DIRITTO PENALE E PROCESSO - SPECIALE COOPERAZIONE

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DIRITTO PENALE E PROCESSO - SPECIALE COOPERAZIONE
IPSOA
Diritto penale
e processo
Mensile di giurisprudenza, legislazione e dottrina
2016
ANNO XXI - Direzione e redazione Strada 1 Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI)
edicolaprofessionale.com/DPP
Cooperazione giudiziaria:
le novità del recepimento
delle fonti sovranazionali
ESTRATTO DA DIRITTO PENALE E PROCESSO FASCICOLI NN. 8 E 9 DEL 2016
a cura di Luigi Kalb
contributi di:
Gian Marco Baccari
Andrea Bigiarini
Donatello Cimadomo
Girolamo Daraio
Luigi Giordano
Felice Pier Carlo Iovino
Massimo Perrotti
Angelo Alessandro Sammarco
Roberta Troisi
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E
DIREZIONE SCIENTIFICA
Giorgio Spangher
Paolo Pisa (condirettore)
COMITATO SCIENTIFICO
Roberto Bartoli
Paolo Ferrua
Luigi Kalb
Antonella Marandola
Francesco Palazzo
Marco Pelissero
Sergio Seminara
Paolo Tonini
SPECIALE COOPERAZIONE GIUDIZIARIA
COOPERAZIONE GIUDIZIARIA: LE NOVITÀ DEL RECEPIMENTO DELLE FONTI SOVRANAZIONALI
Presentazione a cura di Luigi Kalb
989
UNA NORMATIVA LACUNOSA E DAL SAPORE RÉTRO PER I CASI DI CONFLITTO DI GIURISDIZIONE IN
AMBITO EUROPEO
di Gian Marco Baccari
991
MANDATO DI ARRESTO EUROPEO E RECIPROCO RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE PENALI NEI
PROCESSI IN ABSENTIA
di Andrea BigiarinI
999
SQUADRE INVESTIGATIVE COMUNI IN AMBITO EURO UNITARIO. DALLA DECISIONE QUADRO ALLA
NORMATIVA NAZIONALE
di Massimo Perrotti
1007
RECIPROCO RICONOSCIMENTO E “MISURE ALTERNATIVE” ALLA DETENZIONE CAUTELARE
di Donatello Cimadomo
1015
L’ATTUAZIONE DELLA DECISIONE QUADRO SUL RECIPROCO RICONOSCIMENTO DELLE SANZIONI
PECUNIARIE
di Luigi Giordano
1024
L’ATTUAZIONE DELLA D.Q. 577/2003 SUL RECIPROCO RICONOSCIMENTO DEI PROVVEDIMENTI DI
SEQUESTRO A FINI DI PROVA O DI CONFISCA
di Girolamo Daraio
1133
GLI EFFETTI DEL RECIPROCO RICONOSCIMENTO PER L’ESECUZIONE DELLE MISURE DI SOSPENSIONE
CONDIZIONALE E DELLE SANZIONI SOSTITUTIVE
di Felice Pier Carlo Iovino
1148
LA CONSIDERAZIONE DEI PRECEDENTI PENALI “EUROPEI” NELL’ORDINAMENTO INTERNO
di Roberta Troisi
1159
L’INTRODUZIONE DEL CASELLARIO GIUDIZIALE EUROPEO NEL PROCESSOPENALE ITALIANO
di Angelo Alessandro Sammarco
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Speciale
Cooperazione giudiziaria
Cooperazione giudiziaria:
le novità del recepimento delle
fonti sovranazionali
a cura di Luigi Kalb
Presentazione
Gli studiosi come gli operatori del settore hanno
da tempo colto quanto sia divenuto preminente il
peso delle fonti sovranazionali e della stessa giurisprudenza delle Corti europee sulla legislazione nazionale e sulle decisioni del giudice italiano.
Non a caso si è segnalato più volte il pericolo che i
continui adeguamenti legislativi e i nuovi orientamenti giurisprudenziali finissero per essere sottovalutati, in quanto è apparsa piuttosto netta la sensazione che i segnali così percepiti dalle nuove fonti
rischiassero di rimanere in “qualche modo atomizzati e sparsi, incapaci, cioè, di essere complessivamente e compiutamente riconducibili ad unità” (1).
La scelta compiuta dal Comitato scientifico della Rivista muove da questa duplice premessa, al fine di
offrire al lettore una prima informazione di dettaglio sulla più recente produzione legislativa destinata al recepimento di una serie di decisioni quadro avvenuto ben oltre i termini programmati dal
legislatore europeo (2).
L’obiettivo progettato, pertanto, intende offrire un
primo commento alle novità conseguenti al recepimento delle indicazioni risultanti nelle fonti sovranazionali e, al contempo, ridisegnare il nuovo quadro normativo di riferimento attraverso una lettura
ragionata e sistematica delle innovazioni apportate.
A tal fine, tutti i commenti sono strutturati secondo
un unico modello espositivo, in modo che il lettore
possa cogliere la ragion d’essere delle novità in ragione delle sollecitazioni formulate nelle singole decisioni quadro, i contenuti delle nuove previsioni in
relazione agli organi legittimati, al procedimento attivato e alle regole da ottemperare, le riflessioni finali suscitate da una valutazione prognostica riguardante l’operatività delle specifiche novità.
Attesa la corposità dell’intervento legislativo nel
suo complesso, i commenti allestiti sono pubblicati
(1) V. Spangher, Presentazione, in Gaito, Procedura penale e
garanzie europee, Torino, 2006.
(2) V., sul punto, AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e pro-
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in due numeri della Rivista. In questo numero sono
oggetto di approfondimento il recepimento della
decisione quadro 2009/948/GAI del Consiglio, del
30 novembre 2009, sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali (D.Lgs. n. 29/2016),
a cura del Prof. Gianmarco Baccari; l’attuazione
della decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, che modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI,
2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI,
volta a rafforzare i diritti processuali delle persone
e a promuovere l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate
in assenza dell’interessato al processo (D.Lgs. n.
31/2016), a cura del Dr. Andrea Bigiarini; l’attuazione della decisione quadro 2002/465/GAI del
Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa alle squadre
investigative comuni (D.Lgs. n. 34/2016), a cura
del Cons. Massimo Perrotti; il recepimento della
decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del
23 ottobre 2009, sull’applicazione tra gli Stati
membri dell’UE del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla
detenzione cautelare (D.Lgs. n. 36/2016), a cura
del Dr. Donatello Cimadomo; l’attuazione della decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24
febbraio 2005, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’UE del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (D.Lgs. n.
37/2016), a cura del Cons. Luigi Giordano.
Nel successivo numero della Rivista saranno pubblicati i commenti all’attuazione della decisione
quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio
2003, relativa all’esecuzione nell’Unione europea
dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro
probatorio (D.Lgs. n. 35/2016), a cura del Dr. Girolamo Daraio; al recepimento della decisione quacedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di Kalb, Torino, 2012.
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dro 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre
2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e
delle sanzioni sostitutive (D.Lgs. n. 38/2016), a cura del Prof. Felice Pier Carlo Iovino; all’attuazione
della decisione quadro 2008/675/GAI, relativa alla
considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un
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nuovo procedimento penale (D.Lgs. n. 73/2016), a
cura dell’Avv. Roberta Troisi; all’attuazione della
decisione quadro 2009/315/GAI, relativa all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra gli Stati
membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario (D.Lgs. n. 74/2016) e alla connessa attuazione della decisione 2009/316/GAI che istituisce
il Sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS) (D.Lgs. n. 75/2016), a cura del
Prof. Alessandro Sammarco.
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Conflitto di giurisdizione
Una normativa lacunosa
e dal sapore rétro per i casi
di conflitto di giurisdizione
in ambito europeo
di Gian Marco Baccari (*)
Il legislatore delegato italiano ha recepito con poche integrazioni l’iter procedimentale delineato dalla Decisione Quadro 2009/948/GAI per contenere il fenomeno della pendenza di procedimenti penali de eadem re et persona in più Paesi dell’Unione. Il D.Lgs. n. 29 del 2016 impone alle autorità giudiziarie nazionali obblighi di cooperazione (ma non di risultato) con le
autorità straniere, attraverso una procedura bifasica che difetta totalmente di garanzie per la
difesa. L’auspicio è che si tratti di un primo passo verso una più compiuta realizzazione del diritto dell’accusato all’unicità della giurisdizione penale nell’ambito dello spazio giuridico europeo.
Decisione quadro 2009/948/GAI del 30 novembre 2009
Prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 29
G.U. 7 marzo 2016, n. 55 (in vigore 22 marzo 2016).
Modifiche
Non si rilevano modifiche al c.p.p.
Per coordinamenti di ordine sistematico v. art. 10 (sospensione del procedimento) e
art. 11 (computo della custodia cautelare sofferta all'estero ai sensi degli artt. 303,
comma 4, 304 e 657 c.p.p.).
Il tema della litispendenza penale (1) all’interno
dello spazio giudiziario europeo ha iniziato a ricevere la dovuta attenzione soltanto agli albori del
nuovo millennio (2). Per lungo tempo, infatti, il
dibattito è stato polarizzato sul riconoscimento
transnazionale del principio del ne bis in idem (3),
culminato dapprima negli enunciati degli artt. 5458 della Convenzione del 1990 applicativa degli
Accordi di Schengen (CAAS) e poi nella solenne
proclamazione del ne bis in idem quale diritto fondamentale dell’UE dall’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione (c.d. Carta di Nizza) (4).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Il termine litispendenza è qui utilizzato per indicare la
contemporanea pendenza di una pluralità di procedimenti nei
confronti della medesima persona accusata degli stessi fatti,
quando non risulti violata una regola di competenza: in questo
senso cfr. D. Grosso, L’udienza preliminare, Milano, 1991, 129.
(2) In seguito al Consiglio di Tampere del 1999, la Commissione europea aveva inserito il tema della prevenzione e risoluzione dei conflitti di giurisdizione nell’agenda delle iniziative da
concretizzare nell’ambito del vasto programma di attuazione
del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie penali.
(3) Sul tema si veda il fondamentale lavoro monografico di
N. Galantini, Il principio del “ne bis in idem” internazionale nel
processo penale, Milano, 1984.
(4) Come noto, alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE è
stato attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6,
par. 1, TUE nella versione consolidata in base al Trattato di Lisbona). Sul piano nazionale le Sezioni Unite della Cassazione,
La decisione quadro 2009/948/2009
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Soltanto dopo questi importanti approdi l’attenzione si è concentrata (5) anche sulla diversa, ma
strettamente connessa, problematica dell’esercizio
simultaneo delle pretese penali in idem quando ancora non sia intervenuta una decisione definitiva.
Si tratta di un fenomeno in continua espansione a
causa di una molteplicità di fattori quali la marginalizzazione nel diritto penale del principio di territorialità, la crescente dimensione transnazionale
del crimine, specie di quello organizzato, e l’eliminazione delle frontiere tra numerosi Stati (6). Nel
tentativo di superare la rozza logica del “premier arrivé, premier servi” (7), sono state assunte in ambito
europeo varie iniziative di portata generale finalizzate alla composizione dei conflitti di giurisdizione.
Il primo testo europeo dichiaratamente orientato
alla risoluzione dei conflitti di giurisdizione risale
alla proposta di decisione quadro formulata nel
2003 dalla Repubblica ellenica (8), al quale ha fatto seguito poco dopo, nel 2005, il Libro verde “sui
conflitti di giurisdizione e il principio del ne bis in
idem” (9). Quest’ultimo è stato redatto dalla Commissione europea in attuazione degli obiettivi strategici concordati dal Consiglio dell’Unione nel
Programma dell’Aja del 2004 (10).
Ben quattro anni dopo, il 30 novembre 2009, il
giorno prima dell’entrata in vigore del Trattato di
in una celebre pronuncia (SS.UU., 28 giugno 2005, Donati, in
Cass. pen., 2006, 66), dopo aver desunto dall’ordinamento interno l’esistenza di una preclusione ad un nuovo esercizio dell’azione penale de eadem re anche prima della sentenza irrevocabile, hanno affermato che la duplicazione del processo su
gli stessi fatti costituisce una violazione dei diritti dell’individuo. Sul tema v. C. Conti, Harmonized precedents: le Sezioni
Unite tornano sul principio di preclusione, in questa Rivista,
2011, 697 ss.; E. M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale,
in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis - G.P. Voena, Milano, 2012, 426 ss.; L. Marafioti, Preclusione: un principio senza qualità?, in R. Del Coco - L. Marafioti (a cura di), Il
principio di preclusione nel processo penale, Torino, 2012, 171
ss.; R. Orlandi, Principio di preclusione e processo penale, in
PPG, 2011, 5, 1 ss.
(5) Cfr. T. Rafaraci, Le misure contro i procedimenti penali
“paralleli” nella decisione-quadro 2009/948/GAI, in P. Corso- E.
Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, II, Piacenza,
2010, 515, il quale, tra l’altro, ricorda la Risoluzione del 18 settembre 2004 della IV Sezione del XVII Congresso internazionale dell’A.I.D.P. Tale risoluzione può essere letta nella versione
tradotta da M. Pisani in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 502.
(6) In tal senso cfr. N. Recchia, Il ne bis in idem transnazionale nelle fonti eurounitarie: questioni risolte e nodi problematici
alla luce delle recenti sentenze della corte di giustizia UE, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2015, 1373 ss. Sul tema v. M. Pisani, Il ne bis
in idem internazionale e il processo penale italiano, in Studi di
diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano,
2005, 553 ss.
(7) L’espressione è comunemente utilizzata per indicare la
cessazione della litispendenza per effetto della preclusione
prodotta dal giudicato estero: l’autorità giudiziaria che per prima perviene ad una decisione definitiva impedisce la prosecuzione dei procedimenti de eadem re et persona che si stanno
svolgendo altrove. Si tratta di un criterio insoddisfacente, legato ad una decisione definitiva assunta all’esito di un giudizio
più celere magari perché assistito da minori garanzie per l’imputato. Per queste osservazioni e, più in generale, per una approfondita analisi dell’argomento v. L. Lupária, La litispendenza
internazionale tra ne bis in idem e processo penale italiano, Milano, 2012, 74 ss., il quale, tra l’altro, mette bene in luce le pesanti ricadute negative delle multiple prosecutions sull’effettivo
esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato e sull’attendibilità dell’accertamento processuale. In argomento cfr. anche E. Calvanese - G. De Amicis, La decisione quadro del Consiglio dell’U.E. in tema di prevenzione e risoluzione dei conflitti
di giurisdizione, in Cass.pen., 2010, 3595.
(8) Proposta della Repubblica ellenica per l’adozione di una
Decisione Quadro del Consiglio concernente l’applicazione del
principio “ne bis in idem”, in G.U.C.E, n. C100, 26 aprile 2003.
Per un commento di tale proposta v. C. Amalfitano, Conflitti di
giurisdizione e riconoscimento delle decisioni penali nell’Unione
Europea, Milano, 2006, 265 ss. Tale iniziativa prevedeva procedure di contatto e di consultazione tra le autorità procedenti al
fine di individuare di comune accordo il foro che meglio potesse garantire l’amministrazione della Giustizia (giudice mieux
placé), in virtù di alcuni criteri “di precedenza” espressamente
indicati, anche se non ordinati secondo una scala gerarchica
(art. 3, lett. a). Nello stesso anno era stato messo a punto da
alcuni studiosi del Max Planck Institute di Friburgo un progetto
che si distingueva da quello ellenico principalmente per due
aspetti: in primo luogo, per la previsione di termini abbastanza
brevi per la composizione del conflitto (sei mesi); in secondo
luogo per la possibilità dell’imputato di adire la Corte di Giustizia, in caso di designazione di una autorità non in grado di assicurare la migliore amministrazione della Giustizia. Alla Corte
di Lussemburgo, inoltre, veniva affidata la determinazione dell’autorità legittimata a procedere in caso di fallimento delle
consultazioni. Cfr. A. Biehler - R. Kniebühler - J. Lelieur-Fischer
- S. Stein, Freiburg Proposal on Concurrent Jurisdictions and
the Prohibition of Multiple Prosecutions in the European Union,
Iuscrim, 2003. Per la traduzione in italiano si veda E. Zanetti,
Giurisdizioni concorrenti e divieto di azioni multiple: una proposta da Friburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 374 ss.
(9) COM (2005) 696. Sui contenuti del Libro verde cfr. l’analisi di T. Rafaraci, Ne bis in idem e conflitti di giurisdizione in
materia penale nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione Europea, in Riv. dir. proc., 2007, 637 ss.
(10) “La messa a punto di una procedura che permetta di
stabilire il luogo più adeguato per l’esercizio delle azioni penali
si rivela perciò sempre più necessaria e costituirà un elemento
essenziale per agevolare l’attuazione del principio di reciproco
riconoscimento”: così la Comunicazione della Commissione al
Consiglio e al Parlamento europeo, Comunicazione sul reciproco
riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia penale e il
rafforzamento della reciproca fiducia tra gli Stati membri, Bruxelles, 19 maggio 2005, COM (2005) 195 def., 8. In premessa al
Libro verde la Commissione evidenziava, da un lato, la necessità dello scambio di informazioni tra le autorità interessate a
perseguire il medesimo illecito; dall’altro, la facoltà dell’autorità giudiziaria di rinunciare all’esercizio della giurisdizione in favore di altro Stato membro. Le difficoltà di recepimento di una
simile indicazione per gli Stati nei quali la Carta costituzionale
impone l’obbligatorietà dell’azione penale non erano sottaciute. Sotto il profilo procedurale, il meccanismo delineato nel Libro verde per la risoluzione dei conflitti di giurisdizione si presentava più articolato rispetto ai testi precedenti. In particolare, si prevedeva che ad una prima fase di scambio di informazioni seguissero consultazioni finalizzate a raggiungere un accordo in ordine al giudice mieux placé. In mancanza di accordo
il documento della Commissione europea auspicava l’intervento di un organismo creato appositamente oppure di Eurojust,
che dopo la sua istituzione (d.q. 2002/187/GAI) ha rappresentato l’unica autorità europea di riferimento per la composizione
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Lisbona, il Consiglio dell’UE ha approvato la D.Q.
2009/948/GAI “sulla prevenzione e la risoluzione dei
conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali” (11). Gli obiettivi dichiarati nel
titolo, tuttavia, sono ben più ambiziosi dei reali
contenuti del provvedimento, nel quale non sono
previsti rimedi preventivi dei conflitti positivi di
giurisdizione (12).
In base alla decisione quadro, le autorità che conducono giudizi concorrenti de eadem re et persona sono
obbligate ad effettuare uno scambio di informazioni
e, successivamente, a svolgere consultazioni per
giungere ad una soluzione consensuale che eviti le
conseguenze negative derivanti dall’esistenza di procedimenti paralleli (art. 2): l’obiettivo finale è quello di realizzare (“eventualmente”) la concentrazione
di essi in un unico Stato membro (art. 10).
Sin da subito le previsioni della decisione quadro
sono apparse assai timide e dal “respiro corto” (13),
volte a instaurare “un sistema non vincolante” (14)
e residuale (15). Si è parlato di un sicuro “passo indietro” (16), dovuto ancora una volta alla riluttanza dei singoli Stati membri a privarsi di una forma
espressiva di sovranità: ciò emerge chiaramente dal
considerando n. 11 della decisione quadro, ove si
legge che “nessuno Stato membro dovrebbe essere
obbligato a rinunciare o a esercitare la competenza
giurisdizionale contro la sua volontà”.
Dopo che il 1° dicembre 2014 è scaduto il periodo
transitorio quinquennale previsto dal Trattato di Lidei conflitti, sia pure limitatamente alle gravi forme di criminalità transnazionale di sua competenza: cfr. M.L. Di Bitonto, Eurojust e i conflitti di giurisdizione, in L. Filippi - P. Gualtieri - P.
Moscarini - A. Scalfati (a cura di), La circolazione investigativa
nello spazio giuridico europeo: strumenti, soggetti, risultati, Padova, 2010, 31 ss.
(11) Pubblicata in G.U.U.E., L 328 del 15 dicembre 2009,
42 ss. Il testo della decisione quadro si differenzia sotto alcuni
profili da una proposta elaborata nel gennaio del 2009 da Repubblica Ceca, Repubblica di Polonia, Repubblica di Slovenia,
Repubblica Slovacca e Regno di Svezia (in G.U.U.E., C 39 del
18 febbraio 2009, 2 ss.). Su tale iniziativa cfr. l’ampia analisi
condotta da C. Amalfitano, La risoluzione dei conflitti di giurisdizione in materia penale nell’Unione europea, in questa Rivista,
2009, 1293 ss.; v. anche S. Catalano, Appunti a margine di una
proposta di decisione quadro sui conflitti di giurisdizione, in
Quad. Cost., 2009, 425 ss.
(12) La D.Q. 2009/948 non prende in considerazione i conflitti negativi di giurisdizione, che danno luogo a minori problematiche.
(13) Così T. Rafaraci, Le misure contro i procedimenti penali
“paralleli” nella decisione-quadro 2009/948/GAI, cit., 513.
(14) S. Fasolin, Conflitti di giurisdizione e ne bis in idem europeo, Padova, 2015, 30, la quale osserva che molti contenuti
della proposta del gennaio 2009 sono stati spostati “dal corpo
dell’articolato ai consideranda che lo anticipano, rinunciando in
tal modo al loro carattere vincolante”.
(15) Nel considerando n. 15 si legge che la decisione quadro non pregiudica la Convenzione europea sul trasferimento
dei procedimenti penali di Strasburgo del 15 maggio 1972 (fir-
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sbona per la materia della cooperazione giudiziaria
penale, il Parlamento italiano con la L. 9 luglio
2015, n. 114, stante anche il rischio di incorrere in
un procedimento d’infrazione da parte della Commissione europea, ha delegato il Governo ad adottare, tra le altre, le norme occorrenti per l’attuazione
della D.Q. 2009/948/GAI (art. 18, comma 1, lett.
g, L. n. 114/2015) (17). Il che è avvenuto, sia pure
con tre mesi di ritardo rispetto al termine fissato dalla legge delega, con il D.Lgs. n. 29 del 15 febbraio
2016, entrato in vigore il 22 marzo scorso (18).
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 29
La procedura delineata dal D.Lgs. n. 29/2016:
l’obbligo di contatto diretto tra le autorità
competenti
Il contenuto del decreto legislativo si mantiene rigorosamente entro le linee direttive della D.Q.
2009/948/GAI, riproducendone spesso quasi alla lettera i contenuti, a cominciare dalla definizione di
“procedimenti paralleli”, premessa indefettibile per
l’attivazione del congegno ideato. Tale situazione ricorre quando in Stati membri diversi siano pendenti
più procedimenti penali, sia nelle fasi investigative
che in quelle processuali, per “gli stessi fatti” e “nei
confronti della medesima persona” (art. 2, D.Lgs.
29/2016 e art. 3, D.Q. 2009/948/GAI) (19). Il meccanismo, dunque, non sembra operare ove non vi
sia una perfetta corrispondenza “soggettiva”, come
mata dall’Italia soltanto il 26 maggio 2000), nonché altri accordi riguardanti il trasferimento dei procedimenti penali tra gli
Stati membri. Questi ultimi, peraltro, possono continuare ad
applicare accordi o intese bilaterali o multilaterali già vigenti
ovvero stipularne altri per raggiungere gli obiettivi stabiliti nella
D.Q. 2009/948 (art. 15).
(16) Così L. Lupária, La litispendenza internazionale, cit.,
105.
(17) La D.Q. 2009/948 avrebbe dovuto trovare attuazione
entro il 15 giugno 2012. Dalla relazione della Commissione europea del 2014 (2014/0313) risultava che soltanto quindici paesi dell’UE ne avevano recepito i contenuti nella loro legislazione nazionale. La Commissione, visto che “il livello di attuazione di questo importante strumento legislativo è tutt’altro che
soddisfacente ... e ostacola l’efficace funzionamento dello spazio europeo di giustizia”, esortava tutti i Paesi ad un rapido recepimento della decisione quadro.
(18) Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 29 è stato pubblicato in
G.U. 7 marzo 2016, n. 55. Per un primo commento v. M. Castellaneta, Dialogo diretto per la regolazione dei conflitti tra
autorità, in Guida dir., 2016, 14, 76 ss.
(19) S. Buzzelli, Procedimenti paralleli, spazio di giustizia,
Unione europea: il contesto normativo e gli aspetti problematici,
in Arch. pen., 2012, 1, mette in rilievo che l’espressione “procedimenti paralleli” utilizzata dalla D.Q. 2009/948 non ricorreva
né nella proposta ellenica del 2003 - in cui si impiegava la perifrasi “cause transfrontaliere multilaterali”- né nel Libro verde,
nel quale si alternava la locuzione “procedimenti molteplici” a
quella di “conflitti positivi di giurisdizione”.
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Cooperazione giudiziaria
nel caso in cui in uno dei Paesi membri si stia procedendo nei confronti di una pluralità di persone.
L’iter procedurale delineato dal provvedimento governativo prevede una prima fase preliminare, nella
quale le autorità giudiziarie nazionali devono entrare in comunicazione diretta con quelle degli altri
Stati membri ai fini di un primo scambio di informazioni (20). Il presupposto della presa di contatto
è che via sia un fondato motivo di ritenere che in
un altro Stato membro sia in corso un “procedimento parallelo”. In tal caso l’autorità giudiziaria italiana procedente - che durante le indagini preliminari
è il pubblico ministero - ha l’obbligo di contattare
con atto scritto (21) l’autorità competente dell’altro
Stato membro per verificare la effettiva pendenza di
“procedimenti paralleli” (art. 4, comma 1, D.Lgs. n.
29/2016). L’obbligo in parola, dunque, sorge soltanto quando il conflitto si pone in concreto, ossia nel
momento in cui vi siano già procedimenti penali in
corso (22). In caso di incertezza nell’individuazione
dell’autorità estera da contattare, l’autorità italiana
è obbligata a compiere i necessari accertamenti, avvalendosi anche dei punti di contatto della rete giudiziaria europea (art. 4, comma 2, D.Lgs. n.
29/2016). Non è stata riprodotta, invece, nel testo
attuativo la previsione della decisione quadro secondo la quale la procedura di contatto non si osserva
se le autorità competenti siano già state informate
dei procedimenti paralleli con qualsiasi altro mezzo
(art. 5, comma 3, D.Q. 2009/948/GAI). L’omissione
nel decreto legislativo pare significare che la procedura di contatto per l’autorità italiana sia in ogni
caso ineludibile, in modo che vi sia sempre una
traccia scritta dei contatti intercorsi.
Se è vero che la procedura di contatto ha carattere
obbligatorio, è innegabile che l’autorità procedente
gode di ampi margini di discrezionalità nell’avvio
della procedura. Invero, mancano in entrambi i testi
chiare indicazioni su cosa debba intendersi per identità del fatto, nonostante si tratti di un punto assolutamente cruciale per il funzionamento del meccanismo predisposto. Al riguardo, sono da condividere
le opinioni di coloro (23) che, per superare l’impas-
se, si richiamano alla giurisprudenza della Corte di
Giustizia formatasi con riguardo al principio del ne
bis in idem sancito dall’art. 54 della Convenzione di
Applicazione degli Accordi di Schengen (CAAS).
Stando alla nozione europea elaborata dal giudice di
Lussemburgo, in sintesi, l’idem factum richiede “un
insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro,
indipendentemente dalla qualificazione giuridica di
tali fatti o dall’interesse giuridico tutelato” (24).
Un altro profilo di incertezza, che finisce per concedere ampia libertà all’autorità contattante in ordine
all’attivazione della procedura, concerne gli elementi dai quali possa essere desunto il fumus di litispendenza; al riguardo, non appare di particolare aiuto il
considerando n. 5 della decisione quadro, che indica come “fondati motivi” situazioni fin troppo lampanti come l’eccezione di litispendenza fatta valere
in modo dettagliato dallo stesso imputato ovvero la
richiesta di assistenza giudiziaria proveniente dall’autorità di un altro Stato membro. Sembra comunque difficile che l’autorità contattante possa esimersi
dall’avviare la procedura ogni qual volta la vicenda
presenti evidenti indici di transnazionalità.
Tra la fonte europea da attuare e il decreto legislativo si nota qualche differenza con riguardo al contenuto che deve avere la richiesta scritta da inviare
all’autorità dell’altro Stato. In particolare, l’art. 6
del provvedimento governativo stabilisce che la richiesta dell’autorità giudiziaria italiana deve contenere, oltre alla autorità competente (lett. a) e alla
descrizione dei fatti oggetto del procedimento (lett.
b), gli estremi dell’identità dell’indagato o dell’imputato (lett. c). Sulla base di tale elemento testuale
sembra da escludere, quindi, che gli obblighi di
contatto siano operanti quando si sta procedendo
contro ignoti: il dubbio poteva scaturire dalla corrispondente formulazione accolta dalla decisione
quadro, che contempla la trasmissione di “tutti gli
elementi rilevanti in merito all’identità dell’indagato o dell’imputato”. Peraltro, la richiesta di informazioni inviata dall’autorità italiana potrà contenere “se del caso” la identità delle persone offese e
di quelle danneggiate, là dove l’atto europeo utiliz-
(20) In base alla D.Q. 2009/948, ciascuno Stato è tenuto ad
indicare in una dichiarazione da depositare presso il segretariato generale del Consiglio quali lingue, tra quelle ufficiali delle Istituzioni dell’Unione, intenda impiegare nel corso della procedura di contatto (art. 14, comma 1).
(21) Cfr. art. 7 della D.Q. 2009/948 in base al quale “le autorità contattante e contattata comunicano con mezzi che consentano di conservare una traccia scritta”.
(22) Nella proposta originaria elaborata nel gennaio del
2009 da Repubblica Ceca, Repubblica di Polonia, Repubblica
di Slovenia, Repubblica Slovacca e Regno di Svezia, la procedura di scambio delle informazioni era prevista anche nell’ipotesi di conflitti di giurisdizione “in astratto”.
(23) Cfr. C. Amalfitano, La risoluzione dei conflitti di giurisdizione in materia penale nell’Unione europea, cit., 1298 e, più di
recente, S. Fasolin, Conflitti di giurisdizione e ne bis in idem europeo, cit., 32.
(24) Si tratta di un filone interpretativo inaugurato con la
sent. 9 marzo 2006, Van Esbroeck, C-436/04, in Raccolta, I2333. Sul punto, in generale, v. N. Galantini, Il “fatto” nella prospettiva del divieto di secondo giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2015, 1205 ss. Per una approfondita disamina dei diversi casi
trattati nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, cfr. T. Rafaraci, Ne bis in idem e conflitti di giurisdizione in materia penale
nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione Europea,
cit., 621 ss.
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za - come di consueto - il più ampio termine di
“vittime” (art. 8, lett. e, D.Q.). Il riferimento alle
persone “danneggiate” dall’illecito e non alle parti
civili lascia intendere che l’indicazione di tali persone potrà avvenire indipendentemente dalla loro
partecipazione formale al procedimento penale,
che magari si trova ancora nella fase delle indagini
preliminari in cui ai danneggiati non è dato spazio.
Una perfetta uniformità tra i due testi si registra,
viceversa, in merito alla necessità di indicare se
l’indagato o imputato sia sottoposto “a custodia
cautelare” (art. 6, lett. e), circostanza che - come
vedremo tra breve - assume rilievo ai fini della cadenza temporale di tutta la procedura in corso di
svolgimento. In aggiunta a quanto richiesto dalla
decisione quadro, il provvedimento italiano rimette alla valutazione dell’autorità giudiziaria contattante l’indicazione di “ogni altra informazione che
si ritenga opportuno fornire”: il pensiero corre all’eventuale indicazione di elementi di prova, nel rispetto ovviamente delle esigenze di segretezza proprie della fase procedimentale in corso.
Lo scambio di informazioni dovrebbe esaurirsi in
tempi molto stretti. Tuttavia, la durata temporale
della procedura di contatto, in entrambi i testi normativi in esame, è affidata in modo inopportuno
alla assoluta discrezionalità dei soggetti coinvolti.
L’autorità contattante può fissare un termine - purché “ragionevole”, a detta della fonte europea - entro il quale l’altra dovrebbe rispondere; in mancanza di un’indicazione espressa, l’autorità contattata è
tenuta a rispondere “senza indebito ritardo” (art. 6,
comma 1, D.Q. e art. 5, comma 1, D.Lgs. n.
29/2016), una formula così generica e poco stringente che finisce per affidare alla totale disponibilità degli organi coinvolti l’estensione temporale
della procedura in esame, in spregio ai diritti della
difesa dell’imputato che nel frattempo è sottoposto
a più procedimenti paralleli (25).
Balza evidente una difformità tra i due testi di cui
ci stiamo occupando. Mentre la Decisione Quadro
impone di trattare con urgenza la richiesta quando
l’autorità contattante abbia informato l’autorità
contattata che l’imputato è sottoposto “ad una misura detentiva preventiva o custodia cautelare”, il
decreto legislativo in esame prevede soltanto che
l’autorità italiana tratti con urgenza la richiesta se
nel procedimento pendente dinanzi ad essa “l’imputato sia sottoposto a misura cautelare”: con il risultato paradossale che l’autorità italiana dovrebbe
trattare la richiesta con urgenza nel caso di imputa(25) A questa esigenza non era rimasto insensibile, in precedenza, il Parlamento europeo che nella Risoluzione dell’8 ottobre del 2009 raccomandava la fissazione di un termine mas-
Diritto penale e processo 8/2016
to sottoposto nel nostro Paese ad una qualsiasi misura cautelare, anche di tipo non custodiale se non
addirittura di natura reale, mentre dovrebbe procedere “senza indebito ritardo” se l’imputato si trovi
in vinculis in altro Stato membro della UE.
L’autorità italiana, se non è in grado di rispettare il
termine assegnato, deve spiegarne le ragioni; una
previsione alquanto stravagante aggiunge che in tal
caso l’autorità italiana fissa - a sé stessa dunque - un
nuovo termine per adempiere (art. 5, comma 2,
D.Lgs. n. 29/2016). Non è stabilito nulla, invece,
per quanto riguarda le conseguenze della mancata
risposta, a differenza della proposta originaria di decisione quadro del gennaio del 2009, che prevedeva
almeno la possibilità di segnalare ad Eurojust la
mancata comunicazione delle notizie richieste.
Per quanto attiene al contenuto minimo della risposta da fornire alla richiesta proveniente dall’autorità di altro Stato membro, si registra una quasi
perfetta corrispondenza tra i due atti normativi.
L’autorità giudiziaria italiana, nel rispondere alla
sua omologa, deve indicare se è in corso o se è stato definito un procedimento penale nei confronti
della stessa persona per alcuno o per tutti i fatti oggetto del procedimento parallelo; l’indicazione dell’autorità “competente”; la fase, lo stato o il grado
del procedimento italiano e l’eventuale decisione
adottata e il suo contenuto (art. 7, D.Lgs. n.
29/2016). Non è, altresì, imposto che l’autorità italiana contattata, nel fornire ulteriori informazioni,
dia conto dell’esistenza di eventuali fatti connessi
a quelli oggetto del procedimento estero, anche se
un’indicazione del genere sarebbe quanto mai opportuna per chiarire meglio i possibili confini della
sovrapposizione tra le regiudicande (cfr. art. 9,
comma 2, D.Q. 2009/948.).
Come del tutto ovvio, se il procedimento parallelo
non si sta svolgendo dinanzi all’autorità giudiziaria
italiana contattata, quest’ultima ha l’obbligo di trasmettere “senza ritardo la richiesta all’autorità giudiziaria competente, dandone comunicazione all’autorità contattante” (art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 29/2016).
La seconda fase: l’obbligo delle consultazioni
dirette e l’intervento del Ministro della
Giustizia
Quando è accertata l’esistenza di procedimenti in
idem, le autorità competenti degli Stati interessati
hanno l’obbligo di avviare la seconda fase, ossia le
“consultazioni dirette”, al fine dichiarato di pervenire ad un accordo per la “concentrazione dei procedisimo di trenta giorni per la risposta alla richiesta di informazioni.
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menti paralleli in un solo Stato” (art. 8, comma 1,
D.Lgs. n. 29/2016) e di evitare così le conseguenze
negative della litispendenza (art. 10 della D.Q.).
Il legislatore delegato italiano ha stabilito che alle
suddette consultazioni deve provvedere il procuratore generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria italiana contattante
o contattata e su richiesta di quest’ultima (artt. 3 e
8, comma 1, D.Lgs. n. 29/2016). Si tratta di una
scelta condivisibile, date le funzioni attribuite dal
nostro ordinamento a tale organo anche in altri settori della cooperazione giudiziaria. Merita osservare,
tuttavia, che l’individuazione della procura generale
legittimata alle consultazioni viene collegata al luogo ove ha sede l’autorità contattata (26) e non a
quello in cui è pendente il procedimento parallelo:
come abbiamo visto poco sopra, è lo stesso legislatore italiano a contemplare l’ipotesi che si possa trattare di autorità diverse. Ebbene, in casi del genere,
appare irragionevole che le consultazioni siano condotte da una procura generale del tutto svincolata
dal luogo ove il procedimento penale è in corso di
svolgimento. Il dato letterale andrebbe, quindi, superato in via interpretativa, anche se l’operazione
non si presenta agevole.
Come per la procedura di scambio di informazioni,
non sono previsti limiti temporali stringenti neppure per la fase delle consultazioni dirette, nonostante la più volte sottolineata esigenza di risolvere
in tempi celeri il conflitto di giurisdizione nell’interesse dell’amministrazione della giustizia e, ancor
più, per tutelare le persone a qualsiasi titolo coinvolte dalle multiple prosecutions.
Dell’avvio delle consultazioni il procuratore generale deve dare notizia al Ministro della Giustizia,
“inviandogli la documentazione pertinente e le
proprie osservazioni” (art. 8, comma 1). La formula
impiegata desta forti perplessità perché sembra
consentire una selezione da parte della procura generale degli atti da trasmettere al Guardasigilli.
Dato il tipo di determinazioni che l’autorità politica è chiamata ad effettuare nella vicenda, sarebbe
stata più appropriata una previsione che obbligasse
la procura generale a trasmettere tutti gli atti del
procedimento, anche quelli coperti dal segreto investigativo in deroga all’art. 329 c.p.p., al Ministro
della Giustizia. Quest’ultimo, entro dieci giorni,
può disporre che non si dia corso alla concentrazione dei procedimenti in altro Stato membro, qualora rilevi che dal “mancato esercizio della giurisdizione in Italia possano essere compromessi la sicu-
rezza o altri interessi essenziali dello Stato” (art. 8,
comma 3, D.Lgs. n. 29/2016). L’elevato tasso di discrezionalità giustifica l’attribuzione all’autorità politica della decisione sulla rinuncia o meno alla
giurisdizione italiana, sulla falsariga di quanto già
previsto dalla L. 20 dicembre 2012, n. 237, relativa
all’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale.
Si può notare piuttosto che, in maniera alquanto discutibile, mentre al rappresentante del pubblico ministero non viene rivolto neppure un generico invito a provocare rapidamente l’intervento dell’autorità politica, al Ministro della Giustizia si impone di
prendere una decisione su una questione così delicata entro il breve termine (ordinatorio) di dieci giorni, decorrenti dalla comunicazione dell’avvio delle
consultazioni dirette. Ma le singolarità non finiscono qui. Nel decreto attuativo si afferma che, durante le consultazioni dirette, il procuratore generale
deve scambiare con l’autorità competente dell’altro
Stato membro interessato informazioni sugli atti rilevanti compiuti nel processo (art. 8, comma 5,
D.Lgs. n. 29/2016) (27). Si aggiunge poi che lo stesso procuratore generale può rifiutare la trasmissione
di specifiche informazioni “quando la loro comunicazione possa compromettere interessi nazionali essenziali in materia di sicurezza o la sicurezza di una
persona”. Stranamente, dunque, pur essendo previsto l’intervento nella procedura de qua del Ministro
della Giustizia, la valutazione su quali informazioni
raccolte nella vicenda processuale possano compromettere la sicurezza nazionale è affidata al rappresentante del pubblico ministero. Per evitare l’assurdo, e cioè che il “veto” del Ministro sulla cessione
della giurisdizione italiana arrivi tardi, dopo l’avvenuto scambio di informazioni “sensibili” per la sicurezza nazionale, è auspicabile quanto meno che le
consultazioni dirette siano di fatto sospese nelle more della decisione del Guardasigilli.
In merito ai criteri da seguire ai fini della concentrazione dei procedimenti paralleli in un unico Stato
membro, il legislatore delegato si è rifatto quasi integralmente al considerandum n. 9 della decisione quadro, che - come si evince dalla Relazione illustrativa
al decreto - contiene un “catalogo “aperto” di criteri
puramente orientativi, non vincolanti, né gerarchicamente ordinati”. Al comma 4 dell’art. 8 il testo
italiano menziona espressamente i criteri del luogo
in cui si è verificata la maggior parte dell’azione, dell’omissione o dell’evento (lett. a) o della maggior
parte delle conseguenze dannose (lett. b), del luogo
(26) L’art. 2 lett. d), D.Lgs. n. 29/2016, al pari dell’art. 3 della D.Q. 2009/948, definisce l’autorità contattata come “l’autorità di uno Stato membro cui l’autorità di altro Stato membro
chiede di confermare l’esistenza di procedimenti paralleli”.
(27) Non è inutile sottolineare che oggetto di scambio sono
le informazioni e non gli atti processuali.
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Diritto penale e processo 8/2016
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in cui risiede, dimora o è domiciliato l’indagato (lett.
c), della prognosi maggiormente favorevole di consegna o di estradizione in altre giurisdizioni (lett. d),
della maggior tutela delle “parti offese e minor sacrificio dei testimoni” (lett. e). A conferma del carattere non tassativo dell’elenco in esame, viene prevista
in ultimo anche una clausola aperta, che attribuisce
al procuratore generale durante le consultazioni il
potere di tenere conto di “ogni altro fattore ritenuto
pertinente” (lett. g). Siamo di fronte all’aspetto certamente più critico della normativa di attuazione.
L’assenza di tassatività di tali criteri, unita alla constatazione del mancato coinvolgimento della difesa
nella scelta della giurisdizione più idonea a procedere, rende assai problematica la compatibilità della
procedura in esame con alcuni princìpi fondamentali
di rango costituzionale, quali l’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.) e l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).
europeo” (31) nella lotta contro le più gravi forme
di criminalità transfrontaliere.
Nella procedura di risoluzione dei conflitti di giurisdizione Eurojust può intervenire soltanto dietro
espressa richiesta delle autorità nazionali competenti a svolgere le consultazioni; la sua pronuncia
assume la valenza di un suggerimento autorevole,
ma non vincolante. Mentre però la D.Q.
2009/948/GAI configura il ricorso a Eurojust come
un passaggio quasi inevitabile, nelle materie suddette, qualora non si sia raggiunto un accordo (art.
12, comma 2 e considerando n. 4, D.Q. 2009/948),
il testo italiano si limita a prevedere in modo generico, e anche più scontato, che “in ogni momento le
autorità coinvolte nelle consultazioni dirette possono sottoporre la questione sulla risoluzione del
conflitto di giurisdizione a Eurojust” (art. 9, D.Lgs.
n. 29/2016). La differente formulazione pare dovuta alla volontà del legislatore delegato di non elevare Eurojust a organo di “ultima istanza” nella
procedura di risoluzione della litispendenza penale.
Terminate le consultazioni dirette, il procuratore
generale presso la corte d’appello dovrà riferirne gli
esiti al Ministro della Giustizia “in ogni caso”, sia
quando i procedimenti penali sono concentrati in
Italia, sia quando la giurisdizione viene accordata
all’autorità giudiziaria di un altro Paese membro
dell’Unione (art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 29/2016
con riferimento all’art. 13, D.Q. 2009/948).
La cooperazione con Eurojust
Qualche altra osservazione può farsi con riguardo all’intervento di Eurojust, al quale la decisione quadro
2009/948 ha attribuito in definitiva il ruolo di “mediatore privilegiato” (28), anche se pur sempre nei
limiti della sua “competenza per materia”, ossia nei
casi in cui i procedimenti paralleli riguardino le gravi forme di criminalità indicate dall’art. 4, D.Q.
2002/187/GAI, nella versione modificata dalla D.Q.
2009/426/GAI. Molto è già stato scritto a proposito
della scelta di far intervenire nella procedura di risoluzione dei conflitti di giurisdizione un organismo
dalla natura controversa, ma più assimilabile ad un
organo inquirente che giurisdizionale (29). Non è
questa la sede per riprendere la discussione sul punto (30), ma va qui ricordato che tale organismo è
nato proprio per facilitare l’interazione tra le diverse
autorità giudiziarie nazionali e per favorire quella logica di integrazione tra le giurisdizioni degli Stati
membri “idonea a realizzare un salto di qualità nei
procedimenti di collaborazione giudiziaria in ambito
Le ricadute della procedura di consultazione
sul procedimento penale in corso
Il capo II del D.Lgs. 29/2016 contiene due disposizioni che regolano i rapporti tra la speciale procedura incidentale in esame e il procedimento penale
italiano coinvolto nel conflitto. La prima di esse riguarda gli effetti della procedura di consultazione.
In conformità al considerando n. 11 della decisione quadro, si stabilisce che il procedimento penale
italiano non resta sospeso durante lo svolgimento
delle consultazioni dirette (32). È fatto divieto, tut-
(28) Così G. De Amicis - G. Santalucia, La vocazione giudiziaria dell’Eurojust tra spinte sovranazionali e timidezze interne,
in Cass. pen., 2011, 2968. Peraltro, l’art. 85, par. 1, lett. c, del
Trattato di Lisbona stabilisce che tra i compiti di Eurojust vi è
anche il potenziamento della cooperazione giudiziaria mediante la composizione dei conflitti di competenza [giurisdizione].
(29) L’attribuzione di un compito del genere ad Eurojust era
stato prospettato già prima della sua stessa istituzione. Si veda
l’art. 13.1 della Comunicazione n. 495 del 26 luglio 2000
(COM(2000) 495 def., 29 luglio 2000) della Commissione, sul
riconoscimento reciproco delle decisioni definitive in materia
penale: “una soluzione utile per dirimere i conflitti di competenze tra Stati membri e per evitare, di conseguenza, procedimenti molteplici, sarebbe di elaborare dei criteri di priorità relativi all’attribuzione della competenza e d’incaricare un organismo, già esistente o da istituire, di decidere caso per caso
quale Stato membro è competente in funzione di tali criteri. Tale compito potrebbe per esempio essere assunto da Eurojust,
dalla Corte di giustizia o da un altro organismo”. In argomento
cfr. J.P. Pierini, Territorialità europea, conflitti di giurisdizione
e ne bis in idem, in T. Rafaraci (a cura di), L’area di libertà sicurezza e giustizia: alla ricerca di un equilibrio fra priorità repressive
ed esigenze di garanzia, Milano, 2007, 118 ss.
(30) Si veda al riguardo C. Amalfitano, La risoluzione dei
conflitti di giurisdizione in materia penale nell’Unione europea,
cit., 1299 ss.
(31) Cfr. F. Spiezia, Il coordinamento giudiziario sovranazionale: problemi e prospettive alla luce della nuova Decisione
2009/426/GAI che rafforza i poteri di Eurojust, in Cass. pen.,
2010, 274.
(32) L’opportunità della sospensione, al contrario, era stata
a suo tempo suggerita dalla Commissione europea nel Libro
Diritto penale e processo 8/2016
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tavia, al giudice di pronunciare sentenza (art. 10,
comma 1, D.Lgs. n. 29/2016). Si tratta a ben vedere soltanto di una stasi di breve durata, perché il
legislatore delegato si affretta a precisare, in ossequio alle esigenze di ragionevole durata del processo, che “la sospensione del processo conseguente al
divieto di pronunciare sentenza (...) non può avere
durata superiore a venti giorni” (art. 10, comma 2,
D.Lgs. n. 29/2016). Potrebbe accadere, quindi,
che, nelle more della composizione del conflitto, il
giudice italiano pronunci sentenza, con tutte le
conseguenze negative del caso soprattutto per i
soggetti coinvolti.
L’altra disposizione concerne gli effetti del perfezionamento dell’accordo sul procedimento penale
in corso. Se viene raggiunto un consenso sulla
giurisdizione italiana, in conformità al principio
del mutuo riconoscimento, gli atti probatori compiuti all’estero conservano efficacia e sono utilizzabili nel processo italiano (art. 11, comma 1,
D.Lgs. n. 29/2016): riteniamo, però, che il giudice
dovrà verificare se tali atti siano stati compiuti
nel rispetto dei diritti della difesa. Inoltre, si prevede che il periodo di custodia cautelare eventualmente sofferto all’estero viene computato ai
fini dei termini di durata massima della custodia
cautelare (art. 303, comma 4, c.p.p.), ai fini della
sospensione di detti termini (art. 304 c.p.p.) e per
il calcolo dell’eventuale pena espiata senza titolo
(art. 657 c.p.p.).
In caso di raggiungimento di un accordo con rinuncia alla giurisdizione da parte dello Stato italiano, il D.Lgs. n. 29/2016 introduce una nuova specifica causa di improcedibilità (art. 11, comma 2),
che a nostro avviso impone l’adozione di un provvedimento di archiviazione da parte del giudice, se
l’intesa viene raggiunta nel corso delle indagini
preliminari, ovvero di una sentenza di non luogo o
di non doversi procedere a seconda della fase pro-
cessuale in cui matura la rinuncia alla giurisdizione (33).
verde.
(33) Un meccanismo analogo è già operante nel procedimento a carico degli enti. Sul punto cfr. G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis - G.P. Voena, Milano, 2012, 124.
(34) Nel considerando n. 12 della D.Q. 2009/948 si legge
che nello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia il principio di obbligatorietà dell’azione penale, accolto a livello costituzionale da alcuni Stati membri, deve essere ritenuto rispettato “quando ogni Stato membro garantisce l’azione penale in
relazione ad un determinato” fatto. L’argomento è ribadito nel-
la Relazione di accompagnamento del D.Lgs. n. 29/2016, ove
si sottolinea la superfluità di un processo sugli stessi fatti per i
quali è già avviata un’iniziativa penale in un altro Paese dell’Unione. In questa prospettiva cfr. Il tema è stato affrontato, tra
gli altri, da G. De Amicis, Ne bis in idem, giurisdizioni concorrenti e divieto di azioni multiple nell’UE: il ruolo dell’Eurojust, in
Cass. pen., 2006, 1176 ss.; M.L. Di Bitonto, La composizione
dei conflitti di giurisdizione in seno ad Eurojust, in Cass. pen.,
2010, 2896 ss.; L. Lupária, La litispendenza internazionale, cit.,
125; B. Piattoli, Ne bis in idem, alt ai conflitti Ue. Le linee guida
targate Bruxelles, in D&G, 2006, 20, 121.
