Edizioni in Proprio 2 EiP - Fondazione Sasso Corbaro

Transcript

Edizioni in Proprio 2 EiP - Fondazione Sasso Corbaro
Edizioni in Proprio
2
EiP
1
2
Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli
ISOLE E APPRODI
Percorsi psico-antropologici
e
formazione dell’operatore sociale
Edizioni in Proprio
2014
3
EiP Edizioni in Proprio,
casella postale 299
CH - 6818 Melano
Settembre 2014
4
Ai nostri studenti che sono e
devono rimanere
l’anima di ogni progetto formativo
“Gli antichi greci non scrivevano
necrologi. Si ponevano una sola domanda alla morte di un uomo ...
Era capace di passione?”
dal film “Serendipity” (Dean)
5
Scritture di Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli,
Guenda Bernegger, Graziella Corti, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini.
Con il prezioso e paziente sostegno di Franca Martignoni, Mauro Arrigoni
e Mosè Cometta che si sono dedicati alla rilettura, alla stesura e alla impaginazione di questo volume.
Un ringraziamento particolare a Ornella Manzocchi che ha curato l’editing
di questo volume.
Questa pubblicazione esce grazie al contributo del Dipartimento di Economia aziendale, Sanità e Sociale (DEASS) della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), delle Edizioni Alice e del fondo
costituito dal Premio Credit Suisse Award best teaching 2011 e 2012, Simulazione e apprendimento - Simulation-based learning ottenuto da Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni e Rosiney Amorin.
In copertina l’opera in bronzo Bea d’estate (2009) di Arnoldo Arrigoni e in
filigrana una mappa di Lorenzo Pezzoli.
6
La mappa
Piatta come il tavolo
sul quale è posata.
sotto - nulla si muove,
né cerca uno sbocco.
sopra - il mio fiato umano
non crea vortici d’aria
e lascia tranquilla
la sua intera superficie.
Bassopiani e vallate sono sempre verdi,
altopiani e montagne sono gialli e marrone,
oceani e mari - di un azzurro amico
sui margini sdruciti.
Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.
Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,
accarezzare i poli senza guanti grossi,
posso con un’occhiata
abbracciare ogni deserto
insieme al fiume che sta lì accanto.
Segnalano le selve alcuni alberelli
tra i quali è ben difficile smarrirsi.
a est e ovest, sopra e sotto
l’equatore un assoluto
silenzio sparso come semi,
ma in ogni seme nero
la gente vive.
Fosse comuni e improvvise rovine
sono assenti in questo quadro.
I confini s’intravedono appena,
quasi esitanti esserci o non esserci?
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buonumore
sul tavolo mi dispiegano un mondo
che non è di questo mondo.
Wislawa Szymborska
7
L’ultima mia proposta è questa:
se volete trovarvi,
perdetevi nella foresta.
Giorgio Caproni, Per le spicce
Molte sono le cose mirabili, ma nessuna
è più mirabile dell’uomo
Antigone, vv. 332/333
8
INDICE
Prefazione14
1. Incipit17
1.1. In cammino
22
2. L’operatore sociale: un’identità nomade27
2.1. Identità, individuo e vita affettiva.
Riflessioni psico-antropologiche attorno all’identità.
Dalla vocazione alla professione
29
2.1.1 L’uomo in situazione
30
2.1.2 Un itinerario psico-antropologico
33
2.1.3 La Cura
36
2.1.4 La precarietà esistenziale
45
2.1.5 La fragilità 47
2.2. L’operatore sociale, un’identità nomade
52
2.2.1 Premessa
52
2.2.2. Un’identità nomade 55
2.2.3 Il carrefour identitario62
63
2.2.4 L’Io multiplo
2.2.5 Il compagno segreto
64
2.2.6 I fantasmi di identità
68
2.2.7 Riassumendo in undici soste
76
2.3 L’operatore sociale sospeso fra orizzonte e dettaglio
2.3.1 Dalla vocazione alla motivazione
2.3.2 Sospeso fra orizzonte e dettaglio, fra paradigma
psicoanalitico e dimensione fenomenologica
81
81
85
2.4 Appunti e spunti sull’operatore sociale
nel fastello delle professioni di aiuto
96
2.5 A proposito di identità
100
9
3. Mappe di navigazione103
3.1 “Individuo, identità e vita affettiva”
105
3.1.1 L’arcipelago identitario, Mappa del “Primo mondo” 105
3.1.2 Mappe di navigazione
106
3.2 “Individuo, identità e vita affettiva”
