diritto alla libertà di religione protetta dal I emendamento e le stesse norme
antidiscriminatorie; come si è già detto, un problema analogo si è presentato per altri ordinamenti
che hanno previsto norme a protezione delle persone omosessuali: tra essi, il legislatore dei Paesi
Bassi ha ritenuto di dovere affermare un principio pieno di parità di trattamento, senza limitare in
alcun modo i diritti di un individuo sulla base di una caratteristica personale.
Le eccezioni previste dai legislatori statali americani derivano invece a loro volta dalla più generale
eccezione prevista dal Religious Freedom Restoration Act, votato dal Congresso in risposta alla
decisione della Corte Suprema in Employment Division v. Smith, e finalizzata all’estensione della
libertà di coscienza, limitando le scelte legislative dello stato che confliggano con le attività di
natura religiosa, salvo che non sia dimostrata la sussistenza di un interesse necessario; è stato
peraltro sostenuto che una simile restrizione avrebbe di fatto imposto un diverso grado di efficacia
delle norme antidiscriminatorie, che penalizzerebbe quelle relative all’orientamento sessuale,
focalizzando esclusivamente sulla tutela della libertà religiosa.
Già analoga era tuttavia la posizione della giurisprudenza statunitense antecedentemente
all’intervento legislativo, con riguardo al tema in oggetto: sebbene le corti abbiano elaborato un
criterio per il quale l’organizzazione religiosa ha l’onere di provare le ragioni di questa forma di
"obiezione di coscienza", sulla base della natura religiosa dell’organizzazione stessa, della
centralità dell’obiezione in relazione all’attività religiosa svolta nell’ambito del rapporto lavorativo,
della sincerità dell’obiezione, l’applicazione integrale della legge antidiscriminatoria è stata
ugualmente prevista allorché, in virtù della previsione dello strict scrutiny, lo stato abbia dimostrato
un interesse necessario tale da neutralizzare gli interessi del gruppo. Ma se in alcuni casi la libertà
di religione è stata ritenuta prevalente, talvolta i giudici hanno affermato la fondatezza
dell’interesse statale: in Gay Right Coalition of Georgetown Univ. Law Ctr. v.
GeorgetownUniversity la corte ha riconosciuto la sussistenza dell’interesse del Governo a
promuovere la dignità individuale ed a garantire la protezione della vita, della libertà e della
proprietà di tutti i cittadini per mezzo delle norme antidiscriminatorie, volte ad eliminare disparità di
trattamento fondate sull’orientamento sessuale: in questo senso la disciplina antidiscriminatoria del
District of Columbia protegge da forme di discriminazione non intenzionale, ovvero dovute a
ragioni diverse dal diverso trattamento fine a sé stesso, ma il cui impatto sostanziale su di un
gruppo minoritario non può essere trascurato; in Presbitery of New Jersey of Orthodox Church v.
Florio è stato affermato semplicemente l’interesse prevalente dello stato nel proteggere una
minoranza sessuale.
Occorre peraltro sottolineare che le eccezioni fondate sul I emendamento nell’applicazione delle
norme antidiscriminatorie nei confronti di taluni datori di lavoro sono limitate ad attività o
manifestazioni del pensiero di carattere religioso, e quindi non commerciale. Alla luce della
pronuncia in Romer è prevedibile tuttavia che le corti tenderanno a ridurre gli spazi di applicazione
dell’eccezione.
In conclusione può essere interessante prendere in considerazione il caso della California, la cui
disciplina legislativa antidiscriminatoria con riguardo al settore del lavoro privato, introdotta nel
1992, è stata preceduta dalla protezione giudiziale delle persone omosessuali, che le corti hanno
affermato sin dal 1979. In Gay Law Students Association v. Pacific Telephone & Telegraph Co. I
giudici ritennero che le norme del codice del lavoro che vietano ai datori di lavoro di controllare o
limitare le attività politiche dei dipendenti fossero applicabili alla comunità omosessuale, la cui lotta
per la parità nel campo dell’occupazione doveva essere riconosciuta come attività politica, ed in
base a questo ragionamento si escluse ogni forma di discriminazione nei confronti degli
omosessuali. Peraltro l’Attorney General dello stato intervenne successivamente affermando che il
codice del lavoro vieta ogni forma di discriminazione dei lavoratori fondata sull’orientamento
sessuale.
L’interpretazione resa dai giudici nel’79 fu utilizzata in numerosi casi, ma con l’introduzione delle
norme antidiscriminatorie è stata dismessa; tuttavia la nuova disciplina non è applicabile per le
organizzazioni religiose e le imprese con meno di cinque dipendenti; è inoltre importante
sottolineare che la legge del 1992, che prevede una serie di rimedi amministrativi antecedenti
all’azione giudiziale, tutela tanto gli omosessuali dichiarati, quanto quelli percepiti come
eterosessuali, ma altresì le persone eterosessuali che sono percepite come omosessuali. l di là
della legge in oggetto, la protezione dei lavoratori omosessuali è stata affermata anche in
relazione al diritto di privacy ed alla luce della public policy exception.
I domestic partnership benefits.
Anche con riguardo alla tematica in oggetto occorre considerare una prospettiva ulteriore e
differente che influisce sulla parità di trattamento dei lavoratori omosessuali: l’ordinamento
riconosce e tutela il lavoratore come membro di un nucleo familiare, ed a tal proposito conferisce
diritti e benefici, di cui si è già detto, dei quali peraltro deve farsi carico il datore di lavoro. Ed allora,
anche nel settore del lavoro in generale si ripropone la questione secondo cui la disparità di
trattamento dei lavoratori omosessuali conviventi more uxorio si estende al mancato
riconoscimento da parte dell’ordinamento in primis, ma altresì da parte del datore di lavoro, del
rapporto affettivo di cui sono parti.
Anche in quest’ambito, come noto, il legislatore non ha sino ad ora previsto l’estensione ai
conviventi dello stesso o dell’opposto sesso dei benefici previsti per i coniugi; a questo propositoù
occorre tuttavia differenziare tra i diversi contesti. A livello federale è esclusa la possibilità
dell’estensione dei suddetti benefici ai conviventi more uxorio: l’EmploymentRetirement Income
SecurityAct (ERISA) riconosce i diritti previdenziali, assistenziali, assicurativi, pensionistici ai
coniugi dei lavoratori.
A livello statale soltanto Massachusetts e Vermont riconoscono taluni benefici ai dipendenti
pubblici, mentre di portata ben più ampia sarà la riforma hawaiiana, la quale consentirà anche nel
contesto in oggetto l’attuazione del principio della parità di trattamento per tutti i lavoratori.