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Riflessioni conclusive
Al termine di questa rassegna, è opportuno formulare qualche osservazione conclusiva. Al di là dei
singoli rilievi già mossi qua e là, è l’impianto complessivo della normativa di attuazione a non convincere. Il legislatore delegato è voluto rimanere
molto fedele alla decisione quadro, con la conseguenza che il prodotto attuativo riproduce sul versante interno le pecche della normativa europea.
La più grave è certo la totale mancanza di diritti di
informativa e di partecipazione per l’imputato, che
non è mai posto in grado di interloquire con le
autorità procedenti su una questione cruciale quale
è quella di individuare l’unica giurisdizione davanti
alla quale sarà giudicato.
D’altra parte, il sacrificio degli elementari diritti
difensivi non avviene neppure a vantaggio della rapidità e dell’efficienza della procedura, il cui “ritmo” non è scandito da brevi e perentori termini,
ma è all’opposto lasciato alla discrezionalità delle
autorità procedenti.
Da tempo, inoltre, il meccanismo ideato a livello
europeo di rinuncia alla giurisdizione nazionale, caso per caso, secondo criteri fluidi, è ritenuto di
dubbia compatibilità con i nostri princìpi costituzionali (34). Sotto questo profilo, la normativa di
attuazione avrebbe dovuto specificare meglio i contenuti della decisione quadro e predeterminare i
criteri di devoluzione di giurisdizione in modo rigido secondo un altrettanto rigido ordine gerarchico.
Perplessità di questa portata, che schiudono orizzonti di incertezza sui destini della normativa di attuazione italiana, fanno passare in secondo piano i
dubbi, pur esistenti, sulla reale efficacia del congegno predisposto per il raggiungimento dello scopo
perseguito.
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Cooperazione giudiziaria
Assenza dell’imputato
Mandato di arresto europeo e
reciproco riconoscimento delle
sentenze penali nei processi
in absentia
di Andrea Bigiarini (*)
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 31, di attuazione della decisione quadro 2009/299/GAI, si connota
per una doppia anima: “pratica”, laddove enuncia tra i propri obiettivi quello di facilitare la cooperazione giudiziaria in materia penale e, in particolare, di migliorare il reciproco riconoscimento
delle decisioni giudiziarie emesse in absentia tra gli Stati membri dell’Unione europea; “garantista”, laddove, viceversa, persegue lo scopo di rafforzare i diritti processuali dell’imputato non
presente al procedimento penale a suo carico. A tal fine, sono state introdotte una serie di condizioni, volte a garantire la conoscenza del processo penale all’imputato assente, ricorrendo le
quali la corte di appello, quale autorità di esecuzione, procede alla consegna della persona oggetto di un mandato di arresto europeo allo Stato emittente (art. 19, comma 1, lett. a, L. n. 69
del 2005) ovvero riconosce la sentenza penale pronunciata in un altro Paese dell’Unione europea, dando ad essa esecuzione (art. 13, comma 1, lett. i, D.Lgs. n. 161 del 2010).
Decisione quadro 2009/299/GAI del 26 febbraio 2009
Rafforzamento dei diritti processuali delle persone e promozione dell’applicazione del
principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 31
G.U. 8 marzo 2016, n. 56 (in vigore 23 marzo 2016).
Modifiche
L. 22 aprile 2005, n. 69: art. 19, comma 1, lett. a); art. 30, comma 1, D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161: art. 2, comma 1, lett. n); art. 13, comma 1, lett. i).
Con il D.Lgs. n. 31 del 2016 il legislatore italiano
ha finalmente dato attuazione alla decisione quadro 2009/299/GAI (1), modificativa delle decisioni
quadro 2002/584/GAI (2), relativa al mandato di
arresto europeo (attuata in Italia con L. 22 aprile
2005, n. 69), e 2008/909/GAI (3), relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali (attuata con D.Lgs. 7
settembre 2010, n. 161) (4).
Il legislatore italiano, in aderenza alla decisione
quadro, è intervenuto sulla disciplina interna in
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Decisione quadro del 26 febbraio 2009, in GU L 81 del
27 marzo 2009, 24.
(2) Decisione quadro del 13 giugno 2002, in GU L 190 del
18 luglio 2002, 1.
(3) Decisione quadro del 27 novembre 2008 GU L 327 del 5
dicembre 2008, 27.
(4) Le decisioni quadro citate sono quelle che interessano
in questa sede. Giova segnalare che la decisione quadro
2009/299/GAI impatta altresì sulle decisioni quadro
2005/214/GAI, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (in GU L 76 del
22 marzo 2005, 16), 2006/783/GAI, relativa all’applicazione del
principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca (in GU L 328 del 24 novembre 2006, 59), 2008/947/GAI, re-
La decisione quadro 2009/299/GAI
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materia di mandato di arresto europeo (M.a.e.) e
mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie in
materia penale, al fine di rafforzare i diritti processuali delle persone e di promuovere l’applicazione
del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al
processo. Prima di passare all’analisi dell’impatto
della riforma sull’ordinamento interno, occorre
brevemente cennare allo strumento comunitario
cui il D.Lgs. n. 31 del 2016 dà attuazione: la decisione quadro 2009/299/GAI (5).
La doppia anima della decisione quadro
Il legislatore europeo muove dal presupposto che le
varie decisioni quadro che applicano il principio
del reciproco riconoscimento alle decisioni giudiziarie definitive non affrontano in modo uniforme
la questione delle decisioni pronunciate al termine
di un processo a cui l’interessato non è comparso
personalmente. Di talché, al fine di rimuovere gli
ostacoli alla cooperazione giudiziaria tra gli Stati
membri, si reputa necessario prevedere motivi
chiari e comuni per il non riconoscimento delle
decisioni pronunciate al termine di un processo a
cui l’interessato non è comparso personalmente (6).
A tale obiettivo di carattere marcatamente pratico
ed efficientistico si affianca il ben più pregevole
scopo di garantire all’imputato la conoscenza del
processo instaurato a suo carico. Non va sottaciuto,
infatti, che il diritto dell’imputato a comparire personalmente al procedimento rientra nel diritto a
un equo processo previsto dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo l’interpretazione
della Corte europea dei diritti dell’uomo (7).
A tal fine, lo strumento comunitario in parola interviene sulle altre decisioni quadro sopra citate,
fissando le condizioni in base alle quali il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione pronunciata al termine di un processo a cui l’interessato
non è comparso personalmente non dovrebbero essere rifiutati. Si tratta di condizioni alternative che
dovrebbero essere sufficienti a garantire l’esecuzione della decisione in base al principio del reciproco
riconoscimento, oltre che la conoscenza del procedimento da parte del soggetto interessato (8).
Per quanto interessa in questa sede, di particolare
rilevanza risulta in primo luogo l’introduzione di
un nuovo art. 4 bis nella decisione quadro
2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo. Tale disposizione, rubricata “Decisioni pronunciate al
termine di un processo a cui l’interessato non è
comparso personalmente”, concerne una serie di
ipotesi (quattro) in cui l’autorità giudiziaria destinataria di un M.a.e., emesso nei confronti di un
imputato non comparso personalmente al processo
terminato con la decisione, non può rifiutarne la
consegna. Ciò perché l’integrazione di almeno una
di tali condizioni è reputata sufficiente a garantire
la conoscenza del processo da parte dell’imputato
assente. Ne consegue che anche il modulo allegato
alla decisione quadro 2002/584/GAI, da compilare
da parte dell’autorità emittente del M.a.e., viene
modificato tenendo conto di tali indicazioni.
Nello stesso senso vanno lette le modifiche apportate dallo strumento in parola alla decisione quadro 2008/909/GAI sul riconoscimento reciproco
delle sentenze penali, mercé la sostituzione dell’art.
9, par. 1, lett. i), recante l’enumerazione delle ipotesi (tre) in cui si deve ritenere soddisfatto l’onere
di informazione dell’imputato ai fini del riconoscimento del provvedimento a suo carico, nonché
l’aggiornamento del certificato allegato.
Rinviando lo studio di dette condizioni all’analisi
del D.Lgs. n. 31 del 2016, rappresentando esse il
cuore dell’intervento riformatore, occorre evidenziare che il legislatore ha dato attuazione alla normativa in parola con grave ritardo. La data fissata
p e r i l re c e p i m e n t o d e l l a d e c is i o ne q u a d r o
2009/299/GAI, ai sensi dell’art. 8 par. 1, era il 28
marzo 2011, salvo dichiarazione del singolo Stato
membro di avere seri motivi di supporre che non
sarebbe stato in grado di ottemperare alle disposizioni in essa previste a tale data (art. 8, par. 3); caso nel quale la decisione quadro avrebbe dovuto
trovare applicazione al più tardi entro il 1° gennaio
2014. Il nostro Paese si è avvalso di siffatta proroga
ma, come detto, le misure necessarie per conformarsi alle disposizioni della decisione quadro sono
state adottate solo con il D.Lgs. n. 31 del 2016,
pubblicato in G.U. in data 8 marzo 2016.
lativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in
vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (in GU L 337 del 16 dicembre
2008, 102).
(5) Per un’analisi approfondita della decisione quadro cfr.
A. Chelo, Nuove regole per l’esecuzione delle sentenze emes-
se in absentia, in questa Rivista, 2010, 111.
(6) Cfr. considerando nn. 2 e 4 della decisione quadro
2009/299/GAI.
( 7 ) C f r. c o n s i d e r a n d o n . 1 d e l l a d e c i s i o n e q u a d r o
2009/299/GAI.
(8) Cfr. considerando nn. 6 e 7 della decisione quadro
2009/299/GAI.
1000
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Il quadro storico e giuridico di riferimento
Ai fini di una migliore comprensione della materia
oggetto di studio, non può prescindersi da una, pur
breve, ricostruzione del quadro giuridico-sistematico in cui si colloca lo strumento comunitario in
commento. L’adozione della decisione quadro
2009/299/GAI risale ad un periodo storico nel quale gli interventi del legislatore europeo in materia
di diritto e processo penale erano animati per lo
più da esigenze di celerità ed efficienza nella collaborazione tra gli Stati membri. Le garanzie processuali della persona sottoposta ad indagini o imputata, viceversa, rimanevano sullo sfondo.
Come noto, il mandato di arresto europeo costituisce il primo banco di prova del principio del c.d.
mutuo riconoscimento. Non potendo contare su
discipline penali e processuali comuni, e nella conseguente impossibilità di adottare un modello processuale penale omogeneo, il legislatore comunitario, fin dal Consiglio europeo di Tampere del
1999, ha concentrato tutti i suoi sforzi nell’implementazione di una cooperazione giudiziaria, che
non può prescindere da una fondamentale fiducia
reciproca tra gli Stati membri. Su tale pactum fiduciae si fonda il modello del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie interne, di cui la decisione quadro sul M.a.e. (2002/584/GAI) è la prima
e forse più famosa espressione (9).
La dottrina unanime evidenzia il prevalente carattere repressivo e di difesa sociale, con conseguente
scarsa attenzione ai diritti dell’imputato/indagato,
che ha sempre informato gli strumenti europei in
materia di processo penale (almeno fino all’adozio-
ne del Trattato di Lisbona del 2009), in primis la
decisione quadro sul M.a.e. (10).
In questo quadro di riferimento, dunque, si colloca
lo strumento comunitario in parola. E tuttavia,
non può non evidenziarsi la natura “bifronte”, e
per certi versi garantista, della decisione quadro
2009/299/GAI, che espressamente enuncia tra i
propri obiettivi non solo quello di facilitare la cooperazione giudiziaria in materia penale e, in particolare, di migliorare il reciproco riconoscimento
delle decisioni giudiziarie tra gli Stati membri, ma
anche lo “scopo di rafforzare i diritti processuali
delle persone sottoposte a procedimento penale”
(art. 1, par. 1) (11).
Successivamente all’adozione del Trattato di Lisbona, ed alla conseguente abolizione della struttura a
pilastri dell’Unione europea, il potenziamento dei
diritti dell’indagato/imputato nel procedimento penale ha assunto il carattere di obiettivo autonomo,
sganciato dalla prospettiva della mera cooperazione
giudiziaria (12). In questo quadro si colloca l’adozione delle direttive 2010/64/UE (13) e
2012/13/UE (14), rispettivamente sul diritto all’interpretazione e alla traduzione e sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, nonché della
Dir. 2013/48/UE (15) sul diritto di accesso a un difensore nel procedimento penale e sul diritto di comunicare al momento dell’arresto (16).
L’espressione più recente di questo new deal europeo
è la Dir. 2016/343/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio (17) sul rafforzamento di alcuni
aspetti della presunzione di innocenza e del diritto
di presenziare al processo nei procedimenti penali (18). È appena il caso di rilevare che l’intero Ca-
(9) In argomento, cfr. le considerazioni di A. Pagliano, Limiti
e garanzie del principio del “mutuo riconoscimento”. Riflessioni
in tema di mandato d’arresto europeo, in Cass. pen., 2012, 345.
(10) Cfr., sul punto, le riflessioni di F. Romoli, Le sentenze
Radu e Melloni: due pronunce “conservatrici”, in www.archiviopenale.it, 2013, 2, 8.
(11) Un primo riconoscimento delle garanzie processuali
dell’“accusato” (termine impiegato nell’art. 6 Cedu) in ambito
comunitario si è avuto con l’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000, i cui artt. 47 e 48 sono rubricati rispettivamente “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale” e “Presunzione di innocenza e diritti della difesa”. La
c.d. Carta di Nizza, tuttavia, ha assunto valore giuridico vincolante solo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del
2009. In precedenza, come sopra evidenziato, alcune disposizioni dedicate specificamente ai diritti processuali dell’imputato avevano trovato spazio esclusivamente in testi volti a migliorare la cooperazione transfrontaliera tra gli Stati membri in
materia penale. Ciò a causa delle difformità di vedute, oltre
che di sistemi giudiziari, dei diversi Paesi membri. L’impossibilità di raggiungere un accordo su una materia tanto ampia e
delicata ha spinto il Consiglio ad adottare un approccio graduale. Con risoluzione del 30 novembre 2009 il Consiglio ha,
infatti, adottato una tabella di marcia (roadmap) per il rafforzamento dei diritti di indagati o imputati in procedimenti penali,
che si articola in cinque misure, ciascuna dedicata ad una garanzia processuale: diritto di traduzione ed interpretazione (misura A); diritto ad informazioni relative ai diritti e all’accusa
(misura B); diritto alla consulenza legale e all’assistenza legale
gratuita (misura C); diritto alla comunicazione con familiari, datori di lavoro e autorità consolari (misura D); garanzie speciali
per indagati o imputati vulnerabili (misura E).
(12) È, tuttavia, innegabile che l’adozione di norme minime
all’interno dell’UE per la tutela delle garanzie processuali dell’indagato/imputato costituisce la premessa necessaria per il
rafforzamento della fiducia reciproca tra gli Stati membri, in vista della piena attuazione del principio del mutuo riconoscimento.
(13) Direttiva del 20 ottobre 2010, in G.U. L 280 del 26 ottobre 2010, 1.
(14) Direttiva del 22 maggio 2012, in G.U. L 142 del 1° giugno 2012, 1.
(15) Direttiva del 22 ottobre 2013, in G.U. L 294 del 6 novembre 2013, 1.
(16) Mercé l’adozione di tali direttive si è dato seguito alla
tabella di marcia, menzionata nelle note precedenti, fissata dal
Consiglio.
(17) Direttiva del 9 marzo 2016, in G.U. L 65 del 11 marzo
2016, 1.
(18) Essa fa parte di un nuovo “pacchetto” di norme (nel
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1001
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po III della direttiva citata, per quanto interessa in
questa sede, concerne il diritto dell’imputato di essere presente al processo; si può procedere in absentia solo se l’imputato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della
mancata comparizione e sia comunque rappresentato da un difensore (di fiducia ovvero d’ufficio) (19).
Il giusto processo in absentia
Come accennato in esordio, l’attenzione del diritto
europeo (ampiamente inteso) per le garanzie dell’imputato assente nel procedimento penale a suo
carico è dimostrata altresì dalla copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in
materia. Meritano particolare menzione le pronunce con le quali i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per violazione dell’art. 6 Cedu, a
causa della inidoneità del “vecchio” istituto interno della contumacia a garantire la conoscenza del
procedimento da parte dell’imputato (20).
In estrema sintesi, ai fini del rispetto dell’art. 6 Cedu, occorre che l’ordinamento interno garantisca
ex ante all’imputato assente una piena conoscenza
del procedimento instaurato nei suoi confronti, di
talché si possa procedere solo qualora l’assenza sia
consapevole (21). In caso contrario, è necessario
quantomeno che - ex post - all’imputato ignaro sia
offerto un rimedio idoneo ed effettivo al fine di ottenere un nuovo procedimento (o la riapertura dello stesso).
cui ambito vanno ricondotte altresì le proposte di direttiva sui
diritti procedurali dei minori indagati o imputati e sull’accesso
al gratuito patrocinio), che si inscrive nella sopra citata tabella
di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali di indagati
o imputati in procedimenti penali.
(19) Per considerazioni più approfondite al riguardo cfr. O.
Mazza, Presunzione d’innocenza e diritto di difesa, in questa Rivista, 2014, 1401; nonché, volendo, A. Bigiarini, Presunzione di
innocenza e diritto al silenzio nella nuova direttiva UE, in
www.ilpenalista.it, 11 marzo 2016.
(20) A seguito del caso Somogyi c. Italia (Corte eur. dir. uomo, Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004, in www.echr.coe.int)
la Corte di Cassazione ha ritenuto utilizzabile in via estensiva
contro la sentenza di condanna passata in giudicato l’istituto
della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, c.p.p., nel testo precedente alla riforma), al fine di porre rimedio alla violazione convenzionale intervenuta in un processo contumaciale; segnatamente, del diritto
dell’imputato a comparire e difendersi, qualora non vi abbia rinunciato in modo non equivoco (Cass., Sez. I, 12 luglio 2006,
n. 32678, Somogyi, in CED, n. 235035-6). Sul punto cfr., amplius, E. Aprile, I “meccanismi” di adeguamento alle sentenze
della Corte europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza penale di legittimità, in Cass. pen., 2011, 3220 ss. Una inadempienza simile è stata riscontrata altresì nella sentenza Sejdovic
c. Italia (Cedu, Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004, in
www.echr.coe.int). Poiché la violazione in parola derivava dalla
(corretta) applicazione della normativa interna in materia di
1002
Il giusto processo contumaciale, come ricostruito
dalla giurisprudenza della Corte europea, ha trovato compiuta definizione nella recente L. n. 67 del
2014, che ha determinato la soppressione della
contumacia, sostituita dagli istituti della sospensione del processo nei confronti degli irreperibili e
dell’assenza “consapevole”. La nuova normativa,
ispirata dal nobile intento di garantire già ex ante (e
non solo ex post) l’imputato inconsapevole del procedimento a suo carico mercé la sospensione del
processo, non va tuttavia esente da critiche, che
saranno sviluppate nel prosieguo.
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 31
Il D.Lgs. n. 31 del 2016 rispecchia fedelmente la
doppia anima della decisione quadro
2009/299/GAI, come sopra rappresentata. Ed infatti, ai sensi dell’art. 1 del testo normativo in commento, espressamente si fa riferimento, quali disposizioni di principio, da un lato al rafforzamento dei
diritti processuali delle persone, dall’altro alla promozione del reciproco riconoscimento delle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo. Come sopra anticipato, il decreto in parola
attua la decisione quadro 2009/299/GAI, nella parte in cui modifica le decisioni quadro
2002/584/GAI e 2008/909/GAI. Al fine di adeguare l’ordinamento interno allo strumento comunitario si è reso, dunque, necessario un intervento correttivo sui testi normativi che a quelle decisioni
quadro danno attuazione: la L. n. 69 del 2005 sul
processo contumaciale, è risultato necessario l’intervento del
legislatore, al fine di scongiurare ulteriori condanne del nostro
Paese in ipotesi analoghe. Con D.L. n. 17 del 2005 (conv. con
modificazioni in L. n. 60 del 2005) l’Italia ha tentato di porre rimedio a siffatta violazione strutturale, attraverso la modifica
dell’art. 175 c.p.p. (oggi ulteriormente modificato ad opera della L. n. 67 del 2014). Nel caso di sentenza di condanna emessa
nei confronti del contumace inconsapevole, non poteva considerarsi valido titolo esecutivo quella decisione del giudice che
non era stata impugnata nei termini a causa di un difetto di
conoscenza del condannato. Ai sensi dell’art. 175 c.p.p. pre-riforma, il condannato poteva presentare richiesta di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale, adducendo la mancata conoscenza del provvedimento o del processo, con inversione dell’onere della prova a carico dello Stato. Risponde alla medesima ratio l’odierna rescissione del giudicato ex art. 625 ter c.p.p., introdotta con L. n. 67 del 2014,
su cui cfr. C. Carvelli, Rescissione del giudicato e reformatio in
peius, in questa Rivista, 2014, 1043, nonché M. Bargis, La rescissione del giudicato ex art. 625 ter c.p.p.: un istituto da rimeditare, in www.penalecontemporaneo.it, 16 gennaio 2015.
(21) Cfr. amplius P. Tonini - C. Conti, Il tramonto della contumacia, l’alba radiosa della sospensione e le nubi dell’assenza
“consapevole”, in questa Rivista, 2014, 509; C. Conti, Processo
in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de presumpto
e spunti ricostruttivi, ivi, 2015, 461; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2015, 608.
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mandato di arresto europeo ed il D.Lgs. n. 161 del
2010 sull’applicazione del principio del reciproco
riconoscimento alle sentenze penali che irrogano
pene detentive o misure privative della libertà personale.
Le modifiche della L. n. 69 del 2005
Come anticipato, di particolare rilevanza risulta
l’inserimento nella decisione quadro
2002/584/GAI di un nuovo art. 4 bis, attuato nell’ordinamento interno mercé la sostituzione della
lett. a dell’art. 19, L. n. 69 del 2005 (rubricato
“Garanzie richieste allo Stato membro di emissione”). È appena il caso di rilevare che la novella in
parola attiene alla procedura c.d. passiva di consegna (22), allorquando lo Stato italiano sia destinatario, in attuazione di un M.a.e, di una richiesta di
consegna da parte di uno degli Stati membri dell’Unione.
Ai sensi della norma in parola, come novellata, la
corte d’appello (23) destinataria di un M.a.e.,
emesso nei confronti di un soggetto non comparso
personalmente nel processo a suo carico per l’esecuzione di una sentenza o di una misura di sicurezza, può rifiutarne la consegna.
Si può comunque dare luogo alla consegna in presenza di quattro condizioni alternative, la cui presenza deve essere attestata dal certificato:
1) l’interessato è stato citato tempestivamente e
personalmente ed è stato informato circa la data
ed il luogo del processo concluso con decisione in
absentia (24);
2) l’interessato, informato del processo, è stato rappresentato da un difensore di fiducia o d’ufficio;
3) l’interessato, ricevuta notifica della decisione e
informato della possibilità di ottenere un nuovo
processo o di dare inizio al giudizio di appello, in
cui ha il diritto di partecipare e che consente il riesame del merito della causa e l’allegazione di nuove
prove che possono condurre alla riforma della decisione oggetto di esecuzione, ha dichiarato espressamente di non opporsi a tale decisione e non ha
(22) Sul tema cfr., amplius, E. Aprile, Sulla procedura passiva
di consegna e sulle garanzie richieste dal giudice italiano allo
Stato di emissione del mandato di arresto europeo, in Cass.
pen., 2012, 1415; G. Colaiacovo - G. De Amicis - G. Iuzzolino
(a cura di), Parte speciale. Mandato di arresto europeo, in G.
Lattanzi - E. Lupo, Codice di procedura penale: rassegna di giurisprudenza e di dottrina, XIII, Milano, 2013, 56; A. Chelo, Il
mandato di arresto europeo, Milano, 2010, 2; M. Bargis, Libertà
personale e consegna, in R. E. Kostoris (a cura di), Manuale di
procedura penale europea, Milano, 2014, 262; nonché, volendo, A. Bigiarini, Procedura passiva di consegna e clausola di rinvio in tema di m.a.e., in questa Rivista, 2015, 191.
(23) Si ricordi, infatti, che il legislatore italiano ha individuato nella corte di appello nel cui distretto l’imputato o il condan-
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chiesto la rinnovazione del processo né ha impugnato il provvedimento;
4) l’interessato, non raggiunto dalla notifica della
decisione, la riceverà personalmente e senza indugio una volta consegnato allo Stato membro emittente e sarà informato dei termini entro i quali potrà esercitare il diritto a un nuovo processo o la facoltà di dare inizio al giudizio di appello, in cui ha
il diritto di partecipare e che consente il riesame
del merito della causa e l’allegazione di nuove prove che possono condurre alla riforma della decisione oggetto di esecuzione.
La rilevanza di tale intervento, che rafforza le garanzie del soggetto nei cui confronti è stato emesso
un M.a.e. dall’autorità procedente di uno Stato
membro, si coglie sol che si consideri la formulazione precedente dell’art. 19, comma 1, lett. a), L.
n. 69 del 2005. Ed infatti, nel testo previgente, la
consegna era subordinata alla mera condizione che
l’autorità giudiziaria emittente fornisse assicurazioni circa il rispetto del diritto della persona oggetto
del M.a.e. di chiedere un nuovo processo e di essere presente al giudizio (25).
Giova sottolineare l’eccentricità (rispetto alle altre) della quarta condizione sopra menzionata, la
quale non garantisce all’interessato una piena conoscenza del procedimento a suo carico prima della
consegna (26). Un’interpretazione estensiva della
norma in parola potrebbe condurre a ritenere siffatta condizione equiparabile alle mere assicurazioni da parte dell’autorità procedente di cui al testo
pre-riforma, con il rischio di porre nel nulla l’intento garantista della novella. Si ricordi, infatti,
che le condizioni sono alternative ed all’autorità
straniera basterebbe, dunque, “rassicurare” la corte
di appello destinataria della richiesta circa la futura
notificazione ed informativa sul diritto di appello
per ottenere la consegna dell’interessato.
Una simile interpretazione appare, tuttavia, temperata dall’impiego nel nuovo testo dell’art. 19, comma 1 lett. a del verbo “potere” (“la corte di appello
può, comunque, dar luogo alla consegna”), che, a
nato ha la residenza, la dimora o il domicilio al momento in cui
il provvedimento è ricevuto dall’autorità giudiziaria, il soggetto
competente a decidere sulla consegna, ai sensi dell’art. 5 della
L. n. 69 del 2005.
(24) Ed è stato altresì informato del fatto che una tale decisione avrebbe potuto essere presa anche in absentia.
(25) Per un’analisi del testo pre-riforma si rinvia a G. Colaiacovo - G. De Amicis - G. Iuzzolino (a cura di), Parte speciale.
Mandato di arresto europeo, cit., 185.
(26) Per considerazioni simili cfr. A. Chelo, L’attuazione della
decisione quadro Ue sul riconoscimento dei provvedimenti assunti in absentia: meglio tardi che mai..., in www.ilpenalista.it,
31 marzo 2016.
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differenza del testo previgente (in cui si statuiva:
“la consegna è subordinata alla condizione che...”),
sembra rimettere la consegna dell’interessato alla
discrezionalità della corte di appello.
Il punto merita un maggiore approfondimento, atteso che l’attribuzione di una discrezionalità siffatta
alla corte di appello potrebbe comportare conseguenze di non poco momento sul piano pratico. Ed
infatti, un’eccessiva libertà della corte nel decidere
se ottemperare o meno alla richiesta dell’autorità
estera emittente sembrerebbe confliggere con lo
scopo della decisione quadro, che mira ad eliminare gli ostacoli alla cooperazione giudiziaria transfrontaliera. In costanza della formulazione previgente della norma in parola nessuno dubitava dell’obbligatorietà della condizione di cui alla lett. a)
dell’art. 19 (27). Il testo risultante dall’intervento
del D.Lgs. n. 31 del 2016, viceversa, non può ritenersi altrettanto chiaro. Non è fuori luogo ritenere,
infatti, che la scelta del legislatore italiano di qualificare la consegna dell’interessato, ancorché in
presenza di una delle summenzionate condizioni,
in termini di facoltà e non di obbligo della corte di
appello, sia espressione di una certa qual diffidenza
nei confronti degli ordinamenti processuali (e delle
garanzie da essi apprestate nei confronti dell’imputato) degli altri Stati membri (28). Certo è che una
simile interpretazione potrebbe frustrare quello che
è un obiettivo precipuo dello strumento comunitario: la celerità ed il rafforzamento della reciproca
fiducia tra gli Stati membri nell’esecuzione di un
M.a.e.
Una lettura alternativa, che miri a confermare la
natura obbligatoria della condizione di cui all’art.
19, comma 1, lett. a) (oggi ramificatasi nelle quattro condizioni alternative sopra descritte), è possibile se si valorizza l’incipit della norma in parola,
che resta invariato rispetto al testo previgente:
“L’esecuzione del mandato d’arresto europeo da
parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi sotto
elencati, è subordinata alle seguenti condizioni
(...)” (29). Così ragionando, si potrebbe affermare
la prevalenza di tale previsione, che “regge” l’elenco delle condizioni di cui alle lett. a, b e c, e conseguentemente ridimensionare la portata dell’impiego del verbo “potere” da parte del legislatore nel
nuovo testo della lett. a).
La disciplina appena descritta, come cennato, concerne la procedura c.d. passiva di consegna. Il
D.Lgs. n. 31 del 2016, viceversa, non incide sulla
procedura c.d. attiva di consegna, laddove sia l’autorità giudiziaria italiana ad emettere un M.a.e. per
ottenere la consegna di una persona che si trovi
nel territorio di un altro Stato membro. L’unico intervento che si registra concerne l’adeguamento
del modello da compilare da parte dell’autorità giudiziaria italiana all’atto di emissione di un M.a.e.,
mercé la sua sostituzione con quello allegato al decreto (Allegato I) (30).
Occorre, peraltro, evidenziare la rilevanza nella
materia in esame della recente riforma della disciplina del processo in absentia, operata con la sopra
citata L. n. 67 del 2014. In proposito, le modifiche
introdotte parrebbero sufficienti a prevenire un
eventuale rifiuto da parte dello Stato estero di consegnare la persona oggetto di M.a.e., in caso di richiesta delle autorità italiane (31). Non dovrebbero, conseguentemente, ripetersi vicende simili al
noto caso “Melloni” (32), a mente del quale l’autorità giudiziaria spagnola si era rifiutata di procedere
alla consegna all’autorità giudiziaria italiana dell’interessato, condannato in contumacia nel nostro
Paese, sul presupposto che l’ordinamento italiano
non prevedeva, a differenza di quello spagnolo, la
possibilità di sottoporre a revisione la sentenza di
condanna. Peraltro, la Corte di Giustizia ha precisato che l’art. 4 bis della decisione quadro
2002/584/GAI, sopra citato, deve essere interpretato nel senso che non consente a uno Stato membro di subordinare la consegna di una persona con-
(27) Per agevolare la comprensione si riporta il testo della
disposizione nel testo previgente: “L’esecuzione del mandato
d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei
casi sotto elencati, è subordinata alle seguenti condizioni: a) se
il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate mediante decisione pronunciata in absentia, e se l’interessato non
è stato citato personalmente né altrimenti informato della data
e del luogo dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la consegna è subordinata alla condizione che
l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato
d’arresto europeo la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro di emissione e di essere presenti al giudizio (...)”.
(28) Sul punto, è appena il caso di rilevare che la dottrina
aveva criticato la scelta del legislatore italiano di rendere obbligatoria la consegna, privando così l’autorità giudiziaria di esecuzione del potere di decidere caso per caso se rifiutare o meno la consegna. Cfr. M. Bargis, Libertà personale e consegna, cit., 279.
(29) Pare accogliere questa ricostruzione A. Chelo, L’attuazione della decisione quadro Ue sul riconoscimento dei provvedimenti assunti in absentia, cit.
(30) Si veda l’attuale formulazione dell’art. 30 della L. n. 69
del 2005, nonché l’Allegato I al D.Lgs. n. 31 del 2016.
(31) Per tali considerazioni, cfr. M. Bargis, Il mandato di arresto europeo dalla decisione quadro del 2002 alle odierne prospettive, in www.penalecontemporaneo.it, 19 maggio 2015.
(32) Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 26 febbraio
2013, causa C-399/11.
1004
Diritto penale e processo 8/2016
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Cooperazione giudiziaria
Le modifiche del D.Lgs. n. 161 del 2010
Il secondo intervento di sicura rilevanza, operato
dal D.Lgs. n. 31 del 2016 in attuazione degli obblighi comunitari sopra cennati, consiste nella sostituzione della lett. i) dell’art. 13, D.Lgs. n. 161 del
2010 (rubricato “Motivi di rifiuto del riconoscimento”). Anche in questo caso, sulla scorta di una
più marcata attenzione alle garanzie processuali
della persona giudicata in absentia (35), si prevede
che la corte di appello debba rifiutare il riconoscimento di una sentenza di condanna emessa all’e-
stero se l’interessato non è comparso personalmente al processo terminato con la decisione da eseguire, salvo che ricorra - ed il relativo certificato ne
attesti la presenza - almeno una delle tre condizioni (la sovrapponibilità è pressoché totale) sopra
menzionate in materia di M.a.e. ai nn. 1), 2) e 3).
In particolare, trattasi delle ipotesi in cui l’interessato:
a) a tempo debito, è stato citato personalmente e,
pertanto, informato della data e del luogo fissati
per il processo o ne è stato di fatto informato ufficialmente con altri mezzi, idonei a comprovare
inequivocabilmente che ne era al corrente, nonché
è stato informato del fatto che una decisione poteva essere emessa in caso di mancata comparizione
in giudizio;
b) essendo al corrente della data fissata per il processo, aveva conferito un mandato ad un difensore,
di fiducia o d’ufficio, da cui in effetti è stato assistito in giudizio;
c) dopo aver ricevuto la notifica della decisione ed
essere stato espressamente informato del diritto a
un nuovo processo o ad un ricorso in appello con
possibilità di parteciparvi per ottenere un riesame
nel merito della imputazione, compresa l’assunzione di nuove prove, ha dichiarato espressamente di
non opporsi alla decisione o non ha richiesto un
nuovo processo o presentato ricorso in appello entro il termine a tal fine stabilito.
L’esclusione del riferimento alla quarta condizione
sopra prospettata in tema di M.a.e. si giustifica sol
che si consideri l’ambito di applicazione della decisione quadro 2008/909/GAI, cui il D.Lgs. n. 161
del 2010 dà attuazione. Scopo precipuo dello strumento in parola, infatti, è quello di garantire l’espiazione della pena nello Stato di cittadinanza, residenza o dimora del condannato, sulla base del riconoscimento della sentenza emessa in un altro
Stato membro (36). La disciplina del mutuo rico-
(33) Numerose le critiche dottrinali a tale arresto. Si segnalano in particolare i contributi di F. Romoli, Le sentenze Radu e
Melloni: due pronunce “conservatrici”, cit.; S. Civello Conigliaro
- S. Lo Forte, Cooperazione giudiziaria in materia penale e tutela
dei diritti fondamentali nell’Unione europea. Un commento alle
sentenze Radu e Melloni della Corte di giustizia, in www.penalecontemporaneo.it, 3 giugno 2013; C. Amalfitano, Mandato
d’arresto europeo: reciproco riconoscimento vs diritti fondamentali? Note a margine delle sentenze Radu e Melloni della Corte
di Giustizia, in www.penalecontemporaneo.it, 4 luglio 2013; T.
Epidendio, Il caso “Melloni”: il nodo irrisolto del massimo standard di tutela dei diritti fondamentali, in Quad. cost., 2013, 451.
(34) Cfr., al riguardo, P. Tonini - C. Conti, Il tramonto della contumacia, cit., in questa Rivista, 2014, 509; C. Conti, Processo in
absentia, ivi, 2015, 461; P. Tonini, Manuale di procedura penale,
cit., 608. Per alcuni spunti, anche in riferimento al D.Lgs. n. 31
del 2016, cfr. A. Chelo, L’attuazione della decisione quadro Ue sul
riconoscimento dei provvedimenti assunti in absentia, cit.
(35) Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da A.
Mangiaracina, Sentenze contumaciali e cooperazione giudiziaria, in questa Rivista, 2009, 120.
(36) La decisione quadro, in realtà, persegue due obiettivi
contrapposti: da un lato, l’interesse dello Stato che ha emesso
la sentenza di condanna a vederla eseguita; dall’altro lato, l’interesse del condannato ad iniziare un processo di risocializzazione nel Paese di provenienza. Per queste considerazioni cfr.
P.P. Paulesu, Profili esecutivi, in R. E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Milano, 2014, 371. Più in
generale, sul tema del riconoscimento delle sentenze penali
nello spazio giudiziario europeo, cfr. C. Amalfitano, Spazio giudiziario europeo e libera circolazione delle decisioni penali, in S.
Carbone - M. Chiavario (a cura di), Cooperazione giudiziaria civile e penale nel diritto dell’Unione europea, Torino, 2008, 700;
N. Plastina, L’esecuzione delle pene detentive, in L. Kalb (a cura
di), Spazio europeo di giustizia e procedimento penale italiano,
Torino, 2012, 591.
dannata in absentia alla condizione che la sentenza
di condanna possa essere oggetto di revisione nello
Stato membro emittente. La Corte ha così affermato il primato del diritto europeo, e delle sottostanti
esigenze di efficienza della collaborazione e di sicurezza della collettività, rispetto ad un diritto interno maggiormente attento alla tutela dei diritti di
difesa della persona. Ciò, a dispetto del generale
principio della maggior protezione espresso dall’art.
53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (33).
La dottrina ha, tuttavia, evidenziato come la L. n.
67 del 2014 abbia promesso più di quanto abbia
poi effettivamente mantenuto (34): la conoscenza
del procedimento da parte dell’imputato assente,
lungi dall’essere sempre accertata ai fini del proseguimento del processo, si reputa sussistente in una
serie di casi (cc.dd. fatti sintomatici) elencati nell’art. 420 bis c.p.p. In presenza di ipotesi siffatte,
scatta la presunzione (assoluta) di conoscenza del
procedimento; ciò che risulta ben lontano dal canone dell’effettiva conoscenza e del giusto processo
in absentia elaborato dalla giurisprudenza della Corte edu. Si potrebbero, pertanto, riproporre problemi nei rapporti con gli altri Paesi membri, in materia non solo di M.a.e. ma anche di reciproco riconoscimento delle sentenze penali.
Diritto penale e processo 8/2016
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noscimento delle decisioni emesse dagli Stati
membri dell’Unione attiene a sentenze passate in
giudicato. Ed infatti, ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. n.
161 del 2010, per sentenza di condanna deve intendersi una decisione definitiva. Di talché, ben si
comprende perché il riconoscimento è subordinato
ad un accertamento ex post circa l’effettiva conoscenza - determinata dal ricorrere di una delle tre
condizioni alternative sopra enumerate - del processo ormai concluso in via definitiva.
Peraltro, è appena il caso di sottolineare che, attesa
la formulazione della norma, non pare potersi contestare la natura obbligatoria di siffatte condizioni,
ricorrendo (almeno una del)le quali la corte di appello è tenuta a riconoscere la sentenza di condanna.
Infine, anche in questa materia il legislatore ha dovuto operare la sostituzione del certificato precedentemente richiamato dall’art. 2, lett. n del
D.Lgs. n. 161 del 2010 con il modello allegato al
D.Lgs. 31 del 2016 (Allegato II) (37), che tiene
conto delle modifiche sopra descritte.
Riflessioni conclusive
Come sopra ampiamente argomentato, la decisione
quadro 2009/299/GAI ben si presta ad una lettura
evolutiva, che permette di collocarne la portata, al
di là dell’origine “pratica” di strumento di cooperazione giudiziaria transfrontaliera, nel solco tracciato dal moderno diritto processuale penale europeo,
sempre più attento alle istanze di garanzia e protezione delle persone, e dell’imputato in special modo, all’interno del procedimento penale.
Le modifiche introdotte con il testo legislativo in
commento vanno salutate con favore, costituendo
un ulteriore tassello nel cammino verso una sempre
più marcata tutela dell’imputato assente, o comunque non comparso, nel procedimento a proprio carico. Tanto che potrebbe ormai parlarsi di un vero
e proprio “statuto europeo” dei diritti processuali
dell’imputato nel processo in absentia. Più in generale, è da porre in evidenza la progressiva attenzione del legislatore europeo nei confronti delle garanzie processuali della persona imputata o indagata in un procedimento penale, come testimoniano
le numerose direttive adottate in materia cui si è
fatto riferimento in esordio.
Per quanto concerne i profili di criticità del D.Lgs.
n. 31 del 2016, al di là di quanto emerso nel corso
del presente scritto, occorre segnalare che il legislatore italiano non ha dato attuazione a parte dell’art. 4 bis della decisione quadro 2002/584/GAI,
introdotto dalla decisione quadro 2009/299/GAI.
In primo luogo, non ha trovato accoglimento nel
nostro ordinamento la disposizione di cui al par. 2
della norma in parola, ai sensi della quale: il soggetto interessato da un M.a.e. emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza
privative della libertà, non informato ufficialmente
dell’esistenza di un procedimento penale a suo carico, può, una volta informato del contenuto del
M.a.e., chiedere che gli sia trasmessa copia della
sentenza prima della consegna; di tale sentenza,
ancorché sia trasmessa a soli fini informativi, l’interessato ha diritto di ottenere la consegna mercé
l’attivazione di una procedura di collaborazione tra
autorità emittente ed autorità di esecuzione.
In secondo luogo, neppure ha trovato attuazione la
norma di cui al par. 3 del medesimo articolo, che
concerne il caso in cui la persona non raggiunta
dalla notifica della decisione sia stata consegnata
dall’autorità di esecuzione in virtù dell’assicurazione che avrebbe ricevuto siffatta notizia personalmente e senza indugio una volta giunta nello Stato
membro emittente (è il caso della quarta condizione sopra descritta in materia di M.a.e.) e abbia quivi chiesto un nuovo processo o presentato appello.
In tale ipotesi, la detenzione della persona in attesa
di tale processo o appello è riesaminata, al fine di
sondare la possibilità di sospensione o interruzione
della detenzione, a intervalli regolari o su richiesta
dell’interessato.
Trattasi, dunque, di lacune di una certa rilevanza,
se si considera l’afflato garantista delle disposizioni
appena descritte.
Infine, è da rilevare che, nonostante la decisione
quadro 2009/299/GAI nulla (o quasi) disponga in
materia di procedura c.d. attiva di consegna, l’occasione sarebbe stata propizia per intervenire altresì sui profili di maggiore oscurità e problematicità
emersi in dottrina in questi primi due anni dall’adozione della L. n. 67 del 2014. Ma questo, attesa
la funzione meramente adeguatrice agli obblighi
comunitari svolta dal D.Lgs. n. 31 del 2016, sarebbe stato, forse, aspettarsi un po’ troppo.
(37) Così come determinato dall’art. 3, comma 1, lett. a),
D.Lgs. n. 31 del 2016.
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Squadre investigative
Squadre investigative comuni
in ambito euro unitario.
Dalla decisione quadro
alla normativa nazionale
di Massimo Perrotti (*)
Il presente lavoro offre l’opportunità di percorrere, in un quadro d’insieme, le principali innovazioni normative conseguenti al recepimento della decisione quadro 2002/465/GAI relativa alle
squadre investigative comuni. Sono esplicitati, in sintesi, i motivi delle opzioni prescelte, sia nelle modalità di recepimento che nella estensione stessa delle indicazioni sovranazionali. Si fa altresì cenno alle eventuali criticità applicative delle quali, tuttavia, solo la pratica processuale potrà rendere epifania, sicuri che la perfettibilità degli strumenti normativi è connotato immanente
della creazione di regole e che le norme vivono nella e si nutrono della interpretazione giurisdizionale.
Decisione quadro 2002/465/GAI del 13 giugno 2002
Squadre investigative comuni.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 34
G.U. 10 marzo 2016, n. 58 (in vigore dal 25 marzo 2016).
Modifiche
Lo schema normativo praticato non è quello della novella, non si interviene su testi
già vigenti, ma si propone un testo autonomo, che incide ab externo sugli strumenti
processuali esistenti.
La decisione quadro 2002/465/GAI
I contenuti della decisione-quadro: principi,
obiettivi e tempi di recepimento
Il 10 marzo 2016 è stato pubblicato in G.U. (Serie
Generale n. 58) il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 34,
che attua nell’ordinamento italiano la decisione
quadro 2002/465/GAI del Consiglio del 13 giugno
2002, relativa alle squadre investigative comuni. Il
recepimento di tale decisione quadro è avvenuto
sulla base della delega contenuta nell’art. 18 della
L. 9 luglio 2015, n. 114 (c.d. legge di delegazione
europea 2014), recante “Delega al Governo per il
recepimento delle direttive europee e l’attuazione
di altri atti dell’Unione europea”.
La necessità di dar vita a squadre investigative comuni che consentano, in ambito euro unitario, di
superare i tradizionali limiti della cooperazione bilaterale, investigativa e giudiziaria per il contrasto
alla criminalità organizzata, al terrorismo internazionale e ai cosiddetti cross-border crimes (es. traffico di stupefacenti, tratta di esseri umani, cyber crimes, pedopornografia, terrorismo internazionale) fu
evidenziata già nell’ottobre del 1999 dal Consiglio
Europeo di Tampere. L’UE ritenne di disciplinare
tali squadre operative prima con la Convenzione
di Bruxelles del 29 maggio 2000 (art. 13), relativa
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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all’assistenza giudiziaria in materia penale, e quindi
con la decisione quadro 2002/465/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, il cui termine di attuazione, tuttavia, ebbe a cadere nel vuoto il 1° gennaio
2003. Con la raccomandazione del Consiglio dell’8
maggio 2003 fu, infine, adottato anche il modello
formale di accordo per la costituzione della squadra
di indagine comune, che integrava e completava le
disposizioni contenute sia nell’art. 13 della Convenzione, sia nella decisione quadro del Consiglio.
Della necessità di provvedere ad una regolamentazione delle squadre investigative comuni è traccia
anche:
- nell’Accordo di cooperazione giudiziaria in materia penale tra Italia e Svizzera (art. XXI), ratificato
con L. 5 ottobre 2001, n. 367 (c.d. legge sulle rogatorie);
- nella Convenzione delle Nazioni Unite contro il
crimine organizzato transnazionale (art. 19), adottata dall’assemblea generale il 15 novembre 2000,
ratificata con L. 16 marzo 2006, n. 146;
- nell’accordo sulla mutua assistenza giudiziaria tra
gli Stati Uniti d’America e l’UE, firmato il 25 giugno 2003 (art. 5), ratificato con L. 16 marzo 2009,
n. 25;
- nella Convenzione Onu contro la corruzione
(art. 49), adottata dall’Assemblea Generale il 31
ottobre 2003.
La decisione quadro, che il decreto legislativo in
commento ha attuato, ricalca il contenuto della
Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000 ed è
stata adottata dall’UE per tentare di colmare il ritardo con cui gli Stati procedevano alla ratifica
dell’atto pattizio.
In base all’art. 5 della decisione quadro, questa cessa di avere effetto a partire dall’entrata in vigore in
tutti gli Stati membri della Convenzione di Bruxelles del 2000. La Convenzione è entrata in vigore il
23 agosto 2005 nei confronti degli Stati che hanno
provveduto alla relativa ratifica; tra tali Paesi non
è presente l’Italia (il percorso di ratifica ha già superato il vaglio del Senato ed il testo attualmente
pende innanzi alla Commissione giustizia della Camera), per la quale rimane in vigore la decisione
quadro, che necessita, pertanto, di attuazione.
Le ragioni di fondo che hanno spinto verso la regolamentazione normativa dello strumento di indagine transfrontaliero sono rappresentate:
a) da una criminalità organizzata che si connota
per il ricorso a forme sempre più sofisticate di cooperazione fra gruppi criminali di nazionalità diverse, finalizzata alla gestione di mercati illeciti (stupefacenti, contraffazione) e leciti (trasporto su
1008
gomma di alimenti per la grande distribuzione) comuni. È sufficiente richiamare l’attenzione sulle
modalità operative delle organizzazioni criminali
transnazionali dedite al traffico di stupefacenti e di
armi, alla tratta di esseri umani, alla pedopornografia, al terrorismo, alla criminalità informatica;
b) da un potenziamento e affinamento delle sinergie criminali su scala internazionale, con il conseguente frazionamento delle correlate attività delittuose in Paesi sottoposti a diverse giurisdizioni nazionali, circostanza che costituisce un oggettivo
freno alla capacità investigativa degli organi inquirenti.
È, quindi, generalmente avvertita la necessità di
superare i tradizionali limiti della cooperazione interstatuale, investigativa e giudiziaria, specialmente
nel contrasto alla criminalità organizzata di tipo
mafioso, alla lotta contro il terrorismo internazionale e ai cosiddetti cross-border crimes.
Al fine di offrire ai cittadini dell’UE un elevato livello di sicurezza nell’ambito di uno spazio comune
di libertà, sicurezza e giustizia, le attività di accertamento, verifica, dimostrazione processuale e repressione dei fatti-reato aventi dimensioni sovranazionali necessita, pertanto, della diretta partecipazione degli organi titolari della potestà investigativa e
dell’azione penale all’attività di indagine da svolgere sul territorio di altro Stato dell’Unione.
A tanto si provvede adottando uno strumento specifico, giuridicamente vincolante (la squadra investigativa comune), da applicare nel caso di indagini particolarmente complesse, che hanno un collegamento con altri Stati membri e che postulino,
per la loro soluzione processuale, un’attività investigativa coordinata e concertata, che superi e
sciolga le rigidità rappresentate dallo strumento rogatoriale, governato dalla burocrazia.
Le più ricorrenti fattispecie rispetto alle quali è
ipotizzabile un uso delle squadre investigative comuni sono quelle del traffico di stupefacenti, dei
reati associativi in genere, del riciclaggio, in abbinamento con tutti i reati presupposto (corruzione,
reati associativi di stampo mafioso, frode fiscale,
truffe nella erogazione), la tratta di esseri umani e,
più in generale, tutte le forme di criminalità organizzata o di reati con finalità di terrorismo, di cui
all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.
Nel medio e lungo periodo, la costituzione di squadre investigative comuni potrà determinare la riduzione dei tempi dell’accertamento probatorio all’estero, attualmente solo in parte realizzato attraverso meccanismi di scambio informativo bilaterale
agevolati da strutture di coordinamento (Eurojust,
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Direzione Nazionale Antimafia), senza però quelle
sinergie operative che solo la squadra può favorire
e promuovere.