3.2.1 La lezione: Individuo, identità e vita affettiva
3.2.2 Tredici approdi
3.2.3 I seminari esperienziali
107
107
109
112
3.3 Identità e alienità
3.3.1 La lezione: epistemologia e clinica
3.3.2 I Seminari
3.3.3 La tragedia
116
117
121
122
3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa” nelle
vicinanze della “follia”. Spazi di cura e gesti di ospitalità 124
3.4.1 Stazioni
126
3.5 L’origine
3.5.1 Incontri
127
130
3.6 Cura educativa e sofferenza psichica
132
3.6.1 Pratiche di intervento educativo.
Incontrare il folle e la sua follia: dove, qando, come? 132
3.7 Cura di sé e cura dell’Altro: il percorso di supervisione
135
3.7.1 Premessa
135
3.7.2 Modalità della supervisione
136
3.7.3 Obiettivi della supervisione
137
3.7.4 Organizzazione e tempi della supervisione
138
3.7.5 Programma
138
3.7.6 Il setting in supervisione formativa
141
3.7.7 I coefficienti di trasformazione nella pratica discorsiva
della supervisione formativa nelle professioni sociali 149
3.7.8 La costruzione condivisa della valutazione del percorso
161
di supervisione; i coefficienti di valutazione
3.7.9 L’incontro con Pandora e il viaggio con Dafne.
Riflessioni riguardanti il crinale fra supervisione
173
formativa e psicoterapia psicoanalitica
Portfolio203
10
4. Mappe di esplorazione
4.1 “La Nottola di Minerva inizia il suo volo
sul far del crepuscolo”
4.1.1. Cari “esploratori di terra e naviganti di mare”
4.1.2 Il pensiero complesso
4.1.3 Le mappe, i luoghi della “ragione sensibile”
235
4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto
4.2.1 Il volto e la maschera
4.2.2 Pedagogia del volto
4.2.3 Guardare in volto
4.2.4 Appunti e accenni sul trattenere e distogliere
lo sguardo
4.2.5 Estetica della relazione di aiuto e di cura:
la metafora del ritratto
242
242
243
246
4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona
4.3.1 Programma
4.3.2 Una notte al castello, raccontare il cammino,
percorrere le storie
4.3.3 Le notti e le aurore delle navigazioni identitarie
4.3.4 La ricaduta, una “abitatrice degli incroci”,
tra percorso tossicomanico e viaggio terapeutico
4.3.5 La caduta e l’inciampo
4.3.6 Sulla retta via non ci va nessuno.
Riflessioni su arte, normalità, disabilità
4.3.7 Una notte nel castello,
la notte - il momento della partenza
271
271
4.4 Al Cimitero di Lugano
4.4.1 Programma
4.4.2 Una violetta al camposanto
4.4.3 Non esistere più
4.4.4 Perdere la morte, stanza con vista
305
305
306
308
310
4.5 Al Teatro Sociale di Arogno
4.5.1 Programma
4.5.2 Fabula docet
313
313
314
4.6 Ai musei di Torino di antropologia criminale
e di anatomia umana
4.6.1 Programma
342
342
238
239
240
240
250
259
273
276
281
286
291
300
11
4.6.2 Sguardi sull’umano e le sue metamorfosi
4.7 Alle grotte della Valle Imagna
4.7.1 Programma
4.7.2 Fra psiche e soma, l’esperienza della “cesura”
4.7.3 Nascimento ama nascondersi
4.7.4 Vivere sotto terra
4.7.5 Grotte e acque dormienti come metafore
del vivere e del morire
4.7.6 La Terra e le sue aperture
342
350
350
357
359
363
365
368
5. Excipit385
387
5.1 Alla scoperta della metafora dell’operatore sociale
5.1.1 La metafora e l’identità dell’operatore sociale
391
5.2 Per un’etica del quotidiano o dell’incontro
397
tra la Cura e la solidarietà
5.2.1 La perdita del quotidiano
397
5.2.2 Stare tra i tempi, “une paix armée”
401
5.2.3 L’etica della quotidianità: per una quotidianità solidale404
Per ricominciare407
Per una bibliografia possibile413
Mappe di navigazione415
415
3.1 Individuo, identità e vita affettiva
3.3 Identità e alienità
417
3.4 Fenomenologia del gesto di “cura (psico)-educativa”
422
nelle vicinanze della “follia”
3.5 L’origine
423
3.7 Cura di sé e cura dell’Altro: il percorso di supervisione
434
Mappe d’esplorazione436
436
4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto
4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona
437
4.4 Al Cimitero di Lugano
438
4.5 Al Teatro Sociale Arogno
439
4.7 Alle grotte della Valle Imagna
441
Utilità 443
12
Al Museo Vincenzo Vela, gesso, “Le vittime del lavoro” 1882, Vincenzo Vela
Ornella Manzocchi, Lorenzo Pezzoli, Graziano Martignoni, Lorenzo Pellandini, Claudio Mustacchi
13
Prefazione
Wilma Minoggio
Nei numerosi anni di esperienza quale docente, prima, e di direttrice di Dipartimento, poi, il tema della formazione ha costituito per me un costante ambito di
interesse. Ho vissuto e partecipato ad un susseguirsi di dibattiti, confronti e a volte
anche di dispute, attorno alle variegate sfaccettature relative al profilo di insegnante. In questa breve introduzione non ho la presunzione di analizzare o sintetizzare
le svariate scuole di pensiero o di entrare nella specificità dei diversi contribuiti
teorici su queste problematiche, quanto piuttosto di riprendere alcuni aspetti che
ritengo più significativi del dibattito attorno alla figura del docente.