Peraltro è stato escluso che le norme antidiscriminatorie statali ricomprendano nel concetto di
uguale trattamento l’obbligo per il datore di lavoro di conferire i benefici derivanti dal matrimonio al
convivente more uxorio del lavoratore, benché ciò comporti di fatto una forma di disparità
retributiva tra dipendenti. Già in Hinman v. Department of Personnel Administration i giudici
d’appello avevano sostenuto che il mancato conferimento dei benefici ai conviventi omosessuali
non costituisse una violazione dell’equal protection clause della Costituzione della California, in
considerazione del fatto che la distinzione non si fondasse sull’orientamento sessuale, ma sullo
stato civile, e fosse peraltro necessaria al fine di evitare incertezze nella determinazione dei criteri
di attribuzione dei benefici stessi; la questione non si è posta in modo differente allorché si sia fatto
riferimento alle norme antidiscriminatorie: in particolare in Lilly v. City of Minneapolis la corte ha
ritenuto che la specificazione normativa del fatto che le previsioni antidiscriminatorie non possano
essere intese come supporto al riconoscimento del matrimonio omosessuale impedisca
l’estensione giudiziale dei benefici, che in qualche modo varrebbe a conferire rilevanza giuridica
alle unioni more uxorio tra persone dello stesso sesso. E’ invece noto che un gran numero di enti
locali abbiano, mediante le domestic partnership
ordinances, conferito rilievo giuridico alle convivenze more uxorio, estendendo taluni benefici:
rimandando a quanto si è già detto, è opportuno soltanto ricordare la rilevanza di tali normeù
regolamentari per i soli dipendenti degli stessi enti e l’inefficacia nei rapporti tra i conviventi
"registrati" ed i terzi, tra i quali i privati datori di lavoro.
I limiti ai poteri degli enti locali nella determinazione dei benefici per i conviventi degli impiegati
privati possono essere ben compresi prendendo in considerazione il caso della città di San
Francisco. Sin dal 1972 le norme regolamentari vietano all’Amministrazione locale di stipulare
contratti con imprese che attuino un trattamento diverso sulla base dell’orientamento sessuale; nel
1997 tali disposizioni sono state emendate nel senso di prevedere il requisito del riconoscimento
dei benefici ai partners dei dipendenti delle imprese stesse. Per questo motivo un’impresa che
aveva stipulato un contratto d’appalto con la città ha agito in sede giudiziale affinché fosse
dichiarata l’illegittimità delle suddette disposizioni.
In Air Transport Association v. City and County of San Francisco il giudice Wilken, pur non
invalidando le norme, fissa taluni limiti ai poteri degli enti locali con riguardo al tema in oggetto. In
primo luogo viene affermata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui si prevede che
l’appaltatore debba conferire i benefici a tutti i suoi dipendenti, qualora, come nel caso in oggetto,
l’impresa operi su scala nazionale, in quanto si ritiene che i regolamenti municipali abbiano
ecceduto rispetto alle proprie competenze territoriali violando la Commerce clause dell’art. 1 della
Costituzione federale, la quale attribuisce al Congresso il potere di regolare il commercio estero ed
interstatale: l’Amministrazione comunale non potrà imporre all’impresa oneri che di fatto avrebbero
efficacia su scala nazionale, ma soltanto prevedere requisiti specifici a vantaggio dei lavoratori sul
suo territorio, in considerazione del fatto che in quel contesto gli oneri sono stati ritenuti legittimi se,
come nella fattispecie in oggetto, non impongano condizioni troppo onerose per l’impresa
contraente. Quindi il giudice prende in considerazione la questione della compatibilità
dell’ordinanza municipale con l’ERISA, sostenendo che sicuramente possa ravvedersi una
limitazione della libertà di commercio contraria ai principi ispiratori della disciplina federale per
l’uniformazione delle politiche relative ai benefici conferiti ai lavoratori, ma anche che debba tenersi
conto del fatto che l’Amministrazione è ente pubblico, e come tale può imporre regole che non
possono confliggere con le norme federali, ma è anche parte privata in un contratto di appalto, ed
in tale veste, in virtù del principio della libertà contrattuale, può scegliere l’appaltatore che
conferisca ai suoi dipendenti omosessuali quei benefici che non sono ricompresi ai sensi
dell’ERISA, ma regolati dalle norme municipali. Viene quindi esclusa l’incompatibilità con l’Airlines
Deregulation Act, giacché si ritiene che l’ordinanza in oggetto non preveda, alla luce delle
limitazioni giudiziali, oneri tali da provocare una modificazione dei costi dei servizi aerei o delle
stesse rotte aeree, e con il Railway Labor Act, il quale prevede che i benefici conferiti ai dipendenti
siano oggetto di contrattazione tra datori di lavoro e associazioni sindacali.
Dall’esame della sentenza considerata emergono ancor più evidentemente i limiti delle normative
locali, ed in mancanza di un intervento diffuso dei legislatori statali, o di quello federale, si è tentato
di affermare in sede giudiziale l’estensione dei benefici nei settori pubblico e privato.In primo luogo
è stato affermato che i divieti di discriminazione fondati sull’orientamento sessuale o sullo stato
civile, quest’ultimo previsto da un discreto numero di stati, consentano il conferimento dei benefici
ai soli lavoratori sposati, in considerazione del fatto che le persone omosessuali non possono
sposarsi: proprio con riferimento allo stato civile, è stato affermato che uno degli scopi della norma
dovrebbe essere individuato nella necessità di estendere a tutti i lavoratori, conviventi, e perciò
liberi, o coniugati, i benefici in oggetto. I giudici hanno soltanto in poche occasioni accolto tale
principio: ciò si è verificato tra gli altri in Anglin v. Minneapolis. Certamente è interessante
constatare come un certo numero di corti abbia interpretato il concetto di famiglia nel senso di
ricomprendervi le convivenze omosessuali more uxorio per conferire diritti dei quali
tradizionalmente sono titolari i coniugi: sebbene non si tratti dei benefici di cui si discute, le scelte
giudiziali potrebbero costituire una valida argomentazione ed un precedente importante; così in
Braschi v. Stahl i giudici hanno ritenuto che il concetto di famiglia sia da estendere alle coppie
omosessuali in relazione alla durata, alla esclusività, all’affectio, alla comunione materiale, alla
quotidianità nell’ambito del rapporto; con In re Michael D. sono stati invece conferiti sulla base di
simili considerazioni al partner di un ammalato terminale i benefici previsti per i coniugi in caso di
assenza dal lavoro per motivi di assistenza. Lo stesso principio è stato tuttavia respinto in Ross v.
Denver Department of Health and Hospital.
In modo non dissimile da quanto poc’anzi delineato, è stata sostenuta la possibilità che la
negazione dei benefici sia da considerare una violazione delle norme sulla parità di trattamento
anche quando esse siano previste nelle scelte antidiscriminatorie dei datori di lavoro: in questa
circostanza si tratterebbe in primo luogo di dimostrare la natura contrattuale e vincolante di tali
scelte.
Infine sono state le associazioni sindacali a promuovere l’estensione dei benefici in relazione alle
clausole antidiscriminatorie contenute nei contratti collettivi di lavoro. Allo stato attuale sono
comunque numerose le imprese che estendono per propria scelta ai lavoratori conviventi more
uxorio i cosiddetti domestic partnership benefits. Peraltro la politica aziendale in oggetto si sta
diffondendo, e riguarda già alcune tra le più importanti imprese statunitensi.