Può dunque ritenersi, alla luce delle indicazioni
evidenziate, che il recepimento della decisione
quadro rafforzerà, nel medio e lungo termine, il
contrasto alla criminalità internazionale e favorirà
l’armonizzazione della legislazione interna con
quella degli Stati membri dell’UE. Di conseguenza,
rafforzerà la fiducia reciproca nei rispettivi sistemi
investigativi e di giustizia, presupposto necessario
per una effettiva integrazione nel comune amalgama continentale.
Nel nostro ordinamento mancava una disciplina
processuale delle squadre investigative comuni in
ambito europeo. Il termine per il recepimento della
Decisione Quadro 2002/465/GAI era inizialmente
previsto per il 1° gennaio 2003 ed invano sono trascorsi oltre due lustri senza che il legislatore nazionale avvertisse la necessità di raccogliere l’occasione offerta dagli organi dell’Unione. Il 1° dicembre
2014 sono tuttavia scadute anche le norme che limitavano, da un lato, il controllo giurisdizionale
esercitato dalla Corte di Giustizia sulle norme UE
relative alla cooperazione giudiziaria e di polizia in
materia penale e, dall’altro, le prerogative della
Commissione europea di controllare l’applicazione
del diritto dell’Unione in tale settore. L’entrata in
vigore del trattato di Lisbona, il 1° dicembre 2009,
ha infatti segnato la fine del “terzo pilastro” della
legislazione dell’Unione (giustizia e affari interni).
Come misura transitoria, tuttavia, il protocollo 36
del trattato di Lisbona ha disposto che fino al 1°
dicembre 2014 le attribuzioni della Commissione,
ai sensi dell’art. 258 del TFUE (procedure d’infrazione), e le attribuzioni della Corte di giustizia non
fossero applicabili agli atti nel settore della cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria
in materia penale, adottati prima dell’entrata in vigore del trattato, a meno che non fossero stati
abrogati, annullati o modificati. Di qui la cogente
e non più prorogabile necessità di provvedere al recepimento delle decisioni quadro e delle direttive
lasciate fuori dell’uscio di casa Italia. Inserita, quindi, la decisione quadro nel più vasto alveo della
legge di delegazione europea per il 2014, il suo recepimento, ad opera del decreto legislativo in commento, è avvenuto nei termini fissati dalla delega.
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Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 34
Le novità
La principale innovazione è di sistema. Cambia
l’approccio alla “investigazione continentale”: attraverso le squadre investigative comuni non si
tratta più di prevedere misure di coordinamento
tra organi inquirenti dei diversi Stati, bensì di individuare uno specifico ambito di azione comune
che consenta di operare nei diversi Stati, direttamente e in tempi reali, superando la penalizzazione
di ostacoli di carattere formale.
Il decreto legislativo si compone di otto articoli,
del tutto autonomi rispetto alla disciplina codicistica.
L’art. 1 indica l’obiettivo e l’ambito di applicazione
del decreto legislativo, vale a dire quello di attuare
nell’ordinamento interno la decisione quadro
2002/465/GAI del 13 giugno 2002, conformemente all’art. 34, par. 2, del Trattato, in materia di
squadre investigative comuni.
2. Autorità legittimate e procedimento.
L’art. 2 disciplina l’iniziativa del procuratore della
Repubblica italiano per la costituzione delle squadre investigative comuni.
Al comma 1, sono elencate le fattispecie criminose
rispetto alle quali, in considerazione della natura
delle condotte criminose e della dimensione transnazionale che sovente assumono, si compie una
valutazione aprioristica circa la possibile esigenza,
da parte dell’autorità inquirente, di costituire squadre investigative comuni.
Si tratta di ipotesi relative ad indagini aventi ad
oggetto le più diffuse forme di criminalità organizzata o i reati con finalità di terrorismo, di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p., e degli altri
reati che suscitano un grave allarme sociale, di cui
agli artt. 51, comma 3 quinquies, e 407, comma 2,
lett. a), c.p.p.
Sempre al comma 1, è stata prevista la possibilità
di costituire squadre investigative comuni nel caso
di indagini relative ai delitti per i quali è contemplata la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, in coerenza con il
limite edittale di ammissibilità delle intercettazioni
di conversazioni o di comunicazioni, di cui all’art.
266 c.p.p.
È parso, invero, opportuno individuare un criterio
razionale e sistematico in base al quale selezionare
il novero dei reati per i quali possa ritenersi presunta l’esigenza di dar seguito alla richiesta dell’autorità procedente di costituire una o più squadre investigative comuni.
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Va tuttavia osservato che la decisione quadro non
prevedeva, sul punto, una delimitazione del novero
dei reati per i quali è possibile attivare la procedura
di costituzione delle squadre investigative comuni.
Ne consegue che, fuori delle specifiche ipotesi di
cui al comma 1, al comma 2 è previsto l’accesso al
nuovo strumento investigativo europeo anche per
altri reati, qualora l’autorità procedente operi una
valutazione, questa volta caso per caso ed in concreto, in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla decisione quadro, delineati dall’art. 1
capoverso, lettere a) e b) (indagini “difficili e di
notevole portata che hanno un collegamento con
altri Stati membri” e che esigano “un’azione coordinata e concertata”).
La costituzione di squadre investigative comuni nei
casi previsti dal comma 2 del decreto resta, pertanto, subordinata alla sussistenza del requisito funzionale, costituito dall’“esigenza di compiere indagini
particolarmente complesse sul territorio di più Stati o di assicurare il loro coordinamento”, omettendo ogni riferimento al più circoscritto requisito del
collegamento tra le indagini, che precluderebbe la
possibilità di costituire la squadra anche per un solo procedimento complesso che richieda indagini
in altri Stati.
Il comma 3 disciplina l’ipotesi in cui l’iniziativa
per la costituzione della squadra è formulata d’intesa tra diversi uffici del pubblico ministero, allorquando più procuratori della Repubblica procedano
a indagini collegate. In tal caso, la disciplina del
coordinamento tra i diversi uffici è assicurata dagli
artt. 371 e 371 bis c.p.p. e dall’art. 118 bis delle relative disposizioni di attuazione.
Il comma 4 prevede modalità semplificate di trasmissione della richiesta di istituzione della squadra
investigativa comune dal procuratore della Repubblica istante alla competente autorità dello Stato
membro. Si prevede, inoltre, che l’autorità giudiziaria richiedente informi dell’iniziativa il procuratore generale presso la corte di appello o, se si tratta di indagini relative ai delitti di cui all’art. 51,
commi 3 bis e comma 3 quater, c.p.p., il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ai fini dell’eventuale coordinamento investigativo.
L’art. 3 disciplina, invece, la procedura di costituzione di squadre investigative comuni su richiesta
proveniente dall’autorità competente di un altro
Stato membro.
Il comma 1 prevede che detta richiesta sia trasmessa al procuratore della Repubblica il cui ufficio è titolare di indagini che esigono un’azione coordinata
e concertata con quelle condotte all’estero o al
1010
procuratore della Repubblica del luogo in cui gli
atti di indagine della squadra investigativa comune
devono essere compiuti.
Il comma 2 regola il caso in cui il procuratore della
Repubblica, che ha ricevuto la richiesta, valuti
l’interesse investigativo di un altro ufficio del pubblico ministero, cui deve trasmetterle immediatamente, dandone avviso all’autorità straniera istante.
Sempre a fini di coordinamento, il comma 3 prevede un obbligo di informazione, in capo al procuratore della Repubblica che procede, all’autorità sovraordinata, individuata nel Procuratore generale
presso la Corte d’Appello, o, per i reati di competenza, nel Procuratore antimafia e antiterrorismo.
Trattandosi di una richiesta di costituzione della
squadra investigativa che proviene da Stati membri
dell’UE, non è stata prevista la trasmissione della
richiesta al Ministro della giustizia, giacché deve
ritenersi escluso, in seno all’Unione, l’esercizio di
un potere di veto politico che si fondi sulla ritenuta compromissione della sovranità, della sicurezza o
di altri interessi essenziali dello Stato, come invece
stabilito in materia di rogatorie internazionali dagli
art. 723, comma 1, e 727, comma 2, c.p.p.
In conformità con i principi ispiratori dei criteri di
delega in materia di riforma del libro XI del codice
di procedura penale, contenuti nel disegno di L. n.
1949 recentemente approvato, con modifiche, dal
Senato e trasmesso alla Camera per nuovo esame
sul testo oggetto di modifica, s’intende in tal modo
promuovere tra gli Stati membri un modello di soluzione che sia in grado di garantire la sostanziale
depoliticizzazione del sistema dell’assistenza giudiziaria nell’area circoscritta dall’efficacia degli accordi internazionali stipulati tra Stati dell’UE, in
ragione dell’esistenza di un quadro di omogeneità
che ormai non soltanto giustifica, ma persino impone, l’abbandono del tradizionale vaglio di opportunità politica. L’opzione alternativa, pure presa in
considerazione in fase di studio ed elaborazione
dello schema di decreto, consisteva nell’attribuire
al Ministro della giustizia il potere di inibire le attività di indagine programmate in casi espressamente
previsti, introducendo una sorta di potere di interdizione dell’autorità politica. Come detto, tale opzione alternativa è stata abbandonata, giacché si è
ritenuto che l’ambito conoscitivo e valutativo, riguardante la legittimità e conformità ai principi
dell’ordinamento interno degli atti di indagine,
inerisca più propriamente all’esercizio dell’azione
penale e sia, come tale, riservato all’autorità giudiziaria.
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Il comma 4 prevede che il procuratore della Repubblica, sentito il procuratore generale presso la
Corte d’Appello o, per i reati di propria competenza, il Procuratore antimafia e antiterrorismo, comunichi, senza ritardo, all’autorità dello Stato estero
richiedente la decisione di non dare corso alla richiesta, qualora questa comporti il compimento di
atti espressamente vietati dalla legge o contrari ai
princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico
italiano.
Analogo onere informativo è previsto a favore del
Ministro della giustizia, al fine di consentire all’organo di indirizzo politico le opportune valutazioni
di competenza.
Va precisato che il potere di sindacato sulla liceità
degli atti di indagine, coerentemente attribuito all’autorità giudiziaria e non all’organo di indirizzo
politico, non preclude la possibilità per l’autorità
dello Stato membro richiedente di rinnovare la richiesta già reietta, purché la nuova richiesta sia
fondata su finalità e azioni investigative conformi
ai principi ed alle leggi del nostro ordinamento
giuridico.
L’art. 4, al comma 1, disciplina le modalità di istituzione della squadra investigativa comune, prevedendo, al fine di coniugare solennità ed evidenza,
la forma scritta per la stipula dell’accordo costitutivo.
Il comma 2 si occupa del contenuto dell’atto costitutivo della squadra investigativa comune, che deve indicare la composizione ed il direttore della
squadra, scelto tra i suoi componenti, e individuare
l’oggetto e la finalità dell’indagine, oltre al termine
entro il quale le attività devono essere compiute.
Quanto alla composizione della squadra, la norma
limita la partecipazione alla squadra investigativa
ai soli rappresentanti delle autorità competenti degli Stati membri, individuati nei membri nazionali
e in quelli “distaccati”, definiti quali componenti
della squadra appartenenti ad altri Stati membri e
designati in base alle rispettive normative nazionali.
L’esclusione dalla composizione della squadra di
rappresentanti di altri organismi, anche se istituiti
in ambito nazionale o europeo, oltre ad essere consentita dalla decisione quadro (art. 1, par. 12), è
imposta -nell’ordinamento interno- dall’obbligo
del segreto sugli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, al fine di
salvaguardare il buon esito delle stesse (art. 326
c.p., 329 c.p.p.).
Il comma 3 prevede che all’atto costitutivo sia allegato un piano di azione operativo, finalizzato a di-
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sciplinare le misure organizzative e ad indicare le
modalità esecutive di dettaglio della squadra. Per
la redazione di tale documento, che si occupa della
risoluzione di questioni pratiche che dovrà affrontare la squadra, evitando inutili appesantimenti
nella stesura dell’atto costitutivo, le parti potranno
servirsi, ove lo ritengano necessario, del modello di
accordo contenuto nella Risoluzione del Consiglio
del 26 febbraio 2010 (in particolare, punto 13 ed
appendice IV).
I commi 4 e 5 dettano la disciplina per adeguare il
funzionamento della squadra investigativa comune
alle esigenze, anche di carattere investigativo, che
possono sopravvenire in corso d’opera. L’accordo
modificativo, sempre con atto scritto, può consentire adattamenti dell’oggetto e delle finalità investigative, del termine di indagine, che può essere
prorogato, e della composizione della squadra, al fine di scongiurare inefficienze o la paralisi dell’attività investigativa comune.
Quanto, in particolare, al tema della durata delle
indagini comuni, ferma la possibilità della proroga
del termine entro il quale le attività di indagine
devono essere compiute, secondo la normativa nazionale, è stata preferita l’opzione di non limitarne
i tempi entro un termine prefissato, così privilegiando il rispetto della disciplina interna relativa
ai termini di durata massima delle indagini preliminari, ai sensi degli artt. 405 e seguenti del codice
di procedura penale. Inoltre, entro i suddetti limiti,
il termine di durata della squadra investigativa verrà concordato tra gli Stati costituenti e sarà indicato nell’atto costitutivo.
Si è, dunque, optato per la non istituzione di un
meccanismo di autorizzazione alla proroga della legittimazione ad operare della squadra comune, da
parte dell’autorità giudiziaria.
Il comma 6 prevede che la squadra investigativa
comune sia sottoposta alla direzione del pubblico
ministero. Esso mira ad attuare l’art. 1, comma 3,
della decisione quadro, nella parte in cui, alla lett.
b), prevede che la squadra operi “in conformità del
diritto dello Stato membro in cui interviene”. Invero, nel caso in cui la squadra investigativa operi
sul territorio dello Stato, in applicazione dell’ordinamento processuale interno, dovrà trovare applicazione il principio di cui all’art. 327 c.p.p., per cui
“il pubblico ministero dirige le indagini e dispone
direttamente della polizia giudiziaria”.
Il comma 7 specifica che, nel caso previsto dall’art.
2, comma 3 (sussistenza di più indagini facenti capo a diversi uffici del P.M.), il pubblico ministero,
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sotto la cui direzione opera la squadra, è indicato
nell’atto costitutivo.
L’art. 5, al comma 1, disciplina lo status e la responsabilità penale dei membri distaccati che operano nel territorio dello Stato, prevedendo che essi
assumono la qualifica di pubblici ufficiali, agli effetti della legge penale, e che ad essi sono attribuite le funzioni di polizia giudiziaria nel compimento
delle attività di indagine loro assegnate.
Il comma 2 prevede che il pubblico ministero che
dirige la squadra investigativa comune può, per ragioni particolari e con provvedimento motivato,
escludere dal compimento di singoli atti sul territorio italiano i membri distaccati, in conformità a
quanto previsto dall’art. 1, par. 5, della decisione
quadro. Invero, l’atto costitutivo presenta una spiccata valenza negoziale, sicché, salva diversa previsione, i membri della squadra investigativa comune
designati dalla competente autorità di uno Stato
membro possono partecipare agli atti di indagine
da compiere sul territorio dello Stato italiano, nonché all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità
giudiziaria, fermo restando che rimane, in capo al
titolare delle indagini del Paese ospitante, il potere
di esclusione dei membri esterni dal compimento
di singoli atti.
L’art. 6 disciplina il regime di utilizzazione delle informazioni investigative e degli atti di indagine.
In particolare, il comma 1 prevede che la squadra
investigativa comune agisca sul territorio dello Stato in base alla legge italiana, conformemente all’art. 1, par. 3, della decisione quadro, nella parte
in cui, alla lett. b), stabilisce che essa operi “in
conformità del diritto dello Stato membro in cui
interviene”.
Il comma 2 prevede che, ai sensi dell’art. 431
c.p.p., nel fascicolo per il dibattimento entrano a
far parte i verbali degli atti non ripetibili posti in
essere dalla squadra investigativa comune.
Quanto al regime degli altri atti ripetibili, il comma 3 precisa che essi hanno la stessa efficacia dei
corrispondenti atti regolati dalla legge processuale
italiana. L’attribuzione dell’efficacia non significa,
però, che tali atti siano direttamente ed automaticamente utilizzabili nel processo penale dinnanzi
all’autorità giudiziaria italiana, ma soltanto che sono suscettibili di essere valutati, alla stregua degli
ordinari parametri probatori, ai fini dell’utilizzabilità processuale.
Il comma 4 prevede, in pedissequa attuazione dell’art. 1, par. 10, della decisione quadro, un regime
di limitata utilizzabilità delle informazioni legalmente ottenute da un membro o da un membro di-
1012
staccato durante la sua partecipazione a una squadra investigativa comune e non altrimenti disponibili per le autorità competenti dello Stato membro
sul cui territorio sono state assunte.
Il comma 5, in particolare, attribuisce al procuratore della Repubblica, che ha costituito la squadra, la
facoltà di richiedere all’autorità degli altri Stati
membri coinvolti di ritardare, per fini investigativi
e processuali diversi da quelli indicati nell’atto istitutivo, l’utilizzazione delle informazioni ottenute
dai componenti della squadra e non altrimenti disponibili, se essa può pregiudicare indagini o procedimenti penali in corso nello Stato, per un tempo
non superiore a sei mesi.
In modo speculare, il comma 6 prevede che il procuratore della Repubblica osserva, nei limiti di
tempo di cui al comma 5, le condizioni richieste
dall’autorità degli altri Stati membri per l’utilizzazione delle informazioni di cui al medesimo comma
1 per fini investigativi e processuali diversi da quelli indicati nell’atto costitutivo della squadra investigativa comune.
L’art. 7, in materia di responsabilità civile per danni, al comma 1 limita la responsabilità dello Stato
italiano ai soli danni causati dai propri componenti
della squadra investigativa comune e derivanti dalle attività della squadra stessa.
Al comma 2, si prevede il principio per cui, se i
componenti italiani della squadra hanno causato
danni a terzi nel territorio di un altro Stato membro, lo Stato italiano rimborsa integralmente a
quest’ultimo le somme dal medesimo anticipate per
ristorare il danno subìto dalle parti lese.
In modo speculare, al comma 3, è previsto un meccanismo di rivalsa dello Stato italiano, che abbia
provveduto al risarcimento dei danni causati dal
componente del membro distaccato in territorio
italiano, limitatamente ai danni derivanti dallo
svolgimento della attività della squadra investigativa comune, nei confronti dello Stato di appartenenza.
L’art. 8 contiene la clausola di copertura finanziaria, indicando gli oneri derivanti dall’attuazione
del provvedimento e i mezzi per farvi fronte.
Riflessioni conclusive
Il conseguimento delle finalità previste dalla
fonte sovranazionale
Il regime di limitata utilizzabilità delle informazioni
legittimamente ottenute dai componenti della
squadra (art. 6 del decreto legislativo in commento) si pone come cartina di tornasole dell’utile
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marginale che l’intervento normativo riuscirà ad
assicurare. Certo è che la possibilità di fare uso delle informazioni ottenute dalla squadra per scongiurare una minaccia immediata e grave alla sicurezza
pubblica (art. 6, lett. c), nonché per altri scopi
concordemente stabiliti dagli Stati costituenti la
squadra investigativa (art. 6, lett. d), lascerà spazi
notevoli di manovra agli Stati membri. Tale ultima
disposizione, in particolare, funge da clausola di
chiusura, consentendo ampia libertà agli Stati nell’uso delle informazioni raccolte per effetto dell’attività di indagine svolta di comune accordo.
Quanto ad utilizzabilità processuale, nel nostro ordinamento, degli atti di indagine compiuti all’estero dai membri della squadra investigativa comune,
punto di partenza è la scelta del legislatore europeo
di adottare il principio della lex loci (art. 1, comma
3, della decisione quadro 2002/465/GAI); principio
fatto proprio anche dal legislatore italiano, che all’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 34/2016, prevede che
“la squadra investigativa comune opera sul territorio dello Stato in conformità alla legge italiana”.
Ne discende che - quantomeno per gli atti di indagine compiuti in Italia sulla base della legge italiana - non dovrebbero porsi problemi di utilizzabilità
nel nostro ordinamento. Più incerto appare il destino degli atti di indagine compiuti all’estero dai
membri della squadra: all’art. 6, comma 2, si prevede che i verbali degli atti irripetibili possano entrare nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art.
431 c.p.p. Il che conferisce particolare efficacia dimostrativa agli atti di indagine compiuti oltre confine. Quanto agli atti ripetibili, l’art. 6, comma 3,
sembra ammettere un’indiscriminata utilizzabilità
di quegli atti compiuti all’estero congiuntamente
con l’autorità straniera o nell’ambito delle squadre
comuni, che si prevedeva avessero “la stessa efficacia degli atti corrispondenti compiuti secondo le
norme del codice di procedura penale”. La disposizione, così formulata, suggerisce una totale parificazione tra gli atti di indagine compiuti in Italia, secondo la legge italiana, e quelli compiuti all’estero,
sulla base della lex loci. Tuttavia, pur consapevoli
dell’assoluta necessità di favorire la libera circolazione della prova penale nello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, non si può prescindere
dal rispetto dei principi fondamentali del nostro
ordinamento, nonché dall’osservanza di alcune regole cardine in materia di raccolta e formazione
della prova, con particolare riferimento alle regole
volte a tutelare i diritti fondamentali dei soggetti
coinvolti nel procedimento penale. L’utilizzabilità
processuale interna di ogni tipo di prova raccolta
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dalla squadra comune passa, pertanto, necessariamente attraverso il vaglio di compatibilità con la
normativa processuale domestica in materia probatoria. I risultati probatori degli atti di indagine
compiuti all’estero dai membri della squadra sono
quindi utilizzabili, ma “secondo la legge italiana”.
Ne discende che tali atti non saranno automaticamente utilizzabili in un processo penale in corso in
Italia, ma dovranno costituire oggetto di vaglio da
parte dell’autorità giudiziaria, sulla base degli ordinari parametri di ammissione, acquisizione e valutazione probatoria. Questa soluzione, che appare
l’unica costituzionalmente compatibile, comporta
tuttavia il rischio di determinare la sostanziale inutilizzabilità dello strumento ove l’autorità giudiziaria attivi filtri molto rigidi di valutazione della
compatibilità processuale. L’opzione alternativa di
procedere alla previa individuazione di modalità
condivise di acquisizione probatoria, già con l’accordo costitutivo ed, in particolare, col “piano d’azione operativo”, previsto dall’art. 4, comma 3, è
stata scartata, giacché non avrebbe comunque garantito il successo processuale, attesa l’autonomia
di valutazione che caratterizza ogni decisione della
giurisdizione rispetto a quella assunta nella precedente fase, soprattutto se meramente investigativa.
2. Uno sguardo al panorama complessivo.
Il D.Lgs. n. 34/2016 si inserisce in un contesto normativo europeo decisamente mutato rispetto al
2002, anno in cui fu adottata la decisione quadro
oggi recepita. Nel corso degli ultimi anni, infatti,
l’UE ha cercato di far fronte alla globalizzazione
del crimine con una serie di misure volte a rafforzare la cooperazione giudiziaria e di polizia tra Stati
membri. In particolare, nell’ottica di una sempre
maggiore fiducia reciproca, si è assistito ad una
proliferazione di strumenti di reciproco riconoscimento delle decisioni penali, che hanno talvolta
raggiunto risultati considerevoli (si pensi alla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto
europeo). Più recentemente, il legislatore europeo
ha inteso applicare la logica del reciproco riconoscimento anche alla materia della circolazione delle prove penali. Il progetto si è concretizzato con
l’adozione della Dir. 2014/41/UE sull’ordine europeo di indagine penale: si tratta di uno strumento
di acquisizione probatoria transnazionale, non ancora recepito nell’ordinamento interno, dotato di
un campo di applicazione esteso a tutte le misure
investigative ad eccezione delle osservazioni transfrontaliere e della costituzione di una squadra investigativa comune, con la conseguenza che il recepimento in Italia della suddetta direttiva non
1013
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modificherà il regime relativo all’istituzione delle
squadre comuni. In realtà, la disciplina dell’ordine
europeo di indagine penale tornerebbe applicabile
nel caso in cui servisse l’assistenza di uno Stato
membro non partecipante alla squadra; proprio per
questo motivo, non aver recepito l’art. 1, comma
8, della decisione quadro 2002/465/GAI, che regolamenta questa specifica ipotesi, costituisce il principale rimpianto per l’occasione perduta.
È evidente che il regime di utilizzabilità delle prove
allogene nell’ordinamento del foro costituisce il
problema cardine di ogni normativa che abbia
l’ambizione di disciplinare la materia della circolazione delle prove penali raccolte nel contesto di
investigazioni transnazionali. Resta quindi pressante l’esigenza di riflettere sulla necessità, per gli Stati membri, di intraprendere una seria opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia
di prove penali. Operazione, questa, resa possibile
dall’art. 82, par. 2, lett. a), TFUE, quale unico modo per risolvere in modo effettivo e non frammentario la questione dell’utilizzabilità delle prove allogene. Solo superando la profonda eterogeneità delle normative processuali dei vari Stati membri,
quanto meno in ordine ai criteri di ammissibilità,
si potrebbe infatti garantire la piena efficacia dell’attività delle squadre investigative comuni.
Dall’analisi dei flussi di lavoro in materia di rogatorie internazionali estrapolati dalla banca dati della
Direzione Nazionale Antimafia, si evince che, relativamente al periodo luglio 2014 - giugno 2015, il
numero di rogatorie attive inoltrate dalle Direzioni
Distrettuali Antimafia è particolarmente cospicuo
(circa 150, in totale).
Tenuto conto del fatto che i procedimenti cui si riferiscono le rogatorie sono in molti casi transfrontalieri, ossia relativi a fatti criminali concernenti
l’Italia ed altro Stato membro (o più Stati membri), è ipotizzabile la costituzione di squadre investigative comuni, secondo una stima minimalista,
in almeno 15 procedimenti investigativi per anno,
favorita dal funzionamento dei meccanismi nazionali e sovranazionali di coordinamento.
1014
Quanto alle proiezioni di medio e lungo periodo rispetto ai vantaggi per la collettività, appare certa
la positiva incidenza dell’introduzione delle squadre sul tessuto produttivo, in termini di beni sequestrati e confiscati, di migliore funzionalità della
macchina giudiziaria e della pubblica amministrazione, più in generale. Sebbene non siano possibili
proiezioni precise sul punto, va tenuto presente
che vantaggi indiretti per la collettività potranno
derivare dalla prevedibile riduzione dei tempi di
svolgimento di indagini transfrontaliere, dalla migliore qualità dell’accertamento probatorio, ove le
squadre siano opportunamente congegnate e composte e dalla possibilità di attingere a finanziamenti
disponibili a livello dell’UE. Sarà inoltre certamente possibile scambiare meglio informazioni direttamente tra membri della squadra, senza dover ricorrere a richieste ufficiali; come pure richiedere misure investigative direttamente tra membri della
squadra, senza necessità di accedere a misure rogatoriali, il che ha valenza anche per le richieste di
misure cautelari coercitive. Sarà infine possibile
per i membri presenziare a perquisizioni domiciliari, audizioni, confronti, individuazioni, accesso a
documenti finanziari, in tutte le giurisdizioni partecipanti, il che contribuirà certamente a superare le
barriere linguistiche che sempre si formano in occasione di tali atti. Ancora, sarà possibile coordinare iniziative in loco e scambiare conoscenze specialistiche a livello informale, sviluppare e promuovere una fiducia reciproca tra operatori di giurisdizioni e ambienti di lavoro diversi, utilizzare la migliore piattaforma possibile per definire le strategie ottimali di investigazione e di perseguimento dell’azione penale, godere della partecipazione di Europol ed Eurojust, con loro assistenza ed appoggio diretto.
Conclusivamente, si deve riconoscere che la partecipazione alla squadra investigativa comune accresce il livello qualitativo delle indagini e ne favorisce l’efficacia funzionale al processo.
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Misure cautelari
Reciproco riconoscimento
e “misure alternative” alla
detenzione cautelare
di Donatello Cimadomo (*)
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, rappresenta un ulteriore passo in avanti della cooperazione
giudiziaria e di polizia ed è, altresì, uno strumento potenzialmente idoneo ad evitare disparità di
trattamento in ragione di un dato meramente fattuale, costituito dalla presenza della persona
raggiunta da misura cautelare in uno Stato membro diverso da quello in cui si celebra il processo a suo carico. La previsione di misure alternative alla detenzione cautelare ha il primario obiettivo di considerare la limitazione della libertà personale come extrema ratio e, quindi, di rafforzare la presunzione di innocenza.
Decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009
Sull’applicazione tra gli Stati membri dell’UE del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36
G.U. 11 marzo 2016, n. 59 (in vigore dal 26 marzo 2016).
Riferimenti
C.p.p. artt. 281-283; L. n. 69/2005, art. 22.
La decisione quadro 2009/829/GAI
Premessa
La decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio,
del 23 ottobre 2009, sull’applicazione tra gli Stati
membri dell’UE del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla
detenzione cautelare enfatizza il principio del reciproco riconoscimento che, come espressamente
previsto dal Considerando n. 2, deve applicarsi anche alle decisioni che applicano misure cautelari
nel corso del procedimento cautelare (1).
Il contesto di riferimento della decisione quadro
è, dunque, sensibilmente diverso da quello proprio
dei provvedimenti dotati del carattere della definitività e prende in considerazione la necessità
che il “vivere in sicurezza” dei cittadini in generale non venga compromesso nell’ipotesi in cui alla
persona sottoposta a procedimento sia consentita
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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la “libera circolazione” in quanto non in stato di
“detenzione cautelare”, così come stabilisce il
Considerando n. 3.
I principi e gli obiettivi tra esigenza di difesa
sociale e principio del minor sacrificio della
libertà personale
L’obiettivo della sorveglianza negli Stati membri
dell’UE dei movimenti di una persona sottoposta a
procedimento penale impone la ricerca di un punto di equilibrio tra l’obiettivo della protezione dei
cittadini - che la decisione quadro, al Considerando
n. 3, definisce “preminente” - e la tutela del diritto
alla libertà nonché il rispetto della presunzione di
innocenza.
Le misure previste dalla decisione quadro
2009/829/GAI sono, infatti, dichiaratamente
orientate alla promozione, “ove opportuno, del ricorso a misure non detentive come alternativa alla
(1) In GUUE, 11 novembre 2009, L 294/20.
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detenzione cautelare, anche quando, a norma della
legislazione dello Stato membro interessato, la detenzione cautelare non potrebbe essere disposta ab
initio” (Considerando n. 4); e si aggiunge - rimarcando la scelta della detenzione cautelare come extrema ratio - che “per quanto concerne la detenzione di persone sottoposte a procedimento penale,
esiste il rischio di una disparità di trattamento tra
coloro che risiedono e coloro che non risiedono
nello Stato del processo: la persona non residente
nello Stato del processo corre il rischio di essere
posta in custodia cautelare in attesa di processo,
laddove un residente non lo sarebbe. In uno spazio
comune europeo di giustizia senza frontiere interne
è necessario adottare idonee misure affinché una
persona sottoposta a procedimento penale non residente nello Stato del processo non riceva un trattamento diverso da quello riservato alla persona
sottoposta a procedimento penale ivi residente”
(Considerando n. 5) (2).
Ispirata dalla medesima ragion d’essere è la previsione secondo la quale “si potrebbe ricorrere, se del
caso, al monitoraggio elettronico per sorvegliare le
misure cautelari, conformemente alla legislazione e
alle procedure nazionali” (Considerando n. 11), anche se subito dopo si ha modo di puntualizzare che
“sebbene la presente decisione quadro riguardi tutti
i reati e non sia limitata a quelli di una data tipologia o gravità, le misure cautelari dovrebbero di
norma applicarsi ai reati meno gravi. Tutte le disposizioni della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, ad eccezione dell’articolo 2,
paragrafo 1, dovrebbero quindi applicarsi quando
l’autorità competente dello Stato di esecuzione
debba decidere in merito alla consegna dell’interessato. Pertanto, in tale caso dovrebbe applicarsi anche l’articolo 5, paragrafi 2 e 3, della decisione
quadro relativa al mandato d’arresto europeo”
(Considerando n. 13).
Si tratta della conferma di un regime cautelare europeo a velocità variabile, che fa salva la possibilità
del doppio binario processuale parametrato sul titolo di reato e legittimante, di conseguenza, uno
squilibrio del rapporto tra difesa sociale e garanzie
individuali, prevalendo sempre la prima sulle seconde in presenza di fattispecie di reato considerate meritevoli di differente “trattamento processua-
le”, come, ad esempio, nel caso dei reati di criminalità organizzata.
(2) Sul punto v. F.P.C. Iovino, Il procedimento cautelare, in
AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale
italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di L. Kalb, Torino, 2010, 419.
(3) Ad esso si affianca ovviamente lo “Stato di esecuzione”,
che è “lo Stato membro in cui le misure cautelari sono sorvegliate”, così come previsto dalla lett. d) dell’art. 4.
1016
Il genus “misure alternative alla detenzione
cautelare”
L’art. 4, lett. b), della decisione quadro
2009/829/GAI definisce le “misure cautelari” come
“gli obblighi e le istruzioni imposti a una persona
fisica conformemente al diritto interno e alle procedure dello Stato di emissione”, che è “lo Stato
membro in cui è stata emessa una decisione sulle
misure cautelari”, come previsto dalla successiva
lettera c) dello stesso articolo (3).
I “tipi di misure cautelari” sono elencati nell’art. 8,
par. 1, ovvero:
“a) obbligo della persona di comunicare ogni cambiamento di residenza all’autorità competente dello
Stato di esecuzione, in particolare al fine di ricevere la citazione a comparire a un’audizione o in giudizio nel corso del procedimento penale;
b) divieto di frequentare determinati luoghi, posti
o zone definite nello Stato di emissione o di esecuzione;
c) obbligo di rimanere in un luogo determinato,
eventualmente in ore stabilite;
d) restrizioni del diritto di lasciare il territorio dello
Stato di esecuzione;
e) obbligo di presentarsi nelle ore stabilite presso
una determinata autorità;
f) obbligo di evitare contatti con determinate persone in relazione con il o i presunti reati”.
Al paragrafo 2, poi, è precisato che ogni Stato
membro, in sede di attuazione della decisione quadro o in una fase successiva, comunica al segretario
generale del Consiglio le misure cautelari, oltre a
quelle di cui al paragrafo 1, che è disposto a sorvegliare; e si aggiunge che “le misure possono comprendere:
a) divieto di esercitare determinate attività connesse con il o i presunti reati, in particolare una
determinata professione o attività professionali in
un determinato settore;
b) divieto di guida di veicoli;
c) obbligo di depositare una data somma di denaro
o di fornire un altro tipo di garanzia, pagabile in
rate stabilite oppure in un’unica soluzione;
d) obbligo di sottoporsi a trattamento terapeutico
o di disintossicazione;
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e) obbligo di evitare contatti con determinati oggetti in relazione con il o i presunti reati” (4).
Le peculiarità delle singole misure “nazionali” ha
indotto il legislatore europeo a prevedere il loro
“adattamento” in sede di esecuzione: infatti, “se le
misure cautelari sono per loro natura incompatibili
con la legislazione dello Stato di esecuzione, l’autorità competente di quest’ultimo può adattarle ai tipi di misure cautelari che si applicano nella propria
legislazione a reati equivalenti. La misura cautelare
adottata corrisponde, il più possibile, alla misura
cautelare disposta nello Stato di emissione” (art.
13).
I tempi del recepimento
La decisione quadro in argomento indicava agli
Stati membri un termine (1° dicembre 2012) entro
il quale adottare le misure necessaria per conformarsi alle relative disposizioni.
Superfluo rilevare - tenuto conto dei “precedenti”
del legislatore italiano - che detto termine è stato
abbondantemente superato.
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36
La struttura
È il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, a contenere le
“Disposizioni per conformare il diritto interno alla
decisione quadro del Consiglio, del 23 ottobre
2009, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’UE
del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare” (5).
L’articolato normativo è composto di quattro capi
secondo lo schema classico adottato in occasione
del recepimento di altre decisioni quadro: al primo
capo (artt. 1-4) dedicato alle disposizioni generali,
seguono i Capi secondo (artt. 5-8) e terzo (artt. 916), classicamente ordinati in ragione della provenienza della trasmissione (“all’estero” e “dall’estero”) della decisione sulle misure cautelari, e, così,
l’ultimo - il quarto (artt. 17-18) - in merito alle
consuete disposizioni finanziarie ed alle norme applicabili “per quanto non previsto” dal decreto in
commento (6).
Le novità
L’art. 4 elenca le misure cautelari alle quali si applica il D.Lgs. n. 36 del 2016; esse sono:
(4) Cfr. F.P.C. Iovino, Il procedimento cautelare, cit., 423 s.
(5) In GU, 11 marzo 2016, n. 59.
(6) Per un’analisi, v. M.F. Cortesi, Reciproco riconoscimento
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a) obbligo di comunicare ogni cambiamento di residenza, in particolare al fine di assicurare la ricezione della citazione a comparire a un’audizione o
in giudizio nel corso del procedimento penale;
b) divieto di frequentare determinati luoghi, posti
o zone del territorio dello Stato di emissione o dello Stato di esecuzione;
c) obbligo di rimanere in un luogo determinato,
eventualmente in ore stabilite;
d) restrizioni del diritto di lasciare il territorio dello
Stato;
e) obbligo di presentarsi nelle ore fissate alla autorità indicata nel provvedimento impositivo;
f) obbligo di evitare contatti con determinate persone che possono essere a qualunque titolo coinvolte nel reato per il quale si procede;
g) divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali.
Il “catalogo” è ampio e consente alcune riflessioni.
I vincoli presi in considerazione riguardano tanto
la libertà personale, quanto l’esercizio di determinate attività professionali.
In particolare, le misure di cui alle lett. b), c), d)
e) ed f) limitano, infatti, la prima e sono, dunque,
del genus delle misure coercitive (artt. 281, 282,
282 bis, 282 ter e 283 c.p.p.) mentre quella di cui
alla lett. g) è propriamente una misura interdittiva
(art. 290 c.p.p.).
Sul punto va rilevato che non si coglie, però, la
perfetta coincidenza tra i tipi di vincolo comparati,
dal momento che con riguardo, ad esempio, all’obbligo di evitare contatti con determinate persone
di cui alla lett. f), esso appare avere una portata applicativa non limitata a talune fattispecie di reato,
come invece previsto dall’art. 282 bis c.p.p.
Il dato appena rilevato è uno dei primi profili problematici in sede di trasmissione dall’estero, laddove si prevede, all’art. 10, comma 2, del decreto in
commento, l’“adattamento” tenuto conto della natura e della durata della misura, che evoca il tema
della legalità cautelare di cui all’art. 272 c.p.p. Si
tratta, a ben vedere, di una estensione dei limiti alla libertà della persona e non tanto di adeguamento del vincolo cautelare.
A ciò si aggiunga che detti profili problematici sono piuttosto conseguenza della ibridazione dei vincoli in argomento, caratterizzati da logica di prevenzione pura e, perciò, ancorati al diverso requisito della pericolosità sociale.
delle misure alternative alla detenzione cautelare: il decreto in
G.U., in www.quotidianogiuridico.it.
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Quanto, invece, al vincolo menzionato dalla lettera a), può essere subito rilevato come quella in argomento non sia una vera e propria misura cautelare, quanto una singolare prescrizione processuale,
sulla quale si tornerà nel seguito del presente lavoro.
Il procedimento di trasmissione all’estero
Spetta all’ufficio del pubblico ministero presso il
giudice che ha emesso la decisione sulle misure
cautelari (individuabile ex artt. 279 e 310 c.p.p.),
la competenza (recte, la legittimazione) alla conseguente trasmissione all’autorità competente dello
Stato membro in cui l’interessato ha la propria residenza legale e abituale, quando l’interessato abbia
manifestato la volontà di fare rientro in quello Stato. Su richiesta dell’interessato, la trasmissione è
disposta in favore dell’autorità competente di uno
Stato membro diverso da quello della residenza legale e abituale, in cui voglia trasferirsi, e sempre
che detta autorità abbia prestato il consenso (art.
5, comma 1).
Immediatamente dopo la decisione sulle misure
cautelari e, quindi, dopo gli adempimenti previsti
dall’art. 92 disp. att. c.p.p., il pubblico ministero
ne cura la trasmissione all’estero; a corredo vi è il
certificato di cui all’allegato I del D.Lgs. n. 36 del
2016, ove si dà attestazione del consenso dell’interessato e, quando è richiesto, del consenso dell’autorità competente dello Stato di esecuzione (art. 5,
comma 2). Conseguentemente, la trasmissione per
l’esecuzione all’autorità competente di uno Stato
membro diverso da quello della residenza legale e
abituale dell’interessato, secondo quanto previsto
dall’art. 5, è preceduta dalla verifica del consenso
di tale autorità (art. 5, comma 3).
Se sono competenti le autorità di più Stati, la decisione è trasmessa alla autorità di un solo Stato di
esecuzione per volta (art. 5, comma 4), mentre se
ignota l’autorità competente dello Stato di esecuzione, l’autorità giudiziaria procedente compie gli
accertamenti necessari, anche tramite i punti di
contatto della rete giudiziaria europea (art. 5, comma 5).
Quanto alle condizioni per il riconoscimento, è
previsto che la trasmissione all’estero è disposta
immediatamente dopo la decisione sulle misure
cautelari, con l’indicazione del periodo di applica-
zione (art. 6, comma 1). Tale indicazione non può
che essere quella prevista ex lege per le misure cautelari diverse dalla custodia cautelare - il riferimento è a i termini di fase e massimi (art. 308
c.p.p.) (7)- ovvero quella indicata dal giudice competente quando si tratti di esigenze cautelari con finalità probatoria [artt. 274, lett. a), 292, comma 2,
lett. d), 301 c.p.p.] (8); fermo restando che la sospensione feriale dei termini ai sensi dell’art. 240
bis disp. att. c.p.p. non può essere presa in considerazione, non trattandosi di termini processuali.
Il pubblico ministero - dopo aver verificato gli
eventuali consensi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 5
- dispone la trasmissione della decisione sulle misure cautelari, corredata del certificato di cui all’allegato I al decreto in commento, ove si dà attestazione del consenso dell’interessato e, quando è richiesto, del consenso dell’autorità competente dello
Stato di esecuzione (art. 6, commi 2 e 3).
Se sono competenti le autorità di più Stati, la decisione è trasmessa alla autorità di un solo Stato di
esecuzione per volta (art. 6, comma 4).
Se è ignota l’autorità competente dello Stato di
esecuzione, l’autorità giudiziaria procedente compie
gli accertamenti necessari, anche tramite i punti di
contatto della rete giudiziaria europea (art. 6, comma 5).
In merito al procedimento, è previsto l’intervento
del Ministero della giustizia, al quale vengono inviati la decisione sulle misure cautelari, il provvedimento con cui è disposta la trasmissione ed il
certificato di cui all’allegato I al decreto debitamente compilato; il Ministero provvede, quindi,
all’inoltro, con qualsiasi mezzo che lasci una traccia scritta, all’autorità competente dello Stato di
esecuzione, previa traduzione del testo del certificato nella lingua di detto Stato (art. 7, comma 1).
Se la traduzione del certificato non è necessaria o
se a questa provvede l’autorità giudiziaria, il provvedimento può essere inviato direttamente all’autorità competente dello Stato di esecuzione; in tale
caso, esso è altresì comunicato, per conoscenza, al
Ministero della giustizia. La decisione sulle misure
cautelari e il certificato sono trasmessi in originale
o in copia autentica allo Stato di esecuzione che
ne fa richiesta (art. 7, comma 2).
A tutela della persona sottoposta a misura cautelare, si stabilisce che il pubblico ministero può ritira-
(7) Dovrebbe ritenersi che anche l’ordinanza di sospensione
dei termini di durata massima delle misure diverse dalla custodia cautelare (art. 304 c.p.p.) debba essere trasmessa all’estero.
(8) Ne consegue che è opportuna anche la trasmissione
dell’ordinanza con la quale viene disposta la rinnovazione della
misura disposta per le esigenze cautelari previste dall’art. 274,
lett. a), c.p.p.
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re il certificato, purché non abbia avuto inizio l’esecuzione all’estero, quando l’autorità competente
dello Stato di esecuzione comunica i termini di durata massima della sorveglianza delle misure cautelari previsti dalla legislazione di quello Stato e questi sono superiori a quelli delle corrispondenti misure previste dalla legge italiana. Allo stesso modo,
e sempre che l’esecuzione non abbia avuto inizio,
può provvedere quando riceve comunicazione che
l’autorità dello Stato di esecuzione ha assunto la
decisione di adattare le misure secondo la legislazione di quello Stato (art. 7, comma 3).
Del ritiro del certificato è data comunicazione all’interessato, al Ministero della giustizia, se questi
ha provveduto a curare la trasmissione, e all’autorità competente dello Stato di esecuzione, con indicazione dei motivi che l’hanno determinata, tempestivamente e comunque nei dieci giorni dalla decisione (art. 7, comma 4).
In caso di mancato riconoscimento della decisione
sulle misure cautelari, il Ministero della giustizia,
quando ne è direttamente informato, ne dà comunicazione all’autorità giudiziaria che ha emesso il
provvedimento di trasmissione all’estero (art. 7,
comma 5).
Il primo degli effetti del riconoscimento della decisione sulle misure cautelari da parte dello Stato di
esecuzione è che l’autorità giudiziaria italiana non
è più tenuta all’adozione dei provvedimenti necessari alla sorveglianza degli obblighi e delle prescrizioni impartiti, salvo nel caso di ritiro del richiamato certificato ai sensi dell’art. 7, comma 3 (art.
8, comma 1).
L’autorità giudiziaria italiana riassume l’esercizio
del potere di sorveglianza in conseguenza della comunicazione, ad opera dell’autorità competente
dello Stato di esecuzione, della cessazione della
propria competenza per l’esecuzione in ragione del
fatto:
a) che l’interessato non ha più la residenza legale e
abituale in quello Stato;
b) che, a seguito della modifica delle misure cautelari disposta dall’autorità giudiziaria italiana, manca una corrispondenza con quelle previste dalla legislazione di quello Stato;
c) che è scaduto il termine massimo di sorveglianza
delle misure cautelari stabilito dalla legislazione di
quello Stato (art. 8, comma 2).
Spetta all’autorità giudiziaria italiana la competenza a decidere in ordine alla proroga, alla revoca
della decisione sulle misure cautelari, alla modifica
degli obblighi e delle prescrizioni imposti e all’emissione di un mandato di arresto o di qualsiasi al-
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tra decisione giudiziaria esecutiva avente medesima
forza (art. 8, comma 3).
Il procedimento di trasmissione dall’estero
Più articolata si presenta la disciplina relativa al
procedimento di trasmissione dall’estero, caratterizzata dall’intervento dell’autorità giurisdizionale e
dalla verifica di questioni diverse da quelle che sono, invece, proprie del procedimento di trasmissione all’estero, in gran parte qualificato da profili di
mera esecutività del titolo che dispone il vincolo
cautelare.
La competenza a decidere sul riconoscimento e sulla sorveglianza di una decisione sulle misure cautelari adottata in altro Stato membro dell’Unione
appartiene alla corte di appello nel cui distretto la
persona interessata ha la propria residenza legale o
abituale o ha manifestato la volontà di trasferire la
sua residenza legale e abituale o, comunque di porre in quel luogo la sua dimora in vista dell’esecuzione delle misure cautelari (art. 9, comma 1).
Quando la corte di appello rileva la propria incompetenza, la dichiara con ordinanza e dispone la trasmissione degli atti alla corte di appello competente, dandone tempestiva informazione, anche tramite il Ministero della giustizia, all’autorità competente dello Stato di emissione (art. 9, comma 2).
La corte di appello riconosce la decisione sulle misure cautelari quando ricorrono congiuntamente le
seguenti condizioni:
a) la persona interessata ha la residenza legale e
abituale nel territorio dello Stato o ha manifestato
la volontà di ivi recarsi per porre la sua dimora in
vista dell’esecuzione delle misure cautelari;
b) il fatto per cui è stata emessa la decisione sulle
misure cautelari è previsto come reato anche dalla
legge nazionale, indipendentemente dagli elementi
costitutivi o dalla denominazione del reato, salvo
quanto previsto dall’art. 11 in merito alla doppia
punibilità;
c) la durata e la natura degli obblighi e prescrizioni
impartiti sono compatibili con la legislazione italiana, salva la possibilità di un adattamento nei limiti stabiliti dal comma 2 (art. 10, comma 1).
Se la natura o la durata degli obblighi e delle prescrizioni impartiti con le misure cautelari sono incompatibili con la disciplina prevista dall’ordinamento italiano per corrispondenti reati, la corte di
appello, dandone informazione all’autorità competente dello Stato di emissione, procede ai necessari
adeguamenti, con le minime deroghe necessarie rispetto a quanto previsto dallo Stato di emissione.
In ogni caso l’adeguamento non può comportare
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l’aggravamento, per contenuto o durata, degli obblighi e delle prescrizioni originariamente imposti
(art. 10, comma 2).
Sono anche indicate le deroghe alla doppia punibilità; in particolare, si fa luogo al riconoscimento,
indipendentemente dalla doppia incriminazione, se
il reato per il quale è chiesta la trasmissione è punito nello Stato di emissione con una pena detentiva o una misura privativa della libertà personale
della durata massima non inferiore a tre anni e si
riferisce a una di talune fattispecie (art. 11, comma
1) (9).
In tale caso, la Corte d’Appello accerta la corrispondenza tra la definizione dei reati per i quali è
richiesta la trasmissione, secondo la legge dello
Stato di emissione, e le fattispecie medesime (art.
11, comma 2).
Spetta alla corte di appello competente ai sensi
dell’art. 9 la ricezione delle richieste di riconoscimento di una decisione sulle misure cautelari proposte dall’autorità competente di un altro Stato
membro (art. 12, comma 1).
La corte di appello, anche tramite il Ministero della giustizia, può richiedere all’autorità competente
dello Stato di emissione l’invio di un nuovo certificato di cui all’allegato I del D.Lgs. n. 36 del 2016,
fissando a tal fine un termine congruo, in caso di
incompletezza del certificato trasmesso, di sua manifesta difformità rispetto alla decisione sulle misure cautelari o comunque di insufficienza del contenuto ai fini della decisione sul riconoscimento. Il
termine per la decisione resta sospeso sino alla ricezione del nuovo certificato (art. 12, comma 2).
La corte di appello decide senza formalità sull’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della richiesta entro il termine - non perentorio - di dieci
giorni dalla data di ricevimento della richiesta e
degli atti ad essa allegati (art. 12, comma 3).
La decisione di riconoscimento emessa dalla corte
di appello è trasmessa al procuratore generale per
l’esecuzione (art. 12, comma 4).
Contro la decisione della corte di appello può essere proposto ricorso per cassazione. Si applicano le
disposizioni previste dall’art. 22 della L. 22 aprile
2005, n. 69, in tema di mandato di arresto europeo
(art. 12, comma 5) (10).