Ho assistito alla crescente insistenza di una certa contrapposizione tra una visione
umanistica nel concepire il lavoro di docenza e quella legata ad una concezione
ingegneristica e tecnicistica di tale mestiere. Inoltre, nel paradigma dell’insegnamento, basato principalmente sulla trasmissione del sapere e sul ruolo centrale del
docente, si è vieppiù inserito il paradigma dell’apprendimento, che tende invece a
sottolineare l’importanza del ruolo attivo dello studente nel processo di acquisizione di nuovi traguardi conoscitivi. Se per anni l’insegnamento si è centrato sulla
costruzione di saperi, di conoscenze e di nozioni, oggi predomina l’orientamento
verso l’acquisizione di competenze, capacità e abilità.
Negli ultimi decenni, il modello classico della trasmissione del sapere si è visto
confrontato anche con l’irruzione e la pervasività delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le quali hanno contribuito in modo sostanziale
a quella che oggi viene definita la società della conoscenza. Quest’ultima rimette
profondamente in questione, grazie a strumenti e modalità di interazione sempre
più rapidi, performanti e globalizzati, il modo di informarsi, di apprendere e di
educare dell’uomo e del cittadino contemporaneo.
All’interno di questo scenario, in costante mutamento, appare quindi chiaro che
insegnare è un compito sicuramente non facile ed è altresì comprensibile un certo
smarrimento da parte di chi esercita questa professione, in bilico tra, da una parte,
la riproduzione di un insegnamento di tipo tradizionale che offre sicurezza e linearità e, dall’altra, il desiderio di intraprendere nuove vie e inedite sfide assumendosi
anche le incertezze e i dubbi che ne derivano.
Ho avuto l’occasione, in questi anni, di entrare nelle aule per assistere a lezioni di
orientamenti disciplinari diversi e impostate mediante differenti approcci didattici. Alcune volte ne sono uscita un po’ sfiduciata, ma comunque sempre sorretta
dalla convinzione che si potesse giungere a risultati migliori con strumenti appropriati e la volontà di imparare/ perfezionare il mestiere. In altre occasioni, ho
avuto conferma che ci sono e vi saranno anche in futuro insegnanti “capaci” e di
valore. Più volte mi sono chiesta: che cosa contribuisce a rendere un docente “capace”? Non vi è in me la pretesa di proporre un profilo ideale o universale del docente,
in quanto non credo neppure che ve ne sia uno. Intendo semplicemente delineare
alcuni orientamenti che possano contribuire a favorire una relazione proficua tra
insegnamento e apprendimento all’interno di un contesto universitario professionale, di cui facciamo parte.
Partendo da una citazione di A. Einstein “È l’arte suprema dell’insegnante a risvegliare la gioia della creatività e della conoscenza”, sottolineerei innanzitutto la
dimensione culturale della professione docente, che comprende senza dubbio la
padronanza dei fondamentali delle discipline oggetto di insegnamento: saperi che
vanno però aggiornati regolarmente, nonché tradotti e rivisti nell’ottica della loro
“insegnabilità”. Sicuramente, ciò che l’insegnante veicola maggiormente con la sua
persona e il suo atteggiamento è la passione verso la disciplina, l’approccio convinto
e convincente alla materia, che è anche e soprattutto metodo conoscitivo fondato su
problemi reali e questioni esistenziali rilevanti.
“Il sapere che viene dall’esperienza, non prende forma come semplice conseguen14
za del partecipare ad un contesto di esperienza, ma presuppone l’intervento della
ragione/riflessione” L. Mortari 20031. Questa citazione mi permette di evidenziare un secondo aspetto importante per chi insegna all’interno di una università
orientata alla professionale. L’apprendimento esperienziale individuale e collettivo
costituisce un fattore indispensabile e si esprime con il termine di “Erlebnis” che ha
come radice il termine “leben” a indicare l’esperienza vissuta, connotata di stati
d’animo particolarmente coinvolgenti, allo scopo di creare quelle condizioni di
“sfondo” per supportare al meglio l’impegno intellettuale e di ricerca. Ma queste
esperienze si traducono in patrimonio di conoscenza e di condivisione solo se alla
dimensione emotiva, legata ai vissuti dei singoli, si alternano approcci cognitivi
e riflessivi che consentono una messa in relazione dei concetti e delle teorie di riferimento, così da tradurre l’apprendimento esperienziale in un bene culturale e
sociale comune.
Dal punto di vista psicopedagogico, particolare rilevanza rivestono le transazioni interpersonali, che costituiscono il fondamento di qualsiasi processo formativo.