Può essere pertanto interessante esaminare le modalità ed i requisiti per il conferimento dei
benefits da parte di enti pubblici ed imprese private. In primo luogo occorre considerare che essi
vengono conferiti indistintamente a tutti i conviventi more uxorio o alle sole coppie omosessuali; in
quest’ultimo caso sono stati addotti due motivi fondamentali: la ragione primaria consiste nel fatto
che la ricomprensione delle coppie omosessuali sia stata ritenuta più necessaria ed urgente al fine
dell’attuazione delle politiche antidiscriminatorie, in quanto i conviventi eterosessuali non sono
preclusi dalla possibilità di ottenere i benefici allorché si sposino: è stata tuttavia affermata la
possibilità che tale soluzione parziale sia oggetto di impugnazione da parte di conviventi more
uxorio eterosessuali sulla base degli stessi divieti di discriminazione già presi in considerazione;
quindi sono state avanzate considerazioni di carattere economico da cui, in ragione di quanto
poc’anzi sostenuto, conseguirebbe la prevalenza delle istanze dei partners omosessuali, anche
per il fatto che i costi che l’impresa in quest’ultima ipotesi deve sostenere sono ridotti per l’assenza
dei benefici relativi alla maternità ed alla prole. Queste posizioni sono state peraltro avallate dal
New York State Insurance Department.
Una seconda questione che viene posta consiste nella determinazione degli ulteriori requisiti degli
aventi diritto: generalmente si è fatto riferimento ancora una volta alla comunione di vita affettiva e
materiale, stabile e durevole da almeno un anno, tra due conviventi adulti, liberi da vincoli
matrimoniali o da altri domestic partnership benefits, privi di legami di parentela entro cui è altresì
escluso il matrimonio; sono peraltro stabiliti meccanismi di certificazione non dissimili dalla
registrazione dell’unione, mediante i quali i conviventi dichiarano quanto sopra indicato, o in
alternativa viene richiesto, dove possibile, che sia dimostrata la domestic partnership registrata
presso l’ente locale. I benefici che generalmente enti ed imprese scelgono di conferire ai conviventi
sono quelli previdenziali ed assistenziali, in particolare relativamente all’assicurazione sanitaria, il
diritto al trattamento di fine rapporto o alla reversibilità del salario del lavoratore deceduto; talora il
datore di lavoro sceglie volontariamente di estendere i benefici previsti per i coniugi soltanto da
talune disposizioni di legge federali, quali il Family and medical leave Act del 1993 o il
Comprehensive Omnibus Reconciliation Act del 1986 (COBRA), contenuto nell’ERISA. Le politiche
per il riconoscimento dei domestic partnership benefits sono di grande importanza per la ragione di
carattere giuridico già precedentemente considerata del superamento sostanziale delle forme di
discriminazione fondate sull’orientamento sessuale o sullo stato civile, qualora esse siano bandite
dalla normativa antidiscriminatoria statale o locale ovvero dai regolamenti aziendali, sul
presupposto dell’evoluzione delle realtà sociali e dell’equivalenza morale e sostanziale tra il
matrimonio e la convivenza more uxorio, soprattutto nei casi in cui, come per le coppie dello stesso
sesso, il primo sia vietato dalla legge.
V’è poi un ulteriore vantaggio in termini sociali, rappresentato dal fatto che anche il conferimento
dei benefici nel settore del lavoro possa costituire una forma di istituzionalizzazione delle unioni di
fatto omosessuali, che potrebbe concorrere al superamento della discriminazione e della
stigmatizzazione sociale, oltre che alla maggiore stabilità, non soltanto economica, delle coppie. Le
opposizioni alla diffusione del modello in oggetto hanno nuovamente natura morale ed economica;
con riferimento al primo aspetto, i gruppi conservatori o religiosi paventano il rischio
dell’indebolimento del modello tradizionale di famiglia, di cui si è già detto in precedenza. Le
ragioni economiche sono invece legate ai costi supplementari per il datore di lavoro che una
politica di estensione dei benefici necessariamente comporta: tuttavia i dati empirici dimostrano
che enti ed imprese che hanno compiuto tali scelte non hanno subito incrementi considerevoli,
anche per i costi inferiori del conferimento dei benefici alle persone omosessuali. Il timore
avanzato da taluni riguarda il rischio di possibili abusi da parte di persone conviventi ma non legate
dalla comunione affettiva e materiale: a tal proposito è stato tuttavia sostenuto che il rischio de
licenziamento e della condanna per frode dovrebbero essere sufficienti a prevenire tali circostanze,
sulle quali peraltro esiste una stretta sorveglianza da parte dei datori di lavoro. Esiste infine uno
svantaggio patrimoniale per il lavoratore nel caso del conferimento dei benefici: ai sensi delle
norme fiscali federali, qualora il partner non riceva da quello un supporto economico superiore al
50%, i vantaggi patrimoniali derivanti dai benefici sono considerati reddito imponibile. Un’ultima
considerazione riguarda la possibilità teorica che, negli stati in cui è previsto il reato di sodomia,
l’estensione dei domestic partnership benefits possa essere ritenuta una sorta di istigazione, se
non di favoreggiamento, da parte del datore di lavoro nei confronti di attività illecite: ancora una
volta è opportuno che si tenga in considerazione che la protezione degli individui dalla diversità di
trattamento sulla base di caratteristiche degli stessi, ancorché con riguardo al rapporto
interpersonale affettivo, non ha nulla a che vedere con le attività sessuali proibite dalla legge, ma è
semplicemente un atto volto alla realizzazione sostanziale della parità.
LA SITUAZIONE IN EUROPA.
Il problema della discriminazione nei confronti delle persone omosessuali sul posto di lavoro è
sentito anche in Europa: in questo contesto è opportuno, in considerazione degli scopi e delle
competenze dell’Unione Europea, prendere in esame in primo luogo la normativa comunitaria ed i
suoi effetti sui paesi membri. Quindi si tornerà ad esaminare gli ordinamenti che sono stati oggetto
di considerazione in relazione alle altre tematiche affrontate.
L’Unione Europea e la protezione dei lavoratori omosessuali.
Il tema della discriminazione sul posto di lavoro con riferimento ai paesi che saranno presi in
considerazione oltre, presuppone in primo luogo l’esame della normativa comunitaria. Se infatti la
tutela dei lavoratori rappresenta un elemento portante delle politiche comunitarie ed uno degli
scopi della stessa Unione Europea, è evidente che sarà opportuno verificare se in questo contesto
possano essere ravvisati disposizioni a garanzia della protezione dei lavoratori omosessuali che
siano vincolanti per gli stati membri. Il punto di partenza anche in questa circostanza è
rappresentato dal dato fattuale dei numerosi episodi di discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale che troppo spesso non trovano protezione nell’ambito degli ordinamenti degli stati
membri. Per questo occorre verificare se a livello europeo possa essere individuata de iure condito
qualche forma di tutela.
La parità di trattamento e la tutela dei diritti dei lavoratori nell’Unione Europea.