In caso di proposizione del ricorso per cassazione, il
termine per il riconoscimento è prorogato di trenta
giorni (art. 12, comma 6).
Se, per circostanze eccezionali, non è possibile rispettare il termine per la decisione, il presidente
della corte di cassazione informa dei motivi, anche
tramite il Ministero della giustizia, l’autorità competente dello Stato di emissione. In questo caso il
termine è prorogato di venti giorni (art. 12, comma 7).
La decisione definitiva è immediatamente trasmessa al Ministero della giustizia che provvede a informarne le autorità competenti dello Stato di emissione (art. 12, comma 8).
La corte di appello può rifiutare il riconoscimento
della decisione sulle misure cautelari in uno dei seguenti casi:
a) se non sussiste una o più delle condizioni di cui
all’art. 10, comma 1;
b) se il certificato trasmesso dall’autorità competente dello Stato di emissione è incompleto o manifestamente non corrisponde alla decisione sulle
misure cautelari e non è stato completato o corretto entro il termine fissato ai sensi dell’art. 12, comma 2;
(9) Si tratta di: a) associazione per delinquere; b) terrorismo;
c) tratta di esseri umani; d) sfruttamento sessuale dei bambini
e pornografia infantile; e) traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope; f) traffico illecito di armi, munizioni ed
esplosivi; g) corruzione; h) frode, compresa la frode che lede
gli interessi finanziari delle Comunità europee ai sensi della
convenzione del 26 luglio 1995, relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; i) riciclaggio; l) falsificazione e contraffazione di monete; m) criminalità informatica;
n) criminalità ambientale, compreso il traffico illecito di specie
animali protette e il traffico illecito di specie e di essenze vegetali protette; o) favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno
illegali di cittadini non appartenenti a Stati membri dell’UE; p)
omicidio volontario, lesioni personali gravi; q) traffico illecito di
organi e tessuti umani; r) sequestro di persona; s) razzismo e
xenofobia; t) furti organizzati o con l’uso di armi; u) traffico illecito di beni culturali, compresi gli oggetti d’antiquariato e le
opere d’arte; v) truffa; z) estorsione; aa) contraffazione e pirateria in materia di prodotti; bb) falsificazione di atti amministrativi e traffico di documenti falsi; cc) falsificazione di mezzi di
pagamento; dd) traffico illecito di sostanze ormonali ed altri
fattori di crescita; ee) traffico illecito di materie nucleari e radioattive; ff) traffico di veicoli rubati; gg) violenza sessuale; hh)
incendio; ii) reati che rientrano nella competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale; ll) dirottamento di nave o
aeromobile; mm) sabotaggio.
(10) Così, il ricorso - anche per il merito - può essere proposto, entro dieci giorni, dalla persona interessata, dal suo difensore e dal procuratore generale presso la Corte d’Appello; e il
ricorso sospende l’esecuzione del provvedimento di riconoscimento. La corte decide con sentenza entro quindici giorni dalla ricezione degli atti, e le forme del procedimento sono quelle
previste dall’art. 127 c.p.p.; l’avviso è notificato o comunicato
alle parti almeno cinque giorni prima dell’udienza, mentre la
decisione è depositata a conclusione dell’udienza con motivazione contestuale o, in caso di impossibilità, la motivazione è
depositata entro cinque giorni dalla pronuncia. Copia del provvedimento è immediatamente trasmessa, anche a mezzo telefax, al Ministero della giustizia. Quando la corte annulla con
rinvio, gli atti vengono trasmesso al giudice di rinvio, il quale
decide entro venti giorni dalla ricezione.
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c) se risulta che il riconoscimento della decisione
sulle misure cautelari viola il divieto di sottoporre
una persona, già definitivamente giudicata, ad un
nuovo processo per i medesimi fatti;
d) per i reati non elencati nell’art. 11, se i fatti oggetto della decisione non sono previsti come reato
anche dalla legislazione italiana. L’esecuzione non
può essere rifiutata, in materia di tasse o di imposte, di dogana e di moneta, se la legislazione italiana non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte
o non contiene lo stesso tipo di disciplina in materia di tasse o di imposte, di dogana e di moneta,
della legislazione dello Stato di emissione;
e) se per i fatti per i quali la trasmissione dall’estero è stata chiesta si sia già verificata la prescrizione
del reato;
f) se sussiste una causa di immunità riconosciuta
dall’ordinamento italiano che rende impossibile
l’esecuzione;
g) se la misura è stata irrogata nei confronti di una
persona che, alla data di commissione del fatto,
non era imputabile per l’età, secondo la legge italiana (art. 13, comma 1).
Nei casi di cui al comma 1, lettere a), b) e c), la
corte di appello, prima di decidere di rifiutare il riconoscimento e la sorveglianza, consulta, anche
tramite il Ministero della giustizia, con qualsiasi
mezzo che lasci una traccia scritta, l’autorità competente dello Stato di emissione e richiede ogni informazione utile alla decisione (art. 13, comma 2).
In merito, in particolare, alla verifica della violazione del ne bis in idem, questa sarà rimessa anche
alla concreta efficienza del sistema di scambio fra
gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario e del sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS) (11).
Il primo degli effetti del riconoscimento è l’attribuzione della competenza (recte, legittimazione) per
la sorveglianza degli obblighi e delle prescrizioni
imposti con la decisione sulle misure cautelari al
procuratore generale presso la corte di appello che
ha deliberato; la disciplina è quella prevista dalla
legge italiana (art. 14, commi 1 e 2).
Ne deriva che all’autorità giudiziaria italiana non è
attribuita alcuna competenza in merito alla revoca
o all’aggravamento della misura cautelare, che è riservata all’autorità dello Stato di emissione.
Al procuratore generale - che si avvale della polizia
giudiziaria ai fini della sorveglianza, secondo il
principio sancito dall’art. 109 Cost. - è conseguentemente attribuito il compito di informare, anche
tramite il Ministero della giustizia, l’autorità competente dello Stato di emissione di qualsiasi inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni imposti
con la decisione sulla misura cautelare e di qualsiasi altro elemento tale da comportare l’adozione di
un provvedimento di revoca della decisione o di
modifica degli obblighi e delle prescrizioni imposti,
tramite il modulo di cui all’allegato II al decreto in
commento (art. 14, comma 3).
La competenza per la sorveglianza delle misure
cautelari cessa, dandone informazione all’autorità
competente dello Stato di emissione:
a) se l’interessato ha stabilito la residenza legale e
abituale in uno Stato diverso dallo Stato italiano;
b) se l’interessato, dopo la trasmissione della decisione sulle misure cautelari e del certificato da parte dello Stato di emissione, non si trova più sul territorio dello Stato italiano;
c) se l’autorità competente dello Stato di emissione
ha modificato gli obblighi e le prescrizioni delle
misure cautelari e, non corrispondendo più questi
alle misure previste dalla legislazione italiana, l’autorità italiana procedente ha rifiutato l’esercizio dei
poteri di sorveglianza;
d) quando sono scaduti i termini massimi, previsti
dalla legge italiana, per la sorveglianza delle misure
cautelari;
e) se l’autorità italiana procedente ha deciso di
porre fine alla sorveglianza, in caso di mancato riscontro alla comunicazione, nonostante la fissazione di un termine ragionevole, dell’inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni tale da comportare
il riesame, la revoca della decisione sulle misure
cautelari o la modifica degli obblighi e delle prescrizioni impartiti (art. 15).
È, infine, previsto che sono a carico dello Stato
italiano le spese sostenute nel territorio nazionale
per la sorveglianza sull’osservanza degli obblighi e
(11) Il rinvio è ovviamente al D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 74,
c o n t e n e n t e l’ “A t t u a z i o n e d e l l a d e c i s i o n e q u a d r o
2009/315/GAI, relativa all’organizzazione e al contenuto degli
scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario”, in vigore dal 4 giugno 2016 (in G.U., 20 maggio 2016, n. 117); in argomento, v. L. Kalb, Il sistema informativo giudiziario: il casellario e l’anagrafe, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher - A.
Marandola - G. Garuti - L. Kalb, IV, Impugnazioni. Esecuzione
penale. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, a cura di
L. Kalb, Torino, 2015, 778 s., e, se si vuole, D. Cimadomo, I casellari e l’anagrafe, in AA.VV., Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, VI, a cura di L. Kalb, Torino, 2009, 360
s.; Id., Il casellario giudiziario, AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, cit., 835 s.
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delle prescrizione imposti con la decisione sulle misure cautelari (art. 16).
Le garanzie della persona sottoposta a
procedimento tra poteri dell’autorità
giudiziaria, rimedi consentiti e sanzioni
processuali
È opportuno avanzare qualche considerazione, in
merito, in particolare, alle “misure cautelari” previste dall’art. 4.
Il principio di legalità, ricavabile dell’art. 272
c.p.p. e, prima ancora, dall’art. 13 Cost., appare
senza dubbio osservato, posto che il “catalogo” non
consente alcuna interpretazione estensiva (12); tuttavia si palesano profili di criticità, dal momento
che la misura cautelare prevista dalla lettera a) presenta peculiari caratteristiche.
A differenza, infatti, delle altre misure, le quali trovano perfetta corrispondenza nelle misure previste
dal codice di procedura penale, quella in argomento è un novum unicum dall’indubbia rilevanza.
Ciò che segna il percorso interpretativo sono la natura della “misura cautelare” de qua e la possibilità
che la prescrizione in essa contenuta elevi il singolare “vincolo” a limitazione non solo della libera
determinazione della persona, ma anche delle sue
scelte processuali, le quali dovrebbero essere, invece, governate da differente logica.
Non è inopportuno chiedersi se tale prescrizione
abbia una finalità di tipo meramente processuale,
connessa all’esigenza di rapido accertamento del
fatto penalmente o, meglio, all’obiettivo di prevenire gli eventuali “ostacoli” alla (formale) conoscenza del procedimento attraverso il meccanismo
delle notificazione; obiettivo, quest’ultimo, che appare essere considerato prevalente su quello di protezione dei cittadini - nel rispetto del diritto alla libertà e della presunzione di innocenza - sancito,
invece, expressis verbis dalla decisione quadro
2009/829/GAI.
Che il codice di procedura penale non contempli
una misura cautelare di contenuto analogo a tale
“vincolo”, è circostanza certamente indicativa, e
consente di rilevare come tale strumento celi una
forma di collaborazione coatta della persona sotto(12) Da ultimo v. A. Bassi, La cautela nel sistema penale. Misure e mezzi di impugnazione, Padova, 2016, 2 s.
(13) “Il pubblico ministero può ritirare il certificato, purché
non abbia avuto inizio l’esecuzione all’estero, quando l’autorità
competente dello Stato di esecuzione comunica i termini di
durata massima della sorveglianza delle misure cautelari previsti dalla legislazione di quello Stato e questi sono superiori a
quelli delle corrispondenti misure previste dalla legge italiana.
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posta a procedimento, non destinata a soddisfare
l’esigenza di cautela propria del decreto in commento e, prima ancora, dell’attuata decisione quadro.
Il profilo evocato è piuttosto quello relativo alle
notificazioni e, in particolare, alle regole previste
dall’art. 161, comma 1, c.p.p., che impone all’indagato di comunicare ogni mutamento del domicilio
dichiarato o eletto, mentre in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o
eleggere domicilio, le notificazioni vengono eseguite mediante consegna al difensore.
Nulla, però, è previsto in caso di inosservanza di
siffatta prescrizione, dovendosi ritenere che sia certamente inaccettabile immaginare aggravamenti
del trattamento cautelare.
Può essere proposta una considerazione ulteriore
con riguardo all’art. 7, comma 3 (13), che, a ben
vedere, prevede una tutela parziale della libertà
personale e dell’esercizio dei diritti della persona.
La disposizione in argomento non impone al pubblico ministero di ritirare il certificato, ma solo di
valutare tale eventualità, e soltanto finché non abbia avuto inizio l’esecuzione, con la conseguenza
che in caso di riconoscimento della decisione sulla
misura cautelare e dell’inizio dell’esecuzione all’estero, il vincolo cautelare potrebbe protrarsi per un
ulteriore periodo, in dispregio del titolo esecutivo
e, anche, della legislazione italiana.
Sembra, anzi, doversi rilevare che la limitazione
della libertà o dell’esercizio di un’attività sia addirittura sine titulo in relazione a tale ulteriore periodo e, comunque, non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, come previsto dall’art. 13
Cost.
Identica considerazione è da fare se l’autorità dello
Stato di esecuzione ha assunto la decisione di adattare le misure secondo la legislazione di quello Stato.
Ne deriva che occorrerebbe verificare quali possano essere i rimedi esperibili dalla persona destinataria della decisione, la quale - anche in forza del
principio di complementarietà di cui all’art. 18,
comma 1, del decreto (14)- dovrebbe avere la possibilità di dolersi dinanzi alla corte di cassazione
Allo stesso modo, e sempre che l’esecuzione non abbia avuto
inizio, può provvedere quando riceve comunicazione che l’autorità dello Stato di esecuzione ha assunto la decisione di adattare le misure secondo la legislazione di quello Stato”.
(14) “Per quanto non previsto dal presente decreto si applicano le disposizioni del codice di procedura penale e delle leggi complementari, in quanto compatibili”.
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ex art. 111, comma 7, Cost., mentre di improbabile
realizzazione è l’esperimento di un eventuale meccanismo impugnatorio nello Stato di esecuzione.
L’esigenza dell’effettiva tutela della persona sottoposta a procedimento imporrebbe di dubitare della
legittimità costituzionale di tale norma nella parte
in cui non prevede che il pubblico ministero abbia
l’obbligo di ritirare il certificato proprio nell’eventualità prima paventata, e ciò per l’evidente necessità di evitare disparità di trattamento, se si procede a confronto con analoga vicenda processuale
“interna” (art. 3 Cost.), nonché in ragione del fatto che la limitazione della libertà o dell’esercizio
dell’attività avrebbe luogo in un caso non previsto
dalla legge italiana e nemmeno in forza di un atto
motivato dell’autorità giurisdizionale (art. 13
Cost.).
Con riguardo, infine, alle cause di cessazione della
legittimazione per la sorveglianza delle misure cautelari in caso di trasmissione dall’estero, risalta tra
esse quella di cui alla lett. d) - “quando sono scaduti i termini massimi, previsti dalla legge italiana,
per la sorveglianza delle misure cautelari” - che è
certamente coerente con il sistema cautelare improntato alla riserva di legge e di giurisdizione (art.
13 Cost.) - a differenza di quanto previsto dall’art.
7, comma 3, che tollera, invece, la limitazione del-
Diritto penale e processo 8/2016
la libertà personale e dell’esercizio di diritti ultra fines quando la trasmissione della decisione sulle misure cautelari è disposta all’estero.
Riflessioni conclusive
Un ulteriore passo in avanti della
cooperazione giudiziaria e di polizia
L’intervento legislativo va accolto con favore: per
un verso, si persegue ulteriormente l’obiettivo di
conservare e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia che si è prefissa l’UE; per altro verso, si previene - come espressamente sottolineato
dal Considerando n. 5 della decisione quadro
2009/829/GAI - “il rischio di una disparità di trattamento tra coloro che risiedono e coloro che non
risiedono nello Stato del processo, dal momento
che la persona non residente nello Stato del processo corre il rischio di essere posta in custodia
cautelare in attesa di processo, laddove un residente non lo sarebbe”.
Peraltro, il provvedimento legislativo in commento
segna il rafforzamento della fiducia reciproca tra gli
Stati membri e costituisce occasione del ravvicinamento delle relative legislazioni, sebbene sia ancora lungo il cammino verso una disciplina europea
del processo penale.
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Sanzioni pecuniarie
L’attuazione della decisione quadro
sul reciproco riconoscimento
delle sanzioni pecuniarie
di Luigi Giordano (*)
La decisione quadro 2005/214/GAI ha esteso il principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, sul presupposto che, in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, non poter
eseguire all’estero le sanzioni pecuniarie leda la libera circolazione delle persone, pregiudicando
i diritti dei singoli e della collettività. In data 12 marzo 2016 è stato pubblicato il D.Lgs. n. 37
con cui detta decisione è stata attuata, seppur con molto ritardo rispetto ai tempi originariamente previsti. La nuova normativa si inserisce in un pacchetto di provvedimenti con cui sono state
recepite diverse decisioni quadro adottate nell’ambito del terzo pilastro dell’Unione, relativo alla
cooperazione giudiziaria in materia penale, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Decisione quadro 2005/214/GAI del consiglio del 24 febbraio 2005
Applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, in
G.U. dell’UE L 76/16, del 22 marzo 2005.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 37
G.U. 12 marzo 2016, n. 60 (in vigore dal 27 marzo 2016).
Modifiche
Non si rilevano modifiche al c.p.p.
Si rinvia all’art. 22, L. 22 aprile 2005, n. 69 (art. 11).
La decisione quadro 2005/214/GAI
Al fine di rafforzare la cooperazione giudiziaria e di
polizia all’interno dell’Unione, le istituzioni europee hanno accentuato negli anni il ricorso al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni
giudiziarie (1). Detto principio, com’è noto, è stato
espresso durante il Consiglio europeo di Cardiff del
15 e 16 giugno 1998 e sancito dalle conclusioni
del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 (2); successivamente ribadito nel programma dell’Aja del 4 e 5 novembre 2004 (3), è
ormai contenuto nell’art. 82 T.F.U.E (4).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) È stato osservato (G. Diotallevi, Sulla mediazione penale
e la giustizia riparativa, una sollecitazione europea per il legislatore nazionale, in E. Falletti - V. Piccone, (a cura di), Il nodo gordiano tra diritto nazionale e diritto europeo, 379) che, negli ultimi anni, gli Stati membri, piuttosto che dedicarsi ad un’opera
di armonizzazione delle legislazioni nazionali, che si è rivelata
difficile, hanno proceduto ad un ampio ricorso allo strumento
del mutuo riconoscimento che, di fatto, ha permesso di realizzare il medesimo risultato di incentivare la cooperazione in
campo giudiziario.
(2) Nel considerandum n. 3 della decisione è sottolineato
che, il 29 novembre 2000, il Consiglio ha adottato, conformemente alle conclusioni di Tampere, un programma di misure
per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale (2001/C 12/02), stabilendo come
priorità l’adozione di uno strumento che applichi proprio “il
principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie
(misura n. 18)”. Il programma è stato pubblicato sulla GUCE
del 15 gennaio 1999.
(3) Il programma è stato adottato dal Consiglio europeo del
4 e 5 novembre 2004. Elencava dieci priorità dell’Unione per
rafforzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia nei successivi cinque anni. Tra queste anche il completamento del programma di reciproco riconoscimento delle decisioni.
(4) L’art. 82 del Trattato sul funzionamento dell’UE stabilisce che “la cooperazione giudiziaria in materia penale nell’Unione è fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle
sentenze e delle decisioni giudiziarie e include il ravvicinamen-
Contenuti, principi, obiettivi e tempi
dell’avvenuto recepimento
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Per concretizzare il mutuo riconoscimento nel settore dell’esecuzione penale sono intervenuti diversi
provvedimenti tra i quali la decisione quadro
2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo; quella 2003/577/GAI, che concerne i provvedimenti di blocco dei beni e di sequestro probatorio; quella 2008/909/GAI del Consiglio del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del suddetto
principio alle sentenze penali che infliggono pene
detentive o misure restrittive della libertà personale (5); e quella 2008/947/GAI, che riguarda l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento
alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di
sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (6).
In questo contesto si pone pure la decisione quadro
2005/214/GAI del Consiglio del 24 febbraio 2005
sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, che è stata attuata dal D.Lgs. 16 febbraio
2016, n. 37, adottato in base all’art. 18, lett. c), L.
9 luglio 2015, n. 114 (7).
La decisione è volta all’introduzione di un meccanismo per l’esecuzione delle sanzioni pecuniarie
tramite una soluzione concordata fra gli Stati
membri e in un’ottica di reciproca fiducia, sulla base della considerazione secondo cui, in uno spazio
di libertà, sicurezza e giustizia, l’impossibilità di eseguire all’estero una sanzione pecuniaria determina
un vulnus alla libera circolazione delle persone,
con pregiudizio dei diritti e degli interessi dei singoli nonché della stessa collettività (8).
Come per ogni normativa di origine euro-unitaria,
le disposizioni iniziali, che contengono le norme
definitorie, assumono un ruolo centrale per comprendere l’area operativa del nuovo strumento.
Secondo l’art. 1, la decisione quadro
2005/214/GAI si applica ai provvedimenti giudizia-
ri definitivi che infliggono una sanzione pecuniaria
ad una persona fisica o giuridica e che sono adottati da uno Stato membro, definito “Stato della decisione”.
Lo stesso art. 1, par. 1, lett. a), punti i) e ii), precisa
che la decisione può essere emessa, a seguito di un
fatto che costituisce reato ai sensi della legislazione
di detto Stato, da un’autorità giudiziaria dello Stato oppure da un’autorità diversa da quella giudiziaria, purché, in questo secondo caso, alla persona
interessata sia stata data la possibilità di essere giudicata “da un’autorità giudiziaria competente, in
particolare, in materia penale”.
Il margine di azione del mutuo riconoscimento è
esteso dalle ulteriori fattispecie contemplate dalla
medesima disposizione ai punti iii) e iv). È definita
“decisione”, infatti, anche il provvedimento di
un’autorità dello Stato diversa da quella giudiziaria,
emessa a seguito di atti che sono punibili a norma
della legislazione di detto Stato a titolo di infrazioni a regolamenti (dunque, non per violazioni della
norma penale), “purché alla persona interessata sia
stata data la possibilità di essere giudicata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale” (9) nonché quella emessa “da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale”, qualora la decisione sia stata resa a
titolo di infrazioni a regolamenti.
Quest’articolata definizione della “decisione” deriva dalle profonde differenze esistenti all’interno dei
vari sistemi statali. In diversi ordinamenti europei,
a seguito della commissione di un reato, la sanzione pecuniaria può essere inflitta anche da organi
diversi da quelli giudiziari, come, ad esempio, da
autorità di polizia; dinanzi all’autorità giudiziaria
penale, inoltre, talvolta può essere impugnata anche una sanzione pecuniaria di natura non penale (10).
to delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati
membri nei settori di cui al paragrafo 2 e all’articolo 83”.
(5) Questa decisione è stata attuata dal D.Lgs. 7 settembre
2010, n. 161.
(6) Questa decisione è stata recepita di recente dal D.Lgs.
15 febbraio 2016, n. 38.
(7) Si tratta della legge di delegazione europea del 2014.
Questa legge, che deve essere presentata alle Camere entro il
28 febbraio, è approvata con cadenza annuale e reca le deleghe al governo per il recepimento di direttive ed altri atti dell’UE (artt. 29, comma 4, e 30 comma 2, L. 234 del 2012). Sulla
specifica legge di delegazione europea che ha portato all’attuazione della decisione quadro in tema di mutuo riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, si veda S. Monici, Legge di
delegazione europea 2014 (l. 9.7.2015, n. 114): le deleghe rilevanti in materia di diritto e procedura penale, in www.lalegislazionepenale.eu, 19 dicembre 2015, 1 ss.
(8) La cooperazione giudiziaria in tema di sanzioni pecunia-
rie, prima della decisione quadro, era assicurata dalla Convenzione europea sull’efficacia internazionale delle sentenze penali del 28 maggio 1970, entrata in vigore il 26 luglio 1974 e dall’Accordo di cooperazione in materia di infrazioni stradali, approvato dal Comitato esecutivo, con decisione del Comitato
esecutivo del 28 aprile 1999. Entrambi gli strumenti, però, ha
avuto una limitata rilevanza pratica a causa dello scarso numero di ratifiche.
(9) Sulle difficoltà derivanti dall’applicazione del reciproco
riconoscimento alle decisioni adottate dall’autorità amministrativa cfr. C. Amalfitano, Conflitti di giurisdizione e riconoscimento
delle decisioni penali nell’unione europea, Milano, 2006, 381.
(10) Ad esempio, in Svezia, le autorità competenti in materia fiscale o di polizia possono imporre direttamente la sanzione penale, qualora il sospettato ammetta la sua colpa ed accetti la multa, che potrà essere resa esecutiva se non sarà pagata volontariamente, purché non sia superiore ai duecentoventi euro per persona. Così, P. De Pasquale, Sul reciproco ri-
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L’estensione a sanzioni amministrative trova fondamento nel considerandum n. 2 della decisione, secondo cui il principio del mutuo riconoscimento si
deve applicare “alle sanzioni pecuniarie comminate
dalle autorità giudiziarie o amministrative”, e in
quello n. 4, nel quale è previsto che la decisione
quadro “dovrebbe includere anche le sanzioni pecuniarie comminate per infrazioni al codice della
strada”. Essa, inoltre, mira ad estendere il nuovo
strumento di mutuo riconoscimento al c.d. diritto
punitivo pubblico, peraltro già oggetto di cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri in forza della
convenzione di Bruxelles sull’assistenza giudiziaria
in materia penale del 29 maggio 2009.
La decisione quadro in esame, tuttavia, è stata
adottata nell’ambito del c.d. terzo pilastro, relativo
alla cooperazione giudiziaria tra gli stati membri,
prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Ciò ha imposto la previsione di una specifica
limitazione al mutuo riconoscimento delle sanzioni
pecuniarie emesse da autorità diverse da quella giudiziaria in senso stretto o comminate per violazioni
amministrative (11). Questa limitazione consiste
nel fatto che, in tanto il mutuo riconoscimento
può trovare applicazione anche delle sanzioni pecuniarie amministrative (o di quelle penali adottate da autorità diverse da quelle giudiziarie), in
quanto alla persona interessata sia assicurata la
possibilità di essere giudicata da un’autorità competente, in particolare, in materia penale. In altri termini, il dato decisivo per stabilire se una determinata sanzione rientra nell’ambito della cooperazione penale non è rappresentato dalla natura giudiziaria o meno dell’autorità che ha emesso il provvedimento (né, di conseguenza, dalla natura di illecito penale o meno della violazione), ma consiste
nella possibilità di impugnare il provvedimento dinanzi ad un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale (12).
Per “sanzione pecuniaria”, sempre secondo l’art. 1
della decisione quadro, si deve intendere “l’obbligo
di pagare una somma di denaro in seguito a condanna per un illecito imposta da una decisione”. È
definito sanzione pecuniaria anche “il risarcimento
delle vittime imposto nella decisione irrevocabile
di condanna”, ma soltanto “qualora la vittima non
sia parte civile nel processo e l’autorità giudiziaria
agisca nell’esercizio della sua competenza penale” (13). Costituisce sanzione pecuniaria, inoltre, la
somma di denaro da pagare per le spese dei procedimenti giudiziari o amministrativi connessi alla
decisione e quella da versare a favore di un fondo
pubblico o di organizzazioni di assistenza alle vittime, eventualmente imposta nella stessa decisione.
Esulano dalla nozione di sanzione pecuniaria, invece, “gli ordini di confisca degli strumenti o dei proventi di reato” e le “decisioni di natura civilistica
scaturite da un’azione di risarcimento di danni e di
restituzione” (14), provvedimenti per i quali sono
operativi diversi strumenti di cooperazione giudiziaria in ambito europeo.
Il destinatario della decisione di condanna può essere anche una persona giuridica. Si tratta di un
profilo molto delicato della norma europea, perché
alcuni ordinamenti giuridici non prevedono tale
forma di responsabilità o hanno provveduto ad introdurla solo in epoca recente. La soluzione scelta
dalla decisione quadro consiste nell’obbligo di attuare la sanzione anche per lo Stato di esecuzione
che non ammette il principio della responsabilità
penale delle persone giuridiche. In questo senso, si
comprende come il principio del mutuo riconoscimento dei provvedimenti produca anche una spinta verso l’armonizzazione delle legislazioni.
Ai sensi dell’art. 4 della decisione quadro, una decisione definitiva che infligge una sanzione pecuniaria può essere trasmessa direttamente dall’autorità competente dello Stato della decisione a quella
dello Stato membro in cui il destinatario dispone
conoscimento delle sanzioni pecuniarie tra gli stati membri dell’unione europea, in Dir. un. eur., 2007, 541.
(11) G. Iuzzolino, L’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, in AA.VV, Diritto penale
europeo ed ordinamento italiano, Milano, 2006, 125.
(12) Secondo Corte di Giustizia UE 14 novembre 2013, causa C-60/12, Mariàn Balàz, in A. Damato - P. De Pasquale - N.
Parisi, Argomenti di diritto penale europeo, Torino, 2014, 189,
la locuzione “autorità giudiziaria competente in particolare in
materia penale” non può essere lasciata all’apprezzamento di
ciascun Stato membro ed esige, invece, un’interpretazione
uniforme ed autonoma. In questa prospettiva, la natura di organo giurisdizionale presuppone una serie di caratteristiche
come il fondamento legale, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria
del procedimento, l’indipendenza e l’applicazione di norme
giuridiche, senza che sia richiesto che tale autorità disponga di
una competenza esclusivamente penale.
(13) È stato rilevato (P. De Pasquale, Sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie tra gli stati membri dell’unione
europea, cit., 541) che una misura “compensativa” di tale genere è prevista nei Paesi di common law ed è stata contemplata dalla decisione quadro in esame soltanto perché nel Regno
Unito ed in Irlanda ha natura penale, mentre in tutti gli altri
Paesi membri tale sanzione ha natura civile e rientra nell’ambito di applicazione del Reg. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
(14) S. Monici, Legge di delegazione europea, cit., 5.
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di beni o di un reddito, ha la sua residenza abituale
o, nel caso di una persona giuridica, ha la propria
sede statutaria. Il rapporto diretto tra le autorità
competenti è uno dei pilastri della cooperazione
giudiziaria europea.
La decisione deve essere corredata da un “certificato”, che consiste in un documento redatto secondo
un modello allegato alla norma europea, firmato
dall’autorità competente nello Stato della decisione, che deve attestare l’esattezza del suo contenuto (15). In questo documento, redatto nella lingua
ufficiale o in una delle lingue ufficiali dello Stato
di esecuzione (art. 16), lo Stato della decisione
può esprimere il proprio consenso all’eventuale applicazione di sanzioni alternative, tra cui pene privative della libertà, nel caso in cui la riscossione
della sanzione pecuniaria si rivelasse impossibile
(art. 10).
Per garantire l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento, per una serie di reati elencati
nella decisione stessa non è necessaria la verifica
della doppia punibilità del fatto (16).
Ai sensi dell’art. 5, par. 1, si tratta dei reati già previsti dalle decisioni in materia di mandato d’arresto
europeo, ai quali si aggiungono i seguenti ulteriori
illeciti: le infrazioni al codice della strada, alle norme sul trasporto di merci pericolose; il contrabbando di merci; la violazione dei diritti di proprietà intellettuale; le minacce e gli atti di violenza contro
le persone anche in occasione di eventi sportivi; il
danneggiamento; il furto; i reati stabiliti dallo Stato della decisione e contemplati nell’attuazione degli obblighi derivanti dagli strumenti adottati a
norma del trattato CE o del Titolo VI del trattato
UE.
L’ambito di esclusione del principio della doppia
punibilità, dunque, è sensibilmente più ampio di
quello del mandato d’arresto europeo e del mandato di sequestro europeo ed è disciplinata anche la
procedura per il successivo ampliamento di questo
spazio.
L’art. 5, par. 3, poi, dispone che lo Stato di esecuzione possa eseguire anche sanzioni pecuniarie per
i “reati diversi da quelli elencati nel paragrafo 1”,
subordinando il riconoscimento della decisione di
condanna alla condizione che si riferisca a una
condotta che costituirebbe reato ai sensi della legge dello Stato di esecuzione (c.d. doppia incriminabilità), “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla sua qualifica”.
L’autorità dello Stato di esecuzione riconosce la
decisione che le è trasmessa senza richiesta di ulteriori formalità e adotta tutti i provvedimenti necessari alla sua esecuzione.
Il rifiuto del riconoscimento della decisione di condanna da parte dello Stato di esecuzione, invece,
può avvenire per ragioni formali (“qualora il certificato di cui all’art. 4 non sia prodotto, sia incompleto o non corrisponda manifestamente alla decisione in questione”) e per le seguenti cause sostanziali: 1) esiste una decisione per gli stessi fatti nei
confronti della persona condannata (ne bis in idem)
nello Stato di esecuzione o in uno Stato diverso
dallo Stato della decisione o dallo Stato di esecuzione e, in quest’ultimo caso, la decisione ha ricevuto esecuzione; 2) la decisione si riferisce ad atti
che non costituirebbero reato nello Stato di esecuzione, ai sensi dell’art. 5; 3) la sanzione è prescritta,
secondo la legge dello Stato di esecuzione; 4) la
sanzione si riferisce ad atti considerati dalla legge
dello Stato di esecuzione come compiuti interamente o in parte nel suo territorio o come compiuti al di fuori dello Stato dello decisione e la legge
dello Stato di esecuzione non consente azioni penali per gli stessi reati quando sono compiuti al di
fuori del suo territorio; 5) esiste un’immunità ai
sensi della legge dello Stato di esecuzione che rende impossibile l’esecuzione della decisione; 6) la
sanzione non è valida perché inflitta ad un minore;
7) la persona interessata non è stata informata dei
fatti o non è stata posta in condizione di partecipare personalmente al giudizio (sul punto la decisione
quadro del 2005 è stata modificata dalla successiva
decisione quadro 2009/299/GAI che promuove
l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo); 8) la sanzione è inferiore a
euro 70.
L’art. 13 della decisione prevede che le somme ottenute in seguito all’esecuzione delle decisioni
spettano allo Stato di esecuzione, salvo diverso
(15) Il certificato costituisce una nuova species di ordine europeo o euro-ordinanza, trattandosi di un provvedimento tipico, i cui elementi costitutivi sono determinati dalla decisione
quadro e che è uniforme in tutti gli Stati membri (cfr. G. Iuzzolino, L’applicazione del principio del reciproco riconoscimento,
cit., 130).
(16) Nella versione in inglese, in verità, all’art. 5, par. 1 e 3,
la decisione quadro impiega il termine “offence” con il quale
non si allude solo ai reati, ma più in generale a violazioni o infrazioni. L’art. 1 della decisione quadro, del resto, non fa riferimento solo a sanzioni pecuniarie penali, ma anche a sanzioni
amministrative, purché, come si è visto, “alla persona interessata sia stata data la possibilità di essere giudicata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale”.
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accordo tra quest’ultimo e lo Stato della decisione (17).
Lo Stato della decisione non può trasmettere la decisione a più Stati dell’esecuzione (art. 4), né può
procedere all’esecuzione di una decisione che ha
trasmesso all’estero ai sensi dell’art. 4 (art. 15), salvo, in quest’ultimo caso, che sia stato informato
della mancata esecuzione totale o parziale o del
mancato riconoscimento dell’esecuzione (art. 15).
Il pagamento spontaneo da parte del condannato,
di cui va informato tempestivamente l’Autorità
competente dello Stato di esecuzione, invece, determina la necessaria estinzione della procedura.
Una previsione peculiare della decisione-quadro è
contenuta nell’art. 20, par. 3, secondo cui “ciascuno
Stato membro può, se il certificato di cui all’art. 4
solleva la questione di un’eventuale violazione dei diritti fondamentali o dei principi giuridici fondamentali enunciati nell’art. 6 dei trattati, opporsi al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni”. Si tratta
di una clausola di chiusura la quale non deve portare
all’introduzione di un controllo del giudice dello Stato dell’esecuzione sulla decisione emessa nello Stato
di emissione, che non può considerarsi compatibile
con il principio del mutuo riconoscimento.
La decisione è stata recepita con notevole ritardo.
Ai sensi dell’art. 20, par. 1, della stessa decisione
quadro, infatti, l’adozione da parte degli Stati
membri delle misure necessarie doveva intervenire
entro il 22 marzo 2007 (18). Il D.Lgs. 37 del 2016
fa parte di un “pacchetto” di nuove normative con
cui sono state attuate numerose decisioni quadro
in materia di cooperazione giudiziaria penale in base alle previsioni degli artt. 1 e 18 della legge di
delegazione europea 2014 (19). Le nuove disposizioni vanno coordinate con quelle del D.Lgs. 15
febbraio 2016, n. 31, che ha recepito la decisione
quadro 2009/299/GAI del 26 febbraio 2009, che
modifica le precedenti decisioni quadro
2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI,
2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento
Le novità; le autorità legittimate; il
procedimento; i poteri; le garanzie
Il D.Lgs. n. 37 del 15 febbraio 2016 si compone di
17 articoli suddivisi in 4 Capi.
Il Capo I, nel quale sono compresi gli articoli da 1
a 3, contiene le disposizioni generali. Esse definiscono le finalità del provvedimento, che consistono nell’attuazione nell’ordinamento interno della
decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del
24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni
pecuniarie nell’Unione europea. Sono quindi fissati i concetti rilevanti ai fini del mutuo riconoscimento. In particolare, oltre alle definizioni di “Stato della decisione” e di “Stato di esecuzione”, l’art.
2 contiene la definizione di “decisione”, stabilendo
che si deve trattare di un provvedimento irrevocabile e, dunque, non più impugnabile tramite mezzi
ordinari di ricorso, adottato:
1) da un’autorità giudiziaria, che ha emesso un
provvedimento penale di condanna;
2) da un’autorità diversa da quella giudiziaria, che
si è pronunciata in relazione a un fatto costituente
reato, “purché alla persona interessata sia stata data la possibilità di fare ricorso all’autorità giudiziaria penale”;
3) da un’autorità diversa dall’autorità giudiziaria,
che si è pronunciata in merito a una violazione
amministrativa, anche in questo caso “purché alla
persona interessata sia stata data la possibilità di fare ricorso all’autorità giudiziaria penale”;
4) da un’autorità giudiziaria che ha emesso una decisione in merito ad una violazione amministrativa, sempre però che ricorra la condizione dapprima
indicata (“purché alla persona interessata sia stata
data la possibilità di fare ricorso all’autorità giudiziaria penale”).
La prima e la seconda fattispecie riguardano sanzioni pecuniarie derivanti da condanne per fatti che
(17) Al contrario, come è stato già indicato, secondo l’art.
10, se lo Stato di esecuzione non riesce a riscuotere le somme
dovute, può applicare sanzioni alternative, tra cui pene privative della libertà, se la sua legislazione lo prevede e lo Stato della decisione l’ha consentito nel certificato di cui all’art. 4.
(18) L’art. 20, par. 3, peraltro, prevede che ciascuno Stato,
per un periodo non superiore a cinque anni poteva limitare
l’applicazione del mutuo riconoscimento delle sanzioni pecuniarie al solo art. 1, par. 1, lett. a), punti i) e iv) e, per quanto riguarda le persone giuridiche, alle decisioni che si riferiscono
ad una condotta per la quale uno strumento europeo prevede
l’applicazione del principio della responsabilità delle persone
giuridiche(19) In particolare, l’art. 18 della legge delega specificamente il Governo ad adottare, entro tre mesi dalla data di entrata
in vigore della legge delega e secondo le procedure di cui all’art. 31, commi 2, 3, 5 e 9, L. n. 234 del 2012, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per l’attuazione di un elenco di
decisioni quadro, tra le quali è compresa la decisione quadro
2005/214/GAI.
(20) M. Castellaneta, L’Autorità competente per il nostro
Paese è Via Arenula, in Guida dir., n. 18 del 30 aprile 2016, 89.
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alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo (20).
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 37
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costituiscono illeciti penali. La seconda ipotesi, che
ricalca sostanzialmente l’art. 1, par. 1, lett. a), punto
ii), della decisione quadro, non concerne provvedimenti adottati nell’ordinamento interno, nel quale
non è previsto che un’autorità diversa da quella giudiziaria possa applicare sanzioni pecuniarie giudicando un fatto costituente reato (21). Di conseguenza,
può riguardare solo decisioni provenienti dall’estero.
La terza e la quarta tipologia di decisione riguardano sanzioni pecuniarie che hanno natura amministrativa e che differiscono solo per il soggetto che
le ha emesse (nel primo caso un’autorità non giudiziaria; nel secondo, invece, un’autorità giudiziaria).
Lo stesso art. 2 del D.Lgs. n. 37 del 2016, poi, definisce la nozione di “sanzione pecuniaria” da intendersi come obbligo di pagare una somma denaro “a
titolo di pena irrogata a seguito di condanna”. A
questa ipotesi si affiancano ulteriori tre casi: 1) la
somma liquidata dal giudice con la sentenza di
condanna come risarcimento delle vittime, se le
stesse non si sono costituite parte civile nel processo penale; 2) la somma dovuta a seguito di condanna alle spese nei giudizi penali e amministrativi; 3)
la somma, stabilita sempre con la sentenza di condanna, da versare in favore di fondi pubblici o di
organizzazioni di assistenza alle vittime.
Su questa nozione di sanzione pecuniaria è necessario soffermarsi, perché potrebbe limitare l’area operativa del mutuo riconoscimento. In particolare, nella
parte in cui fa riferimento ad una somma di denaro
da pagare “a titolo di pena” - e, dunque, impiega il
termine “pena” - induce a ritenere che il meccanismo regolato dal decreto legislativo in esame concerna le sole condanne pecuniarie penali (22). In alternativa, dovrebbe ritenersi che il termine “pena”, di
cui all’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1), sia stato adoperato in modo generico, come sinonimo di sanzione, ovvero, in forza di un’interpretazione del dato
normativo interno “conforme” alla decisione quadro,
dovrebbe essere svilito il riferimento letterale alla
natura della sanzione e, al contrario, valorizzato il
profilo della possibilità di impugnazione dinanzi ad
un’Autorità giudiziaria. Su questo specifico aspetto,
peraltro, si ritornerà nel prosieguo.
Solo qualora le vittime non si sono costituite parte
civile nel processo penale, poi, è definita sanzione
pecuniaria anche la somma liquidata dal giudice
con la sentenza di condanna come risarcimento
delle stesse. Questa ipotesi, però, non riguarda condanne irrogate nel nostro Paese, ma solo fattispecie
di natura compensativa previste in altri Stati membri. Deve rilevarsi, infatti, che, se il danneggiato
dal reato non si è costituito parte civile, esercitando l’azione civile nel processo penale, il giudice penale non adotta alcuna statuizione di condanna al
risarcimento del danno.
Una considerazione analoga deve svolgersi anche
per la somma, stabilita sempre con la sentenza di
condanna, da versare in favore di fondi pubblici o
di organizzazioni di assistenza alle vittime: la sentenza di condanna al pagamento di una somma di
denaro a favore di enti accerta l’esistenza di un diritto di natura civilistica in capo a detto soggetto
che deve costituirsi parte civile nel processo.
Le autorità competenti vengono individuate dall’art. 3 nel Ministero della giustizia e nell’autorità
giudiziaria, secondo le rispettive attribuzioni disciplinate dallo stesso decreto legislativo.
Il Capo II disciplina la procedura “attiva”, cioè
quella da seguire ai fini del mutuo riconoscimento
quando la sanzione pecuniaria sia stata decisa in
Italia e debba essere eseguita in altro Stato dell’Unione europea (“trasmissione all’estero”).
In particolare, l’art. 4 individua nel pubblico ministero e, in modo specifico, in quello presso il tribunale che ha emesso la decisione sulle sanzioni pecuniarie o nel cui circondario ha sede l’autorità
amministrativa che si è pronunciata in merito a
detta sanzione amministrativa, l’organo competente a trasmettere la decisione sulla sanzione pecuniaria all’autorità dello Stato membro nel quale la
persona condannata risiede, dimora abitualmente,
dispone di beni o redditi o, nel caso delle persone
giuridiche, ha sede legale.
Dalla specificazione relativa alla competenza in caso di sanzioni amministrative si desume che la trasmissione all’estero possa riguardare anche sanzioni
pecuniarie che hanno questa natura (e dunque
non circoscritta a sanzioni pecuniarie penali). Appare opportuno, però, segnalare che sembra emergere un contrasto con quanto indicato all’art. 2,
comma 1, lett. b), norma nella quale, come si è appena visto, è specificato che la sanzione pecuniaria
è “una somma di denaro a titolo di pena irrogata a
seguito di condanna” (23).
(21) P. De Pasquale, Sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie tra gli stati membri dell’unione europea, 541.
(22) M. Castellaneta, L’Autorità competente per il nostro
Paese è Via Arenula, in Guida dir., n. 18 del 30 aprile 2016, 89.
(23) La difficoltà interpretativa, ovviamente, sfuma se si ritenesse che l’art. 2, comma 1, lett. b), usa in modo generico il
termine “pena”.
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La disposizione prevede la trasmissione diretta della sanzione: il rapporto diretto tra l’autorità, che
presuppone la reciproca fiducia, è uno strumento
di semplificazione, tipico del sistema del mutuo riconoscimento.
Quando la decisione sulla sanzione pecuniaria diviene definitiva, secondo l’art. 5 del decreto legislativo in esame, il pubblico ministero trasmette,
con qualsiasi mezzo che lasci una traccia scritta, alla competente autorità dello Stato di esecuzione la
decisione stessa ed il certificato contenente tutte
le informazioni rilevanti ai fini dell’esecuzione, debitamente tradotto. Per l’individuazione dello Stato di esecuzione, il pubblico ministero si può avvalere anche dei punti di contatto della rete giudiziaria europea.
Se la competenza per l’esecuzione è di più Stati, la
decisione può essere trasmessa solo a uno di essi alla volta.
L’art. 7 disciplina gli effetti del riconoscimento
della decisione sulla sanzione pecuniaria da parte
dello Stato estero che ha ricevuto la richiesta del
pubblico ministero italiano. In particolare, a seguito del riconoscimento, l’autorità italiana non può
più procedere all’esecuzione della sanzione, avendola rimessa all’autorità estera. Il potere di procedere all’esecuzione è riassunto dalle autorità nazionali nel caso in cui l’autorità estera comunica la
mancata esecuzione o l’esecuzione parziale ovvero
alla persona condannata è stata concessa l’amnistia
o la grazia. Quest’ultima ipotesi è prevista dall’art.
11 della decisione quadro che prevede l’eventualità
della concessione della grazia o dell’indulto sia dallo Stato della decisione, che dallo Stato di esecuzione. Nel nostro ordinamento, peraltro, alle ipotesi di grazia e amnistia occorrerebbe aggiungere anche quella di indulto.
L’art. 7, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 37 del 2016,
inoltre, prevede la riassunzione del potere di eseguire la sanzione pecuniaria da parte dell’autorità
italiana quando lo Stato di esecuzione rifiuta il riconoscimento. Quest’ultima disposizione appare
inutile perché il comma 1 dell’art. 7 già prevede
che tale potere di esecuzione venga meno solo a seguito del riconoscimento; conseguentemente, se il
riconoscimento è rifiutato, l’autorità italiana conserva il potere di procedere all’esecuzione.
Il Capo III, negli artt. da 8 a 15, disciplina la procedura “passiva”, cioè quella da seguire quando la
decisione sulla sanzione pecuniaria sia stata adottata in altro Stato UE e debba essere eseguita in Italia (“trasmissione dall’estero”).
L’art. 8 attribuisce la competenza al riconoscimento della decisione alla Corte d’Appello nel cui distretto la persona condannata risiede, dimora abitualmente, dispone di beni o di un reddito.
La Corte d’appello procede al riconoscimento se
sussiste una condizione di natura soggettiva, relativa alla persona che ha commesso il reato. Specificamente, occorre che la persona disponga sul territorio italiano di beni o di un reddito, ovvero vi risieda e dimori in modo abituale, o vi abbia la propria sede legale.
È necessario, poi, secondo l’art. 9, comma 1, lett.
b), che il fatto all’origine della decisione di condanna sia previsto come reato dal nostro ordinamento, “indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione”.
Per i reati espressamente elencati all’art. 10 del decreto legislativo, tuttavia, è esclusa la verifica della
c.d. doppia incriminazione (24). La norma, dunque, contiene il catalogo dei reati per i quali si prescinde da tale presupposto. Anche in tali ipotesi,
però, spetta comunque alla Corte d’Appello accertare la corrispondenza tra la fattispecie oggetto della decisione e l’elenco. All’elenco di reati, infine,
l’art. 10, comma 1, lett. tt), aggiunge, con una norma di chiusura, “i reati stabiliti dallo Stato della
decisione e contemplati nell’attuazione degli obblighi derivanti dagli strumenti adottati a norma dei
trattati UE” (25).
L’esame congiunto degli artt. 9 e 10 conduce alla
conclusione che, sebbene il mutuo riconoscimento
sia esteso dall’art. 2, comma 1, lett. a), anche a decisioni definitive di condanna, anche di autorità
non giudiziaria, di natura amministrativa, quando
la trasmissione proviene dall’estero, l’attuazione
della sanzione presuppone che sia stata irrogata per
un fatto che nel nostro ordinamento integra un
reato (in particolare, contemplato dal catalogo di
cui all’art. 10 oppure comunque previsto come reato dal nostro ordinamento, “indipendentemente
dagli elementi costitutivi o dalla denominazione”).
(24) Il D.Lgs. n. 37 del 2016 conferma l’abolizione del principio della doppia incriminazione (o doppia punibilità) per l’esecuzione delle decisioni penali degli Stati membri, introdotta
dalla Convenzione del 1996 sull’estradizione tra gli Stati membri e ribadita successivamente dalla decisione quadro
2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo che, come è no-
to, ha reso più agevole il riconoscimento degli esiti dell’attività
giurisdizionale estera.
(25) Sulla distinzione tra riconoscimento indiretto “exequatur” e diretto (o “automatico”), cfr. C. Amalfitano, Conflitti di
giurisdizione e riconoscimento delle decisioni penali nell’unione
europea, cit., 407.
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Anche su questo profilo, peraltro, si tornerà nel
prosieguo.
L’art. 11 delinea il procedimento da seguire a fronte di una richiesta di riconoscimento di una decisione emessa da uno Stato membro dell’Unione
europea, stabilendo che la richiesta - ovvero la decisione e il certificato tradotto in italiano - debba
essere indirizzata al Procuratore generale presso la
Corte d’Appello, che la trasmetterà alla Corte stessa. Se la documentazione fosse incompleta, attraverso il Ministero della giustizia, l’autorità giudiziaria può chiedere allo Stato di emissione delle integrazioni. Qualora tale Corte dovesse riscontare motivi di incompetenza, con ordinanza trasmette gli
atti alla Corte d’Appello competente e ne da comunicazione, anche tramite il Ministero della giustizia, all’autorità dello Stato di decisione.
La Corte d’Appello provvede sul riconoscimento
in camera di consiglio, nelle forme previste dall’art.