La capacità di coinvolgimento personale nella relazione educativa, nonché una
positiva comunicazione e interazione con il gruppo e con il singolo, costituiscono
elementi essenziali della professionalità docente. Si tratta di dimensioni indispensabili, che vanno curate con particolare attenzione se non si vuole correre il rischio
che le istituzioni universitarie si riducano ad una sorta di non-luoghi, di nuovi
supermercati volti all’acquisizione di crediti e di diplomi secondo una logica essenzialmente utilitaristica e consumistica. Per evitare ciò, ci vengono in aiuto tutta
una serie di metodologie didattiche e strumenti organizzativi che consentono di
progettare ambienti di apprendimento in cui dare centralità alla motivazione,
alla cooperazione, alla condivisione alfine di creare scenari di fiducia e di sostegno
reciproco tra studenti e docenti.
Infine, vorrei sottolineare la necessità, da parte del docente, a fronte di questo
complesso ma altrettanto stimolante compito, di condividere e costruire una progettualità istituzionale in cui egli non navighi da solo ma trovi, nel lavoro di team
con i colleghi, delle opportunità di confronto, di partecipazione attiva all’interno
di un percorso di coerenza e di senso per sé e per gli studenti. “Certi sogni possono
diventare realtà solo se si impara a condividerli con gli altri, attraverso l’ascolto e il
dialogo continuo, in un lavoro di “lenta costruzione”, D. Pavarin 20042.
Il presente “Diario di viaggio e di memoria”, costruito e sperimentato sull’arco di
diversi anni nel corso di laurea in lavoro sociale, declina l’approccio “psico-antropologico” all’interno di una narrazione che affronta aspetti fondamentali dell’identità dell’operatore sociale e delle fragilità umane. Ritengo che questo racconto rappresenti una tangibile testimonianza della possibilità di co-costruire, a più mani e a
più voci, un’avventura formativa nella quale si ritrovano diversi elementi evocati
in questa prefazione. Vi ritroviamo la centralità delle conoscenze e dei saperi che
costituiscono la tela di fondo e orientano l’agire dell’operatore sociale, la volontà
di integrare la dimensione emozionale con quella esperienziale in una costante
dialettica tra teoria e pratica, tra vissuti individuali e rielaborazioni collettive. Ma
alla radice di questo consistente e impegnativo lavoro ritroviamo la forte passione
per l’arte di insegnare, che spero abbia sprigionato negli studenti e nelle studentesse
il desiderio, la voglia e la curiosità di apprendere. Questo almeno è il mio auspicio:
che i promettenti semi gettati qui, possano dare prima o poi succulenti e sostanziosi
frutti nelle pratiche professionali di coloro che hanno ricevuto questi stimoli, con
dei riverberi pure nei contesti più allargati della loro quotidianità esistenziale.
1
Mortari L. (2003), Apprendere dall’esperienza. Il pensiero riflessivo
nella formazione, Carocci, Roma
2
Pavarin D (2004), Citazione ripresa dell’intervento alla giornata studio Cooperative Learning. Esperienze e nuovi scenari, Torino 2004
15
16
1. Incipit
17
18
1. Incipit
Viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra.
Claudio Magris “L`infinito viaggiare “
L’unico vero viaggio verso la scoperta non
consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi
M. Proust “Alla ricerca del tempo perduto”
Questo non è un libro con ambizioni di completezza, ma piuttosto e più modestamente un diario di viaggio, una sorta di isolario, scritto a più mani e composto da frammenti che compongono
immaginarie mappe. Un isolario per pensare all’identità nomade e
meticcia dell’operatore sociale posto di fronte alle sfide della tarda-modernità, ma anche alle antiche peripezie esistenziali a cui la
vulnerabilità e la fragilità dell’uomo, ieri come oggi, espone. La
scultura di Arnoldo Arrigoni proposta nell’immagine di copertina
sembra raccontare proprio l’arrière-pays di questo nostro viaggio
per isole in cui scoprire e condividere la forza del giunco, la ventosa leggerezza del metallo e il necessario incontro di figure umane,
che dicono il valore della solidarietà e della fratellanza. «Mappe di
navigazione» e «mappe di esplorazione» dunque, che riassumono un
cammino comune, in aula e fuori dall’aula in quelle iniziative che
abbiamo chiamato extra moenia. Un cammino attorno agli intrecci
e agli intrighi psico-antropologici posti da un importante settore
del curriculum studiorum dell’operatore sociale. Mappe per pensare
al senso stesso dell’azione sociale a cui è orientata una formazione
accademica vicina al territorio e con forte vocazione professionalizzante. Tra queste pagine appaiono orizzonti da raggiungere, ma
anche soste e approdi, in cui, al sopraggiungere della sera, quando
ci si raccoglie attorno al fuoco, si mettono in comune le emozioni,
19
le difficoltà, ma anche le scoperte fatte durante la navigazione e
si comincia ad immaginare quello che succederà l’indomani. Un
gruppo di naviganti (i sottoscritti con Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Guenda Bernegger e altri compagni di viaggio3) ha
condiviso in questi anni, ognuno con le proprie particolarità, un’idea anti-procedurale e anti-protocollare della formazione dell’operatore sociale, valorizzando, accanto alla razionalità positiva e calcolante delle scienze sociali, altre forme della razionalità di uguale
significato teorico e pratico sullo sfondo di una forte pre-occupazione etica. Razionalità poietica e melodica come suggerito da Maria Zambrano, razionalità immaginativa (H. Corbin), razionalità
sensibile (M. Maffesoli) e razionalità narrativa: forme diverse della
razionalità teorico-pratica, fondanti un vero e proprio ethos del lavoro sociale. Forme della razionalità che necessitano, nella formazione di pensieri, di luoghi e di modi in cui fare esperienza, della
propria creatività, dei propri sensi, della propria immaginazione
e non da ultimo della propria capacità di accogliere l’imprevisto
e l’inatteso in modo che il progetto educativo di aiuto e di cura
divenga prima di ogni cosa opera. È qui che si colloca la categoria
di «cura educativa», nella sua matrice antropo-fenomenologico-esistenziale, che ispira sullo sfondo il nostro percorso. Un percorso
formativo e di crescita personale (si studia non solo per apprendere
nozioni o competenze ma per divenire migliori, questo il nostro motto)
capace di dipanarsi tra esperienza-vita con particolare attenzione
all’emozionale e all’Er- leben o Er-lebnis ed esperienza-viaggio (Erfahren, viaggiare).