Occorre premettere che, sebbene l’Unione Europea non preveda disposizioni discriminatorie,
neppure esistono norme specificamente dirette al divieto di discriminazione fondata
sull’orientamento sessuale: piuttosto sarà necessario prendere in considerazione le disposizioni
che vietano la discriminazione sessuale, nonché gli ulteriori principi fondamentali contenuti nei
trattati comunitari per verificare la possibilità dell’estensione a vantaggio dei lavoratori
omosessuali.
Il principio della parità di trattamento è elaborato in primo luogo ai sensi dell’art. 119 Trat. CEE:
nonostante il contenuto specifico limitato alla parità retributiva, in Defrenne v. Sabena II e
Defrenne v. Sabena III la Corte di giustizia ha enfatizzato il valore sociale di tale norma, cui è stato
attribuito un significato più ampio atto ad esprimere il rispetto dei diritti fondamentali da parte
dell’ordinamento comunitario, ai quali è da ricondurre lo stesso divieto di discriminazione sessuale.
Il principio considerato è stato successivamente integrato ed attuato per mezzo di talune direttive,
la prima delle quali riguardante l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali relativamente
all’applicazione del principio di parità di retribuzione tra i sessi, quelle successive il divieto di
discriminazione sessuale nel settore dell’occupazione, relativamente ad assunzione e
licenziamento, condizioni di lavoro, meccanismi di sicurezza sociale, diritti assistenziali e
previdenziali. La più importante fra tutte, la direttiva 76/207/CE del 09 febbraio 1976 sull’attuazione
del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al
lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, è finalizzata
all’affermazione del divieto di discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso e sullo stato
civile in ogni fase dell’impiego, dall’assunzione alla cessazione del rapporto di lavoro. Ulteriori
disposizioni del Trattato istitutivo della Comunità europea impegnano più generalmente le
istituzioni comunitarie e gli stati membri alla tutela dei lavoratori nell’ottica della realizzazione di
una politica sociale comunitaria: in particolare gli artt. 117 e 118 Trat. CEE rispettivamente
dispongono circa la necessità di promuovere "il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
della mano d’opera" e relativamente alle competenze delle istituzioni comunitarie, in
collaborazione con gli stati membri, nella politica sociale, con riferimento particolare, per quanto
riguarda il tema in oggetto, ad occupazione, diritto al lavoro e condizioni di lavoro, formazione e
perfezionamento professionale, sicurezza sociale, protezione contro gli infortuni e le malattie
professionali, diritto sindacale e contrattazione collettiva.
Al di là delle disposizioni contenute nei Trattati e nelle direttive, è opportuno ricordare ulteriori
previsioni finalizzate al superamento della discriminazione sessuale, mediante la realizzazione
delle pari opportunità ed la protezione della dignità dei lavoratori: con specifico riferimento alla
protezione dei lavoratori omosessuali occorre evidenziare che nel 1991 la Commissione europea
ha adottato la Raccomandazione sulla protezione della dignità delle donne e degli uomini sul
lavoro del 27 novembre 1991, accompagnata dal Codice pratico sulle misure atte a combattere le
molestie sessuali: se la prima focalizza sulla promozione della consapevolezza che ogni condotta
di natura sessuale sul posto di lavoro offende la dignità dei lavoratori, ponendosi in contrasto con
le direttive indicate precedentemente, agendo da stimolo per i legislatori nazionali circa la
necessità di intervenire a riguardo, il secondo, non vincolante, costituisce un manuale pratico iretto
a datori di lavoro, lavoratori e associazioni sindacali finalizzato ad affermare la natura degradante
delle molestie sessuali ed ad offrire strumenti di prevenzione e di repressione del fenomeno: ed in
quest’ottica viene altresì esplicitamente affermato che gli stessi atteggiamenti posti in essere nei
confronti di lavoratori omosessuali, di cui viene riconosciuta una maggiore vulnerabilità, sono
ricomprensibili tra quelle condotte lesive della dignità dell’uomo.
Prima di verificare gli ambiti dell’estensione delle norme indicate al fine della protezione dei diritti
dei lavoratori omosessuali e di esaminare ulteriori possibilità, è importante ricordare che ancora
una volta è stato il Parlamento europeo a pronunciarsi anche in merito al contesto in oggetto,
benché abbia ricevuto scarsa attenzione da parte delle altre istituzioni. Così la Risoluzione del
1984 fondata sulla relazione Squarcialupi sulla discriminazione sessuale sul posto di lavoro,
prendeva atto del fatto che negli Stati membri l’orientamento sessuale fosse la causa di
atteggiamenti discriminatori in relazione alle opportunità di occupazione e di carriera, nonché
"causa manifesta o dissimulata di licenziamenti individuali", il più delle volte ignorati dagli
ordinamenti nazionale e comunitario; facendo riferimento in primo luogo alla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ma soprattutto agli artt. 100, 117 e 118 Trat. CEE ed al
principio della libertà di movimento all’interno della Comunità, assunto a diritto fondamentale ai
sensi del regolamento 1612/68 e della direttiva 68/360/CE, chiedeva alla Commissione di
intervenire per arginare il fenomeno della discriminazione sul posto di lavoro e per favorire
l’omogeneizzazione delle legislazioni degli stati membri con riguardo all’omosessualità, in modo da
garantire il rispetto per la dignità e la libertà degli individui. Un riferimento alla necessità di un
intervento comunitario in materia è stato successivamente riproposto nella Risoluzione A3-0028/94
sulla parità di diritti per gli omosessuali, basata sul rapporto Roth, nel quale si denunziavano la
mancanza a livello statale di una protezione giuridica dei lavoratori omosessuali rispetto alle scelte,
ancorché apertamente discriminatorie, dei datori di lavoro e le conseguenze di ciò sulla libertà di
circolazione degli stessi lavoratori. Ma anche la Risoluzione sulla Carta dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori del 1989 affermava la necessità che fosse offerta uguale protezione a
tutti i lavoratori indipendentemente dalle preferenze sessuali.
Nonostante le suddette indicazioni, e nonostante la "dimensione sociale" conferita alla Comunità e
rafforzata dal Programma d’azione sociale finalizzato proprio alla promozione dell’uguaglianza e
del divieto di discriminazione nei contesti dell’occupazione e della vita lavorativa, ancora una volta
sono state sino ad ora oltremodo ristrette le opzioni consentite in ordine alla soluzione della
problematica in oggetto lungo le due direzione sulle quali ci si è mossi.