127 cod. proc. pen. entro venti giorni dalla presentazione della richiesta, prorogabili di ulteriori trenta in presenza di circostanze eccezionali. Avverso
la decisione della Corte d’Appello è proponibile,
entro dieci giorni, ricorso in cassazione da parte
del Procuratore generale, della persona condannata
e del suo difensore (26). Il ricorso non sospende
l’esecutività della decisione. La Corte di cassazione
si pronuncia entro trenta giorni dalla richiesta. Se
il riconoscimento della decisione è negato, sul presupposto che un altro è lo Stato competente, l’autorità italiana deve trasmettere d’ufficio gli atti allo
Stato di esecuzione.
L’art. 12, dando attuazione all’art. 7 della decisione
quadro, elenca i motivi di rifiuto del riconoscimento che, sembrano tutti facoltativi (27) e che possono consistere, oltre che nella mancanza del certificato che accompagna la decisione, nella carenza
del requisito della doppia punibilità ovvero nell’accertamento che la decisione è relativa a reati non
previsti nel nostro ordinamento e non riconducibili all’elenco dei gravi reati nel catalogo dell’art. 10
o, ancora, nel fatto che la decisione sia già stata
eseguita in Italia o in altro Stato o che la sanzione
pecuniaria prescritta. A tale ultimo proposito, va
rilevato che la prescrizione della pena è disciplinata dagli artt. 172 e 174 c.p. Secondo la prima disposizione, la pena della multa si estingue nel termine di dieci anni. Quando, congiuntamente alla
pena della reclusione, è inflitta la pena della multa,
però, per l’estinzione dell’una e dell’altra pena si
ha riguardo soltanto al decorso del tempo stabilito
per la reclusione. In caso di delitto non si ha prescrizione della pena per i recidivi, i delinquenti
abituali, professionali o per tendenza, ovvero se il
condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.
L’art. 173 c.p., invece, dispone che la pena dell’ammenda si estingue nel termine di cinque anni.
Tale termine è raddoppiato se si tratta di recidivi,
di delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
Alle predette ipotesi di rifiuto si aggiunge la sussistenza di una causa di immunità riconosciuta dall’ordinamento italiano ovvero l’irrogazione di una
sanzione pecuniaria comminata a colui che, al momento dei fatti, non era imputabile per età o che
la decisione è relativa a un soggetto che, per varie
ragioni, era impossibilitato a partecipare al relativo
giudizio (perché non informato o non comparso
per causa a lui non imputabile).
Conformemente alla c.d. clausola di territorialità,
costituisce motivo di rifiuto il fatto che la decisione sia relativa a fatti compiuti anche in parte nel
territorio italiano ovvero comunque fuori dello
Stato che ha emesso la decisione.
Non può essere data attuazione, inoltre, ad una
sanzione pecuniaria inferiore a euro settanta.
Tra i motivi di diniego del riconoscimento e dell’esecuzione, inoltre, va ricordata la clausola generale
di ordine pubblico e di garanzia del diritto di difesa
contenuta nell’art. 6 TUE. Infatti, all’art. 20, par.
3, della decisione quadro 2005/214/GAI è espressamente previsto che il reciproco riconoscimento
debba avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali
e dei principi di libertà, di democrazia e dello stato
di diritto.
Se la Corte d’appello riconosce la decisione che
applica una sanzione pecuniaria, l’esecuzione della
decisione compete al Procuratore generale presso
la Corte d’Appello.
L’art. 13 specifica che, se la sanzione pecuniaria è
più elevata rispetto al massimo consentito - in relazione allo specifico illecito - nel nostro ordinamento, la Corte d’Appello possa ridurre l’importo della
sanzione all’indicato importo massimo consentito.
In caso di impossibilità, anche parziale, di procedere alla riscossione, possono essere applicate sanzio-
(26) Avverso il riconoscimento è ammesso il ricorso per
Cassazione, analogamente a quanto già previsto dalla L. 22
aprile 2005, n. 69, in materia di esecuzione del mandato di ar-
resto europeo.
(27) M. Castellaneta, L’autorità competente, cit., 91.
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ni alternative solo se espressamente previsto nel
certificato che accompagna la decisione.
Le somme riscosse spettano allo stato di esecuzione, salvo diverso accordo con l’autorità competente dello Stato della decisione; lo stesso Stato italiano, ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs., sostiene le spese
per l’esecuzione della decisione.
Nella relazione illustrativa, al riguardo, è stato rilevato che “le statistiche ministeriali evidenziano un
grave stato di ineffettività della pena pecuniaria:
esse mostrano infatti che le pene pecuniarie vengono poco eseguite e convertite. Il dato percentuale
che ne scaturisce è che il riscosso non supera il
2,66%, con una perdita secca per le casse dello
Stato stimata in circa 600 milioni di euro”.
In base all’art. 14, l’esecuzione della decisione sulle
sanzioni pecuniarie deve cessare se viene meno l’esecutività della decisione stessa.
Il Capo IV, agli artt. 16 e 17, detta le disposizioni
transitorie e finali. In particolare, l’art. 16 contiene
l’ormai consueta clausola di invarianza finanziaria,
mentre l’art. 17 rimanda, per quanto non espressamente previsto dallo schema di decreto legislativo,
alle disposizioni compatibili del codice di procedura penale.
Riflessioni conclusive
Conseguimento delle finalità previste dalla
fonte sovranazionale recepita e profili di
criticità
Il D.Lgs. n. 37 del 2016, dunque, rappresenta
un’ulteriore “concretizzazione” del principio del
mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie
per realizzare, sulla base della reciproca fiducia,
non solo la piena attuazione dei principi di libertà
e di libera circolazione, ma soprattutto le imprescindibili esigenze di giustizia, consentendo di recuperare importi nei confronti di cittadini residenti
all’estero. Si vuole evitare che la residenza in un
diverso Stato dell’Unione sia condizione sufficiente
per eludere una sanzione pecuniaria e per continuare ad avvalersi del patrimonio, nonostante le
sanzioni irrogate.
È certamente ragionevole ritenere che, per mezzo
del nuovo meccanismo, possa aumentare la percentuale di riscossione delle sanzioni pecuniarie, che è
attualmente attestata su livelli molto bassi.
(28) Cfr. S. Monici, Legge di delegazione europea 2014, cit.,
La formulazione del decreto legislativo, però, genera talune incertezze quando si analizzano e si confrontano le definizioni che sono state impiegate.
L’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2, in particolare, ricalca l’art. 1, lett. a), n. ii), della decisione quadro,
facendo riferimento a sanzioni penali irrogate da
un’autorità diversa da quella giudiziaria. È stato osservato che nel nostro ordinamento non è consentito a un’autorità non giudiziaria di pronunciare in
relazione a un fatto costituente reato. La norma
nazionale, dunque, riproduce pedissequamente la
disposizione europea la quale, però, contiene un’ipotesi che riflette le peculiarità di altri ordinamenti europei (28). Questa disposizione, di conseguenza, sembra destinata a trovare applicazione solo per
il riconoscimento di provvedimenti stranieri.
Nell’ambito delle “decisioni”, inoltre, sono ricomprese non solo quelle che concernono sanzioni pecuniarie di natura penale, ma anche quelle comminate per violazioni amministrative, pure da un’autorità non giudiziaria, “purché alla persona interessata sia data la possibilità di fare ricorso all’autorità
giudiziaria”. L’estensione alle sanzioni amministrative va collegata ai consideranda n. 2 e 4 della decisione, che fanno riferimento alle sanzioni amministrative e, in particolare, a quelle per la violazione
del codice della strada.
La nozione di sanzione pecuniaria che è stata adottata, però, sembra limitare l’area operativa del mutuo riconoscimento alle sanzioni penali. In particolare, nella parte in cui fa riferimento a una somma
di denaro da pagare “a titolo di pena” - e, dunque,
impiega il termine “pena” - induce a ritenere che il
meccanismo regolato dal decreto legislativo in esame concerna soltanto le condanne pecuniarie penali (29). In alternativa, com’è stato evidenziato,
dovrebbe ritenersi che il termine “pena”, di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1), sia stato adoperato
in modo generico, come sinonimo di “sanzione”.
La difficoltà interpretativa si ripropone nella parte
del decreto legislativo in cui sono disciplinate, in
modo distinto, le procedure di riconoscimento attiva e passiva. La trasmissione all’estero, infatti, può
riguardare, secondo quando si desume dall’art. 4,
anche provvedimenti di un’autorità amministrativa
che si è pronunciata su una sanzione di tale natura.
L’ambito di applicazione del mutuo riconoscimento, nel caso di trasmissione dall’estero, invece, è
circoscritto ai reati di cui al catalogo contenuto
nell’art. 10 ovvero, in base all’art. 9, ai fatti che,
(29) M. Castellaneta, L’autorità competente, cit., 89.
5.
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indipendentemente dagli elementi costitutivi o
dalla denominazione, sia considerato come reato
nella legislazione nazionale.
In uno dei primi commenti che si sono soffermati
sul decreto legislativo, pur senza analizzare puntualmente questi aspetti, pertanto, è stato affermato che il decreto legislativo attua il principio del
reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie
legate esclusivamente ad una condanna penale (30). Da questa interpretazione, però, deriva che
la procedura in esame non sarebbe applicabile
quando la sanzione pecuniaria è stata comminata
per un’infrazione al codice della strada che non integra anche un reato. Si tratta di una conclusione
che contrasta con una delle finalità esplicitate della decisione quadro nei consideranda.
Le incertezze illustrate, in verità, riflettono analoga
situazione che ricorre quando si confronta l’art. 1
della stessa decisione quadro con il successivo art.
5. Anche in questo caso, infatti, all’allargamento
della decisione definitiva che infligge una sanzione
pecuniaria a quelle adottate a titolo di infrazione a
regolamenti contenuta nella prima disposizione, segue la limitazione dell’ambito di applicazione ai
“reati” contemplati nell’art. 5.
Al riguardo, però, va segnalato che nella versione
in inglese, all’art. 5, par. 1 e 3, la decisione quadro
impiega il termine “offence” con il quale non si designano solo i reati, ma in modo più ampio le violazioni o infrazioni.
La Corte di Giustizia, inoltre, ha affermato che, ai
sensi dell’art. 5, par. 1, l’ambito di applicazione
della decisione quadro comprende anche le “infrazioni al codice della strada”, precisando che tali infrazioni non sono soggette a trattamento uniforme
nei vari Stati membri, perché alcuni di essi le qualificano illeciti amministrativi, mentre altri come
illeciti penali. Questo profilo esclude che sia decisiva la qualificazione delle infrazioni da parte degli
Stati membri, dovendo, invece, preferirsi un’interpretazione in grado di garantire l’effetto utile della
decisione (31).
L’art. 1 della decisione quadro, del resto, non fa riferimento solo a sanzioni pecuniarie penali, ma anche a sanzioni amministrative, purché, come si è
visto, “alla persona interessata sia stata data la possibilità di essere giudicata da un’autorità giudiziaria
competente, in particolare, in materia penale”.
Quest’ultima condizione è stata ritenuta, in sede
europea, sufficiente a giustificare l’adozione di un
simile provvedimento che riguardava anche sanzioni amministrative, nell’ambito del terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria tra gli stati
membri, perché assicura all’interessato il conoscimento delle garanzia che operano nel procedimento penale (32).
Appare possibile prospettare, allora, un’interpretazione del decreto legislativo conforme alla decisione quadro (33), così come, a sua volta, interpretata
dalla Corte di Giustizia UE (34).
In particolare, l’art. 2 del D.Lgs. n. 37 del 2016,
nel definire la sanzione pecuniaria come una somma di denaro “a titolo di pena” irrogata a seguito
di condanna, non limita lo spazio operativo del
mutuo riconoscimento alle sole sanzioni penali, ma
farebbe riferimento anche a quelle amministrative,
pure se comminate da “una autorità diversa dall’autorità giudiziaria”, “purché alla persona interessata
sia stata data la possibilità di fare ricorso all’autorità giudiziaria”.
In questo modo, l’art. 4 del medesimo D.Lgs., che
permette la trasmissione all’estero anche di provvedimenti amministrativi non contrasta con la nozione di sanzione pecuniaria di cui all’art. 2.
In tema di trasmissione dall’estero, poi, gli artt. 9 e
10 del D.Lgs. n. 37 del 2006, interpretati alla luce
della decisione quadro, non escluderebbero il riconoscimento delle sanzioni pecuniarie irrogate con
provvedimenti di altro Paese membro di natura
amministrativa, dunque per fatti che non sono
“reati”, non dovendo riconoscersi particolare rilievo alla qualificazione giuridica della decisione irrevocabile che si esegue (amministrativa e non penale), sempre che ricorra il presupposto rappresentato
dalla possibilità per l’interessato di impugnare la
decisione dinanzi ad “un’autorità giurisdizionale
penale”. Basterebbe, insomma, che in caso di impugnazione siano assicurate all’interessato le medesime garanzie che operano nel procedimento pena-
(30) M. Castellaneta, L’Autorità competente, cit., 89.
(31) Corte di Giustizia UE 14 novembre 2013, causa C60/12, Mariàn Balàz, in A. Damato - P. De Pasquale - N. Parisi,
Argomenti di diritto penale europeo, cit., 190.
(32) A. Damato - P. De Pasquale, N. Parisi, Argomenti di diritto penale europeo, cit., 183.
(33) Sull’interpretazione conforme del diritto interno a quello euro-unitario, tra gli altri, si veda V. Manes, Metodo e limiti
dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia
penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 9 luglio 2012;
E. Aprile, I rapporti tra diritto processuale penale e diritto dell’Unione europea dopo la sentenza della corte di Giustizia sul caso
Pupino, in Cass. pen., 2006, 1165; F. Viganò, Recenti sviluppi in
tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in questa
Rivista, 2005, 1433.
(34) Corte di Giustizia UE 14 novembre 2013, causa C60/12, Mariàn Balàz, cit.
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le perché sia riconoscibile una sanzione pecuniaria
irrogata all’estero.
L’art. 2 del D.Lgs., poi, precisa che solo qualora le
vittime non si sono costituite parte civile nel processo penale, la sanzione pecuniaria può comprendere anche la somma liquidata dal giudice con la
sentenza di condanna come risarcimento delle stesse. Si tratta di una norma che ricalca fedelmente
la corrispondente disposizione della decisione quadro. È già stato rilevato, però, che, se il danneggiato dal reato non si è costituito parte civile, esercitando l’azione civile nel processo penale, il giudice
penale non adotta alcuna statuizione di condanna
al risarcimento del danno. La norma, allora, riguarda il riconoscimento di una misura di compensazio-
ne prevista in taluni ordinamenti di common
law (35) ed è destinata ad operare solo per il riconoscimento di sanzioni estere.
Infine, anche la previsione, contenuta ancora nell’art. 2 del D.Lgs., della qualificazione come “sanzione pecuniaria” delle somme, fissate sempre con
la sentenza di condanna, da versare in favore di
fondi pubblici o di organizzazioni di assistenza alle
vittime, genera incertezze. In questi casi, ove si facesse riferimento all’ordinamento interno, si potrebbe alludere alla costituzione come parte civile
di enti esponenziali i quali, però, fanno valere propri diritti di matrice civilista nel processo penale,
situazione che espressamente esula dall’area operativa della nuova normativa.
(35) P. De Pasquale, Sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie tra gli stati membri dell’unione europea, cit.,
541.
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Misure di sequestro
L’attuazione della d.q. 577/2003
sul reciproco riconoscimento
dei provvedimenti di sequestro
a fini di prova o di confisca
di Girolamo Daraio (*)
La decisione quadro n. 577/2003, cui il D.Lgs. n. 35/2016 dà attuazione, costituisce la prima forma di concretizzazione del c.d. “principio di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie” in
materia di procedure in rem, per la preservazione di fonti probatorie o l’ablazione di patrimoni illeciti, esperibili in territorio europeo. L’operatività del principio di reciproco riconoscimento è tuttavia circoscritta alla sola fase cautelare del sequestro del bene collocato all’estero, mentre la
fase “a monte” - relativa alla ricerca del bene sequestrabile - e quella “a valle” - relativa alla destinazione finale del bene sequestrato - sono affidate alle tradizionali procedure di assistenza
giudiziaria in materia probatoria o di confisca. A cagione delle sue ridotte potenzialità operative,
l’Europa ha soppiantato tale strumento con nuovi e più efficaci meccanismi di cooperazione - alcuni, ancora in attesa di recepimento da parte del legislatore italiano - che forniscono una disciplina completa del mutuo riconoscimento rispetto all’intera procedura in rem. Pur consapevole
che trattasi ormai di disciplina inattuale poiché ampiamente superata da più recenti atti dell’Unione, il legislatore italiano - preoccupato di incorrere in procedure di infrazione - ha comunque
optato per il suo recepimento, benché tardivo. Il presente lavoro mira a verificare se, come e in
che misura siano stati adempiuti gli obblighi di risultato imposti dalla decisione quadro de qua.
Decisione quadro 2003/577/GAI del 22 luglio
2003
Esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro
probatorio.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 35
G.U. 11 marzo 2016, n. 59 (in vigore 26 marzo 2016).
Modifiche
Non si rilevano modifiche al c.p.p.
La decisione quadro 2003/577/GAI
Con il D.Lgs. n. 35 del 15 febbraio 2016 (1), il Governo italiano, nel contesto di un complessivo intervento normativo delegato volto a trasporre nel
nostro ordinamento numerose direttive europee e
ben dieci atti del vecchio terzo pilastro dell’Unione (concernente la “Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale”), dà finalmente attuazione alla decisione quadro 2003/577/GAI (2), relativa all’esecuzione nell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro proba-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Pubblicato l’11 marzo 2016 in G.U. ed entrato in vigore il
26 marzo 2016.
(2) Adottata dal Consiglio dell’Unione europea in data 22 luglio 2023 e pubblicata in GUUE L 196 del 2 agosto 2003.
Il recepimento tardivo di uno strumento
giuridico ormai obsoleto per sopravvenienze
normative eurounitarie
Diritto penale e processo 9/2016
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Cooperazione giudiziaria
torio, atto comunitario al quale gli Stati membri
avrebbero dovuto adeguarsi non più tardi del 2
agosto 2005 (ex art. 14 d.q.).
Giunge così a conclusione un iter normativo avviato sin dalla XV legislatura, con il conferimento di
delega al Governo per l’implementazione nel nostro ordinamento della decisione quadro de qua (3),
delega mai esercitata - benché fossero stati indicati
in modo puntuale i principi e i criteri per l’esercizio - e scaduta il 21 marzo 2009.
Migliore sorte ha avuto la nuova delega, conferita
con l’art. 18, L. 9 luglio 2015, n. 114 (4), unitamente ad altre deleghe per l’adozione di misure di
trasposizione di ulteriori e rilevanti decisioni quadro in materia di giustizia penale, anch’esse rimaste
a lungo inattuate.
A determinare la svolta è stato, probabilmente, il
timore di incorrere concretamente in una procedura di infrazione - suscettibile di sfociare nella irrogazione di una sanzione pecuniaria ex art. 260 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE) - per violazione del diritto dell’Unione,
essendo venuto meno, il 1° dicembre 2014, il regime transitorio quinquennale fissato dal protocollo
n. 36, allegato al Trattato di Lisbona (5), relativo
ai meccanismi di tutela giurisdizionale per gli atti
del c.d. (ex) terzo pilastro dell’Unione europea (6),
atti destinati a restare in vigore sino alla loro abrogazione o modificazione, in forza della regola di ul-
trattività espressamente sancita nell’art. 9 del citato protocollo n. 36 (7).
A tale ultimo riguardo, giova ricordare che, nel
post Lisbona, la politica perseguita dall’Unione nei
settori del dissolto terzo pilastro, in funzione del
ravvicinamento delle legislazioni penali sul piano
processuale, è stata quella di avviare sin da subito
un processo di graduale sostituzione e aggiornamento delle decisioni quadro con altrettante direttive. Siffatta opera di revisione (invocata, peraltro,
nella dichiarazione n. 50 allegata all’atto finale
della conferenza intergovernativa adottante il trattato di Lisbona) ha investito diversi atti ante Lisbona (8) e certamente non può dirsi conclusa.
Relativamente alla cooperazione giudiziaria penale
in materia probatoria, di particolare rilievo è l’adozione, in data 3 aprile 2014, da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, della direttiva
2014/41/UE, relativa all’ordine europeo di indagine
penale (OEI) (9), che il Governo italiano dovrà
trasporre nel nostro ordinamento nei prossimi mesi, in base a delega conferitagli dal Parlamento con
l’art. 1 L. n. 114/2015 cit. (10).
Con questa iniziativa legislativa, le istituzioni dell’UE puntano a creare uno strumento unico (l’OEI,
appunto) che garantisca la ricerca, l’acquisizione e
il trasferimento delle fonti probatorie da uno Stato
all’altro dell’Unione, al fine di superare la frammentarietà e la complessità del quadro giuridico
(3) Cfr. art. 30, L. 25 febbraio 2008, n. 34, recante “Disposizioni di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (Legge comunitaria 2007).
(4) Recante “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea Legge di delegazione europea 2014”.
(5) Pubblicato in GUUE L 196 del 17 dicembre 2007 ed entrato ufficialmente in vigore il 1° dicembre 2009.
(6) È noto come l’art. 35 TUE pre-Lisbona non prevedesse,
con riferimento agli atti riguardanti la cooperazione giudiziaria
in materia penale, la possibilità di censurare, per il tramite della procedura di infrazione, l’eventuale violazione degli obblighi
da essi derivanti (in primis, la mancata adozione di misure per
la loro trasposizione negli ordinamenti nazionali). Tale regime,
nonostante l’unificazione dei pilastri operata dal Trattato di Lisbona, è rimasto in vigore ancora per cinque anni, giusta il disposto dell’art. 10, par. 1 e 3 del protocollo n. 36; con conseguente impossibilità, fino alla scadenza del quinquennio di vigenza transitoria, di avvio di procedura di infrazione da parte
della Commissione e di ricorso per inadempimento alla Corte
di Giustizia.
(7) L’abolizione, da parte del Trattato di Lisbona, dell’“architettura a pilastri” dell’Unione europea - come configurata dal
trattato di Maastricht e perpetuata dal Trattato di Amsterdam,
sebbene con riscrittura del terzo pilastro sia sul piano contenutistico sia su quello programmatico - ha fatto venire meno il
carattere meramente intergovernativo della cooperazione giudiziaria penale e comportato l’applicazione alla stessa degli
strumenti normativi comuni a tutte le altre materie, costituiti,
prevalentemente, da “regolamenti” e “direttive”. Ciò nondimeno, alla dissoluzione del terzo pilastro nell’unico quadro nor-
mativo dell’Unione non è seguita la cessazione degli effetti
giuridici degli atti adottati ante Lisbona in tale ambito, che
manterranno vigore sino a quando non saranno oggetto di
un’apposita revisione o abrogazione in base alle procedure legislative disciplinate dal TFUE.
(8) Si ricordano, in particolare, la d.q. 2002/629/GAI sulla lotta alla tratta degli esseri umani, che è stata sostituita dalla dir.
2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della
tratta di esseri umani e la protezione delle vittime; la d.q.
2004/68/GAI, sostituita dalla dir. 2011/92/UE relativa alla lotta
contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile; la d.q. 2001/220/GAI, sostituita dalla dir.
2012/29/UE, dettante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato; le d.q. 2001/500/GAI
e 2005/212/GAI, le cui disposizioni sono state modificate ed
ampliate dalla dir. 2014/42/UE, relativa al congelamento e alla
confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea.
(9) Pubblicata in GUUE L 130 del 1° maggio 2014.
(10) L’art. 36 della direttiva de qua prevede quale termine ultimo per il suo recepimento da parte degli Stati membri dell’Unione il 22 maggio 2017. Nell’ordinamento italiano, tuttavia,
dovrà essere trasposta entro il 22 gennaio 2017; ciò, in base
alla regola di cui all’art. 31, comma 1, L. 24 dicembre 2012, n.
234, come modificato dall’art. 29, comma 1, lett. b), L. 29 luglio 2015, n. 115 (legge europea 2014), secondo cui la delega
legislativa per il recepimento di direttive conferita con legge di
delegazione europea va esercitata dal Governo con un anticipo
di quattro mesi rispetto alla data di scadenza fissata nella direttiva.
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esistente (11). Il risultato finale che s’intende conseguire è la sostituzione, nei rapporti tra gli Stati
membri dell’Unione, degli attuali strumenti di assistenza o di cooperazione giudiziaria in materia probatoria penale (siano essi convenzionali o meno),
con un nuovo, e più agile, modello cooperativo basato sulla diretta interazione tra autorità giudiziarie
e sul mutuo riconoscimento delle relative decisioni (12), adottabile per quasi tutte le più rilevanti
misure investigative finalizzate alla ricerca ed acquisizione delle fonti di prova (13).
Con l’avvento dell’“ordine europeo di indagine penale” (14), dunque, usciranno di scena, con riguardo
ai rapporti tra gli Stati membri dell’Unione, i principali strumenti normativi di mutua assistenza giudiziaria penale finora operanti nel Vecchio Continente, imperniati sul tradizionale schema della rogatoria internazionale (15), vale a dire la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale” (16) (con i relativi protocolli addizionali e gli
accordi bilaterali conclusi a norma dell’art. 26 della stessa Conv.), la Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri
dell’Unione europea” (17) (con il relativo protocollo
addizionale del 2001) e la Convenzione applicativa
degli Accordi di Schengen (18) (art. 34, par. 1, dir. n.
41/2014).
L’OEI, peraltro, è destinato a rimpiazzare anche
strumenti di nuova concezione, regolati da atti dell’Unione (decisioni-quadro) e costituenti forme di
concretizzazione in campo probatorio del principio
di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie.
Il riferimento è, innanzitutto, ai provvedimenti di
blocco o sequestro di beni per finalità probatorie adottabili sulla base della d.q. 577/2003, sostituita, in
parte qua, proprio dalla direttiva sull’OEI (art. 34,
par. 2, dir. n. 41/2014), che, tuttavia, ne preserva
l’ulteriore campo applicativo, vale a dire l’esecuzione di decisioni di blocco o sequestro per la successiva confisca dei beni.
Analogo destino è riservato al mandato europeo di
ricerca della prova (MER) (19), la cui fonte istitutiva, la d.q. 2008/978/GAI del 18 dicembre 2008, è
stata formalmente abrogata di recente, ad opera
del regolamento (UE) 2016/95 del 20 gennaio
2016 (20), a causa del suo ambito di applicazione
troppo limitato: due soli Stati dell’Unione su ventotto avrebbero continuato ad applicare tale strumento nei loro rapporti reciproci, avendo deciso di
non partecipare all’adozione della direttiva sull’OEI; per gli altri ventisei, il MER - ove pure fosse
stato adottato (21) - sarebbe comunque uscito di
scena con l’implementazione nei rispettivi ordinamenti giuridici della direttiva sull’OEI, così come
previsto dall’art. 34, par. 2, dir. n. 41/2014.
In effetti, l’introduzione dell’OEI, quale unico strumento per l’acquisizione e la circolazione delle prove in ambito UE, muove dalla insoddisfazione - palesata nei considerando n. 3 e 4 della dir. n.
(11) Sul progressivo superamento, in ambito europeo, del
modello classico dell’assistenza giudiziaria internazionale e la
evoluzione verso nuovi modelli di cooperazione transfrontaliera
su base non rogatoriale, cfr., volendo, G. Daraio, La circolazione della prova nello spazio giudiziario europeo, in AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di L. Kalb,
Torino, 2012, 508 ss.
(12) Nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie è individuato
quale fondamento della cooperazione giudiziaria sia in materia
civile sia in quella penale e collocato tra i capisaldi del costituendo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
(13) Restano fuori dal campo di applicazione dell’OEI alcuni
tipi di provvedimenti (come, ad es., quelli concernenti l’istituzione delle squadre investigative comuni o le intercettazioni
satellitari) che, per la loro peculiarità, richiedono disposizioni
specifiche.
(14) Definito, nella dir. 2014/41/UE, come “una decisione
giudiziaria emessa o convalidata da un’autorità competente di
uno Stato membro (lo ‘Stato di emissione’) per compiere uno
o più atti d’indagine specifici in un altro Stato membro (lo ‘Stato di esecuzione’) ai fini di acquisire prove” ovvero “per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato
di esecuzione” (art. 1) nell’ambito dei procedimenti penali, o
anche nei procedimenti amministrativi con implicazioni penali
(art. 4).
(15) Per una ricostruzione della disciplina - di fonte interna-
zionale ed interna - dell’istituto della rogatoria e per un tentativo di delimitarne esattamente i confini rispetto a strumenti e a
pratiche di cooperazione di polizia o giudiziaria di diversa natura, rinvenenti specifica regolamentazione in sede internazionale pattizia o da parte del diritto dell’Unione europea, cfr., volendo, Daraio, Le rogatorie, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e
pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G.
Garuti-L. Kalb, Vol. IV, Impugnazioni. Esecuzione penale. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, a cura di L. Kalb, Torino, 2015, 1066 ss.
(16) Siglata a Strasburgo il 20 aprile 1959, nell’ambito del
Consiglio d’Europa.
(17) Firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000 e la cui ratifica
da parte dall’Italia è stata autorizzata solo di recente, con la L.
21 luglio 2016 n. 149, che ha impegnato il Governo a darvi attuazione, con uno o più decreti legislativi, entro sei mesi.
(18) Sottoscritta a Schengen il 19 giugno 1990.
(19) Concepito come decisione giudiziaria emessa dall’autorità competente di uno Stato membro allo scopo di acquisire
oggetti, documenti e dati di carattere probatorio da un altro
Stato membro, occorrenti per le esigenze di un procedimento
penale in corso nello Stato emittente.
(20) Relativo all’abrogazione di alcuni atti nel settore della
cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale.
(21) Non così per l’Italia, che non ha mai recepito la d.q.
978/2008, sicché, con riguardo al nostro Paese, la cooperazione giudiziaria mediante MER (nel suo versante attivo o passivo) non ha avuto possibilità di estrinsecazione.
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41/2014 - per il modo in cui la disciplina relativa
all’esecuzione dei provvedimenti di sequestro probatorio, espressa nella d.q. 577/2003, e quella concernente l’euromandato per la ricerca delle prove,
contenuta nella d.q. 978/2008, si prestano ad attuare la cooperazione giudiziaria penale.
Come meglio si vedrà in appresso, infatti, la d.q.
577/2003, pur consentendo di dare rapida esecuzione, in ogni Stato membro, ai provvedimenti giudiziari di blocco o sequestro di beni potenzialmente
utilizzabili in chiave probatoria - onde impedirne,
in via urgente e provvisoria, la distrazione o modificazione - lascia inevitabilmente scoperto il successivo trasferimento delle relative acquisizioni
probatorie, ancora disciplinato formalmente dalle
tradizionali procedure di assistenza giudiziaria; dunque, reciproco riconoscimento per il blocco o sequestro, rogatoria per il trasferimento: una procedura a due fasi, suscettibile di compromettere l’efficienza della cooperazione, con conseguente tendenza degli Stati a prediligere direttamente il ricorso ai classici strumenti di assistenza giudiziaria.
La d.q. 978/2008, a sua volta, pur fornendo una disciplina completa del mutuo riconoscimento rispetto all’intera procedura in rem, comprensiva sia della fase del sequestro sia di quella relativa alla destinazione finale del bene, forgia uno strumento, per
l’acquisizione e il trasferimento transfrontaliero
della res localizzata all’estero, dalle potenzialità
operative decisamente ridotte, poiché circoscritte,
essenzialmente, alla raccolta di fonti probatorie già
nella disponibilità delle autorità di esecuzione (22).
Di qui la determinazione delle istituzioni dell’Unione di puntare a creare un sistema globale di acquisizione delle prove nelle cause aventi dimensione transfrontaliera, in sostituzione di tutti gli strumenti esistenti nel settore, compresi quelli regolamentati dalle decisioni quadro 577/2003 e
978/2008.
Mentre, però, d.q. 978/2008 è sostituita in toto dalla direttiva sull’OEI, la d.q. 577/2003 lo è solo relativamente alle disposizioni sul sequestro probatorio
(art. 34, par. 2, dir. 41/2014), sicché gli Stati dell’Unione vincolati da detta direttiva, una volta
che l’avranno implementata nei rispettivi sistemi
nazionali, potranno continuare ad adottare od ese-
guire decisioni di blocco o sequestro di beni ai sensi della d.q. 577/2003, se finalizzate a congelare e
privare i criminali del profitto economico, movente fondamentale e nucleo stesso della criminalità.
In effetti, la d.q. 577/2003, a dispetto di quanto potrebbe far pensare la sua intitolazione, non disciplina solo il “sequestro ai fini della prova”, vale a dire
l’attività di assicurazione di quelle res che s’intende
utilizzare ai fini dell’accertamento di un ipotizzato
delitto, bensì anche il “sequestro ai fini della confisca”, assolvente cioè alla funzione, propriamente
cautelare-preventiva, di preservare l’esistenza delle
cose al momento dell’esecuzione di un eventuale
provvedimento di confisca, di cui viene anticipato
in via provvisoria il peculiare effetto ablativo.
Dunque, due distinte figure di sequestro, due “misure provvisorie” caratterizzate da specifiche ed
autonome finalità.
Orbene, la formale sostituzione, ad opera della dir.
n. 41/2014, delle sole disposizioni della d.q.
577/2003 riguardanti il sequestro probatorio ha
probabilmente convinto il nostro legislatore (al di
là della già rimarcata impellente necessità di estinguere il risalente debito giuridico contratto con
l’Unione europea, per non incorrere in procedure
d’infrazione) della utilità di recepire la d.q. in questione, sia pure a quasi tredici anni dalla sua adozione e benché la disciplina in essa espressa sia in
parte superata dalla sopraggiunta regolamentazione
dell’OEI.
E tuttavia, anche in materia di misure provvisorie
finalizzate ad istituire vincoli di indisponibilità riguardo beni potenzialmente confiscabili non sono
mancate sopravvenienze normative di fonte comunitaria rispetto alla d.q. 577/2003.
Il riferimento è alla dir. 2014/42/UE del 3 aprile
2014 (23), relativa al congelamento e alla confisca
dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, il cui termine di recepimento (24)
è fissato al 4 ottobre 2016: il nostro Governo è stato delegato a tal uopo con la L. 7 ottobre 2014,
154 (legge di delegazione europea 2013), delega
non ancora esercitata.
Tale direttiva, infatti, benché faccia espressamente
salva la d.q. 577/2003 (considerando n. 27), muove
dalla presa d’atto che le misure provvisorie a fini di
(22) Per considerazioni più ampie su tale aspetto, sia consentito il rinvio a G. Daraio, La circolazione, cit., 569 ss. Per
una complessiva riflessione su genesi, finalità e limiti dello
strumento de quo, cfr., tra gli altri, Belfiore, Il mandato europeo
di ricerca delle prove e l’assistenza giudiziaria nell’Unione europea, in Cass. pen., 2008, 3894 ss. e G. De Amicis, Limiti e prospettive del mandato europeo di ricerca della prova, in AA.VV.,
L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, a cura di G. Grasso-L. Picotti-R.
Sicurella, Milano, 2011, 10.
(23) In GUUE L 127 del 29 aprile 2014.
(24) Oggetto di rettifica pubblicata sulla GUUE L 138 del 13
maggio 2014.
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confisca ivi regolate, così come, del resto, i vigenti
regimi di confisca estesa e di riconoscimento reciproco di provvedimenti di sequestro e di confisca,
siano solo parzialmente efficaci, a cagione delle divergenze tra il diritto degli Stati membri (considerando n. 8). Sicché, pur perseguendo, fondamentalmente, l’obiettivo di agevolare la confisca dei beni
di origine criminosa (considerando n. 41), non si limita a dettare norme minime per ravvicinare i regimi nazionali in materia di “confisca” (25), ma
stabilisce norme minime anche relativamente al
“congelamento” di beni (26), in vista di un’eventuale conseguente confisca (art. 1); invitando, in
particolare, gli Stati ad adottare - con riguardo ad
alcune fattispecie criminose, di particolare gravità,
individuate in una serie di atti UE indicati nell’art.
3 - ogni misura necessaria per consentire di individuare e rintracciare i beni da congelare (o - il che
è lo stesso - sequestrare) e successivamente confiscare, per garantire l’adeguata gestione dei beni
sottoposti a sequestro in vista di un’eventuale conseguente confisca e per assicurare l’esecuzione efficace di un provvedimento di confisca, se quest’ultimo è già stato emesso (artt. 7, 9-10); tutto ciò, senza pregiudizio per i diritti e le garanzie dei soggetti
i cui beni siano sottoposti a sequestro o a confisca,
ed in particolare del diritto ad una pronta comunicazione del provvedimento di sequestro e dei motivi per cui è stato disposto, del diritto a un giudice
imparziale e del diritto ad un ricorso effettivo (art.
8) (27).
Orbene, stando così le cose, v’è da chiedersi se la
trasposizione di un atto dell’Unione ormai inattuale, poiché in gran parte superato dalle anzidette sopravvenienze normative eurounitarie, lungi dal
(25) Intesa come “la privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria in relazione a un reato” (art. 2, par.
1, n. 4). La confisca, ai sensi dell’art. 4, può essere totale o
parziale, può riguardare sia beni strumentali e proventi da reato sia beni di valore equivalente e, in relazione agli strumenti
del reato ed ai profitti di accertata origine illecita, può essere
disposta anche se non vi sia stata condanna penale definitiva,
ma solo nell’ambito di procedimenti - aventi ad oggetto reati
suscettibili di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico - a carico di imputati non processabili, per
malattia o fuga, ma che avrebbero potuto essere condannati,
se processati.
(26) Tale dovendo considerarsi “il divieto temporaneo di trasferire, distruggere, convertire, eliminare o far circolare un bene o di assumerne temporaneamente la custodia o il controllo” (art. 2, par. 1, n. 5). Come rilevato da A. M. Maugeri, La direttiva 2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei
proventi da reato nell’unione europea tra garanzie ed efficienza:
un “work in progress”, in Dir. pen. cont., Rivista trimestrale,
2015, 1, 328, il termine “congelamento”, sconosciuto al linguaggio giuridico italiano, deve farsi rientrare nella nozione di
“sequestro”.
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mettere il nostro ordinamento al passo con gli altri
Stati UE che da tempo hanno adeguato il rispettivo sistema giuridico alle istanze del legislatore europeo in materia di sequestro (per fini probatori o
di confisca), rechi, piuttosto, il pericolo reale di discrasie, scollature o difettose coordinazioni con
l’attuale assetto legislativo dell’Unione e con altre
più avanzate normative nazionali di recepimento in
subiecta materia e, comunque, esponga i nostri operatori giuridici a difficoltà interpretative, anche di
ordine intertemporale, a cagione delle mutazioni
normative che, presumibilmente, sopraggiungeranno a breve nel nostro Paese, con il recepimento
delle dir. n. 41 e 42 del 2014 (28).
Obiettivi e contenuti della decisione quadro
L’obsolescenza giuridica dell’impianto normativo
della d.q. 577/2003 non può tuttavia esimerci dall’analizzarne - sia pure sommariamente - ratio e
contenuti, per poi verificarne la corretta attuazione
da parte del D.Lgs. n. 35/2016.
Come innanzi rimarcato, questa decisione quadro
costituisce la prima forma di concretizzazione, in
materia di procedure in rem volte alla preservazione
di fonti probatorie o all’ablazione di patrimoni illeciti che abbiano collocazione oltre i confini territoriali dello Stato in cui sia stato commesso il reato
presupposto, del “principio di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie” (29), che, com’è noto, comporta lo spostamento dell’asse della cooperazione interstatuale dai tradizionali rapporti politico-diplomatici a un livello semplicemente giudiziario, imponendo una collaborazione direttamente
tra le autorità giudiziarie interessate, senza il “fil(27) Per approfondimenti sulla direttiva de qua, cfr., tra gli
a l t r i, A . M a ra n d o la , C o n s i d e ra zi o n i m i n i m e s u l l a Di r.
2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni
strumentali e dei proventi da reato fra gli Stati dell’UE, in questa
Rivista, 2016, 121 ss. e A. M. Maugeri, La direttiva
2014/42/UE, cit., 300 ss.
(28) Esprimeva questa preoccupazione il C.S.M., nel suo parere - formulato con delibera del 20 gennaio 2016, consultabile
in http://www.csm.it - sullo schema di decreto legislativo di attuazione della decisione quadro 2003/577/GAI. Nell’evidenziare gli aspetti problematici nascenti dal notevole ritardo con cui
il Governo italiano si accingeva a recepire la decisione quadro
de qua, l’organo di autogoverno dei magistrati ordinari invitava
il Governo italiano a soprassedere dal recepimento ed a procedere, piuttosto, all’immediata trasposizione delle dir. n.
41/2014 e n. 42/2014.
(29) In assoluto, la prima concretizzazione di tale principio
con riguardo alla giustizia penale è rappresentata dalla decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati
membri, recepita in Italia con la L. 22 aprile 2005, n. 69.
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tro” delle autorità centrali, relegato ad una funzione di mero supporto tecnico-amministrativo (30).
Essa, prevedendo, per un rilevante numero di reati
(individuati nell’art. 3), l’esecutività extraterritoriale dei provvedimenti di blocco o di sequestro di
beni “alla stessa stregua di una decisione di blocco
o sequestro emanata da un’autorità dello Stato
membro di esecuzione” (art. 5 par. 1), punta ad innovare profondamente i rapporti di cooperazione
giudiziaria tra gli Stati membri dell’Unione relativamente all’esecuzione, ultra fines, di misure coercitive reali, rapporti sviluppatisi, fino a quel momento, almeno per quanto concerne la cooperazione
per fini probatori, nell’ambito della classica assistenza su base rogatoriale, fondata, come si sa, sul
c.d. “principio della richiesta” (uno Stato presenta
una richiesta ad un altro Stato, che decide di darle
o non darle séguito sulla base di valutazioni politiche e vagli giurisdizionali).
Giova, infatti, ricordare che, anteriormente all’adozione della d.q. 577/2003, la normativa di fonte
sovranazionale - negoziata a livello multilaterale governante la materia dei sequestri internazionali è
costituita, fondamentalmente, da due strumenti
pattizi, entrambi partoriti nell’ambito del Consiglio
d’Europa:
1) la citata Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale” (31), che nel descrivere la
rogatoria come diretta, oltre che al “compimento
di atti istruttori”, alla “trasmissione di corpi di reato, fascicoli o documenti” (art. 3, par. 1), sembra
lasciar fuori dalla sua sfera di operatività il sequestro dei beni al fine di una loro definitiva privazione mediante confisca; in ogni caso, la stessa, pur
impegnando gli Stati ad “accordarsi reciprocamen-
te [...] l’assistenza giudiziaria più ampia possibile”
(art. 1, par. 1), concede loro la possibilità di subordinare la cooperazione per l’imposizione di vincoli
di natura reale (rogatoria a scopo di perquisizione
o sequestro) a specifiche condizioni di ammissibilità, riproducenti limiti e principi tradizionali dell’estradizione (art. 5, par. 1);
2) la Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di
reato (32), che disciplina una peculiare forma di
cooperazione internazionale in materia di ricerca,
di sequestro e/o di confisca di beni illeciti non assimilabile alla mutua assistenza giudiziaria, ma improntata, in parte, a regole e itinerari procedimentali autonomi rispetto a quelli propri delle rogatorie classiche, nonché fondata sull’idea di obbligatorietà della cooperazione transfrontaliera, non solo
giudiziaria, ma anche amministrativa e di polizia (33).
Orbene, la cooperazione interstatuale richiesta dalla d.q. 577/2003 va al di là sia della mera assistenza
di tipo rogatoriale per la ricerca, individuazione ed
assicurazione di beni strumento di attività delittuose, come configurata dalla Convenzione di Strasburgo del 1959; sia della peculiare forma di collaborazione interstatuale prevista dalla Convenzione
sul riciclaggio del 1990, contemplante, in particolare, l’obbligo per gli Stati di prestarsi la più ampia
assistenza possibile nelle indagini patrimoniali con
finalità ablative (art. 8) e di adottare, a richiesta di
un’altra Parte che procede (34), le necessarie misure provvisorie (congelamento di conti bancari, sequestri di proventi illeciti, ecc.) funzionali all’eventuale successiva confisca della res temporaneamente bloccata (art. 11) (35).
(30) Principio applicabile, secondo le linee prospettiche tracciate dal Consiglio europeo di Tampere del 1999, sia alle procedure in personam (finalizzate alla consegna di persone ricercate per fini di giustizia) sia a quelle in rem (finalizzate alla raccolta delle fonti probatorie e/o all’ablazione dei patrimoni illeciti), ed in particolare, relativamente a quest’ultimo versante, “alle ordinanze [...] che permettono alle autorità competenti di
procedere rapidamente al sequestro probatorio e alla confisca
di beni” (punto 36 delle Conclusioni di Tampere).
(31) Siglata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e resa esecutiva
in Italia con L. 23 febbraio 1961, n. 215.
(32) Firmata a Strasburgo l’8 novembre 1990, in vigore sul
piano internazionale dal 1° settembre 1993 e in Italia dal 1°
maggio 1994 (ratificata con la L. 9 agosto 1993, n. 328).
(33) Osserva E. Andolina, Misure reali e spazio giudiziario europeo, in Dir. comm. internaz., 2009, 862, come tale strumento
pattizio colmi un vero e proprio vuoto normativo a livello convenzionale in materia di sequestro cautelare di beni a fini di futura confisca, vuoto normativo determinatosi sia per l’inapplicabilità, in subiecta materia, della Convenzione di assistenza
giudiziaria del 1959, sia per effetto della mancata ratifica, da
parte del maggior numero degli Stati membri delle Comunità
europee, della Convenzione europea del Consiglio d’Europa sull’efficacia internazionale delle decisioni penali definitive, del 28
maggio 1970, la quale contiene una (prima) specifica previsione di collaborazione in materia di cautele reali finalizzate alla
confisca dei proventi illeciti.
(34) Richiesta che, al di fuori dei casi d’urgenza, è formulata
dall’autorità centrale designata dallo Stato Parte, non dall’autorità giudiziaria procedente (come per le rogatorie), alla quale
tuttavia spetta un potere di preventiva autorizzazione nel caso
in cui l’assistenza nelle indagini implichi l’imposizione di vincoli
di natura reale su beni (cfr. artt. 18, par. 3, 23 e 24).
(35) La convenzione de qua, peraltro, disciplina pure un
meccanismo diretto a consentire l’esecuzione sul territorio di
uno Stato di ordini di confisca di strumenti o proventi di reato
a beneficio di altro Stato Parte, confisca possibile indipendentemente dalla condanna e dallo stesso svolgimento di un procedimento penale (artt. 13 ss.). Va ricordato che, nel 2005, il
Consiglio d’Europa ha deciso di aggiornare e ampliare questo
strumento normativo, adottando a Varsavia, in data 16 maggio
2005, una nuova Convenzione (“sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento
del terrorismo”) diretta a potenziare l’attività di prevenzione e
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Ai sensi della normativa espressa nella d.q.
577/2003, allorché si renda necessario attivare la
cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione per l’apprensione materiale di beni riconducibili (sul piano strumentale o funzionale) ad un
reato e collocati in territorio estero, l’autorità giudiziaria interessata, piuttosto che azionare lo strumento della rogatoria oppure la richiesta di procedere a sequestro preventivo in vista dell’irroganda
confisca (a seconda della finalità, probatoria o cautelare, perseguita in concreto), adotta direttamente
un provvedimento di blocco o di sequestro (36) e
lo trasmette all’autorità giudiziaria dello Stato
membro nel cui territorio si trova il bene. Quest’ultima, dopo averlo riconosciuto, provvede alla
sua immediata esecuzione alla stessa stregua di una
decisione adottata nel territorio nazionale, salva la
ricorrenza di cause ostative al riconoscimento o all’esecuzione o di un motivo di rinvio dell’esecuzione (art. 5).
Alle farraginose procedure dell’assistenza giudiziaria - incerte tanto nei tempi, quanto nei risultati
(capitando spesso che l’assistenza venga prestata
quando l’apporto richiesto è ormai diventato inutile) - subentra, dunque, nei rapporti tra Stati membri dell’Unione, una procedura semplificata e vincolata nell’an (salva la previsione di casi tassativamente predeterminati di rifiuto) di riconoscimento
ed esecuzione extra-territoriale del provvedimento
di coercizione reale adottato da qualsiasi Stato
membro, secondo il proprio diritto interno.
Passando in rassegna le condizioni - stabilite nella
d.q. 577/2003 - alle quali ogni Stato membro dell’Unione “riconosce ed esegue nel suo territorio un
provvedimento di blocco o di sequestro emesso da
un’autorità giudiziaria di un altro Stato membro”
(art. 1), viene in rilievo, innanzitutto, la c.d. doppia
incriminabilità, ossia la previsione come reato, sia
nello Stato membro che ha adottato il provvedimento (c.d. “Stato di emissione”) sia nello Stato
membro che riceve la richiesta di esecuzione (c.d.
“Stato di esecuzione”), del fatto che è alla base del
provvedimento di blocco o di sequestro.
Tale requisito, in verità, non è richiesto dalla decisione quadro, che si limita ad annoverare la mancata previsione del fatto come reato ai sensi della
legge dello Stato di esecuzione tra i possibili motivi
di non riconoscimento o di non esecuzione (art. 7,
par. 1, lett. d) (37) e sempre che la richiesta di assistenza non sia originata da procedimenti relativi
a talune specifiche e tassative fattispecie di reato
(associazione per delinquere, terrorismo, tratta di
esseri umani, corruzione, riciclaggio, frode comunitaria, traffico illecito di armi e stupefacenti, ecc.)
suscettibili di comportare, secondo il diritto dello
Stato di emissione, l’applicazione di “una pena privativa della libertà di almeno tre anni” (art. 3, par.
2).
Ad ogni modo, la doppia incriminabilità - laddove
imposta dalla legislazione dello Stato di esecuzione
- non comporta necessariamente la perfetta identità delle figure di reato sotto il profilo degli elementi costitutivi e con riguardo alla qualificazione giuridica. Se, infatti, il provvedimento di blocco o di
sequestro di cui si chiede l’esecuzione è stato emesso per fini probatori, lo Stato di esecuzione, appurato che i fatti per i quali esso è stato adottato integrano una fattispecie di reato contemplata dal
proprio diritto interno, può darvi esecuzione indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla
qualifica degli stessi ai sensi della legge dello Stato
di emissione. Allo stesso modo, se il provvedimento di blocco o di sequestro di cui si chiede l’esecuzione è stato emesso per fini di confisca, lo Stato
di esecuzione può ritenere sufficiente, per l’esecuzione, che i fatti per i quali esso è stato adottato
costituiscano un reato per il quale la propria legge
interna consente il sequestro, quali che siano la
struttura e il nomen iuris del reato secondo la legge
dello Stato di emissione (art. 3, par. 4).