Ma tutto ciò aveva bisogno di un contesto favorevole per nascere e
crescere. Il contesto in cui sono nate queste riflessioni è stato infatti quello del Dipartimento di lavoro sociale e poi di Scienze aziendali
e sociali (DSAS) della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) nata nel 1998. Un pensiero va a tutti coloro
che sono stati i veri e propri compagni di strada di questi anni
(1998-2014). A coloro che hanno saputo creare un clima di lavoro
in cui è stato possibile praticare la triplice arte, sensibile e preziosa,
3
Nel corso di questi anni accademici ( 1998-2014) hanno collaborato
alla costruzione e allo svolgimento delle attività presentate i nostri assistenti a
partire da Cinzia Campiello e Giona Morinini, poi sostituiti da Michela Nussio
e Rosiney Amorim, e infine per stare all’oggi da Camilla Leoni e Elisa Milani.
20
del pensare, del sognare e del progettare. Un ringraziamento particolare va a Wilma Minoggio, nostra direttrice di dipartimento, che
ha saputo stimolare in questi anni fondativi l’innovazione, proteggere le idee buone, guidare i percorsi di tutti noi. Ma vi è qualcosa
di ugualmente prezioso da ricordare. La presenza e il contributo
dei nostri tanti studenti, molti di loro attivi oggi come operatori
sociali sul territorio, che sono stati per tutti noi un appassionato e
creativo equipaggio. A tutti buon vento!
Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi, Lorenzo Pezzoli
Manno, 4 luglio 2014
21
1.1. In cammino
Graziano Martignoni
Mi accorgo sovente
di stare sulla soglia:
come se ci fosse
vicino al confine,
un fiato, un tenue filo.
Come se fossi qui in parte,
in parte altrove.
Simultaneo e ubiquo,
plurale e singolare assieme
D. Giancane, La soglia
Le pagine a più voci di questo libro raccontano di un cammino
vissuto da collettivo4, del tutto informale all’interno del Corso di
laurea in Lavoro sociale del Dipartimento di Scienze aziendali e sociali (DSAS) della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera
Italiana (SUPSI), che si è riconosciuto in due sguardi, quello di
una pedagogia fenomenologico-esistenziale e quello di una lettura
psico-antropologica della realtà sociale. Due modi del pensiero in
cui orientare la figura dell’operatore di aiuto e di cura. Il percorso
formativo è fatto di incontri, di soste, di transiti ma soprattutto di
direzioni di senso. Nell’ambito del curriculum studiorum offerto dal
DSAS si coagulano, - a partire dalla riflessione sui mondi sociali e
psichici e sulle loro interrelazioni, proprio nel momento in cui si
assume come guida il paradigma della complessità e della trans-disciplinarietà, che decreta la messa tra parentesi delle tradizionali
separazioni disciplinari, - nuovi aggregati tematici e nuove strade.
Una di queste è certamente quella che chiameremo qui psico-antropologica. Un asse teso a mettere in luce i legami, gli intrecci, gli
intrighi ma anche le aporie del rapporto tra dimensione individuale e dimensione socio-culturale, tra psiche e società sullo sfondo di
4
Vi hanno collaborato oltre ai curatori di questo testo Guenda Bernegger, Claudio Mustacchi e Lorenzo Pellandini.