In primo luogo si è proposto di utilizzare le norme esistenti per riconoscere il divieto di
discriminazione fondato sull’orientamento sessuale, in particolare mediante l’interpretazione
estensiva della direttiva 207/76 sull’uguale trattamento tra uomo e donna, e più precisamente
richiamandosi ad una nozione più ampia del concetto di discriminazione sessuale, in modo non
dissimile da quanto sostenuto da parte della dottrina statunitense in relazione all’applicazione del
title VII. In considerazione della natura normativa della direttiva, è mancata tuttavia l’occasione per
attuare quanto detto, poiché la Corte di giustizia, intervenuta di recente sul tema nel caso di cui si
parlerà oltre, non ha condiviso tale impostazione, né gli stati membri hanno recepito le indicazioni
comunitarie in modo da affermare un principio esteso di non discriminazione; d’altra parte è stato
al più affermata la possibilità di ricomprendere ai sensi della norma in oggetto la tutela delle
persone transessuali cui sia stato legalmente riconosciuto il cambiamento di sesso, mentre più
recentemente in P. v. S. and Cornwall City Council è stata sostenuta l’illegittimità in relazione alla
stessa direttiva del licenziamento dovuto all’intenzione del dipendente di cambiare sesso: se poi il
Codice del 1991 ha vietato le molestie nei confronti degli omosessuali, occorre rammentarne la
natura non vincolante.
Una seconda soluzione che è stata prospettata de iure condendo riguarda la possibilità che nuove
norme comunitarie affermino in modo esplicito il principio della parità di trattamento
indipendentemente dall’orientamento sessuale, come d’altra parte richiesto dal Parlamento
europeo, eventualmente mediante l’emendamento della direttiva 207/76. A tal proposito è stato
tuttavia affermata dalla Commissione nel 1989 l’incompetenza dell’Unione ad intervenire, giacché
tale ipotesi non sarebbe stata riconducibile alle disposizioni di politica sociale degli artt. 117, 118 e
119 Trat. CEE; è comunque stata ammessa la possibilità, ed anzi l’opportunità, di fissare regole
comuni con riguardo al licenziamento individuale, escludendo in tale ambito anche quello fondato
sull’orientamento sessuale del lavoratore. Ma in relazione alla sostenuta impossibilità per gli
organismi comunitari di intervenire con misure a protezione degli omosessuali, è stato obiettato
che, posto che in virtù dei programmi di politica sociale di cui l’Unione si è fatta portatrice non
comporterebbe un eccesso di competenza, una norma con tale scopo potrebbe per lo più fare
riferimento all’art. 235 Trat. CEE, definita la "clausola elastica" che potrebbe estendere il senso
della politica sociale comunitaria: d’altra parte la stessa direttiva 207/76, che costituirebbe in
questo senso un precedente non trascurabile, sarebbe riconducibile a tale norme più che non
all’art. 119, andando ben al di là della previsione della parità di retribuzione.
Le funzioni di carattere sociale sono peraltro state accresciute con il Trattato di Maastricht:
l’Unione europea, come già affermato in Defrenne II, possiede una dimensione sociale
determinante, oltre a quella economica, alla luce della quale dovrebbe essere legittimata ogni
azione volta alla protezione dei lavoratori; in questo senso sembra anche rivolgersi il nuovo art.
118A Trat. CEE, il quale senza dubbio potrebbe offrire lo spunto per un’iniziativa normativa a tutela
dei lavoratori omosessuali, la cui discriminazione contrasta con la sicurezza e la salute degli stessi
nell’ambito dell’ambiente di lavoro inteso in senso ampio.
La necessità della protezione dei lavoratori omosessuali è stata tuttavia sostenuta in relazione ad
ulteriori aspetti. Già il Parlamento europeo, nelle risoluzioni del 1984 e del 1994, ha fatto
riferimento alla libertà di movimento all’interno dell’Unione al fine di invocare un intervento degli
organismi comunitari e degli stati membri; poiché gli artt. 48 e 49 Trat. CEE assicurano ed attuano
la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, è stata sollevata la questione circa la
necessità che ai sensi degli artt. 100-102, i quali dettano le regole per l’uniformazione delle norme
legislative degli stati membri, gli organi comunitari intervengano ad imporre un divieto di
discriminazione fondato sull’orientamento sessuale, in quanto la diversità di trattamento, non
soltanto sul lavoro, ma ai sensi delle norme penali e civili, costituirebbe un ostacolo alla libertà di
movimento dei lavoratori; nel 1990 la Commissione ha nuovamente sostenuto a tal proposito che
una norma antidiscriminatoria con riguardo al tema in oggetto sarebbe esclusa dallo stesso art. 48,
che si limita ad affermare il divieto di discriminazione sulla base della nazionalità, e che un
intervento non sarebbe opportuno per gli effetti minimi che le previsioni degli ordinamenti
scarsamente protettivi, o discriminatori, avrebbero sul movimento dei lavoratori.
Parte della dottrina ha tuttavia evidenziato come, al contrario, la mancanza di protezione sociale,
ed addirittura la repressione penale degli atti omosessuali, rappresentino un forte condizionamento
alla circolazione dei lavoratori omosessuali, i quali spostandosi verso un ordinamento conservatore
sarebbero esposti al rischio della perdita del lavoro e della libertà personale, oltre che della
stigmatizzazione sociale. Le differenze tra gli ordinamenti non sarebbero nemmeno giustificabili
alla luce della considerazione circa la legittimità della previsione di parametri diversi tra gli stati,
peraltro consentiti in diversi settori, tra cui nel sistema previdenziale ed assistenziale: è stato infatti
obiettato che le disparità in materia penale avrebbero ben altro peso sulle scelte dei cittadini, e per
lo più nei confronti non di tutti, ma di un distinto gruppo sociale; in quest’ottica, in mancanza di un
intervento a tutela dei lavoratori omosessuali, viene legittimata una discriminazione soltanto perché
non fondata sulla nazionalità, e sacrificato un diritto fondamentale.
La protezione del lavoratore quale partner: il caso Grant.
Come è stato per gli Stati Uniti, anche nel contesto comunitario è opportuno prendere in
considerazione la questione della tutela dei diritti del lavoratori omosessuali nella diversa
prospettiva dei rapporti di carattere affettivo. A questo proposito è tuttavia sufficiente rimandare a
quanto già detto in precedenza, giacché alla luce del diritto vigente si è trattato per lo più di
considerare il diritto del partner a convivere con il lavoratore nello stato ospite, anche in questo
caso ai sensi della libertà di movimento. Un ulteriore problema che può essere affrontato riguarda
la possibilità che i benefici conferiti al lavoratore ed al suo coniuge, e previsti dagli ordinamenti
nazionali, possano, ai sensi delle norme comunitarie, essere estesi ai partners dello stesso sesso,
garantendo una sostanziale parità di trattamento. Anche e soprattutto in questa circostanza
mancano norme comunitarie specifiche, avendo sinora le istituzioni omesso di tutelare i lavoratori
omosessuali in un ambito ben più fondamentale; parte della dottrina ha tuttavia sostenuto che
anche su questo punto potrebbe ammettersi un riferimento alla direttiva 207/76, e più
precisamente al divieto di discriminazione fondata sul sesso, ma soprattutto al riferimento allo stato
civile, in considerazione dell’impossibilità per gli omosessuali di contrarre il matrimonio.