Quanto ai beni sequestrabili, dalla definizione di
“bene” fornita nell’art. 2, lett. d) si evince che il
sequestro disposto a fini di confisca può riguardare
controllo del riciclaggio di denaro ed il finanziamento - anche
attraverso attività lecite - del terrorismo. Tale Convenzione, in
vigore sul piano internazionale dal 1° maggio 2008, solo in
questi giorni ha ricevuto ratifica ed esecuzione nel nostro Paese, in base alla L. 28 luglio 2016, n. 153, in materia di contrasto al terrorismo.
(36) La decisione quadro parla di provvedimento di “blocco”
(oltre che di “sequestro”) di beni. Tuttavia, come evidenziato
dai suoi lavori preparatori, il termine “blocco” non è impiegato
con un preciso significato tecnico-giuridico, quanto piuttosto
per ricomprendere convenzionalmente tutte le misure volte al
congelamento di beni per finalità probatorie o di confisca e
non soltanto il tradizionale provvedimento di “sequestro” in
senso stretto. Tant’è che le due tipologie di provvedimenti vengono accomunate in un’unica nozione dall’art. 2, lett. c), che
definisce “provvedimento di blocco o di sequestro” “qualsiasi
provvedimento adottato da un’autorità giudiziaria competente
dello Stato di emissione per impedire provvisoriamente ogni
operazione volta a distruggere, trasformare, spostare, trasferire o alienare beni che potrebbero essere oggetto di confisca o
costituire una prova”.
(37) Motivi recepibili dagli Stati membri, nelle rispettive legislazioni interne, come motivi “facoltativi” di rifiuto.
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qualsiasi bene, mobile o immobile, materiale o immateriale, ivi compresi dati e documenti, di natura
anche elettronica o telematica, sempre che siano
riconducibili (sul piano strumentale o funzionale)
ad un reato. A fini di prova, invece, può essere sequestrato ogni oggetto, documento o dato preesistente suscettibile di utilizzazione in chiave probatoria all’interno di un procedimento penale: deve
trattarsi, cioè, di fonti probatorie reali reputate necessarie per l’accertamento dei fatti inerenti al thema decidendum del procedimento penale che ha
originato la richiesta di cooperazione.
Poiché il provvedimento di blocco o di sequestro
di cui si chiede l’esecuzione dev’essere stato “preso,
convalidato o comunque confermato” - da un’“autorità giudiziaria” (quale definita nel diritto interno
dello Stato di emissione) - “nell’ambito di un procedimento penale” (art. 2, lett. a), se ne deduce la
tendenziale estraneità al raggio d’azione della decisione quadro de qua dei provvedimenti adottati da
autorità amministrative (38) o comunque non riconducibili ad un procedimento penale (ad es., le
misure ablative emesse nell’ambito del procedimento di prevenzione).
Relativamente alla procedura di esecuzione del
provvedimento di sequestro, si prevede che questo
- corredato da un “certificato” (il cui formulario figura nell’allegato alla decisione quadro (art. 9, par.
1) - sia trasmesso “dall’autorità giudiziaria che l’ha
adottato direttamente all’autorità giudiziaria competente per la sua esecuzione”; se questa non è nota, saranno i punti di contatto della Rete giudiziaria europea a dover fornire informazioni (art. 4).
Il certificato (39), firmato dall’autorità giudiziaria
di emissione e tradotto nella lingua ufficiale o in
una delle lingue ufficiali dello Stato di esecuzione
(art. 9), dovrà contenere le informazioni minime
indispensabili per la realizzazione della cooperazione: autorità emittente, bene o prova da sottoporre
al provvedimento e sua localizzazione, reati per cui
si procede e mezzi d’impugnazione esperibili nello
Stato di emissione.
L’autorità giudiziaria emittente dovrà, altresì, specificare la finalità del sequestro di cui chiede l’esecuzione - se cioè è funzionale all’assicurazione di
fonti probatorie o alla preservazione di beni da sottoporre a confisca - nonché il trattamento che dovrà essere riservato dallo Stato di esecuzione alla
res sequestrata: si può chiedere, infatti, che il bene
sia trasferito allo Stato di emissione o si può indicare che sia temporaneamente conservato presso lo
Stato di esecuzione in attesa della sua trasmissione
(art. 10).
Ricevuto il provvedimento con l’allegato formulario, l’autorità competente dello Stato di esecuzione
provvederà in ordine al riconoscimento, limitandosi, a tal uopo, ad un controllo cartolare sulla completezza e sulla regolarità della documentazione inviata (40), senza che siano necessarie altre formalità (art. 5, par. 1).
Nessuna previsione specifica è fatta con riguardo ai
tempi della procedura di riconoscimento, se non
che la decisione dovrà essere comunicata all’autorità giudiziaria emittente “al più presto” e, “quando
possibile, entro 24 ore dal ricevimento del provvedimento di blocco o di sequestro” (art. 5, par. 3).
Per quanto concerne la fase esecutiva del provvedimento di blocco o sequestro, si precisa che l’autorità giudiziaria ricevente, se non reputi sussistente
un motivo di rifiuto del riconoscimento o dell’esecuzione tra quelli tassativamente enunciati nell’art.
7 (41) o uno dei motivi di rinvio previsti all’art.
8 (42), deve adottare “senza indugio” (43) le misure
necessarie alla “esecuzione immediata” del provvedimento.
La scelta della misura più appropriata al raggiungimento dello scopo spetta in ogni caso all’autorità
competente dello Stato di esecuzione, che dovrà
valutare se, per sottrarre il bene al detentore ed acquisirne la materiale disponibilità, sia oppur no necessario fare ricorso a misure coercitive: dovendole
disporre, applicherà le norme procedurali vigenti
nel proprio Stato. Tuttavia, nel caso di sequestro a
fini di prova, per la cui esecuzione lo Stato di emis-
(38) Così E. Calvanese, Perquisizioni e sequestri, in AA.VV.,
Manuale di procedura penale europea, a cura di R. E. Kostoris,
Milano, 2014, 319.
(39) Che per G. Iuzzolino, Il congelamento dei beni da sottoporre a sequestro o confisca, in AA.VV., Diritto penale europeo
e ordinamento italiano, Milano, 34, integrerebbe una nuova
specie di ordine europeo.
(40) Così E. Calvanese, Perquisizioni, cit., 321.
(41) Tra i motivi di rifiuto, oltre ai casi di incompletezza o irregolarità formale del certificato (lett. a) e alle altre “ipotesi
classiche”, della esistenza di immunità o privilegi a norma del
diritto dello Stato di esecuzione (lett. b) e della violazione del
divieto di bis in idem (lett. c), anche la mancanza del requisito
della doppia incriminabilità per i reati non compresi nella lista
di cui all’art. 3 par. 2.
(42) Tra i quali vanno segnalati, soprattutto, il possibile pregiudizio per un’indagine penale in corso (lett. a) e il già intervenuto blocco o sequestro dei beni o della prova nell’ambito di
un altro procedimento penale (lett. b).
(43) Formula, questa, che indubbiamente evoca esigenze di
speditezza, ma che, tuttavia, lascia agli Stati - in sede di trasposizione della decisione quadro - una certa discrezionalità
nel fissare i concreti termini di conclusione dell’iter esecutivo
del provvedimento di sequestro.
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sione abbia richiesto l’osservanza di specifiche formalità e procedure, occorrerà rispettarle, se risulti
necessario per garantire la validità della prova ottenuta, e sempre che le stesse non siano in conflitto
con i principi fondamentali del diritto dello Stato
di esecuzione (art. 5).
All’esecuzione del provvedimento di blocco o sequestro non consegue, quale effetto automatico, il
trasferimento del bene all’autorità giudiziaria emittente. La richiesta in tal senso formulata da quest’ultima (in alternativa alla richiesta di mero congelamento del bene, in attesa di successive determinazioni), infatti, sarà trattata - dall’autorità giudiziaria di esecuzione - “ai sensi delle norme applicabili all’assistenza giudiziaria in materia penale e
delle norme applicabili alla cooperazione internazionale in materia di confisca” (art. 10, par. 2).
Ciò significa che potranno essere opposti al momento conclusivo della procedura esecutiva (la
consegna) i motivi di rifiuto facoltativo individuati, dal sistema convenzionale vigente tra i due Stati
membri, per le richieste di assistenza finalizzate all’esecuzione di atti di coercizione reale e per la
cooperazione negli atti di confisca (44); con la sola
eccezione della condizione di doppia incriminabilità, che non è invocabile quale motivo di rifiuto
della consegna del bene qualora il provvedimento
di blocco o sequestro sia stato adottato per fini probatori e riguardi uno dei reati di cui all’art. 3, par.
2 della decisione quadro (art. 10, par. 3).
Nell’attesa che l’autorità giudiziaria dello Stato di
esecuzione decida sulla destinazione del bene sequestrato, quest’ultimo resta in ogni caso congelato. Le normative di recepimento, tuttavia, potranno stabilire condizioni al fine di limitare la durata
del blocco o del sequestro (art. 6).
A tutela dei legittimi interessi di qualsiasi parte interessata, ivi compresi i terzi di buona fede, le normative nazionali di attuazione dovranno assicurare
l’impugnabilità, dinanzi ad un organo giurisdizionale dello Stato di emissione o dello Stato di esecuzione, dei provvedimenti di blocco o di sequestro; i
motivi di merito su cui si basa il provvedimento di
blocco o di sequestro, tuttavia, potranno costituire
oggetto di contestazione soltanto dinanzi ad un’autorità giudiziaria dello Stato di emissione. Quest’ultimo deve assicurare che i termini per la proposizione dell’azione giudiziaria siano tali da garantire
che i soggetti interessati dispongano di un mezzo di
impugnazione effettivo (art. 11).
Infine, per quanto riguarda eventuali danni causati
a talune delle parti dall’esecuzione di un provvedimento di blocco o di sequestro, ferma restando la
legislazione nazionale degli Stati membri relativamente ad azioni di risarcimento promosse da persone fisiche o giuridiche, si prevede che lo Stato di
emissione debba rimborsare allo Stato di esecuzione gli importi versati a titolo di risarcimento alla
parte lesa, tranne se e nella misura in cui il danno
o parte di esso è dovuto esclusivamente alla condotta dello Stato di esecuzione (art. 12).
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 35
Questioni definitorie
Tratteggiati, per sommi capi, obiettivi e contenuti
della decisione quadro, passiamo ad analizzare le
disposizioni di attuazione contenute nel D.Lgs. n.
35/2016.
Il provvedimento de quo si compone di 13 articoli,
racchiusi in due Titoli: il primo, contenente disposizioni generali (artt. 1 e 2); il secondo, contenente
norme di recepimento interno (artt. 3-13).
I primi due articoli fissano, rispettivamente, le finalità e le definizioni rilevanti.
Così, la prima disposizione generale chiarisce che
il provvedimento attua nell’ordinamento interno
la decisione quadro 2003/577/GAI, “nei limiti in
cui tali disposizioni non sono incompatibili con i
principi dell’ordinamento costituzionale in tema di
diritti fondamentali nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo” (art. 1). La previsione è
in linea con quanto enunciato nel preambolo della
d.q. 577/2003 secondo cui “La presente decisione
quadro non osta a che gli Stati membri applichino
le loro norme costituzionali relative al giusto processo, alla libertà di associazione, alla libertà di
stampa e alla libertà di espressione negli altri mezzi
di comunicazione”.
La seconda disposizione generale, al pari dell’omonima disposizione dell’atto UE, affronta questioni
definitorie, puntualizzando il significato da attribuire - per le finalità proprie dello strumento in
esame - a termini od espressioni ricorrenti nel testo
legislativo.
Per quanto concerne le definizioni di “Stato di
emissione” e di “Stato di esecuzione” (art. 2, lett. a
e b), il legislatore italiano mutua, pressoché pedissequamente, il lessico del legislatore europeo; mentre, rispetto alla nozione di “provvedimento di
blocco o di sequestro” presente nella d.q., omette,
(44) Così E. Andolina, Misure, cit., 882.
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inspiegabilmente, ogni riferimento - nell’analoga
nozione enunciata nell’art. 2 lett. c del d.lgs. - ai
beni che potrebbero costituire una prova. L’espresso richiamo ai concetti di “corpo del reato” e di
“cose pertinenti al reato” consente, tuttavia, di rimediare sul piano interpretativo alla dimenticanza (45).
Per quanto concerne i beni suscettibili di confisca,
il richiamo ai casi e limiti previsti dall’art. 240 c.p.
potrebbe indurre a ritenere escluso dal raggio di
operatività della normativa di attuazione la c.d.
confisca “per equivalente”; tuttavia, il riferimento
all’equivalente del valore del prodotto del reato
quale “bene” aggredibile con un provvedimento di
blocco o di sequestro, operato dall’art. 2, lett. d),
denota la voluntas legis di non circoscrivere il recepimento della decisione quadro alle sole ipotesi di
confisca “diretta”.
La definizione di “bene” fornita dal decreto legislativo pare del tutto conforme alla corrispondente
definizione espressa nella decisione quadro. In entrambi gli atti, infatti, si considera tale ogni bene
(materiale o immateriale, mobile o immobile) nonché ogni atto giuridico o documento attestante un
titolo o un diritto su tale bene, individuabile come
strumento, oggetto o prodotto (o equivalente del
valore del prodotto) di un reato.
È letteralmente ripresa dall’analoga previsione della decisione quadro altresì la definizione di “prova”, identificata negli oggetti, documenti o dati
che possono essere utilizzati a fini probatori in procedimenti penali riguardanti un reato di cui all’art.
3 (art. 2, lett. e), con esclusione, pertanto, delle
c.d. prove costituende, quelle cioè da raccogliere in
fieri (es.: intercettazioni telefoniche, monitoraggio
di conti bancari, assunzione di prove dichiarative,
prelievi di materiale biologico, ecc.).
Come già la decisione quadro, il decreto attuativo
stabilisce che il provvedimento di blocco o sequestro dev’essere stato emesso o - se adottato in via
d’urgenza dalla polizia giudiziaria - convalidato o
confermato da “un’autorità giudiziaria” dello Stato
di emissione e “nell’ambito di un procedimento pe(45) Infatti, il “corpo di reato” (che, secondo la definizione
offerta dall’art. 253 c.p.p., s’identifica con “le cose sulle quali
o mediante le quali il reato è stato commesso” o “che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”) e le “cose pertinenti
al reato” (nozione generica nella quale la giurisprudenza fa
rientrare, oltre ai corpora delicti ed ai producta sceleris, ogni altra cosa che sia in rapporto, anche solo indiretto, con la fattispecie concreta e che sia strumentale all’accertamento dei fatti e delle circostanze dell’illecito) possono costituire oggetto
tanto di un sequestro preventivo - c.d. impeditivo (art. 321
comma 1 c.p.p.) ovvero funzionale alla confisca (art. 321 com-
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nale” (art. 2, lett. a), restando così fuori dal perimetro operativo dello strumento in esame i provvedimenti di analogo contenuto cautelare emessi
all’interno di procedimenti amministrativi o di prevenzione (46).
La procedura “passiva” di riconoscimento ed
esecuzione del provvedimento di blocco o
sequestro
Passando all’esame delle “norme di recepimento
interno” (espresse nel Titolo II), si constata come
ben otto degli undici articoli che compendiano tale disciplina attengano alla procedura di riconoscimento ed esecuzione in Italia del provvedimento
emesso dall’autorità giudiziaria di un altro Stato
membro (Capo I, artt. 3-10); dei restanti tre, due
sono dedicati alla richiesta di riconoscimento all’estero di provvedimenti di analogo contenuto emessi dall’autorità giudiziaria italiana (Capo II, artt.
11-12) ed uno è riservato alle disposizioni finanziarie, alla conseguente clausola di invarianza finanziaria e alle indicazioni dei mezzi per far fronte agli
oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti
(Capo III, art. 13).
Il legislatore nazionale, pertanto, si è preoccupato
principalmente di disciplinare le modalità di esecuzione in Italia del provvedimento emesso da un’autorità straniera.
Relativamente a questo primo percorso (che potremmo definire, con linguaggio rogatoriale, “passivo”), vengono innanzitutto elencati i casi di riconoscimento ed esecuzione dei provvedimenti di
blocco o sequestro adottati in un procedimento penale in corso all’estero, in conformità all’art. 3 della decisione quadro.
Al riguardo, il comma 1 dell’art. 3, D.Lgs. n.
35/2016 contiene un elenco tassativo di reati in relazione ai quali si prescinde dal controllo della
doppia incriminabilità, purché puniti nello Stato
di emissione della misura con una pena non inferiore nel massimo a tre anni.
Al di là della maggiore specificazione di alcune fattispecie individuate nel decreto legislativo rispetto
ma 2 c.p.p.) - quanto di un sequestro probatorio (disposto dall’autorità giudiziaria o, in via d’urgenza, dalla polizia giudiziaria:
artt. 253 e 354 c.p.p.).
(46) Sul punto, cfr. A. Cisterna, Ancora escluse le misure di
prevenzione, in Guida dir., 2016, 18, 75, che ritiene la scelta di
circoscrivere l’efficacia delle norme di adeguamento ai provvedimenti di blocco o di sequestro emessi “nell’ambito di un procedimento penale” foriera di un possibile “grave vulnus per
l’efficacia in ambito europeo dei decreti emessi ai sensi del
D.Lgs. 159/2011 (codice antimafia)”.
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alle più generiche formulazioni della decisione quadro (47), o della maggiore o minore ampiezza operativa prefigurata dall’atto delegato per alcune fattispecie contemplate nell’atto di fonte europea (48), sembra si possa affermare che le 32 condotte di reato enunciate dal comma 1 dell’art. 3
del decreto legislativo siano sostanzialmente speculari a quelle indicate nell’art. 3, par. 1, della decisione quadro.
Per le fattispecie illecite non comprese nell’elenco
vale il principio della doppia incriminabilità.
Rispetto a queste, infatti, il legislatore italiano, avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 3, par. 4,
d.q., ha subordinato il riconoscimento delle decisioni di sequestro a fini di prova provenienti da altro Stato membro UE alla condizione che i fatti,
per i quali è stato emesso il provvedimento di blocco o di sequestro, siano puniti come reato dalla
legge italiana, indipendentemente dagli elementi
costitutivi o dalla qualificazione giuridica individuati dalla legge dello Stato di emissione (art. 3,
comma 2). Analogamente, esercitando la facoltà
prevista dall’art. 3, par. 5, d.q., ha previsto che il
provvedimento estero di sequestro finalizzato alla
confisca possa ottenere riconoscimento ed esecuzione in Italia solo se riguardi un fatto costituente
reato per la legge italiana e si tratti di un reato per
cui è consentito il sequestro preventivo ai sensi
dell’art. 321, comma 2, c.p.p. (art. 3, comma 3).
La regola della doppia incriminabilità, già inapplicabile ai 32 reati inseriti nel catalogo di cui all’art.
3, comma 1, incontra un’ulteriore rilevante eccezione rispetto ai reati tributari. Se, infatti, il provvedimento di blocco o di sequestro è stato emesso
in relazione a violazioni tributarie, doganali o valutarie, l’esecuzione non può essere rifiutata per il
fatto che la legge italiana non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte, o per il fatto che la legislazione italiana in materia tributaria, valutaria o
doganale è diversa da quella dello Stato di emissione (art. 6, comma 4, lett. e).
E veniamo alla procedura di riconoscimento ed
esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro adottato dall’autorità dello Stato di emissione.
Gli artt. 4 e 5 dettano disposizioni volte ad individuare, rispettivamente, l’autorità giudiziaria competente alla ricezione del provvedimento e quella
deputata a provvedere sulla richiesta di riconoscimento ed esecuzione dello stesso.
Precisamente, l’autorità italiana cui deve essere indirizzata la richiesta di riconoscimento ed esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro,
unitamente al certificato relativo alle informazioni
contenute nel provvedimento estero, è individuata
nel procuratore della Repubblica presso il tribunale
nel cui territorio si trova il bene o la prova oggetto
del provvedimento (art. 4); il quale dovrà altresì
provvedere sulla richiesta di riconoscimento ed
esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro emesso a fini probatori, mentre, in caso di
blocco o sequestro emesso a fini di confisca, sarà il
giudice per le indagini preliminari territorialmente
competente a provvedere con ordinanza, su richiesta dello stesso procuratore della Repubblica (art.
5, commi 1 e 2). Nell’ipotesi, poi, in cui i beni si
trovino in più circondari di tribunale, la legittimazione a provvedere è conferita al procuratore della
Repubblica del luogo in cui si trova il maggior numero di beni o prove, ovvero, a parità di numero,
all’autorità giudiziaria che per prima ha ricevuto il
provvedimento di blocco o di sequestro (art. 5,
comma 4).
Come rilevato dal CSM nel citato parere sullo
schema del D.Lgs. n. 35/2016, questa “polverizzazione” di competenze può essere fonte di complicazioni per l’autorità straniera emittente, la quale potrebbe incorrere in errori o, quanto meno, in difficoltà nell’individuare esattamente l’autorità giudiziaria competente per territorio con cui in concreto
rapportarsi: con conseguente vanificazione dei vantaggi connessi alla eliminazione, nella procedura de
qua, di ogni intermediazione dell’autorità centrale (49).
(47) Ad es., il decreto attuativo impiega la locuzione associazione per delinquere in luogo di partecipazione a un’organizzazione criminale; parla di violenza sessuale piuttosto che di stupro.
(48) Così, ad es., la fattispecie di favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno illegali, enunciata sic et simpliciter nella
d.q., viene riferita dalla norma di recepimento al solo ingresso
e soggiorno illegali di cittadini extracomunitari; di maggiore rilievo è la difformità con riguardo al reato di incendio, atteso
che il D.Lgs. vi include la fattispecie dolosa e colposa, mentre
la d.q. contempla il solo incendio doloso.
(49) Per tale ragione, il CSM prospettava l’opportunità di
modifiche volte a concentrare la competenza a ricevere la ri-
chiesta di riconoscimento ed esecuzione del provvedimento di
blocco o di sequestro nell’ufficio del Procuratore generale ovvero nella Procura avente sede nel capoluogo di distretto. Quest’ultima soluzione, peraltro, costituisce criterio direttivo fissato nella delega al Governo per la riforma del libro XI del c.p.p.
conferita dalla citata L. n. 149/2016: in materia di disciplina
processuale dell’assistenza giudiziaria a fini di giustizia penale,
infatti, si prescrive al legislatore delegato di “prevedere che le
richieste di assistenza giudiziaria per attività di acquisizione
probatoria e sequestro di beni a fini di confisca siano trasmesse al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale si deve procedere” (art. 4, comma
1, lett. c, n. 2). I conditores del D.Lgs. 35/2016, incuranti del
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1143
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Non è chiaro se le richieste di cui va inviata copia
al procuratore generale presso la corte di appello se si procede per taluno dei delitti c.d. di maggiore
allarme sociale previsti dall’art. 407, comma 2, lett.
a), c.p.p. - oppure al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo - se si procede per taluno dei
delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater,
c.p.p. - siano le richieste di riconoscimento provenienti dall’autorità straniera oppure le richieste
inoltrate al g.i.p. dal procuratore della Repubblica
ai sensi dell’art. 5, comma 2. Considerata la finalità meramente informativa dell’adempimento previsto dal comma 3 dell’art. 5, funzionale alla piena
esplicazione della funzione di coordinamento investigativo rispetto alle anzidette fattispecie di reato,
non pare azzardato il ritenere che l’obbligo di invio
di copia riguardi entrambi i tipi di richiesta.
Di fondamentale importanza è la trasmissione, in
uno al provvedimento da eseguire, del “certificato”
(art. 4), che, come si è già avuto modo di dire,
consiste nel formulario tipico allegato al decreto
legislativo in esame (50), con il quale l’autorità
giudiziaria dello Stato di emissione attesta l’esattezza delle informazioni contenute nel provvedimento
da eseguire.
La rilevanza del certificato si coglie, chiaramente,
ove si consideri quanto stabilito nell’art. 6, comma
4, circa la possibilità di rigettare, con decreto motivato, la richiesta di riconoscimento o di esecuzione
del provvedimento di blocco o di sequestro se il
certificato non è stato prodotto unitamente alla richiesta, ovvero se risulti incompleto ovvero se le
informazioni in esso contenute risultino manifestamente non corrispondenti al provvedimento di
blocco o di sequestro oggetto della richiesta (51).
Quid iuris nel caso in cui il certificato proveniente
dall’autorità estera non fosse tradotto nella lingua
italiana? Sotto tale profilo, infatti, si registra una
lacuna nell’art. 6, non prevedendosi la traduzione
in italiano del certificato, diversamente dagli obblighi di traduzione previsti dall’art. 12, comma 4,
per il caso di richiesta di esecuzione del sequestro
disposto dall’autorità giudiziaria italiana (procedura
“attiva”). Ciò, come puntualmente rilevato in dottrina, contrasta non solo con la previsione di cui
all’art. 9, par. 2, d.q., che impegna l’autorità di
emissione a tradurre il certificato nella lingua ufficiale o in una delle lingue ufficiali dello Stato di
esecuzione, ma altresì con l’art. 201 disp. a.c.t.
c.p.p., secondo cui le domande provenienti da
un’autorità straniera, nonché i relativi atti e documenti, debbono essere accompagnati da una traduzione in lingua italiana (52).
In aderenza, invece, a quanto stabilito nella decisione quadro (art. 10), la normativa di recepimento prevede che la richiesta di riconoscimento debba essere corredata da una richiesta di trasferimento della prova nello Stato di emissione, ovvero da
una richiesta di confisca. L’autorità competente
dello Stato di emissione, peraltro, può dare indicazioni, all’interno del certificato, per il mantenimento del bene nel territorio dello Stato, sino alla
data ivi precisata di formulazione delle richieste di
trasferimento o di confisca (art. 4).
Ricevuta la richiesta di riconoscimento ed esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro,
l’autorità giudiziaria italiana competente, senza poter esercitare alcuna forma di controllo sulle ragioni che ne fondano la motivazione, ma limitandosi
a delibare gli aspetti formali del provvedimento
estero e ad accertare l’eventuale ricorrenza di taluno degli elementi ostativi di cui agli artt. 7 e 8 del
decreto legislativo, provvede “senza ritardo” al riconoscimento, con proprio decreto o ordinanza, disponendo altresì l’immediata esecuzione del provvedimento (art. 6, comma 1).
A tal fine, osserverà le formalità e le procedure
espressamente indicate dall’autorità competente
dello Stato di emissione per l’esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro probatorio (lex
fori), se ciò risulti necessario per garantire la conformità della prova ottenuta ai requisiti dell’ordinamento dello Stato di emissione e la conseguente
utilizzabilità nell’ambito del procedimento che ha
suggerimento del CSM e in dissonanza con le stesse indicazioni fornite nella Relazione illustrativa del decreto attuativo (che
invitavano a coordinarsi sul punto con le disposizioni del ddl.
AS n. 1949, poi divenuto L. n. 149/2016), preferiscono adottare la soluzione testé descritta, pur impegnando il procuratore
della Repubblica ricevente, che dovesse ritenersi non legittimato a provvedere in ordine al riconoscimento ed esecuzione
del provvedimento estero di blocco o sequestro, a trasmettere
immediatamente gli atti all’ufficio competente ed a darne comunicazione all’autorità dello Stato di emissione (art. 5 comma 5).
(50) I cui elementi costitutivi, tuttavia, come chiarito nella
Relazione illustrativa del decreto attuativo, sono fissati direttamente dalla decisione quadro, sicché sono comuni a tutti gli
Stati membri.
(51) Le irregolarità meramente formali relative alla redazione
del certificato, tuttavia, potrebbero essere sanate imponendo
all’autorità giudiziaria dello Stato di emissione un termine per
la produzione del certificato completo o corretto, ovvero di un
documento ad esso equipollente (art. 6, comma 5).
(52) Così C. Pesce, nel suo articolo dal titolo “Il recepimento
italiano degli atti UE in materia di sequestro e confisca” pubblicato in data 27 aprile 2016 su http://rivista.eurojus.it.
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originato la domanda di assistenza, fermo restando
il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento; osserverà, invece, le disposizioni del
nostro codice di rito penale relative all’esecuzione
del sequestro preventivo (lex loci), qualora il provvedimento di blocco o di sequestro sia stato emesso
a fini di confisca (art. 6, comma 2). Le disposizioni
codicistiche interne dovranno essere osservate anche per tutte le ulteriori misure rese necessarie dal
provvedimento di blocco o di sequestro (art. 6,
comma 3).
Il legislatore italiano, conformemente alle prescrizioni della decisione quadro (artt. 7 e 8), ha individuato i possibili motivi di rifiuto di riconoscimento
od esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro nonché i casi di rinvio dell’esecuzione da
parte della nostra autorità giudiziaria.
Relativamente ai motivi di non riconoscimento, al
di là di quanto già rimarcato con riguardo all’esistenza del certificato ed alla completezza e veridicità delle informazioni in esso contenute, va osservato che la richiesta di riconoscimento ed esecuzione
potrà essere rigettata, con decreto motivato, nel
caso di sussistenza di una causa di immunità, di
violazione del principio del ne bis in idem, ovvero
nel caso di non ricorrenza dei presupposti indicati
nell’art. 3 per il riconoscimento (tipologie di reato
e limiti edittali di pena), salvo che - come si è visto - il provvedimento di blocco o di sequestro non
sia stato emesso in relazioni a violazioni tributarie,
doganali o valutarie, per le quali non opera il principio della doppia incriminabilità (art. 6, comma
4).
Quanto ai motivi di rinvio dell’esecuzione, essi sono conformi a quelli individuati nell’art. 8 della
decisione quadro: esistenza nello Stato di esecuzione di una indagine penale in corso che potrebbe
essere pregiudicata dal blocco o sequestro del bene (53); già avvenuta sottoposizione del bene a
provvedimento di blocco o sequestro nell’ambito
di altro procedimento penale (54); intervenuto
blocco o sequestro del bene a fini confisca in altri
procedimenti (55) (art. 7).
All’autorità giudiziaria dello Stato di emissione dovranno essere comunicati “immediatamente” sia
l’avvenuta esecuzione del provvedimento di blocco
o di sequestro (art. 6, comma 2), sia l’eventuale
provvedimento di rifiuto (art. 6, comma 6) o di
rinvio dell’esecuzione (art. 7, comma 2). “Senza ritardo”, invece, va comunicata l’impossibilità di dare esecuzione al provvedimento di blocco o di sequestro nei casi in cui il bene o la prova siano
scomparsi o siano stati distrutti, oppure non si trovino nel luogo indicato nel certificato, ovvero l’ubicazione indicata in quest’ultimo sia risultata insufficiente (art. 6, comma 6).
Nell’ipotesi di rinvio dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione dovrà essere informata, altresì, dell’emissione del provvedimento richiesto, una volta venuta meno la causa del rinvio,
e dell’eventuale adozione di altri provvedimenti
cautelari riguardanti il bene o la prova oggetto del
provvedimento di blocco o di sequestro (art. 7,
comma 3).
In linea con il dettato normativo della decisione
quadro è altresì la disciplina attuativa relativa al
trattamento del bene o della prova cui sia stato apposto un vincolo d’indisponibilità per effetto del riconoscimento e dell’esecuzione del provvedimento
di blocco o di sequestro. Si prevede, infatti, che tale vincolo rimanga fermo sino all’adozione della
decisione definitiva sulla richiesta di trasferimento
della prova nello Stato di emissione, ovvero sulla
richiesta di confisca. Qualora l’autorità di emissione abbia formulato l’opzione per il mantenimento
del bene nel territorio dello Stato (art. 12, comma
3) senza però fare pervenire la richiesta nel termine stabilito nel relativo certificato, il procuratore
della Repubblica inviterà l’autorità di emissione a
formularla entro un termine perentorio non superiore a trenta giorni. Persistendo l’omissione oltre
tale termine, l’autorità giudiziaria italiana revocherà il provvedimento di blocco o di sequestro, disponendo la restituzione del bene o della prova all’avente diritto secondo le disposizioni di cui all’art.
263 c.p.p., informandone senza ritardo lo Stato di
emissione (art. 8, commi 1 e 2).
La revoca del provvedimento di blocco o di sequestro, da parte dell’autorità giudiziaria italiana, potrà
conseguire anche alle osservazioni formulate dall’autorità emittente - spontaneamente o su invito
dell’autorità di esecuzione - in ordine alla “concreta persistenza” delle esigenze probatorie su cui è
fondato il provvedimento (art. 8, comma 3).
Al di fuori delle richiamate ipotesi, tuttavia, la revoca del provvedimento di blocco o di sequestro è
(53) In tal caso, la durata “ragionevole” del rinvio, evocata
dall’art. 8, par. 1, lett. a d.q., è stata individuata dal decreto attuativo in un periodo massimo di sei mesi (art. 7, comma 1,
lett. a).
(54) In questa ipotesi, il rinvio opera fino alla revoca di tale
provvedimento.
(55) Ciò che legittima il rinvio sino alla sospensione dell’efficacia del provvedimento aliunde adottato.
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nel più ampio potere dell’autorità di emissione,
che, ove lo eserciti, ha l’onere di darne pronta comunicazione all’autorità di esecuzione, a sua volta
vincolata a revocare immediatamente il proprio
provvedimento (art. 8, comma 4).
Aderente al testo europeo pare anche il regime
delle impugnazioni avverso il riconoscimento e l’esecuzione del provvedimento di blocco o sequestro,
stabilito nell’art. 9 del decreto legislativo.
Analogamente, infatti, a quanto previsto dall’art.
11 della d.q., che attribuisce ad ogni parte interessata, compresi i terzi in buona fede, la legittimazione ad impugnare, quali che siano le finalità - probatorie o di confisca - del provvedimento estero, la
normativa interna accorda all’indagato o imputato,
al suo difensore, alla persona alla quale la prova o
il bene confiscabile siano stati sequestrati ed a
quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, il
diritto di proporre impugnazione ai sensi degli artt.
322, 322 bis, 324 e 325 c.p.p. (art. 9, commi 1 e
4); ferma restando, però, la sindacabilità ad opera
della sola autorità giudiziaria dello Stato di emissione dei motivi di merito su cui si basa il provvedimento di blocco o di sequestro (art. 9, comma
2).
All’autorità giudiziaria dello Stato di emissione è
dato tempestivo avviso della data in cui dovrà celebrarsi l’udienza ex art. 324, comma 6, c.p.p., affinché possa presentare, entro quella data, sue osservazioni. Alla stessa è poi comunicato l’esito del
giudizio (art. 9, comma 3).
In attuazione di quanto disposto nell’art. 12 d.q., si
prevede, infine, che, in caso di responsabilità dello
Stato italiano per i danni causati nell’esecuzione di
una decisione di sequestro, il Ministro della giustizia debba attivarsi senza ritardo per ottenere dallo
Stato di emissione il rimborso degli importi versati
alle parti a titolo di risarcimento, salvo che il danno sia imputabile esclusivamente alla condotta dello Stato italiano in qualità di Stato di esecuzione.
Gli importi così ottenuti dovranno affluire al Fondo unico giustizia, di cui alla L. n. 133/2008 (art.
11).
... e la procedura “attiva”
Relativamente alla procedura di assistenza giudiziaria c.d. “attiva”, che vede cioè l’autorità giudiziaria
italiana autrice del provvedimento di blocco o di
(56) Nell’ambito della procedura “attiva”, la legittimazione
a richiedere il riconoscimento e l’esecuzione di un sequestro è
conferita alla sola autorità giudiziaria che abbia “emesso” il
provvedimento, non essendo ipotizzabile, alla stregua della
1146
sequestro di cui si richiede l’esecuzione all’estero,
c’è ben poco da osservare.
Gli artt. 11 e 12 del decreto, infatti, disciplinano
la procedura “attiva” in termini pressoché analoghi
a quelli descritti negli artt. 1-10 per la procedura
“passiva”.
Così, ricorrendo uno dei casi di riconoscimento ed
esecuzione dei provvedimenti di blocco o di sequestro disciplinati nell’art. 3 D.Lgs., ed entro i limiti
stabiliti da quest’ultima disposizione, l’autorità giudiziaria italiana che abbia emesso, nell’ambito di
un procedimento penale, un provvedimento di sequestro - probatorio o preventivo - il cui oggetto
sia ubicato nel territorio di un altro Stato membro,
può rivolgersi direttamente all’omologa autorità
straniera (individuabile anche grazie all’apporto
dei punti di contatto della Rete giudiziaria europea) per ottenerne il riconoscimento e l’immediata
esecuzione in quel territorio (art. 11) (56).
In stretta analogia con le regole che sovrintendono
alla procedura di assistenza giudiziaria “passiva” poc’anzi esposte, anche nell’ipotesi di assistenza giudiziaria “attiva”, la richiesta prende avvio con la
trasmissione diretta del provvedimento e del relativo certificato. Quest’ultimo, redatto sulla base del
formulario allegato al decreto legislativo, dev’essere
tradotto dalla lingua italiana nella lingua ufficiale
o in una delle lingue ufficiali dello Stato di esecuzione, prima del suo inoltro all’autorità giudiziaria
straniera. Il certificato, oltre ad attestare l’esattezza
delle informazioni contenute nel provvedimento
ablativo, può dare indicazioni per il mantenimento
del bene nel territorio dello Stato di esecuzione fino alla formulazione - entro una determinata data,
individuata nello stesso certificato - delle richieste
di trasferimento o di confisca (sempre che, ovviamente, non fossero già state formulate al momento
della trasmissione del provvedimento da eseguire)
(art. 12).
Riflessioni conclusive
Alla luce di quanto sin qui esposto, appare chiaro
come le criticità dell’operazione normativa condotta in porto con il recepimento della d.q. 577/2003
ad opera del D.Lgs. n. 35/2016, a prescindere dalle
lacune ed incongruenze che pur non mancano nell’atto interno di recepimento e che in parte abbiamo cercato di segnalare, sono criticità ascrivibili,
normativa vigente nel nostro Paese, l’adozione in via d’urgenza, e successiva convalida dell’autorità giudiziaria, di un sequestro in territorio estero da parte della polizia giudiziaria.
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fondamentalmente, all’atto di fonte europea, che,
nel 2003, forgia uno strumento di cooperazione
dalle potenzialità operative decisamente ridotte,
poiché lascia scoperte, affidandole ai tradizionali
meccanismi di assistenza giudiziaria, sia la fase a
monte sia quella a valle dell’esecuzione ultra fines dei provvedimenti di blocco o di sequestro per
finalità probatorie o di confisca.
Così, per es., se, per l’esecuzione al di là dei confini
nazionali di un provvedimento di blocco o di sequestro, vi fosse necessità di compiere ricerche per
accertare l’esistenza nel territorio estero e/o per individuare l’esatta ubicazione dei beni da sequestrare, non potrebbe attivarsi la procedura di assistenza
disciplinata dalla d.q. 577/2003, occorrendo piuttosto azionare altri strumenti, ed in particolare lo
strumento rogatoriale.
Ma il principale elemento di criticità della normativa espressa nella d.q. 577/2003 (57) pare potersi
individuare nell’avere essa circoscritto l’operatività
del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie alla sola fase cautelare del sequestro del bene collocato all’estero, affidando la successiva fase - relativa alla destinazione finale del
bene sequestrato - alle tradizionali procedure di assistenza giudiziaria in materia probatoria o di confisca.
Sicché, ben può accadere che l’obiettivo di consentire una rapida adprehensio della res illicita, per
effetto della rapida e pressoché automatica esecuzione dell’ordine di blocco o di sequestro - atteso il
numero esiguo di motivi di rifiuto opponibili venga vanificato dalla ricorrenza di ipotesi di diniego dell’assistenza giudiziaria previste nelle convenzioni (multilaterali o bilaterali) vigenti tra gli
Stati membri (58).
Si è visto, tuttavia, come l’Unione europea sia
giunta, già con l’abrogata d.q. 978/2008 sul MER,
ma soprattutto con la dir. 41/2014 sull’OEI, ad una
disciplina completa del mutuo riconoscimento rispetto all’intera procedura di acquisizione probato-
ria ultra fines, comprensiva sia della fase del sequestro sia di quella relativa al trasferimento del bene,
disciplina destinata a soppiantare quella dettata in
punto di sequestro probatorio dalla d.q. 577/2003.
Per sopperire invece al deficit di disciplina che connota questo strumento normativo riguardo la fase
post-sequestro del bene destinato a confisca, l’Unione - dopo avere ridisegnato il complessivo assetto normativo in tema di confisca dei proventi illeciti, con l’approvazione, in un’ottica di ravvicinamento delle normative nazionali, della d.q.
2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 (relativa alla
confisca di beni, strumenti e proventi di reato) (59) - ha adottato, in data 6 ottobre 2006, la
d.q. 2006/783/GAI (60), relativa all’applicazione
del principio del reciproco riconoscimento delle
decisioni di confisca, con la quale ha inteso favorire una più rapida esecuzione dei provvedimenti di
confisca di beni costituenti strumento o prodotto
di reato, ovvero di beni equivalenti, in tutto o in
parte, al valore di tale prodotto, eliminando i sistemi di conversione dei provvedimenti di confisca in
atti nazionali. A tale atto normativo (61) è sopraggiunta la citata dir. 42/2014 (62), che ha regolamentato ex novo ed organicamente la materia della
confisca internazionale, ridimensionando notevolmente, rispetto a tale misura ablativa, l’impatto
della clausola di rinvio enunciata nell’art. 10, par.
2, d.q. 577/2003.
Non resta, allora, che attendere fiduciosamente il
pronto recepimento, da parte del legislatore italiano, nei termini previsti, delle dir. 41 e 42 del
2014, perché siano introdotti e resi operativi anche
nel nostro sistema giuridico forme e metodi innovativi di cooperazione interstatuale in materia penale, e perché il nostro Paese cessi di essere fanalino di coda dell’Europa nella trasposizione interna
sia della normativa pattizia, negoziata in via multilaterale nell’ambito del Consiglio d’Europa, sia degli atti dell’Unione che necessitino di recepimento
da parte degli Stati membri.
(57) Rimarcato anche dal C.S.M. nel suo parere sullo schema del D.Lgs. n. 35/2016, cit.
(58) Cfr., ad es., le specifiche condizioni di ammissibilità previste dall’art. 5 della citata Convenzione europea di assistenza
giudiziaria del 1959, per quanto riguarda l’esecuzione delle rogatorie aventi per scopo perquisizioni o sequestri; o dall’art. 18
della citata Convenzione sul riciclaggio del 1990, per quanto
concerne la cooperazione in materia di ricerca, sequestro e
confisca dei proventi di reato.
(59) Atto normativo dell’Unione, a tutt’oggi, inattuato nel
nostro Paese.
(60) In GUUE L 328 del 24 novembre 2006.
(61) Trasposto nel nostro ordinamento giuridico con il
D.Lgs. 7 agosto 2015, n. 137, che ha provveduto a recepirlo
già integrato delle revisioni apportategli dalla d.q.
2009/299/GAI del 26 febbraio 2009.
(62) In fase di recepimento da parte dello Stato italiano.
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Esecuzione delle misure non restrittive
Gli effetti del reciproco
riconoscimento per l’esecuzione
delle misure di sospensione
condizionale e delle sanzioni
sostitutive
di Felice Pier Carlo Iovino (*)
Il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 38 detta la disciplina sul trasferimento e la sorveglianza delle misure di sospensione condizionale della pena e delle sanzioni sostitutive tra Stati della comunità,
per favorire il reinserimento e la riabilitazione sociale del condannato, nel rispetto del diritto alla
libera circolazione all’interno dell’Unione europea, e migliorare il controllo del rispetto degli obblighi e delle prescrizioni.
Decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio del 27 novembre 2008
Applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni
di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione
condizionale e delle sanzioni sostitutive.
D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 38
G.U. 14 marzo 2016, n. 61 (in vigore dal 29 marzo 2016).
Modifiche
Il D.Lgs. n. 38 del 2016 non ha introdotto alcuna modifica alle leggi vigenti.
La decisione quadro 2008/947/GAI
Il D.Lgs. n. 38/2016 dà attuazione alla decisione
quadro 2008/947/GAI del Consiglio europeo, del
27 novembre 2008, volta ad estendere tra gli Stati
dell’Unione il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie relative all’esecuzione delle pene non restrittive della libertà personale (1). La disciplina - che sostituisce le disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa,
firmata a Strasburgo il 30 novembre 1964 e ratifi(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Cfr. N. Plastina, L’esecuzione delle pene detentive, in
“Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano, a
cura di L. Kalb, Torino, 2012, 616.
(2) M. Pisani, La “Convenzione europea per la sorveglianza
delle persone condannate o liberate con la condizionale” e l’ordinamento italiano, in L’indice penale, 1992, fasc. 2, 193 ss.; N.
1148
cata dall’Italia con la L. 15 novembre 1973, n.
772, che regolavano la sorveglianza delle persone
condannate o liberate con la condizionale (2) detta le norme alle quali le autorità competenti degli Stati membri si devono attenere per riconoscere
e garantirne l’esecuzione e la sorveglianza, sul proprio territorio, delle misure che seguono alla sospensione condizionale della pena ed alla applicazione delle sanzioni sostitutive, imposte da autorità
competenti di uno Stato straniero membro. Il
Galantini, Esecuzione di misure condizionali all’estero: problemi
applicativi, in L’indice penale, 1985, fasc. 1, 210 ss.; M.L. Padelletti, Esecuzione della Convenzione per la sorveglianza delle
persone condannate o liberate sotto condizione, in Riv. dir. int.,
1983, fasc. 1, 48 ss.; V. Esposito, La convenzione europea per
la sorveglianza delle persone condannate o liberate con la condizionale, in Giust. pen., 1977, fasc. 6, pt. 3, 381 ss.
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provvedimento completa il quadro delle disposizioni che danno attuazione al principio del reciproco
riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei paesi
dell’Unione, che ha già ricevuto applicazioni relativamente alla disciplina: del mandato d’arresto europeo e delle procedure di consegna tra Stati membri (L. 22 aprile 2005, n. 69); delle sentenze penali
che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale (D.Lgs. 7 settembre 2010, n.
161); delle decisioni sulle misure alternative alla
detenzione cautelare nella fase pre-processuale
(D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 36). Si aggiunge così
un altro tassello al modello che persegue la libera
circolazione, nell’ambito dei Paesi aderenti, dei
provvedimenti emanati dall’autorità giudiziaria di
uno Stato, in conformità alla propria legislazione,
riconosciuti ed idonei a produrre effetti diretti sul
territorio di Stati diversi, senza necessità di interventi di forme di determinante intermediazione
politico-amministrativa, ma con ricorso a contatti
diretti tra le autorità giudiziarie nazionali.
L’intento è di garantire, in un comune spazio di
giustizia basato sulla fiducia reciproca, a tutte le
persone da sottoporre alla esecuzione di sanzioni
penali limitative della libertà la possibilità di scontarle nel luogo di residenza, di fatto o d’elezione, a
condizioni non diverse da quelle riservate ai residenti, favorendo, nel contempo, il reinserimento
sociale, mediante il mantenimento dei legami familiari, linguistici, sociali e culturali con il Paese
di abituale dimora e rafforzando il senso di sicurezza, facendo ricorso ai necessari controlli ed all’eventuale repressione di atteggiamenti contrari agli
obblighi discendenti dalle misure penali, nel luogo
di effettiva residenza (considerando n. 8). Condizione preliminare al giudizio di riconoscimento è la
compatibilità delle decisioni, da rendere eseguibili
sul territorio di uno Stato diverso da quello di
emissione, nella fattispecie il nostro, con i principi
dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti
fondamentali di libertà e del giusto processo.
L’art. 25 della decisione quadro ne prevedeva l’attuazione da parte degli Stati membri entro il 6 dicembre 2011.
Il D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 38
L’oggetto
Oggetto della normativa può essere una decisione
definitiva, emessa da un organo giurisdizionale,
con la quale è applicata, in luogo di una pena de-
tentiva o restrittiva, una sanzione che non esclude,
ma limita la libertà, mediante imposizione di obblighi e prescrizioni. Nell’impossibilità di procedere
ad una elencazione compiuta degli istituti interessati, che vigono in ciascuno degli Stati dell’Unione, è rimesso all’interprete il compito di risalirvi ricorrendo, da una parte, ai criteri generali che delimitano la categoria (art. 2), dall’altra, agli obblighi
ed delle prescrizioni che possono importare (art.
4).
Nella categoria rientrano istituti che importano:
- la sospensione condizionale, concessa al momento
della condanna, di una pena detentiva o di una
misura restrittiva della libertà personale, con una
corrispondente imposizione di obblighi e prescrizioni;
- una condanna ad una pena condizionalmente differita, con l’imposizione di uno o più obblighi e prescrizioni disposti in luogo della pena detentiva o
della misura restrittiva;
-una sanzione sostitutiva, diversa da una pena detentiva, da una misura restrittiva della libertà, da una
pena pecuniaria, che impone obblighi ed impartisce prescrizioni;
- una liberazione condizionale, che prevede la liberazione anticipata di persona condannata, dopo che
abbia scontato parte della pena detentiva, anche
attraverso l’imposizione di obblighi e prescrizioni (3), tutte decisioni che rispondono alla doppia
condizione di una condanna a pena detentiva o restrittiva della libertà personale, sospesa o differita,
con sottoposizione ad uno o più tra obblighi e prescrizioni.
Gli obblighi e le prescrizioni, che possono rientrare
tra quelli che, imposti con la sospensione condizionale della pena, le sanzioni sostitutive o la liberazione condizionale, danno contenuto alla sanzione,
sono elencati nell’art. 4 del decreto e comprendono: - l’obbligo di comunicare i cambiamenti di residenza o di posto di lavoro; - il divieto di frequentare determinate località; le restrizioni del diritto
di lasciare il territorio dello Stato di esecuzione; le istruzioni riguardanti il comportamento, la residenza, l’istruzione e la formazione, le attività ricreative, o contenenti limitazioni o modalità di
esercizio di un’attività professionale; - l’obbligo di
presentarsi nelle ore fissate presso una determinata
autorità;- l’obbligo di evitare contatti con determinate persone; - l’obbligo di evitare contatti con determinati oggetti che sono stati usati o che potrebbero essere usati dalla persona condannata a fini di
(3) Vedi, sub art. 2, lett. c-d-e-f, L. 15 ottobre 1973, n. 772.
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1149
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reato; - l’obbligo di risarcire finanziariamente i
danni causati dal reato; - l’obbligo di svolgere un
lavoro o una prestazione socialmente utile; - l’obbligo di cooperare con un addetto alla sorveglianza
della persona o con un rappresentante di un servizio sociale; - l’obbligo di assoggettarsi a trattamento terapeutico o di disintossicazione. Trattasi di
elencazione, indicativa non esaustiva, che rende irrilevante, perché superflua, la mancata riproposizione nel decreto della disposizione che, nella legge
quadro, prevedeva la possibilità, per uno Stato
membro di dichiarare la propria disponibilità ad
esercitare la sorveglianza su misure diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste.