22
un mondo che muta velocemente. Un mutare delle sensibilità individuali e collettive dentro nuovi processi di soggettivazione e di
socializzazione. Si dipanano così, lungo i tre anni di corso, i fili che
tengono unite le diverse isole di questo arcipelago. Al centro del
percorso l’idea di cura educativa, come orizzonte teorico, etico e insieme operativo. Questo documento vuole essere una sorta di cartografia immaginaria sempre in movimento di queste nuove terre
con uno sguardo attento all’uomo in situazione, che le abita. Mappe
di navigazione e mappe di esplorazione fondate sul valore formativo della pratica teorica, che ritrova i fondamenti dei nostri Saperi
mescolandoli, dei nostri Codici e delle nostre Parole, ma anche sulla dimensione dell’apprendere attraverso l’esperienza e il vissuto.
Identità, alterità, alienità, precarietà, vulnerabilità e cura indicano
le tappe di un cammino attorno alla questione dell’incontro/scontro con l’Altro e l’Altrui, nella dialettica tra forme dell’accoglienza
e del rifiuto, dell’appartenenza e dell’esclusione.
Un cammino nell’orizzonte della cura educativa, in cui l’operatore
sociale diviene una sorta di vero e proprio specialista della quotidianità, capace di accogliere la sofferenza dell’uomo che lo chiama,
di accompagnarla, di sentire il vento della speranza anche quando
tutto si è spento, di muoversi come brezza primaverile nella palude
e di gioire quando le canzoni più belle della vita ricominciano a
farsi sentire. Approdi quelli raccontati da questo libro collettaneo
in cui soggiornare nell’“ordine del cuore”5 e contemporaneamente
in quello di un Sapere nomade che si nutre, come suggerisce Maria
Zambrano, dei frutti di un pensiero melodico6 e di un’epistemologia
dell’accoglienza, perché di fronte alla vita di un uomo che soffre nel
corpo, nell’anima e nel mondo, dell’uomo escluso, umiliato, disperso non possiamo che tendere la nostra mano, perché tu, come
recitano le parole di Mario Sgalambro nella canzone “La cura” di
Battiato, sei un essere speciale.
5
Il termine è suggerito dal libro di R. De Monticelli, L’ordine del cuore,
Garzanti, Milano, 2003.
6
A questo proposito cfr. G. Martignoni, “Le Medical humanities, un
pensiero orientale?”, in Rivista per le Medical humanities, Lugano, III, 11, pagg.
78-85, 2009. Per un riferimento all’epistemologia dell’accoglienza cfr. i lavori
illuminanti di Maria Zambrano, in particolare (1977) Chiari del bosco, Bruno
Mondadori, Milano, 2004 e (1989) Delirio e destino, op.cit.
23
Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Costantino Kavafis
Rivelami ciò che ami veramente, ciò che cerchi e a cui
aspiri con tutto il tuo desiderio quando speri di trovare
la tua vera gioia e con ciò mi avrai spiegato qual è la tua
vita. Quello che ami, tu lo vivi. Questo amore rivelato
è appunto la vita, la radice, la sede e il centro della tua
vita.
Johann Gottlieb Fichte, Iniziazioni alla vita beata
Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
Matteo 6, 21
24
25
26
2. L’operatore sociale:
un’identità nomade
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28
2. L’operatore sociale: un’identità nomade
2.1. Identità, individuo e vita affettiva.
Riflessioni psico-antropologiche attorno
all’identità. Dalla vocazione alla professione
Graziano Martignoni
Un’antropologia non frammentata dovrebbe
mostrare che l’uomo è (e non solo) corpo
(soma), anima (psyché), comunità (polis), e
mondo (aion), a cui dovremmo aggiungere
spirito (peuma).
R. Panikkar
Nella vita psichica del singolo l’Altro è regolar
mente presente come modello, come oggetto,
come soccorritore, come nemico e pertanto in
questa accezione più ampia ma indiscutibilmente
legittima, la psicologia individuale è al tempo
stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale.
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io
Au commencement est la relation, qui est une
catégorie de l’être, une disposition à l’accueil, un
contenat, un monde psychique; c’est l’apriori de
la relation, le Tu inné.
M. Buber
L’evento è senza ragione, senza fondamento,
senza fondo.
Arriva e accade in un incontro.
Ma se vi è incontro, vi è incontro sempre con un
altro,
mai con l’alterità in generale.
Henri Maldiney
Solo perché tu e io -in quanto appartenenti l’uno
all’altrosiamo già nel noi, io appartengo al luogo dove sei tu;
sono in grado di essere là dove sei tu;
può, là dove sei tu, sorgere un luogo per me.
L. Binswanger
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2.1.1 L’uomo in situazione
L’uomo contemporaneo sembra abitare le profonde e veloci trasformazioni sociali, culturali e psicologiche in atto sottoponendo
la propria interiorità e la propria identità personale al rischio di
frantumazioni dolorose, di nuove forme della sofferenza. La navigazione tra le costellazioni del suo mondo interno e le trame
della sua dimensione storico-biografica da un lato e il contesto
antropologico, sociale e istituzionale dall’altro si fa avventurosa,
aperta al rischio ma anche a nuove possibilità. L’operatore sociale
è così testimone nelle retrovie degli sconfitti, dei perdenti, di chi
vive le difficoltà dei tempi di passaggio della vita, proprio di questa navigazione. Nella relazione d’aiuto e di cura si orienta così la
riconquista di una soggettività progettuale spesso smarrita o ferita
dentro le malattie del corpo, della mente e della socialità.