Ed a tal proposito la stessa Commissione ha escluso di emendare i regolamenti dei dipendenti
dell’Unione Europea nel senso di equiparare lo stato giuridico dei conviventi more uxorio a quello
dei coniugi, benché la relazione Lindholm, già respinta dal Parlamento europeo avesse in tal senso
ampliato le proposte della Commissione stessa, le quali tuttavia prevedono espressamente il diritto
all’uguale trattamento indipendentemente dall’orientamento sessuale: la Commissione ha
giustificato la sua scelta facendo riferimento alle difformità esistenti a riguardo nelle legislazioni
degli stati membri, pur sottolineando che già nel 1996 taluni specifici benefici sono stati estesi a
coppie conviventi, dello stesso e dell’opposto sesso.
Sul conferimento dei benefici al partner dello stesso sesso del lavoratore si è recentemente
espressa la Corte di giustizia nel caso Lisa Jacqueline Grant v. South-West Trains Ltd.: con
l’importante sentenza in oggetto i giudici si pronunciano per la prima volta sull’interpretazione delle
norme comunitarie in ordine a gran parte dei temi precedentemente considerati, secondo
un’impostazione che peraltro non sembra differire particolarmente rispetto a quelle dei giudici
statunitensi, escludendo che la negazione dei benefici al convivente more uxorio dello stesso
sesso costituisca una discriminazione vietata dalle norme comunitarie.
Nella fattispecie il datore di lavoro di Lisa J. Grant, la South-West Trains Ldt., aveva negato alla
convivente della dipendente, la quale aveva in tal senso fatto richiesta sulla base dell’art. 8 dello
Staff Travel Facilities Privilege Ticket Regulations, che tuttavia equipara ai coniugi i conviventi di
sesso opposto con cui si abbia una relazione significativa da almeno due anni, il beneficio della
fruizioni dei viaggi gratuiti o a prezzo ridotto, motivando il rifiuto con la considerazione che tali
agevolazioni potevano essere concesse soltanto al compagno di sesso opposto. La Grant agiva in
contenzioso sostenendo l’illegittimità del regolamento aziendale ai sensi dell’EqualPayAct del
1970, delle direttive 117/75 e 207/76, e dell’art. 119 Trat. CEE; in particolare la Grant sosteneva
che la scelta del datore di lavoro determinasse una discriminazione fondata sul sesso, poiché ad
un collega di sesso maschile convivente con una compagna erano stati conferiti i benefici in
oggetto, e per il fatto che le disparità fondate sull’orientamento sessuale siano riconducibili a quella
in quanto causate da "pregiudizi relativi al comportamento sessuale o affettivo delle persone di un
determinato sesso, e sono fondate in realtà sul sesso di tali persone", come affermato peraltro in
P. v. S. and Cornwell County Council, e conformemente a quanto indicato da parte delle norme di
diritto internazionale e di alcuni stati membri.
Il Southampton Industrial Tribunal escludeva la violazione dell’Equal Pay Act e rimetteva
conordinanza del 19 luglio 1996 la controversia al giudizio della Corte di Giustizia.
Innanzi alla Corte il datore di lavoro ed i governi francese e britannico escludevano il riferimento a
P. v. S., in quanto quella pronuncia era espressamente circoscritta al caso del cambiamento di
sesso, ed affermavano che il regolamento aziendale, che semplicemente prevede taluni requisiti
specifici al fine del conferimento dei benefici in oggetto, non fosse incompatibile con le direttive
indicate e con l’art. 119, che a detta della Commissione non ricomprende l’ipotesi della
discriminazione fondata sull’orientamento sessuale per il fatto della diversa considerazione delle
relazioni eterosessuali ed omosessuali da parte delle norme internazionali e di gran parte degli
ordinamenti nazionali.
Al contrario l’Avvocato generale Elmer, nella sua opinione non vincolante, riteneva che, sebbene
P. v. S. si riferisse tecnicamente alla direttiva 207/76, ne fosse conseguito un ampliamento del
principio espresso dall’art. 119, il quale veniva in quest’ottica interpretato nel senso di
ricomprendere forme di discriminazione non strettamente fondate sul sesso. Aggiungeva inoltre,
con riguardo alla fattispecie, che il regolamento aziendale attuasse, a mezzo del requisito
espresso, una discriminazione fondata sul sesso del lavoratore in relazione a quello del suo
convivente, e che per il fatto stesso che l’opposizione dei sessi fosse stata espressamente
menzionata, non si potesse sostenere che tale requisito fosse implicito nel concetto tradizionale di
convivenza more uxorio secondo la common law. Infine veniva escluso che potesse ammettersi, o
che le norme comunitarie potessero ammettere un giudizio tacito di moralità da parte del datore di
lavoro nelle scelte private del dipendente. Il regolamento aziendale veniva pertanto ritenuto
incompatibile con l’art. 119, giacché nessuna norma comunitaria escludeva le persone
omosessuali dal concetto di protezione da ogni forma di discriminazione che fosse fondata sul
sesso.
La Corte, esprimendo un parere differente, si sofferma essenzialmente su tre aspetti; in primo
luogo afferma che il requisito previsto dal regolamento non configuri una discriminazione fondata
sul sesso, e più precisamente una violazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori
di sesso maschile e femminile, poiché sarebbe ugualmente applicato nei confronti di uomini e
donne che convivano con partners dello stesso sesso. D’altra parte esclude che le relazioni
omosessuali siano equiparate a quelle eterosessuali ai sensi delle norme comunitarie, che
tacciono a riguardo, di gran parte degli stati membri, e dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo, essendo stato escluso a tal proposito la sussistenza di un diritto
fondamentale ai sensi degli artt. 8, 12 e 14: alla luce di ciò viene di conseguenza escluso che
esista un dovere in tal senso in capo al datore di lavoro.
Infine la Corte respinge la considerazione secondo cui le norme comunitarie possano essere
interpretate nel senso del divieto della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, e prima
ancora che quello possa rientrare tra le competenze comunitarie: peraltro si ribadisce che in P. v.
S. fosse stata operata una estensione del concetto di discriminazione sessuale circoscritta al caso
specifico del cambiamento di sesso. Occorre a questo punto sottolineare un aspetto molto
importante della sentenza: gli stessi giudici riconoscono infatti che nuove prospettive si apriranno
con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, riconoscendo che ai sensi dell’art. 6A potranno
essere previsti interventi normativi comunitari finalizzati all’eliminazione della discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale. E’ significativo che prima ancora dell’entrata in vigore la Corte
ritenga di dovere sottolineare che il nuovo Trattato modificherà l’orientamento giuridico attuale: è
pertanto prevedibile che proprio le norme a tutela dei lavoratori, ma, come già affermato, non
soltanto quelle, potranno subire, in virtù dell’attività normativa comunitaria a riguardo, modificazioni
a vantaggio delle persone omosessuali; è peraltro quasi certo che le attuali interpretazioni
restrittive della portata degli artt. 48, 117, 118, 119 e delle direttive prese in considerazione
verranno meno, giacché verrà meno il presupposto della considerazione dell’incompetenza
comunitaria nella protezione dei lavoratori omosessuali da ogni forma di discriminazione.
Cenni sulla situazione normativa di alcuni ordinamenti europei.