Le decisioni delle nostre autorità giudiziarie
che possono rientrare nella previsione
Le decisioni delle nostre autorità giudiziarie che,
come Stato di emissione, rispondono alle caratteristiche su indicate, sono: la liberazione condizionale, nelle ipotesi in cui sono imposte prestazioni (4);
la sospensione condizionale della pena (5); la sanzione sostitutiva della libertà controllata (6); il lavoro di pubblica utilità per i tossico dipendenti (7).
La liberazione condizionale è prevista per il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di
esecuzione della pena, ha tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
Potrà essere ammesso alla misura se ha scontato almeno trenta mesi, e comunque, almeno metà della
pena inflittagli, ed il rimanente non superi i cinque
anni; se recidivo, nei casi preveduti dai capoversi
dell’art. 99, se ha scontato, almeno, quattro anni
di pena e non meno di tre quarti; se condannato
all’ergastolo, almeno, ventisei anni. La concessione
del beneficio è subordinata all’adempimento delle
obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che
l’interessato dimostri di trovarsi nell’impossibilità
di adempierle. Alla concessione segue la sottoposizione del condannato alla libertà vigilata (art. 230,
comma 1, n. 2, c.p.), misura di sicurezza che importa obblighi e prescrizioni che possono prevedere
ore di obbligatoria permanenza nell’abitazione, limitazioni alla libertà di muoversi sul territorio,
l’impegno di presentarsi periodicamente alle autorità di polizia, di avere rapporti con l’UEPE, - ufficio di esecuzione penale esterno - il tutto finalizzato a favorire il reinserimento sociale mediante il lavoro.
(4) Art. 176 c.p.
(5) Art. 163 c.p.
(6) Art. 53, L. 24 novembre 1981, n. 689.
1150
La sospensione condizionale della pena, più propriamente sospensione condizionale dell’esecuzione (8), è un istituto che consente al giudice, anche
a quello d’appello, di sospendere, anche d’ufficio,
l’esecuzione della pena che infligge alla presenza di
una serie di presupposti che riguardano tipo e l’ammontare della sanzione, i precedenti penali del
condannato, la formulazione di una prognosi favorevole sui comportamenti futuri del beneficiario: si
asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 164, comma 1, c.p.). Il giudice può subordinare la sospensione; deve subordinarla, quando la concessione è a
favore di persona che ne ha già beneficiato, al risarcimento del danno ed alla prestazione di attività
non retribuite a favore della collettività, obblighi
tassativi, che trovano riscontro nelle lett. h) ed
i) dell’art. 4 D.Lgs., che in caso di rifiuto di prestazione importano revoca del beneficio.
Tra le sanzioni sostitutive disciplinate dalla L. 24
novembre 1981, n. 689 - semidetenzione, libertà
controllata, pena pecuniaria della specie corrispondente -, non rientrano nella disciplina né la semidetenzione (art. 55), che comportando l’obbligo di
permanere in un istituto di detenzione, almeno
dieci ore al giorno, è da definire pena, sia pure ad
ore privativa della libertà, e la pena pecuniaria. Vi
rientra, invece, la libertà controllata, misura limitativa della libertà, da eseguire fuori dall’ambiente
carcerario, il cui contenuto sostanziale è costituito
dall’obbligo di soggiorno e da prescrizioni, espressamente previste (art. 56), tra le quali l’obbligo di
presentarsi almeno una volta al giorno, compatibilmente con le esigenze di studio o di lavoro, presso
l’ufficio di pubblica sicurezza o l’Arma dei carabinieri territorialmente competente.
Il comma 5 bis dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990 prevede che quando il reato è commesso da persona
tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di
condanna o di applicazione della pena su richiesta
delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p., su richiesta
dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del D.Lgs. 28
agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste, per una durata corrispondente a quella della
sanzione detentiva irrogata. Con la decisione il
(7) Art. 73, comma 5 bis, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
(8) G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale, Milano, 2015, 688 ss.
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Il procedimento di trasmissione all’estero
Le procedure che disciplinano la materia si articolano secondo due percorsi che prevedono: la trasmissione di una sentenza di condanna o di una
decisione che importa la sospensione condizionale
di una pena o sanzioni sostitutive, all’estero, per il
suo riconoscimento ed esecuzione sul territorio di
quello Stato; la ricezione dall’estero, con analoga richiesta, di un provvedimento emesso dalle autorità
di quello Stato (12). Nella prima ipotesi, una disposizione, in linea con il principio fissato negli
artt. 655, 665 c.p.p., fa obbligo al pubblico ministero, promotore dell’esecuzione, di trasmettere la
sentenza o l’ordinanza di liberazione condizionale
all’autorità competente dello Stato membro, nel
quale la persona condannata ha la residenza legale
e abituale, oppure, di uno Stato d’elezione. Allo
Stato membro di legale od abituale residenza, obbligato in quanto sottoscrittore della Convenzione,
all’esecuzione sul proprio territorio delle decisioni
penali di uno Stato membro, non deve essere richiesto un previo assenso, che deve essere, invece,
richiesto allo Stato di elezione. Nel primo caso, l’iniziativa, anche se non è da escludere un’attività
sollecitatoria del condannato, è rimessa al procuratore generale, nella seconda, al condannato, implicando una scelta che importa, è da ritenere, un obbligo di motivazione ad evitare manovre dilatorie.
La disciplina, di fatto, pone una ulteriore eccezione
all’obbligo fatto al pubblico ministero, artt. 659,
661 c.p.p., di promuovere l’esecuzione, che è sospesa in attesa della decisione sul riconoscimento da
parte dell’autorità dello Stato estero.
Avverso il mancato accoglimento dell’invito a trasmettere gli atti all’autorità straniera, sia che si
tratti di provvedimento formale di rigetto di un
sollecito in tal senso rivoltogli, oppure, indiretto,
come l’emissione dell’ordine di esecuzione, l’interessato può promuovere incidente di esecuzione (13).
Il provvedimento, con il quale è disposta la trasmissione all’estero, è inviato, unitamente a copia
del titolo esecutivo e ad un certificato, come da
previsto modulo (allegato I) (14), al Ministero della giustizia che provvede all’inoltro, con qualsiasi
mezzo che lasci una traccia scritta, previa traduzione, se necessaria, nella lingua dello Stato di destinazione, per consentire all’autorità che li riceve di
prenderne immediata cognizione, e favorire la per-
(9) M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario,
Milano, 2010, 237.
(10) Cfr. D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 51 ss.
(11) Vedi art. 13, comma 1, lett. g),e l’art. 13, lett. g).
(12) Ad agevolare lo sviluppo delle previste procedure, è
fatto obbligo agli Stati membri, di comunicare al segretario generale del Consiglio Europeo le autorità competenti a compiere atti di esecuzione e sorveglianza che, qualora, in ragione
della diversità dei sistemi, dovessero risultare assegnati ad
autorità non giudiziarie, devono consentire l’intervento, a garanzia, di un tribunale o di un organismo giurisdizionale indipendente.
(13) Cass., sez. I, 23 marzo 1999, P.M. in proc. Arangio, in
CED Cass. 216086.
(14) Il menzionato allegato consiste in un certificato da usare per lo scambio delle informazioni salienti, relative al caso. In
pratica, è formato da un complesso di voci, campi da riempire
e caselle da barrare.
giudice incarica l’UEPE, di verificare l’effettivo
svolgimento del lavoro e di riferire periodicamente.
In caso di violazione degli obblighi connessi allo
svolgimento del lavoro, su richiesta del pubblico
ministero o d’ufficio, il giudice che procede in quel
momento, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’art. 666 c.p.p., tenuto conto dell’entità
dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della sanzione sostitutiva con conseguente ripristino di quella sostituita.
La presenza di un comune dato distintivo, rappresentato dalla previsione di procedure che consentono al condannato a pena detentiva di recuperare,
fin dal momento della condanna o nel corso della
successiva esecuzione, quote di libertà con la sostituzione della misura privativa con altre limitative,
induce ad escludere dalla previsione, la liberazione
condizionale speciale, concessa ex art. 8, L. 9 maggio 1982, n. 304, che prevede la sospensione dell’esecuzione senza imposizione di obblighi o prescrizioni; la sospensione condizionale della pena, nelle
ipotesi in cui non è prevista l’applicazione di prescrizioni; la sospensione dell’esecuzione, per reati
commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza, art. 90, d.P.R. n. 309/1990, che importa
la disapplicazione della pena, senza introduzione di
meccanismi sostitutivi, sanzionatori o di controllo (9).
Sono fuori dalla previsione, ma per motivo ben diverso, le sanzioni inflitte dal giudice di pace (10)
in quanto pene che per durata non superano i sei
mesi. Il decreto legislativo, infatti, per un motivo
di ordine pratico, evitare trasferimenti di adempimenti che potrebbero risultare sostanzialmente
inutili in ragione di una ridotta durata, esclude il
ricorso alla procedura di riconoscimento per sanzioni che all’atto in cui la richiesta perviene al Ministero (o alle autorità competenti in caso di corrispondenza diretta), devono essere adempiute o osservate per un periodo inferiore a sei mesi (11).
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1151
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sona assoggettata al procedimento nell’esercizio del
suo diritto di difesa (15). Alla traduzione può, anche, provvedere direttamente l’autorità giudiziaria
che, in tal caso, procederà direttamente all’invio
dandone comunicazione al Ministero della giustizia. L’intermediazione del ministero, sostituibile
con il ricorso ad una informativa, trova spiegazione, sotto un profilo pratico, nel fatto che è l’autorità in grado di dare certezze in ordine alla sussistenza del regime di reciprocità, posto a base del rapporto diretto tra autorità giudiziarie dei due Stati,
sotto un profilo strutturale, nell’interesse politico
dello Stato ad essere informato in ordine a provvedimenti, incidenti sul diritto di libertà, da eseguire,
nei confronti di residenti sul proprio territorio.
L’attribuzione della funzione al ministero, non al
ministro, serve a rimarcare che trattasi di attività
materiali che non comportano poteri decisionali.
La trasmissione all’estero del titolo, esonera le
autorità dello Stato di emissione dal dovere di applicare obblighi e prescrizioni del quale si faranno
carico le autorità competenti dello Stato estero
che avvieranno la procedura di riconoscimento ed,
all’intervento di questo, vi daranno esecuzione.
Questo iter può essere interrotto, in qualunque momento, per rinuncia del condannato alla residenza
nello Stato di elezione:
prima che abbia avuto inizio l’esecuzione, per il ritiro del certificato da parte del pubblico ministero
dello Stato di emissione, perché l’autorità competente dello Stato estero ha comunicato che la propria legislazione prevede, in riferimento al reato
per cui è intervenuta condanna e per il caso di violazione degli obblighi e prescrizioni, l’applicazione
di una misura restrittiva della libertà personale per
una durata superiore a quella prevista per situazioni
corrispondenti dalla legislazione interna e che ha
assunto la decisione di adattare a quelle le misure;
ad esecuzione avviata, quando il pubblico ministero procedente è informato, dall’autorità dello Stato
estero che la persona condannata si è sottratta all’esecuzione o non ha più in quello Stato la residenza e la dimora abituale; quando assume ad elementi di valutazione, ai fini della decisione in ordine ad eventuali, nuovi provvedimenti in sede esecutiva (cumuli, revoche), la durata ed il grado di
osservanza delle prescrizioni e degli obblighi impartiti durante il periodo in cui la persona condannata
è stata sorvegliata all’estero.
(15) L. Kalb, Il rafforzamento dei diritti e gli effetti nell’ordinamento italiano, in Spazio europeo di giustizia” e procedimento
penale italiano, cit., 353.
1152
Il pubblico ministero deve dare comunicazione delle decisioni all’interessato, al Ministero della giustizia e all’autorità competente dello Stato di esecuzione, con l’indicazione dei motivi che le hanno
determinate, entro dieci giorni. Nella logica del sistema la comunicazione al Ministero deve essere
sempre data, anche se è legislativamente prevista
nei soli casi in cui è stato quell’ufficio a provvedere
alla trasmissione del primo atto (art. 7, comma 4).
L’Autorità dello Stato di esecuzione
La competenza a decidere sul riconoscimento del
titolo emesso da un’autorità straniera, al trasferimento sul territorio dello Stato italiano della relativa esecuzione e sorveglianza, appartiene alla Corte di appello nel cui distretto la persona condannata ha, oppure, ha dichiarato di voler prendere la residenza legale o abituale. La Corte officiata, controlla, anzitutto la propria competenza; se rileva la
sua incompetenza territoriale, la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti a quella
competente, dandone tempestiva informazione, anche tramite il Ministero della giustizia, all’autorità
dello Stato di emissione. Accerta, successivamente,
che il titolo da eseguire, emesso e sottoscritto da
un giudice, sia esecutivo. Nel caso sia pervenuto
non tradotto in lingua italiana, come previsto, è da
ritenere, pur mancando una disposizione sanzionatoria, che debba restituirlo per richiedere l’adempimento, a meno che possa provvedere direttamente
senza oneri per lo Stato. Condizioni per il riconoscimento sono, con quella relativa alla residenza:
che il fatto, per il quale la condanna è stata irrogata, costituisca reato, anche, per l’ordinamento italiano secondo una valutazione che prescinda dagli
elementi costitutivi o nominativi;
che la durata e la natura degli obblighi e prescrizioni imposti siano compatibili con la legge italiana,
con possibilità di ricorrere agli adeguamenti opportuni con deroghe minime.
Nel procedere al riconoscimento, la Corte è vincolata alla natura giuridica e alla durata della sanzione, entro i limiti previsti dallo Stato della condanna, il superamento dei quali, importerebbe la rottura di quell’ordinamento (16). Gli adattamenti ammessi sono quelli strettamente necessari; non possono essere introdotti aggravamenti che importano
violazione del principio di tipizzazione delle sanzioni e di durata, con effetto di reformatio in pejus.
(16) Corte cost. sent. 19 marzo 2001, n. 73, in Foro it.,
2001, I, 1441.
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Il procedimento di riconoscimento
A differenza dell’art. 5, comma 4, D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161, recante “Disposizioni per confor-
mare il diritto interno alla Decisione quadro
2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative
della libertà personale, ai fini della loro esecuzione
nell’Unione europea” - che stabilisce le ipotesi in
cui la trasmissione all’estero della sentenza di condanna deve essere oggetto di consenso da parte
della persona condannata - il D.Lgs. in esame nulla
dice in proposito. Il silenzio lascia intendere che il
trasferimento dell’esecuzione, nell’ipotesi cui non è
il condannato ad eleggere lo Stato di esecuzione,
come esercizio di una sorta di elezione di domicilio
che importa, anche quella del giudice incaricato
della sorvegliarla, può avvenire senza il suo consenso. Competente è la Corte di appello nel cui distretto la persona condannata ha la residenza legale
od abituale, nel momento in cui la richiesta è trasmessa, ovvero, dove ha manifestato la volontà di
trasferirsi.
Il richiamo all’art. 127 c.p.p., indica la procedura
da seguire per fissare il calendario d’udienza, per
comunicazioni, notifiche, presentazione di memorie, rinvii, esclusione del pubblico dalle udienze,
verbalizzazioni, necessità di garantire all’interessato
una partecipazione consapevole al procedimento,
effettivo esercizio del diritto al contraddittorio,
mediante l’assistenza gratuita di un interprete tutte
le volta in cui non parli o non comprenda la lingua utilizzata (18). Ricordato che, in ordine alla
previsione della verbalizzazione, soltanto in forma
riassuntiva (comma 10), la Corte costituzionale (19) ne ha dichiarato l’illegittimità nella parte
in cui non ammette la possibilità di ricorrere ad
una verbalizzazione integrale, ulteriori dubbi di legittimità costituzionale si propongono con riferimento alla previsione di una udienza, che già tollera l’irrilevanza per il legittimo impedimento del difensore (20), per la quale è esclusa la forma pubblica.
(17) Deroghe a tale principio, sono presenti sia a livello di
normativa dell’Unione europea, sia di legislazione nazionale.
L’art. 8, comma 1, della L. 22 aprile 2005, n. 69, sul mandato
di arresto europeo, prevede la consegna obbligatoria dell’arrestato, anche indipendentemente dalla sussistenza della doppia
incriminazione, per una lunga serie di fatti puniti per i quali sono previste pene o misure privative della libertà personale pari
o superiori a tre anni; analoga la disposizione del D.Lgs. n.
161/2010 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea), articolo
11 (Deroghe alla doppia punibilità), che fa richiamo al citato
art. 8, comma 1, L. n. 69/2005; art. 14 della Decisione quadro
2009/829/GAI, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’Unio-
ne europea del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare e dall’art. 11 del D.Lgs. n. 36/2016.
(18) Il diritto all’assistenza linguistica è richiamata nella
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, art. 5, par. 2 e 6, par. 3, lett. a) ed e),
e nel Patto internazionale dei diritti civili e politici, art. 14, par. 3,
lett. f), come garanzia di ogni accusato di essere informato in
una lingua a lui comprensibile ed in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, nonché il diritto all’assistenza gratuita di un interprete se non comprende
o non parla la lingua usata in udienza.
(19) Corte cost. sent. 3 dicembre 1990, n. 529, in Giur.
cost., 1990, 3052.
(20) L’effettività del diritto di difesa, non deve necessariamente comportare che il suo esercizio debba essere disciplina-
Qualora la natura o la durata degli obblighi e delle
prescrizioni imposti dovessero risultare incompatibili con la disciplina del nostro ordinamento, per
reati corrispondenti, la Corte, previa informativa
all’autorità estera, procede ai necessari adeguamenti per rendere durata, obblighi, prescrizioni, non
più gravi rispetto a quanto previsto nelle due legislazioni. Da premessa, però, ad ogni condizione vale il principio che l’attuazione di una decisione,
che ha ad oggetto la libertà della persona, non può
importare rinuncia a nessuna delle garanzie costituzionali poste a salvaguardia della libertà della persona in tema di diritti fondamentali di libertà e di
giusto processo.
Il principio di doppia punibilità e le deroghe
Sulla premessa del necessario concorso della doppia punibilità, oppure, doppia incriminabilità (17),
nello Stato a richiedente ed in quello ricevente,
del fatto per cui è intervenuta condanna, indipendentemente dalla diversità dei regimi sanzionatori,
è dettato (art. 11), in deroga, un nutrito elenco di
reati che, se sanzionati nello Stato di emissione
con una pena detentiva o una misura privativa della libertà personale della durata massima non inferiore a tre anni, devono essere, comunque, riconosciuti nello Stato di esecuzione. Tra le fattispecie
enumerate si evidenziano delitti tra i più gravi, come l’associazione a delinquere, terrorismo, tratta di
esseri umani, e reati poco più che bagatellari, come
truffa e frode. La Corte, investita della richiesta,
dopo quello sulla competenza, deve procedere all’accertamento della corrispondenza tra la definizione dei reati per i quali è richiesta il riconoscimento e le fattispecie medesime, rigettando, in caso negativo, la richiesta.
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La Corte di Strasburgo, ha, con vari interventi.
censurato previsioni analoghe reputandole in contrasto con l’art. 6, par. 1, Convenzione EDU, nella
parte in cui stabilisce che “ogni persona ha diritto
a che la sua causa sia esaminata ... pubblicamente
e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale
indipendente e imparziale ...”. Ha motivato che
l’indicata disposizione ritiene “essenziale” che “le
persone coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano, almeno, offrire la possibilità di sollecitare una pubblica
udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello”. “La pubblicità delle
procedure”, aggiunge, “tutela le persone soggette
alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che
sfugge al controllo del pubblico … contribuendo
… a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l’equo processo” (21).
Il tema è stato recepito dalla Corte costituzionale,
la quale in aderenza all’interpretazione data alla
fonte convenzionale - assurta al rango di fonte interposta rispetto all’art. 117, comma 1, Cost., ha
dichiarato l’illegittimità: degli artt. 666, comma 3,
e 678, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di fronte al Tribunale di sorveglianza nelle
materie di sua competenza si svolga nelle forme
dell’udienza pubblica (22); degli artt. 666, comma
3, 667, comma 4, e 676 c.p.p., nel procedimento di
opposizione avverso l’ordinanza in materia di applicazione della confisca (23); artt. 4, L. 27 dicembre
1956, n. 1423, e 2 ter, L. 31 maggio 1963, n. 575,
nel procedimento di prevenzione (24); artt. 666,
comma 3, 678, comma 1, 679, comma 1, c.p.p.,
nel procedimento di applicazione delle misure di
sicurezza (25). Orbene, se si considera che oggetto
del procedimento in esame è il riconoscimento di
to in modo identico nella multiforme tipologia dei procedimenti disciplinati nel codice di procedura penale, dovendosi tener
conto che la specificità dei procedimenti di esecuzione e sorveglianza rende necessario assicurare celerità nell’applicazione
del giudicato per cui la partecipazione del difensore può essere soddisfatta mediante l’intervento di altro difensore, immediatamente reperibile, designato come sostituto ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p., Cass., SS.UU., 27 giugno 2006, Passamani, in CED Cass. 234147.
(21) Cfr. CEDU, sent. 15 novembre 2007, Bocellari e Rizza
c. Italia in www.echr.coe.it; vedi pure A. Macchia - P. Gaeta,
Procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione e
regime di pubblicità, in Cass. pen., 2008, 2657; sent. 8 luglio
2008, Pierre ed altri c. Italia in www.echr.coe.it; sent. 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia in www.echr.coe.it.
(22) Corte cost. sent. 15 aprile 2015, n. 97, in Dir. pen.
cont., 2015 con nota di L. Carboni, La corte costituzionale prosegue il suo cammino verso l’affermazione del principio di pubblicità.
1154
decisioni che importano conferma, oppure, l’adattabilità di misure che sostanzialmente coincidono
con gli obblighi e le prescrizioni delle misure di sicurezza (libertà vigilata), o di una sanzione sostitutiva (libertà controllata), non è difficile prevedere
che anche rispetto alla procedura richiamata (art.
127 c.p.p.) debba proporsi una analoga soluzione.
La decisione è definita sentenza (artt. 9, comma 2,
12, comma 5, 14, comma 1), contrariamente alla
definizione che ne dà l’art. 127, comma 7, c.p.p.,
per il quale è ordinanza. Deve essere emessa nel
termine di trenta giorni dal ricevimento della richiesta che, per circostanze eccezionali, è prorogato di venti giorni, con corrispondente obbligo per
il presidente della Corte di informarne dei motivi
l’autorità dello Stato di emissione. La sentenza è
impugnabile, anche per motivi di merito, con ricorso per Cassazione, a sensi delle disposizioni di
cui all’art. 22 della L. 22 aprile 2005, n. 69, in attuazione del principio costituzionale (art. 111,
comma 7, Cost.) che prevede la ricorribilità dei
provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli
organi giurisdizionali ordinari o speciali. Legittimati al
ricorso sono il procuratore generale, il condannato,
il difensore. Non è prevista la legittimazione delle
autorità dello Stato di emissione, malgrado non le
si possa negare un interesse a promuovere il controllo giurisdizionale su una decisione di cui è stata
richiedente (26). Il ricorso, che non sospende l’esecuzione, deve essere deciso entro trenta giorni.
La decisione
Il “riconoscimento”, è il provvedimento con il quale l’autorità competente dello Stato di esecuzione
conclude, favorevolmente, il procedimento finalizzato a rendere eseguibile sul territorio dello Stato
una decisione giudiziaria emessa dalle autorità di
(23) Corte cost. sent. 15. giugno 2015, n. 109, in Dir. pen.
cont., 2015.
(24) Corte cost. sent. 12 marzo 2010, n. 93, in Giur. cost.,
2010, 1053. Cfr. P.V. Molinari, L’assenza di pubblicità dell’udienza nel procedimento di prevenzione, in Cass. pen., 2010,
3818; M. Naddeo, Un passo avanti verso il consolidamento garantistico del processo di prevenzione, in questa Rivista, 2010,
832.
(25) Corte cost. sent. 21 maggio 2014, n. 135, in Dir. pen.
cont., 2014, con nota di E. Lorenzetto, Applicazione delle misure di sicurezza innanzi al giudice di sorveglianza: una declaratoria
di incostituzionalità “convenzionale” imposta dal principio di
pubblicità dei procedimenti giudiziari; Cfr. pure M.G. Coppetta,
L’udienza “a porte chiuse” nei procedimenti di merito per l’applicazione delle misure di sicurezza: ancora un rito camerale incompatibile con il giusto processo, in Cass. pen., 2014, 4114.
(26) Cass., Sez. VI, 5 febbraio 1999, in Arch. n. p.p., 1999,
311.
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uno Stato estero. Può essere rifiutato solo se ricorre
uno dei motivi tassativamente elencati (art. 13):
a) se il condannato non ha residenza o dimora abituale nello Stato e non ha manifestato la volontà
di stabilirvisi; b) se il fatto per cui la condanna è
stata irrogata non è previsto come reato anche dall’ordinamento italiano; c) se il reato per il quale è
intervenuta condanna non rientra tra quelli previsti; d) se gli obblighi imposti sono, per durata e natura, incompatibili con la legislazione italiana; e)
se il certificato trasmesso è incompleto o non corrisponde manifestamente alla sentenza o alla decisione di liberazione condizionale e, richiesto, non è
stato completato o corretto entro il termine fissato;
f) se il riconoscimento della sentenza e il trasferimento della sorveglianza violerebbe il divieto di ne
bis in idem e sottoporrebbe una persona, già definitivamente giudicata, ad una nuova esecuzione per i
medesimi fatti; g) se la pena è prescritta secondo la
legge dello Stato e per il fatto per il quale è intervenuta condanna sussiste la giurisdizione di quello
Stato; h) se sussiste una causa di immunità riconosciuta dall’ordinamento italiano che rende impossibile l’esecuzione; i) se la pena è stata irrogata nei
confronti di una persona che, alla data di commissione del fatto, non era imputabile per l’età, secondo la legge di quello Stato; l) se, alla data di ricezione della sentenza o della decisione di liberazione
condizionale da parte del Ministero della giustizia,
gli obblighi e le prescrizioni imposti debbano essere
adempiuti e osservati per un periodo inferiore a sei
mesi; m) se l’interessato non è comparso personalmente al processo terminato con la sentenza, a meno che il certificato attesti: 1) che, a tempo debito,
è stato citato personalmente ed informato della data e del luogo fissati per il processo, o che ne è stato, di fatto, informato ufficialmente, in modo da
stabilirsi inequivocabilmente che ne era al corrente
ed informato del fatto che una decisione poteva essere emessa anche in caso di mancata comparizione
in giudizio; 2) ovvero che, essendo al corrente della data fissata per il processo, ha conferito mandato
ad un difensore, anche se originariamente nominato d’ufficio, da cui è stato assistito in giudizio; ovvero; 3) ovvero che, dopo aver ricevuto la notifica
della decisione ed essere stato espressamente informato del diritto a un nuovo processo o ad un ricorso in appello, ha dichiarato espressamente di non
L’esecuzione
Per effetto della sentenza di riconoscimento il titolo emesso dall’autorità straniera è equiparato ad un
titolo equivalente, emesso da una autorità giudiziaria nazionale (27), con il conseguente obbligo per
il pubblico ministero competente, che ne deve essere informato, di darvi esecuzione. L’equiparazione
attiene alla sola esecuzione, ai giudizi connessi (28), con esclusione di ogni estensione a giudizi
diversi. Compete, perciò, alle autorità di esecuzione estera, in ipotesi a quelle italiane, di procedere
per l’eventuale riduzione dei tempi di durata della
sanzione, per concessione della liberazione anticipata (29), non quella di pronunciarsi su una do-
(27) N. Plastina, L’esecuzione delle pene detentive, in Spazio
europeo di giustizia e procedimento penale italiano, a cura di L.
Kalb, 2012, 613.
(28) La Corte costituzionale, con sent. 22 marzo 2001, n.
73, in Giur. it., 2001, 1801, si è pronunciata per l’applicazione
degli istituti di diritto penitenziario ai detenuti trasferiti dall’estero.
(29) Sarebbe irrazionale concedere la liberazione anticipata
all’affidato in prova e non al libero condizionale sul quale gravano prescrizioni più restrittive; conforme, Cass., Sez. I, 19 lu-
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opporsi alla decisione o non ha richiesto un nuovo
processo o presentato ricorso in appello entro il
termine stabilito; m) se la sentenza o la decisione
di liberazione condizionale prevede una misura di
trattamento medico o psichiatrico incompatibile
con il sistema penitenziario o sanitario dello Stato,
fatta salva possibilità di ricorrere ad adeguamenti;
n) se la sentenza si riferisce a reati che, in base alla
legge dello Stato, sono considerati commessi per
intero o in parte all’interno del suo territorio o in
altro luogo a questo equiparato. In specifiche situazioni, richiamate nel comma 3 dell’art. 13, per motivi inerenti alla rilevata insussistenza delle condizioni per il riconoscimento, tra le quali la violazione del principio di ne bis in idem, della clausola di
territorialità, delle regole che disciplinano il procedimento in absentia, la Corte prima di decidere per
il rifiuto del riconoscimento, è tenuta a consultare,
anche tramite il Ministero della giustizia, l’autorità
competente dello Stato di emissione, richiedendo
ogni informazione utile; in altre, invece, le è consentito di decidere, d’accordo con l’autorità dello
Stato di emissione, di sorvegliare gli obblighi e le
prescrizioni imposti con la decisione, senza assumere la competenza ad adottare decisioni di modifica
o revoca, ovvero, di imposizione di misure restrittive della libertà personale. In tali ipotesi è tenuta
ad informare, ricorrendo ad un particolare modulo
(allegato II al decreto) l’autorità dello Stato di
emissione di qualsiasi circostanza o elemento conoscitivo che potrebbe comportare l’adozione di uno
o più decisioni per l’inosservanza degli obblighi e
prescrizioni imposti.
1155
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manda di revisione (art. 629 c.p.p.), o su un ricorso
per cassazione per errore materiale o di fatto (art.
625 bis c.p.p.), che attengono, comunque, al merito, ma neppure sulla revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena, concesso in violazione dell’art. 164, comma 4, c.p., in presenza di
cause ostative, non documentalmente note al giudice della cognizione, anche se trattasi di competenza riconosciuta al giudice di esecuzione dell’autorità remittente (30).
L’espresso richiamo all’amnistia, causa di estinzione del reato, ed all’indulto e alla grazia, cause di
estinzione della pena, contenuto nell’art. 14, comma 1, del decreto, è dovuto alla ritenuta opportunità di prevenire l’insorgere di contrasti registrati,
in materia analoga, sull’applicabilità dell’indulto ai
detenuti trasferiti dall’estero in Italia con la procedura prevista dalla Convenzione di Strasburgo del
21 marzo 1983 (31).
Il riconoscimento del titolo esecutivo, l’assunzione
dell’impegno a darvi esecuzione, da parte delle
autorità di uno Stato diverso da quello della condanna, non estingue il dovere di esecuzione che fa
carico all’autorità di quello Stato, più limitatamente lo sospende e condiziona ad una collaborazione
che importa l’obbligo di rifarsi carico delle relative
attività quando l’impegno dell’altro dovesse venir
meno. In questo quadro di concorso di competenze, risultano evidenti le ragioni che importano
l’obbligo per le due autorità di tenersi, reciprocamente e tempestivamente, informate, di tutte le
circostanze che dovessero intervenire a modifica o
cessazione della sanzione.
A provvedere all’esecuzione in Italia della decisione delle autorità estere riconosciuta, è chiamato,
nel rispetto del principio generale, artt. 655 c.p.p.,
il Procuratore generale presso la Corte d’appello
che ha proceduto.
La disposizione non importa l’attribuzione diretta
del compito, ma l’obbligo di farsene promotore, di
assumere le opportune iniziative, di officiare gli organi secondo le proprie competenze. Queste, considerati anche, i ripetuti richiami del decreto legislativo alla funzione rieducativa attribuita alle sanzio-
La sorveglianza sull’esecuzione
Risocializzare il condannato non è il fine delle sole
pene detentive, ma di tutte le pene, in particolare
di quelle misure e sanzioni accumunate nell’obbligo di non provocare rotture nelle relazioni tra soggetto e comunità, di favorirne il ristabilimento
quando la rottura si è verificata. Questa esigenza,
rientrante tra le motivazioni che giustificano l’esecuzione di una decisione penale sul territorio di
uno Stato diverso da quello nel quale sono state
inflitte, deve essere assunta tra le linee guida di interpretazione delle norme del decreto. Le fattispecie richiamate nella previsione, a prescindere dalle
definizioni, si compendiano in sanzioni non restrittive che, in differenziati regimi di libertà vigilata,
controllata, consentono al condannato, con il supporto di persone specializzate, di superare momenti
di difficoltà, in ambito familiare, sociale, per riportarli a rapporti di vita ordinata. Nel nostro ordinamento tra gli istituti che ne possono risultare interessati, sopra individuati, i principali sono: la liberazione condizionale e le sanzioni sostitutive, che si
sostanziano nell’imposizione di obblighi e prescrizioni, diverse dalla pena detentiva e dalla pena pecuniaria, ma che importano limitazioni e controlli
della libertà. La liberazione condizionata importa
l’anticipata liberazione del condannato e la sua
ammissione a proseguire nella espiazione della pena residua in regime di libertà vigilata, misura di
sicurezza personale, non detentiva (art. 228 c.p.),
in funzione di misura alternativa (32). Questa, applicata al caso, importa la sottoposizione a prescrizioni, dettate dal magistrato di sorveglianza, che ne
è il dominus, che hanno riguardo agli orari di obbli-
glio 2012, Cicciù, in CED Cass. 253691.
(30) Le sezioni unite della cassazione con sentenza 23 aprile 2015, P.M. in proc. Longo, in CED Cass. 264381, nel risolvere un contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che “il giudice dell’esecuzione deve revocare la sospensione condizionale della pena in presenza di cause ostative salvo che tali cause
risultassero documentalmente al giudice di cognizione”.
(31) Cass., SS.UU., sent. 10 luglio 2008, Napoletano, in
CED Cass. 240399.
(32) La liberazione condizionale, disciplinata come uno sta-
dio dell’esecuzione della pena, a seguito dell’intervento della
Corte costituzionale, sent. 4 luglio 1974, n. 204, in Giust. pen.,
1975, I, c. 17. Cfr. Patane, Giudice competente e procedimento
per la concessione della liberazione condizionale dopo la sentenza 4 luglio 1974, n. 204, della Corte costituzionale, in Giust.
pen., 1975, III, c. 247; che sul presupposto dell’art. 27, comma
3, Cost., dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 43, R.D.
28 maggio 1931, n. 602, che attribuiva al ministro la facoltà di
concederla e del legislatore, che prima ne assegnò la competenza, L. 12 febbraio 1975, n. 6, alla Corte d’Appello, poi con
1156
ni da eseguire, sono sostanzialmente riconducibili a
quelle disciplinate dagli artt. 659, comma 2, e 661
c.p.p., quindi, alla magistratura di sorveglianza, giudice specializzato. Pertanto, il procuratore generale,
cui perviene una sentenza di riconoscimento,
emessa dalla corte d’appello, che prevede l’applicazione di obblighi e prescrizioni da osservare e controllare, deve trasmetterla per l’esecuzione al magistrato di sorveglianza competente per territorio.
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gatoria presenza nell’abitazione, alle limitazioni dei
movimenti sul territorio, all’obbligo di presentarsi
periodicamente all’autorità di polizia, di tenere
rapporti con l’UEPE che favoriscano il reinserimento sociale mediante accesso al lavoro.
La sanzione sostitutiva, definita libertà controllata,
è, a sua volta, una misura limitativa della libertà
personale, da eseguire fuori dall’ambiente carcerario, il cui contenuto sostanziale è costituito dall’obbligo di soggiorno e da prescrizioni, espressamente
previste, tra le quali l’obbligo di presentarsi almeno
una volta al giorno, compatibilmente con le esigenze di studio o di lavoro, presso l’ufficio di pubblica sicurezza o l’Arma dei carabinieri territorialmente competente. Nei confronti di chi vi è sottoposto, il magistrato di sorveglianza può richiedere
l’intervento del servizio sociale quando lo ritenga
utile per favorire il reinserimento sociale. Com’è
facile rilevare libertà vigilata, in funzione di misura
alternativa, e libertà controllata, sanzione sostitutiva, sono strutturate secondo un comune modello
che importa limitazioni della libertà personale. Nonostante questa affinità di strutture, le due misure
si differenziano nei contenuti. La libertà vigilata, si
caratterizza per la previsione di prescrizioni non
predeterminate dalla legge, associati ad interventi
di sostegno e assistenza da svolgere dal servizio sociale, mentre la libertà controllata, con la fissità e
predeterminazione delle prescrizioni prevede un intervento solamente facoltativo del servizio sociale.
Il magistrato di sorveglianza è l’organo giudiziario
preposto a gestire e controllare l’esecuzione di entrambe le misure; a lui il procuratore generale dove
rimettere i titoli esecutivi, anche quando, provenienti da Stato estero, sono stati riconosciuti dalla
Corte d’appello. La figura specializzata del magistrato di sorveglianza, del resto, è quella che meglio
si adatta alla predisposizione di idonee modalità
esecutive, in una funzione che consente possibilità
di conoscenza della personalità del condannato,
delle sue concrete condizioni di vita, delle esigenze
risocializzatrici. In questo senso la figura del magistrato di sorveglianza è quella che meglio si presta
ad assolvere il compito in quanto giudice più “vicino”. L’espiazione nel comune in cui il soggetto ha
la sua dimora abituale e prevalente, estero rispetto
allo Stato di condanna, sotto questo profilo, potrà
meglio rispondere sia allo scopo della rieducazione,
facilitando l’inserimento del condannato nella società nella quale vive, ha scelto di vivere, sia della
sicurezza rendendo questa se non partecipe, quanto
meno testimone della relativa attività.
L. 10 ottobre 1986, n. 663, art. 22, che modificò l’art. 70, L. 26
luglio 1975, n. 6, al tribunale di sorveglianza, fu ritenuto da un
largo indirizzo di pensiero, spogliato degli originali connotati
clemenziali, per assumere le vesti di misura alternativa, F.P.C.
Iovino, Sulla diversa natura giuridica della liberazione condizionale generale - art. 176 c.p. - e speciale - art. 8.5.1982, n. 304,
in Cass. pen., 1991, 1547, 2091, contra, Canepa, Merlo, Manuale di diritto penitenziario, cit., 301. Tale indirizzo ha trovato
successiva convalida nella decisione della Corte costituzionale,
sent. 17 maggio 2001, n. 1274, in Giur. cost., 2001, 1108; che
ha riconosciuto la liberazione condizionale come istituto che
non solo si inserisce decisamente nell’ambito della finalità rieducativa della pena, ma che si pone, altresì, come momento
tendenzialmente terminale del trattamento progressivo di risocializzazione. Vedi, L. Degli Innocenti - F. Faldi, I benefici penitenziari, Milano, 2014, 322 ss.
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La revoca del riconoscimento
Qualora la persona condannata si sottragga all’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni impartiti, non mantenga la residenza legale e abituale nel
territorio dello Stato, commetta un nuovo reato, il
procuratore generale chiede alla corte di appello i
provvedimenti del caso. Questa, può disporre, se
ne ricorrono gli estremi, anche, la revoca del riconoscimento e la cessazione della sorveglianza, facendo ricorso al rito dell’art. 127 c.p.p. Qualora,
invece, è lo Stato di emissione ad avanzare la richiesta, perché a carico della persona condannata,
nello Stato estero, è in corso un nuovo procedimento penale, la Corte di appello può decidere, su
richiesta del procuratore generale, senza formalità,
di rimettere all’autorità competente dello Stato di
emissione l’esercizio dei poteri di sorveglianza. In
quest’ultima ipotesi, non è previsto un procedimento, perché, si ritiene, che non vi è nulla da accertare e da decidere, eppure, la restituzione dei
poteri di sorveglianza alle autorità dello Stato di
emissione, non può ignorarsi, implica la revoca di
una decisione giudiziaria, la sentenza di riconoscimento, inaudita altera parte.
Riflessioni conclusive
L’esame del testo legislativo consente un giudizio
positivo sulla estensione sul territorio di tutti gli
Stati membri dell’efficacia dei giudicati penali,
pronunciati dalle autorità di uno Stato, al fine di
perseguire, come fine comune, la riabilitazione sociale delle persone condannate o liberate con la
condizionale, oppure, condannate con sanzioni sostitutive. La possibilità di eseguire la sanzione, anziché sul territorio dello Stato della condanna, su
quello sul quale vive e lavora abitualmente, consente al condannato di non interrompere i rapporti
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familiari e sociali, essenziali ai fini dell’auspicabile
reinserimento sociale, ma anche, di proporre alla
comunità una comunicazione visiva della presenza
dello Stato, del suo impegno a combattere il crimine. Quest’ultima considerazione rende, ex adverso,
meno comprensibile la scelta, come Stato estero di
esecuzione non quello di residenza abituale o di
fatto, ma di uno Stato elettivo che, se non sia condizionata ad una valida motivazione, lodevole,
quando indicativa di un luogo di possibile, certo
lavoro, o di sottrazione ad ambienti non consigliabili, ma poco meritevole di encomio se finalizzata a
sottrarsi al controllo sociale della comunità offesa
dal reato. È una menda alla quale potrà, dovrà, se
gli verrà riconosciuto in sede applicativa il relativo
potere, porre riparo prima il giudice del riconoscimento, poi, con maggiore, incisività il giudice incaricato della sorveglianza sull’esecuzione, quello
che benché ignorato nel decreto, sarà quello chiamato a valutare, con la personalità del condannato, prescrizioni ed obblighi e la loro idoneità al fine.
Non sempre impeccabile la tecnica legislativa che,
impegnata ad inseguire i particolari, non cura, talora, il disegno generale. Sarebbe stato auspicabile, e
più facile da praticare, un percorso unico, sviluppato lungo due generali itinera, per il trasferimento
all’estero delle decisioni, tutte, emesse dalle nostre
1158
autorità e per il riconoscimento e l’esecuzione in
Italia delle decisioni giudiziarie delle autorità di
uno Stato membro, anziché ricorrere a tante normative quante sono le categorie. Con richiamo
esemplificativo, sarebbe stata più pratica una previsione unica per le misure alternative, le sanzioni
sostitutive, per tutti quegli istituti che si collocano
tra la pena carceraria e quelle che si attenuano la
prevista, originaria detenzione carceraria secondo
modalità difformi, in qualcosa di diverso, che nonnina la libertà.
Particolare è l’incongruenza che si rileva nelle regole procedimentali dettate dal decreto. L’art. 6, fa
carico della trasmissione delle decisioni da eseguire
all’estero, al pubblico ministero indicato nell’art.
665 c.p.p., cioè al pubblico mistero presso il giudice dell’esecuzione, che nella specie è coerentemente indicato nel procuratore generale, presso la Corte d’appello che ha operato il riconoscimento.
Questa coerenza di sistema non viene, però, rispettata riguardo alle richieste di riconoscimento provenienti dall’estero. A ricettore della richiesta è
designato (art. 12) non il procuratore generale,
bensì la Corte d’appello, che con l’attribuzione delle incombenze relative alle attività burocratiche è
eletta ad organo promotore della decisione che dovrà rendere, con uno stravolgimento delle funzioni.
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Giudicato penale
La considerazione dei
precedenti penali “europei”
nell’ordinamento interno
di Roberta Troisi (*)
Il D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 73 consente all’autorità giudiziaria italiana di prendere in considerazione, anche in assenza di riconoscimento, le decisioni definitive di condanna adottate dall’autorità giudiziaria penale di uno Stato membro dell’Unione europea nei confronti della stessa persona ma per fatti diversi, per ogni determinazione sulla pena, per stabilire la recidiva o un altro
effetto penale della condanna, per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere, o per assumere decisioni nella fase delle indagini preliminari o nella fase
esecutiva.
Decisione quadro 2008/675/GAI del Consiglio del 14 luglio
2008
Considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un nuovo procedimento penale
D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 73
G.U. 20 maggio 2016, n. 117 (in vigore dal 4 giugno 2016)
Modifiche
Il D.Lgs. n. 73 del 2016 non ha introdotto alcuna modifica alle leggi vigenti
La decisione quadro 2008/675/GAI
Tappa fondamentale nel processo di realizzazione
dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia,
le conclusioni del Consiglio di Tampere del 15 e
16 ottobre 1999 (1) hanno, come noto, “eletto” a
fondamento della cooperazione giudiziaria tra gli
Stati membri il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie (2), alla cui base
vi è la reciproca fiducia che gli Stati membri dell’Unione pongono nella loro capacità di garantire
un processo equo e di costruire un sistema in grado
di produrre decisioni suscettibili di essere eseguite
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) F. Spiezia, La cooperazione giudiziaria internazionale e lo
spazio di giustizia europeo, in AA.VV., Procedura penale. Teoria
e pratica del processo, IV, Impugnazioni. Esecuzione penale.
Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, a cura di L. Kalb,
Milano, 2015, 844.
(2) La sua importanza nel settore della giustizia penale nell’Unione europea, confermata sia dal Programma dell’Aja del
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sul territorio europeo evitando procedure di convalida.
Tra le principali misure per l’attuazione del principio è stata, da subito, indicata “l’adozione di uno o
più strumenti volti ad introdurre il principio secondo cui il giudice di uno Stato membro deve essere
in grado di tener conto delle decisioni penali definitive rese negli altri Stati membri per valutare i
precedenti penali del delinquente, prendere in
considerazione la recidiva e determinare la natura
delle pene e le modalità di esecuzione applicabili” (3).
novembre 2004 (in GUUE 3 marzo 2005, C 53), che dal Programma di Stoccolma del dicembre 2009 (in GUUE 4 maggio
2010, C 115), è ora espressamente sancita nel Trattato di Lisbona (artt. 67 e 82, § 1 del TFUE).
(3) Misura n. 2, con grado di priorità 4, del programma di
misure per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali (in GUCE 15 gennaio 2001, C 12,
13).
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La prospettiva si è concretizzata con la decisione
quadro 2008/675/GAI del 24 luglio 2008, relativa
“alla considerazione delle decisioni di condanna
tra Stati membri dell’Unione europea in occasione
di un nuovo procedimento penale” (4).
L’obiettivo non è far eseguire in uno Stato membro
decisioni giudiziarie adottate in altri Stati membri (5), ma consentire alle autorità giudiziarie di
prendere in considerazione, in occasione di un procedimento penale nei confronti di una persona, le
sentenze penali definitive pronunciate dai giudici
di altri Stati membri contro la stessa persona per
fatti diversi (art. 3) (6).
È stato, così, previsto l’obbligo degli ordinamenti
nazionali di assimilare alle condanne domestiche
quelle pronunciate in altri Stati europei, con riguardo agli effetti che i precedenti penali esplicano
in un nuovo procedimento. La condanna, cioè, deve essere presa in considerazione come se fosse stata pronunciata dai giudici nazionali e deve poter
esplicare effetti equivalenti a quelli prodotti dalle
precedenti condanne nazionali (7).
Nell’interesse di un’efficace giustizia penale, si è,
infatti, ritenuto opportuno che gli Stati membri dispongano di norme che permettano di appurare, in
tutte le fasi di un procedimento penale, se l’autore
abbia commesso per la prima volta il reato o se sia
stata già pronunciata una condanna nei suoi confronti in altro Stato membro, al fine di valutare il
passato criminoso del soggetto e trarne tutte le
conseguenze previste dalla legge.
L’obbligo di “assimilazione” è stato riferito ad “ogni
decisione definitiva di una giurisdizione penale che
stabilisca la colpevolezza di una persona per un reato” (8), con esclusione, quindi, dei carichi pendenti, e non comporta l’armonizzazione o il ravvicinamento degli effetti che, nei singoli Stati membri, i
precedenti penali esplicano in un nuovo procedimento (9).
Gli Stati hanno, dunque, ampia discrezionalità in
ordine alla scelta del tipo di effetto da attribuire nella fase precedente al processo, nel corso del processo stesso ed in occasione dell’esecuzione della
condanna (soprattutto con riferimento alla misura
della pena e alle disposizioni che regolano l’esecuzione della sentenza) - alle decisioni di condanna
rese dalle autorità giurisdizionali dei Partner europei (10), purché si tratti di “effetti giuridici equivalenti a quelli derivanti da precedenti condanne nazionali” e fermo il divieto di revocarle o sottoporle
a riesame.
(4) La decisione quadro, pubblicata in GUUE 15 agosto
2008, L 220, sostituisce l’art. 56 della Convenzione del Consiglio d’Europa del 28 maggio 1970 sulla validità internazionale
delle sentenze penali, riguardante la considerazione delle condanne penali tra gli Stati membri contraenti di tale convenzione.
(5) A tale scopo si applica il D.Lgs. 7 settembre 2010, n.
161 (pubblicato in GU 1° ottobre 2010, n. 230 e contenente disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/909/GAI del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze
penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea - in GUUE 16 dicembre 2008, L 337), che prevede la possibilità di eseguire nel nostro Paese una pena detentiva, o una
misura di sicurezza, inflitta all’esito di un processo penale celebrato in un altro Stato membro dell’Unione europea, subordinandola alla formale iniziativa dello Stato estero, nel cui territorio sia stata pronunciata la sentenza che si vuole venga eseguita in Italia, e alla sussistenza di ben precisi requisiti, anche
di natura formale. Ai fini del riconoscimento e dell’esecuzione,
occorre che la sentenza trasmessa sia stata pronunciata a carico di cittadino italiano, avente residenza, dimora o domicilio
nel territorio dello Stato (o di cittadino italiano che debba essere espulso verso l’Italia per effetto della sentenza di condanna
o di altro provvedimento adottato in seguito alla sentenza), e
che si trovi in Italia o nel territorio dello Stato di emissione. È
altresì necessario che il fatto, oggetto della sentenza, sia previsto come reato anche dalla legge nazionale (tranne che non si
tratti di fattispecie, punita con pena detentiva non inferiore nel
massimo a tre anni, rientrante tra quelle che consentono l’esecuzione del mandato di arresto europeo anche in deroga al requisito della doppia punibilità) e che la durata e la natura della
pena o della misura di sicurezza applicate nello Stato di emis-
sione siano compatibili con la legislazione italiana. La sentenza
straniera può essere riconosciuta ed eseguita nel territorio dello Stato, in presenza delle altre condizioni, anche se pronunciata nei confronti di persona che non abbia la cittadinanza italiana o non abbia residenza, dimora o domicilio in Italia. In
questo caso, è necessario il consenso sia del ministro della
giustizia, che della persona condannata (art. 10, D.Lgs. n. 161
del 2010). Cfr. sul tema, A.A. Dalia-M. Ferraioli, Manuela di diritto processuale penale, Padova, 2016, 977 ss.; N. Plastina,
L’esecuzione delle pene detentive, in AA.VV., “Spazio europeo
di giustizia” e procedimento penale italiano, cit., 604.