Lo specifico campo del lavoro sociale e la centralità in esso della
relazione d’aiuto e di cura pone come filo conduttore della formazione la tematica fondamentale dell’incontro e dell’apertura all’Altro, che richiede la costante capacità di saper costruire e di “stare”
dentro lo spazio dell’intersoggettività essenzialmente attraverso
la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi, nel suo costituirsi concretamente e nella sua processualità lungo l’asse del tempo.
Questo “filo rosso” guida lo studio dell’“uomo in situazione” ovvero
dell’uomo nel suo “stare di fronte” al bisogno, alla sofferenza e alla
malattia, infine alla “mondanità” del suo “essere-nel-mondo”.
Il lavoro sociale con le sue strategie relazionali e istituzionali
tende ad accogliere proprio la fragilità di questo “uomo in situazione” e del suo mondo allo stesso tempo intimo e pubblico nella
dimensione profonda e complessa della quotidianità, facendo così
dell’operatore sociale uno “specialista della quotidianità”. Una quotidianità che si nutre delle categorie d’accoglienza, d’ospitalità e di
capacità d’ascolto, di co-costruzione di un nuovo progetto di vita e
di lavoro. La formazione e l’identità professionale dell’operatore sociale dovrà, dentro la complessità ma anche la disseminazione della
realtà quotidiana, avere cura proprio di questo “esporsi”, “darsi” e
“ritrarsi” continuo di fronte a chi bisognoso, ferito nell’anima e nel
corpo o semplicemente smarrito, chiede allo stesso tempo presenza
e professionalità e rivendica il suo diritto a dirsi ed a continuare ad
essere pienamente cittadino.
30
Questa condizione esistenziale non appartiene solo alla povertà,
che le generazioni passate avevano dolorosamente conosciuto, ma
piuttosto alla “miseria” che attraversa molte sfere della nostra a volte persino gaia quotidianità. Infatti vi sono dentro la nostra quotidianità i segni di una condizione umana che non dipende solo da
ragioni socio-economiche, che stanno oramai sotto gli occhi di tutti, ma da un male più profondo. Un male, che fa dell’oscuramento
del futuro la gabbia del nostro presente, se così mi posso esprimere, e che è più sotterraneo e svela la trasformazione di alcuni “indicatori identitari” fondamentali, che definiscono storicamente, di
epoca in epoca insomma, che cosa sia un uomo. Un uomo, la cui
identità è costretta a divenire sempre più fluttuante, senza territori
d’appartenenza certi, senza “casa”, senza memoria per essere sufficientemente flessibile, “liquida”, come scrive Bauman7, disponibile
alle infinite mutazioni di una vita dominata oramai sempre più
dalla virtualità, dai tecno-organismi e da una sorta di tecno-immaginario (Balandier). Qui liquido significa senza limiti, senza referenti, una condizione per gli uni creativa e adatta ai viaggi virtuali,
a divenire “internauti”, per gli altri condizione di smarrimento e di
solitudine. È proprio attorno a queste questioni che qualcosa è andato mutando senza nemmeno che ce ne accorgessimo. Proviamo
a pensare, ad esempio, ad alcune caratteristiche, che sempre più ci
vengono richieste come qualità necessarie da spendere sul mercato
del lavoro e dell’immagine di noi stessi. Ci è chiesto infatti di essere sempre più flessibili, veloci, intercambiabili, de-territorializzati,
senza inutili nostalgie di “casa”, costantemente connessi alla rete,
permanentemente raggiungibili, senza limitanti protezioni sociali,
per poter pienamente partecipare o avere l’illusione di condividere
almeno per un attimo, - poi domani potrai trovarti con una lettera di licenziamento per ristrutturazione o fusione - alla grande
“movida mercantil-comunicativa” dei nostri giorni. “Changez de
peau quand vous voulez”, titola la rubrica di multimedia del Figaro. “Chi non ha mai avuto il sogno di cambiare pelle, vita identità
e di potere evolvere in un universo dove tutto è possibile?” Questo
il mondo dell’uomo fluido, portatore di un’identità a cui non è più
richiesta profondità, basta l’orizzontalità della rete a cui rimanere
7
Su questo tema cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2003
e Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari, 2006
31
connessi, pena il suo spegnimento.