Nonostante le indicazioni dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 1981 e le
risoluzioni del Parlamento europeo, gli stati europei hanno spesso omesso, a parte le eccezioni già
considerate su cui si tornerà oltre, di provvedere all’introduzione di norme antidiscriminatorie a
garanzia del lavoratore omosessuale nei settori pubblico e privato, ove talora gli atteggiamenti
discriminatori del datore di lavoro possono essere avallati dall’applicazione dei criteri generali in
materia di diritto del lavoro, quando non legittimati dall’ordinamento stesso.
Prendendo in considerazione le discipline nazionali a riguardo, è particolarmente significativo il
caso del Regno Unito, che non si distingue particolarmente da quello statunitense. Le uniche
norme antidiscriminatorie relative al settore dell’occupazione vietano il diverso trattamento in
relazione alla razza ed al sesso. In particolare il Sex Discrimination Act del 1975, che è andato a
completare la disciplina già introdotta nel 1970 con l’Equal Pay Act limitato a stabilire il principio
della parità retributiva, proibisce ogni forma di discriminazione diretta ed indiretta attuata da enti
pubblici e datori di lavoro privati che si fondi sul sesso dei lavoratori o sul loro stato civile; i datori di
lavoro e, a partire dal 1975, gli enti pubblici debbono inoltre attenersi a quanto indicato dal Code of
practice elaborato dalla Equal Opportunities Commission, preposta all’applicazione ed
all’interpretazione delle norme sulla parità di trattamento.
Anche in Gran Bretagna si è posta la questione della possibilità di estendere le norme poc’anzi
considerate al fine della protezione dei lavoratori omosessuali: a tal proposito l’Equal Opportunity
Commission ha escluso tale soluzione, specificando che le norme del 1975 si intendono
circoscritte al divieto di atti discriminatori fondati sul sesso, sullo stato civile o al caso della
gravidanza. Il legislatore britannico ha peraltro ritenuto non necessaria la tutela delle persone
omosessuali allorché nel 1983 è stato respinto il Sex Equality Act che avrebbe previsto norme in
tal senso.
La scelta britannica, come già la situazione statunitense, è singolare in considerazione del fatto
che il Regno Unito è il paese dell’Unione Europea relativamente al quale è noto il maggior numero
di pratiche discriminatorie nei confronti di lavoratori omosessuali, probabilmente a causa delle leggi
penali in materia di atti sessuali tra persone dello stesso sesso: è talora accaduto infatti che il
dipendente sia stato licenziato dopo la diffusione della notizia della sua omosessualità in seguito
alla violazione delle suddette norme: così in Wiseman v. Salford CC l’Employment Appeal Tribunal
ha affermato la legittimità del licenziamento del lettore di un college la cui omosessualità era stata
rivelata in seguito ad una condanna per sodomia, in quanto il suo comportamento avrebbe potuto
rappresentare un pericolo per gli studenti; ed in Burman v. Trevor Page and Co. Ldt. i giudici
hanno confermato il licenziamento del dipendente, previamente condannato per un reato analogo
al caso precedente, in considerazione dell’opinione negativa e dell’ostilità dei colleghi riguardo il
comportamento sessuale di quello, ma anche del presunto pericolo per i clienti dell’impresa ed i
loro famigliari.
Ma al di là della specifica situazione presa in esame, i giudici sono comunque stati propensi a
sostenere la posizione discriminatoria del datore di lavoro. Il caso più significativo è rappresentato
da John Saunders v. Scottish National Camps Association Ldt., nel quale un addetto alla
manutenzione di un campo per adolescenti fu licenziato allorché la polizia informò il datore di
lavoro circa la sua frequentazione di locali per omosessuali. Il Glasgow Industrial Tribunal
condivise le considerazioni del datore di lavoro, secondo cui la presenza di un omosessuale in un
campo per adolescenti sarebbe stata inopportuna; sia l’EmploymentAppeal Tribunal che la Court
of Session confermarono la legittimità della scelta del datore, affermando che, sebbene il solo fatto
di essere omosessuale non sempre costituisse una giusta causa di licenziamento, la circostanza di
un’attività lavorativa a stretto contatto con minori giustificava l’imposizione di una limitazione,
ritenuta peraltro quasi doverosa per il pericolo rappresentato. I casi di discriminazione in Gran
Bretagna sono, come già anticipato, numerosi: in generale la disparità di trattamento è stata
giustificata sulla base di considerazioni circa l’insanità fisiologica degli omosessuali, il pericolo di
corruzione, in particolare se a contatto con minori, ma talora considerato in senso ampio, la loro
inefficienza intrinseca, ed il pericolo della diffusione di patologie, soprattutto in seguito alla
diffusione dell’A.I.D.S. Ma se le ragioni della discriminazione possono mutare, ciò che permane è
la troppo diffusa precarietà dei lavoratori omosessuali, in particolare nel settore privato.
Molti enti locali hanno infatti adottato programmi finalizzati alla realizzazione delle pari opportunità
che hanno espressamente ricompreso il divieto di discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale; lo stesso Governo nel 1988 ha vietato atti discriminatori e molesti nei confronti delle
persone omosessuali in tutti gli enti pubblici, con l’eccezione degli impiegati militari, ampliando
nella sostanza, e limitatamente a tale settore, le indicazioni della Equal Opportunities Commission;
e dal 1991 sono venute meno le limitazioni precedentemente previste per incarichi di alta
responsabilità e riservatezza, da cui le persone omosessuali venivano escluse con la motivazione,
già presa in considerazione, del pericolo dell’estorsione.
Differente rispetto ai paesi anglosassoni è la situazione nell’ambito degli ordinamenti tedesco ed
italiano: a tal proposito è necessario fare riferimento alla contrapposizione tra le concezioni di Stato
liberale e di Stato sociale, che si ripercuote sul diritto del lavoro; nel primo caso l’ordinamento
tutela infatti in senso negativo le libertà degli individui: per questo il rapporto di lavoro di common
law lascia sostanzialmente libero, salvo i limiti imposti dalle norme antidiscriminatorie che
escludono peraltro l’orientamento sessuale, il datore di lavoro nelle scelte imprenditoriali; al
contrario, nel secondo caso lo Stato interviene a regolare positivamente le libertà dei singoli, e la
politica sociale nel diritto del lavoro ha limitato la discrezionalità del datore nel rapporto di lavoro
con il prestatore: da ciò ne consegue che le pratiche discriminatorie nei confronti dei lavoratori
omosessuali possono essere contenute già mediante l’applicazione delle norme ordinarie. Ciò non
significa che gli ordinamenti dell’ultimo tipo garantiscano l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione: piuttosto la disparità di trattamento si realizza di fatto, in forma più strisciante ed
altrettanto difficile da contenere in assenza di norme antidiscriminatorie specifiche. Venendo più
specificamente al caso italiano, il diritto al lavoro è riconosciuto ai sensi dell’art. 4 Cost.; inoltre gli
artt. 36 e 37 Cost. riconoscono rispettivamente il principio della proporzionalità della retribuzione
all’attività svolta e la parità retributiva tra uomo e donna. Con più specifico riferimento ai temi in
oggetto, le limitazioni alla libertà imprenditoriale sono affermate ai sensi dell’art. 41, ed in senso più
ampio l’intervento dello Stato nel settore del lavoro è affermato dal principio della tutela offerta ai
sensi dell’art. 35 Cost.