(6) L. Kalb, Il sistema informativo giudiziario: il casellario e
l’anagrafe, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e pratica del
processo, cit., 783.
(7) G. Iuzzolino, La recidiva europea. Il valore dei precedenti
penali negli Stati membri, in AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano, a cura di L. Kalb, Torino,
2012, 669.
(8) La trasmissione di informazioni estratte dal casellario
giudiziale, nonostante riguardi esclusivamente le persone fisiche che abbiano la cittadinanza europea, non dovrebbe pregiudicare l’eventuale futura estensione dell’ambito di applicazione di tali meccanismi allo scambio di informazioni relative
alle persone giuridiche (cfr. considerando n. 7 decisione quadro 2009/315/GAI). Diversamente, per i cittadini di Stati terzi
continueranno ad applicarsi le regole della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile
1959.
(9) La regolamentazione di questi effetti continua a ricadere
interamente nella lex loci.
(10) V. P.P. Paulesu, Profili esecutivi, in AA.VV., Manuale di
procedura penale europea, a cura di R.E. Kostoris, Milano,
2015, 450.
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Cooperazione giudiziaria
È chiaro che la “considerazione” dei precedenti penali “europei” presuppone la circolazione, tra gli
Stati membri, dei dati e delle informazioni relative
alle sentenze di condanna iscritte nei casellari giudiziali nazionali.
In vista di questo obiettivo, sono state adottate la
decisione quadro 2009/315/GAI del 26 febbraio
2009, relativa “all’organizzazione e al contenuto
degli scambi fra gli Stati membri di informazioni
estratte dal casellario giudiziario” (11), e la decisione 2009/316/GAI del 6 aprile 2009, che istituisce
“il sistema europeo di informazione sui casellari
giudiziari (ECRIS)” (12).
Le due decisioni - che sostituiscono lo scarsamente
efficace meccanismo della Convenzione europea di
assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 (13) - pur senza armonizzare la disciplina
nazionale dei casellari giudiziali (14), mirano ad ottimizzare la condivisione dei dati relativi alle decisioni di condanna pronunciate in ambito europeo,
condizione, questa, ritenuta fondamentale per la
costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (15). Si pongono, pertanto, in un’ottica di
completamento rispetto agli intenti sottesi alla decisione quadro n. 675 del 2008.
I due meccanismi si integrano, in effetti, a vicenda:
lo scambio dei dati estratti dai casellari è funziona-
(11) Pubblicata in GUUE 7 aprile 2009, L 93, è stata attuata
nel nostro ordinamento, soltanto di recente, con il D.Lgs. 12
maggio 2016, n. 74 (in GU 20 maggio 2016, n. 117). La genesi
della decisione quadro è da ricondurre alla proposta presentata il 22 dicembre 2005 dalla Commissione [COM(2005) 690].
In realtà, in seguito all’adozione del Programma dell’Aia, la
Commissione aveva redatto un “Libro bianco relativo allo
scambio di informazioni sulle condanne penali e sull’effetto di
queste ultime nell’Unione europea” [COM(2005) 10]. In tale
documento si prospettava la creazione di uno “schedario europeo delle persone già condannate”, che consentisse di individuare rapidamente gli Stati membri nei quali la persona fosse
stata già condannata, e l’elaborazione di un “formato europeo
standardizzato”, riconosciuto da tutti gli Stati membri, idoneo
a trasmettere le informazioni in modo che fossero facilmente
traducibili e giuridicamente comprensibili da tutti. Nella riunione del 14 aprile 2005, il Consiglio GAI - sulla scorta del progetto pilota di interconnessione dei casellari giudiziari avviato da
Belgio, Francia, Germania e Spagna e a cui ha aderito, successivamente, anche l’Italia (NJR, acronimo di Network of Judicial
Registers) - aveva, però, espresso preferenza per un sistema di
scambio di informazioni che avvenisse attraverso lo Stato
membro di cittadinanza della persona condannata. Si optava,
quindi, per una interconnessione degli archivi nazionali, anziché per la realizzazione di uno schedario centralizzato, sia pure
con la funzione limitata - escogitata dal Libro bianco - di indentificare lo Stato di condanna. Nel recepire le indicazioni del
Consiglio GAI, la Commissione ha, pertanto, approntato la proposta n. 690 del 2005. L’interconnessione telematica dei casellari giudiziari a livello dell’Unione europea è stata ulteriormente sollecitata dal Consiglio europeo del 21 e 22 giugno
2007. Su questi temi v. in dottrina, tra gli altri, L. Kalb, Il sistema informativo giudiziario: il casellario e l’anagrafe, in AA.VV.,
Procedura penale. Teoria e pratica del processo, cit., 784 ss.; P.
Troisi, Il potenziamento della cooperazione transfrontaliera. Lo
scambi di informazioni, in AA.VV., “Spazio europeo di giustizia”
e procedimento penale italiano, cit., 221; D. Cimadono, Il casellario giudiziario, in AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano, cit., 842 ss.; D. Cimadomo, Le iscrizioni nel casellario e le spese di giustizia, in AA.VV., Trattato di
procedura penale, coordinato da G. Spangher, vol. 6, Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, a cura di L.
Kalb, Torino, 2009, 360; M Gialuz, Il casellario giudiziario europeo: una frontiera dell’integrazione in materia penale, in AA.VV.,
Cooperazione informativa e giustizia penale nell’Unione europea,
a cura di F. Peroni - M. Gialuz, Trieste, 2009, 190.
(12) La decisione, pubblicata in GUUE del 7 aprile 2009, L
93 ha dato seguito ad una proposta della Commissione del
maggio 2008 [COM(2008) 332] ed è stata recepita dal legislatore italiano con il D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 75 (in GU 20
maggio 2016, n. 117).
(13) Nei rapporti tra gli Stati membri, la decisione n. 315
del 2009, per un verso, completa le disposizioni dell’art. 13
della Convenzione di assistenza giudiziaria (secondo cui “la
Parte richiesta trasmetterà, nella misura in cui le sue autorità
giudiziarie potranno ottenerli esse stesse in un caso simile, gli
estratti del casellario giudiziale e tutte le informazioni relative
al medesimo che le saranno chieste dalle autorità giudiziarie di
una Parte Contraente per i bisogni di un affare penale”) e, per
l’altro, sostituisce le disposizioni dell’art. 22 della medesima
Convenzione (che prevede l’obbligo dello Stato di condanna di
notificare allo Stato di cittadinanza, almeno una volta l’anno, le
informazioni relative alle sentenze penali). Abroga, inoltre, la
decisione n. 876 del 2005, relativa allo scambio di informazioni
estratte dal casellario giudiziario, adottata nel novembre 2005
allo scopo di integrare la disciplina dettata dalla Convenzione
di assistenza giudiziaria (cfr. art. 12 decisione quadro n. 315
del 2009).
(14) Per un approfondimento sul tema, si rinvia infra, A.A.
Sammarco, ….…
(15) È chiaro che l’apertura delle frontiere nazionali e la libera circolazione delle persone in ambito europeo rendono indispensabile, ai fini di un’efficace contrasto alla criminalità transfrontaliera e allo scopo di agevolare l’applicazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, assicurare una efficace circolazione delle informazioni relative alle
condanne e alle interdizioni. Nel considerando n. 12 della decisione quadro n. 315 del 2009 si rileva che “il meccanismo istituito dalla presente decisione quadro mira, tra l’altro, ad assicurare che una persona condannata per reati sessuali commessi su bambini, qualora il suo casellario giudiziario nello
Stato membro di condanna contenga la condanna stessa e,
ove comminata e iscritta nel casellario giudiziario, un’interdizione da essa derivante, non possa più occultare tale condanna o interdizione al fine di esercitare l’attività attinente alla cura dei bambini in un altro Stato membro”. In tal modo, si è inteso realizzare l’obiettivo perseguito da una proposta del Regno del Belgio del 5 novembre 2004, relativa “al riconoscimento e all’esecuzione nell’Unione europea dei divieti risultanti da
condanne per reati sessuali ai danni di bambino” (documento
del Consiglio n. 14207/04). In questa direzione si muove, altresì, la direttiva 2011/92/UE (in GUUE 17 dicembre 2011, L 335),
concernente la lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale
dei minori e la pornografia minorile, che sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI. Si prevede, all’art. 10, che gli Stati
membri adottino le misure necessarie per assicurare che le informazioni sull’esistenza di condanne per i reati oggetto della
direttiva o di eventuali misure interdittive dell’esercizio di attività che comportano contatti diretti e regolari con minori derivanti da tali condanne penali siano trasmesse in conformità
delle procedure previste dalla decisione quadro n. 315 del
2009.
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le a consentire che, all’interno di ciascun ordinamento, in occasione di un procedimento penale,
vengano presi in considerazione, per gli effetti riconosciuti dalla legislazione nazionale, i precedenti
penali maturati in altri Stati (16).
In questo modo, diviene possibile ottenere informazioni esaustive ed aggiornate sui precedenti penali di ogni cittadino europeo (17), a prescindere
da quale sia lo Stato membro di condanna, per riconoscergli effetti in occasione di un nuovo procedimento penale.
Il D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 73
Nonostante la decisione quadro n. 675 del 2008
doveva essere attuata negli Stati membri entro il
15 agosto 2010, l’Italia l’ha recepita solo con il
D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 73 (18).
Si prevede che le decisioni definitive di condanna
adottate dall’autorità giudiziaria penale (19) di uno
Stato membro dell’Unione europea - pronunciate
per fatti diversi da quelli per i quali procede l’autorità giudiziaria italiana e ottenute in virtù degli
strumenti applicabili all’assistenza giudiziaria reciproca in materia penale tra gli Stati membri o allo
scambio di informazioni estratte dai casellari giudiziali (20) - sono valutate, nei confronti della persona a cui si riferiscono, anche in assenza di riconoscimento (e purché non contrastanti con i principi
(16) Le nozioni di “condanna” e di “procedimento penale”,
fatte proprie dalle decisioni quadro n. 315 del 2009 e n. 675
del 2008, sostanzialmente si equivalgono. Per “condanna” si
intende ogni decisione definitiva di una giurisdizione penale
che stabilisca la colpevolezza di una persona per un reato. Con
la locuzione “procedimento penale” si fa riferimento alla fase
precedente al processo penale, a quella del processo vero e
proprio e all’esecuzione della condanna. Cfr., sul punto, P. Troisi, La circolazione di informazioni per le investigazioni penali nello spazio giuridico europeo, Padova, 2012, 47.
(17) Questo sistema, infatti, si riferisce esclusivamente ai
cittadini europei e non tiene sufficientemente conto delle caratteristiche delle richieste riguardanti i cittadini di paesi terzi.
Infatti, sebbene sia ormai possibile scambiare informazioni sui
cittadini di paesi terzi tramite ECRIS, manca una procedura o
un meccanismo che consenta di farlo in modo efficace in
quanto le informazioni sui cittadini di paesi terzi sono solo conservate negli Stati membri in cui le condanne sono state pronunciate. Pertanto, per ottenere un quadro completo dei precedenti penali di una determinata persona è necessario chiedere informazioni a tutti gli Stati membri. Per questo motivo,
l’Unione europea ha ritenuto opportuno istituire un sistema
che permetta all’autorità centrale di uno Stato membro di individuare rapidamente ed efficacemente in quale altro Stato
membro sono conservate informazioni sui precedenti penali di
un cittadino di un paese terzo, in modo che l’attuale quadro di
ECRIS possa poi essere utilizzato anche nei confronti dei cittadini di Stati terzi. A tal fine, è stata predisposta la proposta di
direttiva del parlamento europeo e del consiglio che modifica
la decisione quadro 2009/315/GAI del Consiglio per quanto riguarda lo scambio di informazioni sui cittadini di paesi terzi e il
sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali
1162
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato),
per ogni determinazione sulla pena, per stabilire la
recidiva o un altro effetto penale della condanna,
ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere. Tali decisioni hanno rilevanza e devono essere considerate
anche per l’adozione delle decisioni nella fase delle
indagini preliminari e nella fase dell’esecuzione
della pena.
La valutazione delle condanne non può, però,
comportare la loro revoca o il loro riesame, non
può avere effetto sulla loro esecutività e non rileva
per le determinazioni relative al procedimento di
revisione (art. 3).
Il legislatore ha, in tal modo, inteso adempiere all’obbligo di “assimilazione”. Gli ambiti di valutazione dei precedenti “europei” - determinazioni sulla pena, recidiva, effetti penali della condanna, dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza
a delinquere, rilevanza nelle indagini preliminari e
in fase esecutiva - consentono, infatti, di riconoscere alle condanne rese in altri Stati membri effetti equivalenti a quelli che l’ordinamento interno
collega alle informazioni estratte dal casellario giudiziale nazionale.
Unica condizione posta dal legislatore italiano è
che si tratti di decisioni di condanna non contra(ECRIS), e che sostituisce la decisione 2009/316/GAI del Consiglio. L’obiettivo di questa direttiva è quello di consentire uno
scambio rapido ed efficace anche delle informazioni estratte
dal casellario giudiziale relative ai cittadini di paesi terzi (cfr.
COM(2016) 7 final, del 19 gennaio 2016).
(18) Emanato in ottemperanza agli artt. 1 e 21 della l. 9 luglio 2015, n. 114, “Delega al Governo per il recepimento delle
direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea Legge di delegazione europea 2014”, in GU 31 luglio 2015, n.
176, è stato pubblicato in GU 20 maggio 2016, n. 117 ed è entrato in vigore il 4 giugno 2016.
(19) Ciò che emerge, in maniera lampante, è la diversa definizione di “condanna” data dal legislatore italiano rispetto a
quello europeo. Infatti, mentre la decisione quadro intende per
condanna ogni decisione definitiva di una “giurisdizione penale” che stabilisca la colpevolezza di una persona per un reato,
il decreto legislativo la equipara ad ogni decisione definitiva di
condanna adottata dall’“autorità giudiziaria” penale di un altro
Stato membro nei confronti di una persona fisica in relazione
ad un reato. Da una semplice lettura di queste definizioni, potrebbe desumersi che il legislatore italiano abbia voluto far riferimento non soltanto alle decisioni di condanna emesse da organi giurisdizionali europei, ma anche alle decisioni adottate
da altri organi giudiziari, come ad esempio dal magistrato del
pubblico ministero. Tale conclusione, però, non solo non è
conforme a quanto stabilito dalla decisione quadro, ma contrasterebbe con i principi fondamentali dell’ordinamento interno,
che richiedono il rispetto della terzietà e della imparzialità dell’organo che pronuncia decisioni di condanna.
(20) Per un approfondimento sull’argomento,cfr. infra, A.A.
Sammarco, ……
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stanti con i principi generali dell’ordinamento giuridico interno.
Da qui si ricava l’idea che il nostro legislatore, rispetto alla decisione quadro, si sia posto nell’ottica
della giustapposizione, anziché della mera attuazione, stabilendo condizioni che non sempre sono in
sintonia con le direttive dell’Unione europea. Infatti, si tratta di una clausola che va sicuramente a
limitare il principio del mutuo riconoscimento, in
quanto, nonostante non preveda alcun riconoscimento, richiede un controllo sulla conformità delle
condanne europee ai principi fondamentali del nostro ordinamento. Continua, pertanto, a non esserci piena fiducia nella capacità degli Stati membri
di garantire un processo equo.
Passando alla disamina degli effetti prodotti, in forza della nuova disciplina, dai precedenti “europei”,
essi assumono rilevanza sin dalla fase delle indagini
preliminari.
L’autorità procedente, attraverso l’acquisizione, subito dopo aver iscritto il nome della persona alla
quale il reato è attribuito nel registro delle notizie
di reato, del certificato del casellario nazionale e di
quello europeo apprende notizie sul soggetto nei
cui confronti sono svolte le indagini al fine di appurare se si tratta di persona destinataria di provvedimenti definitivi adottati da un’autorità italiana o
da altra autorità europea (art. 110 disp. att. c.p.p.).
Le informazioni relative a precedenti condanne
possono essere utilizzate dal magistrato del pubblico ministero, ad esempio, per contestare la recidiva
(art. 99 c.p.) (21), per chiedere l’applicazione di
una misura cautelare (art. 291, comma 1, c.p.p.) o
l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza
(art. 312 c.p.).
In sede cognitiva, il certificato del casellario giudiziale nazionale e, di conseguenza, in virtù del principio di assimilazione, anche di quello europeo entra a far parte, al momento della sua formazione,
del fascicolo per il dibattimento (art. 431, comma
1, lett. g, c.p.p.) ed è valutabile, come prova documentale, ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato (art. 236 c.p.p.) (22). Non può essere,
però, utilizzato in relazione ai fatti il cui accertamento è contenuto nelle sentenze irrevocabili che
ivi sono riportate, in quanto solo con l’acquisizione
e l’utilizzazione della sentenza stessa può essere data prova di un fatto ex art. 238 bis c.p.p.
Inoltre, nella fase post dibattimentale, la conoscenza di una precedente condanna orienta il giudice,
ad esempio, nella determinazione della gravità del
reato ai fini dell’applicazione della pena (art. 133,
comma 2, n. 2, c.p.); nel calcolo degli aumenti di
pena, in caso di constatazione della recidiva (art.
99 c.p.); nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (artt. 163 e 163
c.p.), nonché per la concessione del beneficio della
non menzione della condanna nel certificato del
casellario rilasciato all’interessato (art. 175
c.p.) (23); per la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere
(artt. 102-109 c.p.); per l’accertamento della pericolosità sociale della persona ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza (artt. 215-240 c.p.)
(art. 533 c.p.p.) (24).
Il precedente è, dunque, un significativo elemento
di valutazione del fatto, che guida il giudice unitamente agli elementi di prova formatisi nel corso
della istruttoria dibattimentale e concorre alla decisione finale (25). Sebbene non pare possano esservi margini per ritenere che il libero convincimento del giudice subisca una limitazione, il certificato rappresenta, di certo, un orientamento della
discrezionalità del magistrato.
Nella fase esecutiva, delle condanne europee deve
tener conto sia il giudice dell’esecuzione - allorché,
ad esempio, debba decidere in ordine alla concessione o alla revoca della sospensione condizionale
della pena, della non menzione della condanna nel
certificato del casellario, dell’amnistia e dell’indulto (artt. 671, 672 e 674 c.p.p.) - sia la magistratura
di sorveglianza, per tutti i provvedimenti per cui è
competente (art. 678 c.p.p.).
Non limitate ad una fase specifica del procedimento, sono le ipotesi in cui il giudice che procede deve prendere in considerazione i precedenti penali
del soggetto per poter valutare l’applicazione, in
via provvisoria, di una misura di sicurezza (artt.
312 e 313 c.p.p. e 206 c.p.) o l’adozione di un
(21) La recidiva contestata alla persona sottoposta al procedimento proprio in considerazione dei precedenti penali, è determinante ai fine della valutazione delle esigenze cautelari nel
procedimento di applicazione delle misure cautelari (art. 274,
lett. c, c.p.p.), della conseguente scelta (art. 275, comma 2 ter,
c.p.p.), della valutazione del giudice in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte (art. 276 c.p.p.) e, anche, della definizione della vicenda processuale con l’applicazione della pena su
richiesta delle parti (art. 444, comma 1 bis, c.p.p.).
(22) Per approfondimenti v. L. Kalb, Il documento nel sistema probatorio, Torino, 2000, 87 ss.
(23) Valutazione analoga è compiuta dal giudice di appello
(artt. 597, comma 5, e 599, comma 1, c.p.p.).
(24) Questa può essere applicata anche in caso di assoluzione ex art. 530, comma 4, c.p.p.
(25) Così, L. Kalb, Il sistema informativo giudiziario: il casellario e l’anagrafe, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e pratica
del processo, cit., 762.
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provvedimento cautelare (art. 274, lett. c,
c.p.p.) (26).
Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 73 del
2016, la sentenza di condanna resa da uno Stato
membro dell’Unione europea doveva essere riconosciuta, attraverso la procedura di delibazione prevista
dall’art. 730 c.p.p., anche per poter produrre effetti
giuridici sul piano penale. Il riconoscimento era, infatti, necessario per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna, per la dichiarazione di
abitualità, professionalità o tendenza a delinquere,
per l’applicazione di una pena accessoria o di una
misura di sicurezza (artt. 730 c.p.p. e 12 c.p.).
Con la nuova disciplina, il giudice italiano può dare rilievo, in occasione di un nuovo procedimento
penale, a precedenti decisioni di condanna pronunciate in altri Stati membri anche in assenza di
tale riconoscimento.
Sicché, mentre per eseguire sentenze che irrogano
pene detentive o misure di sicurezza rese dalle
autorità giudiziarie di altri Stati membri si deve
eseguire la procedura di riconoscimento regolata
dal D.Lgs. n. 161 del 2010, per la valutazione dei
precedenti penali “europei”, ai medesimi fini delle
condanne iscritte nel casellario nazionale, non è
necessaria alcuna procedura delibativa (27).
L’intervento normativo, recependo le disposizioni
della decisione quadro 2008/675/GAI, se da un lato contribuisce ulteriormente al rafforzamento della cooperazione giudiziaria in materia penale all’interno dell’Unione europea ed alla realizzazione di
un effettivo spazio comune di libertà, sicurezza e
giustizia, dall’altro attua solo in parte il principio
del reciproco riconoscimento sul fronte della considerazione delle decisioni penali di condanna.
Infatti, mentre la decisione quadro dà piena attuazione al mutuo riconoscimento, richiedendo a tutti
gli Stati membri di equiparare automaticamente,
quanto agli effetti penali prodotti in altri procedimenti, le decisioni di condanna europee a quelle
rese dai giudici italiani, il legislatore italiano subordina tale assimilazione alla loro conformità ai principi generali dell’ordinamento interno.
La condizione, così come congegnata, sembra evocare un controllo diffuso ad opera del singolo magistrato ogniqualvolta occorra considerare i precedenti penali del soggetto. Controllo da effettuarsi esclusivamente sulla scorta delle informazioni del casellario
giudiziale trasmesse attraverso il sistema informativo
europeo (28), ferma restando la possibilità - che non
pare possa escludersi - di acquisire la sentenza straniera, semmai su impulso della difesa.
La valutazione, dovendo riguardare i “principi generali” dello Stato (primi fra tutti, quindi, i principi
costituzionali in tema di diritti fondamentali, giurisdizione e giusto processo), dovrà necessariamente
avere ad oggetto la verifica del rispetto di condizioni
analoghe a quelle che l’art. 730 c.p.p. pone al riconoscimento delle sentenze straniere (si pensi al rispetto dei principi di indipendenza e imparzialità del
giudice, del diritto di difesa dell’imputato, del divieto di discriminazione, del principio di legalità penale, ecc.). Con la differenza che, mentre per il riconoscimento la valutazione è effettuata una volta per
tutte dalla Corte di Appello, secondo un procedura
rispettosa del contraddittorio, qui è rimessa, lo si ripete, al singolo magistrato chiamato, nel corso di un
procedimento, a prendere in considerazione i precedenti penali dell’imputato.
Sicché, o la verifica sul “non contrasto” con i principi generali dello Stato si risolverà, nella prassi, in
una mera “clausola di stile” o il riconoscimento,
formalmente eliminato, verrà sostituito da una valutazione, analoga nei contenuti, certamente più
rapida, ma anche meno garantita, e in ogni caso
idonea a sfociare in esiti differenti nello stesso o in
diversi procedimenti.
(26) La loro applicazione può avvenire in ogni stato e grado
del procedimento penale.
(27) In relazione, invece, alle sentenze di condanna emesse
dalle autorità giudiziarie di Stati terzi, non appartenenti quindi
all’Unione europea, deve continuare ad applicarsi il procedimento di riconoscimento disciplinato dagli artt. 730 ss. c.p.p.,
sia per la loro esecuzione in Italia, che per la loro considerazione nell’ambito di un nuovo procedimento penale.
(28) Le informazioni relative alle condanne che devono essere iscritte nel casellario giudiziale europeo sono: - quelle obbligatorie necessariamente trasmesse dallo Stato di condanna
(nome completo, data di nascita, luogo di nascita, composto
di città e Stato, sesso, cittadinanza ed eventuali nomi precedenti; data della condanna, nome dell’organo giurisdizionale,
data in cui la decisione è diventata definitiva; data del reato,
qualificazione giuridica del fatto, riferimento alle disposizioni
giuridiche applicabili; pena, principale ed accessoria, misure di
sicurezza e decisioni successive che modificano l’esecuzione
della pena); - quelle facoltative trasmesse se iscritte nel casellario giudiziale dello Stato di condanna (nome dei genitori della
persona condannata; numero di riferimento della condanna;
luogo del reato; interdizioni derivanti dalla condanna); - quelle
supplementari che devono essere trasmesse se sono a disposizione dell’autorità centrale dello Stato di condanna (numero
di identità o tipo e numero del documento di identificazione
della persona condannata; impronte digitali della persona condannata, conservate ai sensi dell’art. 43; eventuali pseudonimi
della persona condannata) (cfr. art. 5 ter d.P.R. 14 novembre
2002, n. 313, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle
sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti”).
Riflessioni conclusive
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Casellario giudiziale europeo
L’introduzione del casellario
giudiziale europeo nel processo
penale italiano
di Angelo Alessandro Sammarco (*)
L’attuazione del sistema del casellario giudiziale europeo ha rafforzato significativamente l’integrazione europea verso l’obiettivo della cooperazione giudiziaria al fine di garantire sempre più
lo spazio comune di libertà sicurezza e giustizia. La nuova disciplina attuativa tuttavia non sempre risulta coerente con i principi fondamentali del processo penale italiano posto che la circolazione delle informazioni del casellario giudiziale europeo a volte contrasta con le regole previste
in tema di utilizzabilità della prova, di diritto di difesa e di presunzione di innocenza.
Decisione quadro 2009/315/GAI del 26 febbraio 2009
Decisione quadro 2009/316/GAI del 6 aprile
2009
Relativa all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario.
Istitutiva del sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS), in applicazione dell’articolo 11 della decisione quadro 2009/315/GAI.
D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 74
D.Lgs. 12 maggio 2016, n. 75
G.U. 20 maggio 2016, n. 117 (in vigore 4 aprile 2016).
G.U. 20 maggio 2016, n. 117 (in vigore 4 aprile 2016).
Modifiche
D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271.
d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313.
Le decisioni quadro 2009/315/GAI e
2009/316/GAI
Il completamento del percorso di
integrazione in tema di cooperazione
giudiziaria
Con i D.Lgs. n. 74 e n. 75 del 2016 il legislatore
italiano ha dato attuazione alle Decisioni quadro
n. 2009/315/GAI del 26 febbraio 2009 e n.
2009/316/GAI del 6 aprile 2009, la prima relativa
“all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra
gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario” e la seconda “che istituisce il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS)”.
La normazione attuativa introdotta dai due decreti
legislativi è di molto successiva all’emanazione delle due decisioni quadro entrambe del 2009.
A distanza quindi di oltre sette anni il legislatore
italiano si è adeguato ad una previsione considerata strategica rispetto all’obiettivo fondamentale
dell’Unione Europea di “fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia”; da perseguire nel caso specifico attraverso “lo scambio di informazioni estratte
dal casellario giudiziario tra le competenti autorità
degli Stati membri” (così il punto 1 della Decisione quadro 315/GAI).
Data la tardività della risposta alla chiara indicazione, si potrebbe pensare che il legislatore italiano
abbia colpevolmente sottovalutato l’esigenza di un
pronto recepimento delle prescrizioni europee, fi-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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Cooperazione giudiziaria
nendo così per porsi in una situazione di “inadempienza”, fin troppo pubblicizzata nei ritornelli ossessivi sull’inadeguatezza del Nostro Paese rispetto
all’Europa, ma, in realtà spesso insussistente considerati i moltissimi problemi di coordinamento tra
un sistema normativo europeo talvolta astratto e
privo di collegamenti precisi con i principi fondamentali e irrinunciabili degli ordinamenti giuridici
degli Stati chiamati all’attuazione di normative
che, allorché recepite d’émblée creerebbero più
problemi che risolverli.
Infatti, dal punto di vista dell’armonia tra sistema
normativo europeo e diritto interno occorre rilevare che l’esigenza dello scambio di informazioni assicurato dall’istituzione del casellario europeo e dall’aggiornamento elettronico dello stesso mediante
il sistema ECRIS in tanto può avere un senso reale
ed effettivo, in quanto siano già stati istituiti i
meccanismi concreti di coordinamento operativo
tra gli Stati tra i quali deve realizzarsi lo scambio
informativo.
In altre parole, la circolazione delle informazioni
tra gli Stati membri dell’UE presuppone l’esistenza
di norme che ne prevedano modalità e finalità di
utilizzazione all’interno degli ordinamenti giuridici
dei singoli Stati; in assenza di tali normative che
rendano concretamente operativa la cooperazione
a livello europea il mero scambio informativo risulta quindi del tutto secondario e privo di reale utilità.
Diversamente, rispetto ad un sistema di cooperazione effettivamente armonizzato e già divenuto
operativo, lo scambio informativo assicurato dall’istituzione di un casellario unico e centralizzato si
pone come elemento fondamentale di potenziamento dell’intero sistema in termini di aumento significativo di efficienza e precisione.
In questa prospettiva, allora bisogna considerare i
numerosi interventi legislativi europei a partire
dall’introduzione del mandato di arresto europeo
(primo vero esempio di concreta attuazione della
cooperazione giudiziaria) per comprendere che forse è proprio ora, al culmine di un’integrazione normativa finalmente operativa e quasi completa che
il casellario unico europeo può svolgere la sua ef-
fettiva funzione di strumento di facilitazione della
cooperazione giudiziaria tra gli Stati nel rispetto
della predetta finalità dell’aumento del livello di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia (1).
Se quindi, per quanto detto, l’intervento normativo dello Stato italiano non può che essere visto come un momento di significativo impulso al percorso condiviso e ritenuto fondamentale della cooperazione giudiziaria tra gli Stati dell’UE, non può
però sottacersi che in alcuni casi si pongono evidenti problemi di mancanza di coordinamento tra
principi fondamentali o comunque regole inderogabili del nostro sistema normativo e le previsioni
o le esigenze di matrice europea con conseguenti
difficoltà attuative e interpretative che nel prosieguo verranno esaminate.
(1) Sul fenomeno dell’integrazione progressiva delle fonti
normative comunitarie con l’ordinamento italiano cfr. il volume
AA.VV., “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale
italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di L. Kalb, Torino, 2012; cfr. pure R. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 1177.
(2) Sui compiti e le funzioni dell’Ufficio centrale del casellario giudiziale, cfr. L. Kalb, Il sistema informativo giudiziario: il ca-
sellario e l’anagrafe, in Procedura penale. Teoria e pratica del
processo, Vol. IV, Impugnazioni. esecuzione penale. Rapporti
giurisdizionali con autorità straniere, a cura di Kalb, Milano,
2015, 748.
(3) L’esigenza della reciprocità dell’informazione e delle
modalità di acquisizione e di trasmissione delle notizie è già
presente nelle decisioni quadro n. 315 e 316 del 2009; sul punto cfr. D. Cimadomo, Il casellario giudiziario, in AA.VV., “Spazio
europeo di giustizia” e procedimento penale italiano, cit., 835.
1166
I D.Lgs. n. 74 e n. 75 del 2016
Gli aspetti procedurali
La normativa di recente introduzione si propone di
dare attuazione allo scambio di informazioni sulle
condanne definitive, attraverso l’uso di un sistema
informatizzato (ECRIS) istituito ai sensi della decisione 2009/316/GAI del Consiglio, del 6 aprile
2009.
L’Autorità centrale competente per la realizzazione
della menzionata finalità è l’Ufficio del casellario
giudiziale che ha sede presso il Ministero della
Giustizia e svolge i compiti indicati nell’art. 19 del
Decreto del Presidente della Repubblica del
14/11/2002, n. 313 (Testo Unico del casellario giudiziale) (2).
Il sistema del coordinamento informativo si basa
sul principio della reciprocità nel senso che la condanna viene comunicata dall’Ufficio centrale italiano alla corrispondente autorità centrale dello
Stato di cittadinanza della persona condannata; viceversa, le condanne pronunciate in altro Stato
membro nei confronti di un cittadino italiano sono
comunicate all’Ufficio centrale dello Stato italiano
e vengono iscritte nel casellario giudiziale italiano (3).
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Lo stesso regime di reciprocità di comunicazioni è
naturalmente previsto con riferimento alle modifiche e alle eliminazioni dei dati del casellario giudiziale che devono essere immediatamente trasmesse
all’autorità centrale dello Stato competente a ricevere l’informazione.
È previsto anche il diritto dell’interessato di richiedere informazioni sulle condanne direttamente sia
all’ufficio centrale italiano sia alle autorità centrali
degli Stati membri.
L’Ufficio centrale può inoltre rivolgersi per ottenere le informazioni alle autorità centrali di altri Stati membri. Anche l’interessato può rivolgersi alle
autorità centrali degli Sati membri, purché sia o sia
stato cittadino italiano o sia residente in Italia o
sia o sia stato cittadino o residente nello Stato
membro alla cui autorità centrale la richiesta è diretta. In questo caso, la richiesta deve essere indirizzata all’Ufficio centrale italiano che provvede a
trasmetterla all’autorità centrale dello Stato di cui
l’interessato è cittadino.
È previsto che le autorità centrali di Stati membri
possano richiedere le informazioni anche per “finalità diverse” o “fini diversi” dall’utilizzazione in un
procedimento penale; ma allora, in tal caso, l’Ufficio centrale specifica che i dati personali trasmessi
possono essere utilizzati solo per il fine per il quale
sono stati richiesti (art. 7, D.Lgs. n. 74/2016).
Non è chiarito quale possa essere l’utilizzazione per
“finalità diverse” o per “fini diversi” rispetto al procedimento penale.
Sembra possibile una soluzione sistematica raccordando questa espressione con la previsione di cui
al comma 2 dell’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2016 secondo cui i dati personali “sono in ogni caso utilizzabili per la prevenzione di un pericolo grave ed immediato per la pubblica sicurezza”.
È dunque ipotizzabile che la “finalità diversa” consentita sia solo quella comunque funzionale alla
prevenzione di un pericolo per la sicurezza pubblica
che dovrebbe essere specificato in sede di richiesta
di informazioni e nei limiti del quale deve mantenersi rigorosamente l’utilizzabilità dell’informazione (4).
In ogni caso, anche quando le informazioni richieste servono all’interno di un procedimento penale,
i dati personali “possono essere utilizzati solo ai fini
del procedimento penale per il quale sono stati richiesti o per i fini e nei limiti della richiesta” (art.
9, comma 1, D.Lgs. n. 74/2016).
Sono poi previsti adeguamenti sotto forma di interpolazioni nella disciplina vigente che tengono conto dell’introduzione del casellario giudiziale europeo.
Quanto infine al sistema ECRIS, si tratta di un sistema informatizzato che coopera con il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali, conformemente all’articolo 3 della decisione quadro
2009/316/GAI del 6 aprile 2009 (5).
Questo sistema è gestito dall’Ufficio centrale secondo particolari codici di classificazione delle tipologie delle informazioni da trasmettere.
(4) Per uno spunto in tal senso desumibile dalla decisione
quadro n. 315/2009, cfr. D. Cimadomo, op. cit., 844.
(5) Si tratta di un sistema computerizzato che realizza l’interconnessione tra le banche dati dei casellari giudiziali nazionali velocizzando la circolazione delle informazioni, trasferite in
un formato standard (cfr. D. Cimadomo, op. cit., 845).
(6) Sul fenomeno giuridico della prova legale, cfr. il classico
ed imprescindibile lavoro di A. Giuliani, Il concetto di prova:
contributo alla logica giuridica, Milano, 1971, 110; in prospettiva storica, R. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena: la crisi del
sistema tra Evo medio e moderno, Napoli, 1979, 9.
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Utilizzabilità del certificato del casellario
giudiziale e diritto di difesa
Né l’articolato della decisione quadro, né l’articolato del decreto legislativo attuativo hanno minimamente preso in considerazione il problema molto importante - quanto meno nel sistema processuale italiano, ma che comunque ha portata generale - del valore probatorio del certificato del casellario giudiziale.
Se infatti a tale certificato si attribuisse valore di
prova si dovrebbe certamente parlare di “prova legale” scaturendo la certificazione da una fonte legale; in tal caso, dunque, l’estensione della disciplina a livello europeo significherebbe l’istituzione di
una “prova legale europea”, nel senso di prova scaturente da fonte legale di matrice europea, ma con
effetti nel nostro ordinamento.
Senza troppo addentrarci nel concetto di prova legale ben noto nella teoria generale del processo (6), è sufficiente in questa sede considerare lo
schema per così dire basico di tale fenomeno giuridico, caratterizzato, non tanto dalla natura dell’indicazione dei mezzi di prova (che spesso, se non
praticamente sempre, sono prescelti dal legislatore), quanto, piuttosto, dalla statuizione, in questo
caso di natura legislativa, circa il valore dimostrativo del mezzo di prova predeterminato ex lege.
In questa prospettiva di analisi emergono due diversi aspetti a seconda che si consideri il contenuto
del certificato del casellario (cartaceo o elettroni-
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co) oppure l’utilizzazione delle stesso nell’ambito
del procedimento penale.
Nel primo caso, il certificato è documento che attesta le notizie in esso dichiarate e dunque trattandosi di certificato del casellario, le avvenute condanne definitive o comunque gli altri eventi giudiziari avvenuti a carico della persona a cui si riferisce il certificato; nel secondo caso, occorre invece
considerare la possibile utilizzabilità del certificato
come prova di altri fatti o eventi non direttamente
coincidenti con quanto attestato nel certificato
stesso.
Sotto il primo aspetto, occorre rilevare che non
esiste, nella decisione quadro, né nel decreto legislativo attuativo, una disciplina che stabilisca una
specifica procedura di contestazione del certificato
del casellario giudiziale o comunque di garanzia
dell’attendibilità dei suoi contenuti soprattutto sotto il profilo dell’aggiornamento.
Insomma, se da un lato viene prevista come inderogabile l’acquisizione del certificato del casellario
giudiziale in un procedimento penale, dall’altro,
non è prevista a favore del soggetto cui si riferisce
tale acquisizione uno strumento di difesa specifica
sul punto.
Il tema riguarda non tanto la questione della falsità
dell’atto, posto che appare sinceramente molto difficile che possa verificarsi il caso dell’invio di un
certificato del casellario falso; soprattutto con riferimento al sistema ECRIS che verosimilmente non
può generare risultati “falsi”, quanto, piuttosto, la
questione dell’“aggiornamento” del certificato che
non è previsto come “diritto” della persona cui il
certificato stesso si riferisce. Il che determina il
problema, di non poco conto, che ove il certificato
trasmesso non sia “aggiornato”, la persona che ne
subisce l’acquisizione non possa disporre di una garanzia all’acquisizione immediata del certificato
“aggiornato” e, corrispondentemente, alla declaratoria di inutilizzabilità del certificato “non aggiornato”.
E così, appare destinata a protrarsi la discutibile e
ambigua prassi giurisprudenziale secondo cui se da
un lato non vi sono preclusioni, neppure in sede di
giudizio abbreviato, alla successiva acquisizione del
certificato del casellario aggiornato, dall’altro, non
(7) “...il fatto che si tratti di giudizio abbreviato non ha rilevanza alcuna, sul punto. Lo “stato degli atti” cui si riferiscono
le norme sul rito abbreviato ha riguardo al contenuto probatorio. Il certificato penale dell’imputato è acquisito ai sensi dell’art. 236 c.p.p. e art. 431 c.p.p., comma 1, lett. g, norme generali per ogni “giudizio” ed il suo doveroso aggiornamento risponde alla logica normativa della previsione della sua presen-
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si esclude la legittimità della decisione giudiziaria
che si sia fondata sul certificato non aggiornato o
incompleto (7).
Quanto all’utilizzazione probatoria del certificato
rispetto a fatti diversi da quelli oggetto dell’attestazione, la decisione quadro e conseguentemente il
decreto attuativo non forniscono indicazioni limitandosi a prevedere una generica “utilizzazione nel
procedimento” o “per altre finalità”.
Il codice di procedura penale italiano prevede che
in base al combinato disposto degli artt. 236 e 431
il certificato del casellario giudiziale sia inserito nel
fascicolo per il dibattimento e utilizzato ai fini del
giudizio sulla personalità dell’imputato o della persona offesa “se il fatto per cui si procede deve essere valutato in relazione al comportamento o alle
qualità morali di questa” (art. 236 c.p.p.).
L’espressione, molto ambigua, che consente, che il
giudizio sulla personalità dell’imputato, essendo per
sua natura di portata ampia e generale, possa, inevitabilmente, finire per incidere anche sul giudizio
“sul fatto per cui si procede” (peraltro espressamente menzionato con riferimento alla valutazione del
comportamento e alle qualità materiali della persona offesa dal reato), deve quindi oggi, dopo l’intervento attuativo, essere riferita anche al certificato
del casellario giudiziale europeo.
Ne consegue che, grazie all’attuale normativa, anche il carico penale europeo finirà per condizionare
l’esito del procedimento penale italiano.
Anche su questo particolare aspetto, sarebbe stato
probabilmente necessario un chiarimento normativo sull’utilizzabilità del certificato del casellario al
fine di risolvere le citate ambiguità della disciplina
attuale.
L’inserimento nel fascicolo del dibattimento
Quanto poi all’inseribilità nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431 c.p.p., occorre dire che la stessa
appare certa anche per quanto riguarda il certificato del casellario giudiziale europeo (con la conseguente utilizzabilità ai fini sopra indicati; anche se,
in effetti, il D.Lgs. n. 74/2016 non prevede un’espressa modifica nell’art. 431 c.p.p. con specifico
riferimento al casellario giudiziale europeo, introdotto comunque con nuovi articoli nel Testo unico
za nel fascicolo, condizione imprescindibile per esercitare secondo legittimità le valutazioni afferenti il trattamento sanzionatorio, ai sensi degli artt. 62 bis, 133, 164 e 175 c.p., anche
per l’eventuale esercizio dei poteri d’ufficio che sul punto al
giudice d’appello attribuisce l’art. 597 c.p.p., comma 5”
(Cass., Sez. VI, 24 settembre 2013, Haka, n. 42823).
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sul casellario giudiziale di cui al d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313).
In ogni caso, quanto all’acquisibilità nel fascicolo
del dibattimento, va precisato che, come sopra accennato, secondo un determinato orientamento
giurisprudenziale, la disposizione dell’art. 431 c.p.p.
non è stata intesa in senso tassativo, ritenendosi
acquisibili al fascicolo dibattimentale anche altri
documenti utili al giudizio sulla personalità dell’imputato, quali, ad esempio, le sentenze non ancora
divenute definitive (8).
Senonché, la lett. a) dell’art. 1 del D.Lgs. n.
74/2016 che espressamente stabilisce che per “condanna”, si deve intendere “ogni decisione definitiva di condanna adottata dalla autorità giudiziaria
penale nei confronti di una persona fisica in relazione a un reato e iscritta nel casellario giudiziale”,
contrasta questa tendenza interpretativa giurisprudenziale che d’ora in poi non dovrebbe più essere
consentita; a meno che non si voglia operare, ma
in modo assolutamente improbabile, un distinguo inammissibile in chiave di coordinamento normativo europeo, tra una certificazione italiana che dovrebbe essere più “elastica” estendendosi a precedenti giurisprudenziali non riferiti a sentenze di
condanna definitive ed invece una certificazione
europea rigorosamente definita dalla normativa attuativa della decisione quadro.
Ma l’idea di una doppia certificazione italiana ed
europea sui precedenti giudiziari dell’imputato,
sembra francamente sconcertante.
grado di assicurare il necessario coordinamento e
la necessaria armonizzazione tra sistema europeo e
sistema italiano.
Il problema del carico pendente
Sotto questo aspetto, si pone un’ulteriore riflessione su un’istituzione tutta italiana quella del “carico
pendente” che non è stata considerata nel D.Lgs.
n. 74/2016 e che pure è incompatibile con l’iscrizione comunicabile a livello europeo che, come
detto, può riguardare solo le sentenza di condanna
“definitive”.
Il tema è di ampia portata e riapre, sotto altra forma, il problema del coordinamento tra la nostra disciplina processuale e il sistema dei principi della
normativa europea.
In pratica, posto che il quadro normativo italiano
non è comunque adeguato a quello europeo ci si
chiede e questo è un problema la cui soluzione non
potrà che essere affidata più che alla saggezza giurisprudenziale, in tale settore per la verità non sempre presente, ad un nuovo intervento legislativo in
Doppia punibilità e conformità ai principi
fondamentali dell’ordinamento
Altro tema di interesse fondamentale e riguardante
in generale la cooperazione giudiziaria tra Stati è il
requisito della “doppia punibilità” che costituisce
principio irrinunciabile della cooperazione dal momento che nessuno Stato può divenire esecutore di
decisioni o provvedimenti emessi da Autorità di
Stati diversi se non per fatti che nel proprio ordinamento rivestano il carattere dell’illiceità o comunque se la cooperazione richiesta non contrasti
con principi fondamentali e irrinunciabili riconosciuti nell’ordinamento interno nelle Stato che è il
destinatario della richiesta di cooperazione.
Infatti, anche nella disciplina istitutiva e attuativa
del mandato di arresto europeo, fondata sulla regola generale del tendenziale automatismo dell’esecuzione dei provvedimenti restrittivi nello Spazio territoriale dell’Unione Europea, le condizioni della
doppia punibilità e dell’inderogabilità di principi e
garanzie fondamentali dell’ordinamento sono state
assicurate in modo chiaro e tassativo (9).
Tuttavia, per quanto riguarda il casellario giudiziale europeo questo tipo di problema non è stato
considerato, né nella decisione quadro né nel decreto attuativo D.Lgs. n. 74/2016.
Il problema non si porrebbe, naturalmente, ove la
disciplina del coordinamento delle informazioni afferenti al casellario giudiziale non implicasse anche
la sopra indicata questione della doppia incriminabilità e dell’inderogabilità di alcuni principi e garanzie fondamentali.
Ma certamente così non è, posto che è proprio l’utilizzabilità delle informazioni del casellario giudiziale originata dalla circolazione tra i procedimenti
dei vari Stati che impone di comprendere se questo
flusso informativo possa essere o meno precluso o
limitato nel caso in cui le informazioni contenute
nel casellario di un Paese riguardino reati o fatti
non illeciti o non procedibili o che comunque risultino in contrasto con regole inderogabili o garanzie fondamentali secondo l’ordinamento del
Paese che dovrebbe fare uso della certificazione.
Stante il silenzio legislativo sul punto, l’unica plausibile soluzione sembra essere quella di ritenere che
laddove l’utilizzazione dei dati contenuti nel certi-
(8) Cfr. Cass., Sez. II, 5 maggio 2010, Delaie, n. 18189.
(9) Cfr. sul punto G. Della Monica, Il mandato di arresto eu-
ropeo, in “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale
italiano, cit., 750.
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ficato del casellario di fonte europea contrasti con
i sopra menzionati principi fondamentali dell’ordinamento italiano, dovrà ritenersi sussistente e concretamente operante un divieto di acquisizione e
quindi di valutazione discendente direttamente
dall’art. 191 c.p.p. che prevede l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di
legge.
Coordinamento informativo e presunzione di
innocenza
In generale, si può dire che la disciplina introdotta
dai D.Lgs. n. 74 e n. 75 del 2016 certamente consegue l’obiettivo di dare concreta attuazione alla
disciplina prevista nelle decisione quadro n. 315 e
n. 316 del 2009.
Indubbiamente, questo risultato normativo rappresenta un significativo passo in avanti verso l’integrazione tra i diversi ordinamenti degli Stati membri dell’Unione Europea che sempre meglio si realizza quando sempre più diventi penetrante la cooperazione giudiziaria tra gli Stati. In questo senso,
indubbiamente la circolazione delle informazioni
afferenti al casellario giudiziale rende possibile la
conoscenza di un complesso di dati che non possono essere trascurati ai fini dell’adozione delle decisioni delle Autorità competenti nei vari Stati e
che maggiormente incidono sulla sicurezza dei cittadini e quindi sugli spazi di libertà e giustizia degli
stessi.
Tuttavia, in alcuni casi è mancata, sia in sede di
normazione primaria, si in sede di normazione attuativa, la necessaria sensibilità giuridica su temi
fondamentali che in un settore così delicato necessariamente si sarebbero dovuti considerare.
Al di là delle specifiche questioni alcune delle quali sono state oggetto di trattazione nella precedente
esposizione, si può dire, in generale, che se vi è stata sufficiente attenzione al tema della sicurezza e
della prevenzione - esigenza fondante dell’istituzione del casellario unico europeo - è purtroppo sfuggito, peraltro in modo piuttosto evidente, il tema
della libertà e delle garanzie del singolo che, gravato di “certificazioni” a carico ed in quanto tali per-
sino per certi versi dotate del valore invincibile di
prova legale, rischia in taluni casi di vedere pregiudicata la propria posizione processuale, in quanto,
appunto, “pregiudicato” ex actis.
L’assenza delle doverose attenzioni normative all’imprescindibile tema delle garanzie di difesa del
singolo rispetto all’attivazione dell’automatismo informativo a suo carico appare in netto contrasto
con il principio della presunzione di innocenza, per
di più recentemente ribadito in ambito europeo
con la Direttiva del 27 gennaio 2016 (“sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei
procedimenti penali”).
In tale Direttiva, peraltro, si legge espressamente
che: “gli Stati membri assicurano che agli indagati
e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente
provata la colpevolezza” (art. 3; principio confermato nell’art. 27 della nostra Costituzione e negli
artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, nell’art. 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, nell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 11
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo); e che quando la legge prevede il ricorso a presunzioni di fatto o di diritto riguardanti la responsabilità penale di un indagato o un imputato, “tali
presunzioni dovrebbero essere confinate entro limiti ragionevoli, tenendo conto dell’importanza degli
interessi in gioco e preservando i diritti della difesa, e i mezzi impiegati dovrebbero essere ragionevolmente proporzionati allo scopo legittimo perseguito. Le presunzioni dovrebbero essere confutabili
e, in ogni caso, si dovrebbe farvi ricorso solo nel rispetto dei diritti della difesa” (considerandum n.
22).
Dunque, rispetto all’attivazione all’interno di un
procedimento o di un processo penale della presunzione di responsabilità inevitabilmente scaturente
dalle informazioni contenute nei certificati del casellario giudiziale, occorrerebbe la previsione di
adeguate garanzie difensive che, però, come detto,
non sono state previste (10).
(10) Sul punto, cfr. N. Canestrini, La direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del dirit-
to di presenziare al processo nei procedimenti penali. Un’introduzione, in Cass. pen., 2016, 2224.
Riflessioni conclusive
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