Sul piano legislativo, il codice civile e le ulteriori leggi speciali in materia hanno poi disciplinato
piuttosto dettagliatamente il rapporto di lavoro privato, limitando con ciò i rischi di discriminazione
arbitraria; senza scendere ad un esame dettagliato che sconfinerebbe nell’esame di una disciplina
generale non pertinente all’oggetto della trattazione, è tuttavia opportuno effettuare talune
specificazioni: l’art. 8 dello Statuto dei lavoratori vieta all’atto dell’assunzione e nel corso dello
svolgimento del rapporto di lavoro che siano effettuate indagini su "fatti non rilevanti ai fini della
valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore", tra i quali certamente sono quelli relativi
all’orientamento sessuale dello stesso; l’art. 2103 c.c. specifica, con riguardo alle mansioni del
lavoratore, che è vietata qualsiasi modificazione in peius ed è nullo ogni patto in tal senso: il
prestatore potrà essere assegnato a mansioni equivalenti da punto di vista retributivo e
professionale o superiori, fatto salvo il principio della proporzionalità della retribuzione; allo stesso
modo è vietato il trasferimento non dovuto a "comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive"; l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la tutela
dell’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori: in tal senso il lavoratore omosessuale può
essere protetto da atti molesti o comportamenti derisori da parte dei colleghi o del datore stesso.
La legge regola quindi le modalità di cessazione del rapporto di lavoro: al di là dell’ipotesi delle
dimissioni, il licenziamento è limitato dall’art. 1 della legge 604/1966 ai casi della giusta causa ai
sensi dell’art. 2119 c.c. e del giustificato motivo; il concetto di giusta causa viene diversamente
interpretato: la legge 604/1966 fa riferimento all’inadempimento contrattuale, l’art. 2119 c.c. ad una
generica causa: si ritiene che non ogni causa legittimi il licenziamento, ma soltanto quella che lede
il rapporto di fiducia tra le parti.
Come già anticipato, le disposizioni poc’anzi delineate possono tutelare il lavoratore omosessuale:
cosa può accadere tuttavia se questo viene costretto alle dimissioni o se l’omosessualità diviene
un pretesto tacito o espresso per una modificazione delle mansioni o per un trasferimento, o
peggio, per un licenziamento dovuto a giusta causa? In queste circostanze può pericolosamente
venire meno la tutela da parte dell’ordinamento, in considerazione del vuoto legislativo con
riferimento all’orientamento sessuale, in ciò non divergendo rispetto ai sistemi di common law; già
l’art. 4, l. 604/1966, prevedeva la nullità del licenziamento discriminatorio per ragioni politiche,
religiose o sindacali; l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori ha esteso la disciplina antidiscriminatoria
prevedendo la nullità di atti o patti finalizzati al licenziamento del lavoratore, alla discriminazione
nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti ed in ogni atteggiamento
pregiudizievole, dovuti a discriminazione fondata su religione, razza, sesso, lingua, opinioni
politiche o sindacali; l’art. 3, l. 108/1990, ha quindi ribadito la nullità del licenziamento nei casi
sopra indicati, indipendentemente dalle motivazioni addotte. A ciò si aggiungono la legge
903/1977, che vieta la disparità di trattamento tra uomo e donna in ordine ad assunzione,
attribuzione di qualifiche e mansioni e progressioni di carriera, e la legge 125/1991 in materia di
azioni positive per la realizzazione della parità.
I già citati d.d.l. 1810/1996, 2147/1997 e 4657/1998 propongono un intervento finalizzato
all’introduzione del divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nello Statuto dei
lavoratori e nelle leggi indicate in materia di parità tra uomo e donna, in quanto, come già indicato
con riguardo alle norme antidiscriminatorie, al di là della necessità di proteggere gli omosessuali
sul posto di lavoro, la riforma è indispensabile affinché il principio dell’uguale trattamento di
situazioni identiche sia reso effettivo. In tal modo la tutela dei lavoratori omosessuali sarebbe
espressamente garantita sia nel rapporto di lavoro privato, sia nel pubblico impiego, al quale si
applicano le suddette norme e che per sua natura garantisce di per sé maggiore sicurezza, per
ragione delle modalità di assunzione, dell’assegnazione delle qualifiche e dei ruoli professionali,
della tassatività dei casi di cessazione del rapporto. Come è stato detto precedentemente riforme
analoghe nell’ambito del rapporto di lavoro privato e nel pubblico impiego sono state avanzate
altresì in Germania, mentre sono già effettive in taluni Länder. Un accenno va infine fatto con
riguardo al gruppo dei paesi del nord Europa, giacché la particolare considerazione per le
esigenze sociali di protezione di un gruppo debole soprattutto nel contesto in oggetto, ha spinto i
legislatori di quegli ordinamenti liberali ad intervenire con la tutela positiva già considerata, la quale
si estende al settore del lavoro privato ed al pubblico impiego. In particolare la legge olandese
sull’uguale trattamento ha ricompreso i settori in oggetto, benché la stessa legge penale offra
strumenti di tutela dei lavoratori omosessuali ed il principio di uguaglianza dell’art. 1 Cost., così
come l’art. 3, il quale dispone che tutti i cittadini sono ugualmente idonei all’assegnazione a
pubblici servizi, siano direttamente applicabili da parte dei giudici amministrativi, dando luogo ad
una forma di tutela diretta degli impiegati pubblici. Allo stesso modo la legge antidiscriminatoria
danese, con gli emendamenti del 1996, vieta ogni discriminazione nei confronti di tutti i lavoratori
omosessuali. Degli altri ordinamenti scandinavi, soltanto il codice penale finlandese fa riferimento
espresso al divieto di discriminazione nel settore del lavoro, benché la portata della protezione
negli altri paesi possa comunque lasciare prevedere una tutela più estesa che ricomprenda altresì
l’ambito considerato: a tal proposito la stessa Commissione svedese del 1984 affermava infatti che
la discriminazione nei confronti del lavoratore omosessuale non avesse alcun fondamento
giuridico, e che la necessità di una tutela positiva facesse riferimento alla più generale necessità di
protezione dei lavoratori appartenenti a gruppi sociali vulnerabili.
Per concludere occorre ricordare che gli ordinamenti del nord Europa riconoscono la rilevanza
giuridica dell’unione omosessuale: ne consegue la parificazione ai sensi della legge del partner al
coniuge del lavoratore per quanto riguarda i benefici assistenziali e previdenziali, ed ogni altro
beneficio già conferito in seguito al matrimonio.
Tale estensione è invece esclusa in Italia e Germania, né le imprese hanno dato luogo a progetti
analoghi a quelli delle imprese statunitensi: in Italia soltanto la Casagit, la Cassa mutua dei
giornalisti, ha esteso dal 01 aprile 1997 i benefici assistenziali e previdenziali ai conviventi more
uxorio dello stesso sesso.