E di questi drammatici spegnimenti oggi ne vediamo purtroppo
molti nelle sofferenze del corpo e dell’anima, quando l’illusione
di partecipare da attori e da vincitori, come si sforzavano di dirci i “sapienti imbonitori” del moderno management, alla grande
“abbuffata” finanziario-comunicativo-tecnologica, si riduceva in
lettere di licenziamento. Effetti collaterali della flessibilità? Un mio
paziente, divenuto tale dopo essere stato scacciato dalle logiche
della flessibilità mercantile, che ricordano l’antico detto “homo homini lupus”, e dal “banchetto economico-finanziario” che lo aveva
visto per un po’ protagonista, mi faceva tempo fa un’amara osservazione. Aveva letto sul giornale della morte per suicidio di uno di
quei freddi e calcolanti “sacerdoti” della nuova economia, che lo
aveva gettato via senza troppi scrupoli dopo molti anni di lavoro,
divenuto vittima anche lui probabilmente di un mondo e di valori
che credeva di rappresentare e di cui pensava di fare parte. La fluidità, la velocità, l’impossibilità di assentarsi, che riduceva sovente
il tempo libero o quello da passare in famiglia a tempo collaterale
al lavoro e condizionato dal lavoro e ancora la produttività ad ogni
costo, l’illusione di appartenere ad una nuova, effimera ed elitaria “tecnocrazia”, si sono trasformati lentamente in veleno. Così
quell’uomo, che aveva con fatica ricostruito un diverso orizzonte
alla vita dopo la sconfitta, svelando la falsità di quei valori, poteva
ora guardare con compassione la triste fine di colui che l’aveva
messo fuori dall’oggi al domani.
Ma che cosa sta alla base di tutto ciò? La sola e antica avidità
umana in versione post-moderna o la stupidità che crede che il
mondo migliore si fonderà su di un mondo più cinico, più opportunista o più selettivo? Il virus, che sta alla base di tutto ciò
appartiene però più fondamentalmente alla patologia del tempo.
Abitiamo infatti un mondo che ha profondamente e lentamente
modificato l’idea stessa di tempo, che come una tela ci avvolge e
ci fa scorrere tra la memoria e l’attesa. Siamo oramai nel dominio
del tempo puntiforme che tutto esaurisce nell’attimo e ci consegna
all’immobilità mascherata dalla frenesia con cui viviamo artificiosamente la quotidianità. Un tempo che implode in se stesso, mentre abbiamo l’impressione, che vada velocissimo, sempre più veloce. Come può essere pensato, accanto alle ristrettezze economiche,
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un progetto di vita e di lavoro, che impone comunque un’idea di
futuro quando il tempo si esaurisce nel presente, unica temporalità
che ha veramente valore, tanto da far affermare ad una pubblicità
per un club di vacanze “Si tu dors, t’es mort”!
Ma vi è una speranza possibile, quella che un tempo chiamavamo e vivevamo come un’utopia? Una speranza legata alla voglia
di resistere. Un speranza che apre lo spazio del futuro, che si costruisce infatti nel passato e si attualizza nel presente. Le diverse
temporalità della vita si compenetrano infatti attorno al nucleo del
presente che è fatto di attimi, che hanno in sé la forza del movimento. Ma muoversi fuori di sé significa emozionarsi. Ma è ancora
possibile emozionarsi quando viviamo in un tempo in cui l’emozione è appiattita nell’indifferenza o nel banale sentimentalismo
da telenovela? Quando si ragiona sul futuro e sul possibile bisogna
chiedersi sempre di che cosa si parla. Se è vero che siamo una generazione che non può più assicurare ai figli un futuro migliore
del proprio, ed è la prima volta da molti decenni, è anche vero che
ci nutriamo paradossalmente di una ideologia del cambiamento e
del possibile.
L’esito di questa contraddizione sociale è duplice. Da una parte l’inganno, che una volta svelato fa scivolare nell’indifferenza,
nell’impotenza, nella frustrazione o nella frenesia di cogliere l’attimo, il carpe diem, come se nulla fosse più garantito, come se stessimo tutti sul bordo di un disastro, mentre il disastro è già dietro
di noi mentre stiamo sul quel bordo. Dall’altra al contrario resta
l’apertura alla speranza che ha bisogno di un uomo critico e capace
di resistere alle seduzioni di un mondo, che si vende così spesso per
un piatto di luccicanti lenticchie alla moda.
2.1.2 Un itinerario psico-antropologico
La riflessione psico-antropologica ha come obiettivo lo studio
dell’uomo e della sua soggettività (cognitiva, affettiva e simbolica)
nel suo manifestarsi biologico, culturale e psicologico-psicopatologico (le varie declinazioni delle discipline psicologiche individuali
e sociali), sullo sfondo storicamente determinato del confronto
dialettico tra normalità e non-normalità, tra biologia, psiche e storia … Un curriculum formativo che si colloca a pieno titolo nell’al33
veo di una storia della civilizzazione, delle sue rappresentazioni e
delle sue pratiche sociali. Si occupa inoltre delle perturbazioni di
questo manifestarsi della esistenza umana nelle malattie del corpo,
della mente e della socialità. Tuttavia lo specifico campo del lavoro
sociale e la centralità in esso della relazione di aiuto, di cura e di
progetto, dentro l’area istituzionale e territoriale, pone come filo
conduttore dell’insegnamento la tematica fondamentale della relazione e dell’incontro con la presenza dell’Altro (come alterità e
come alienità) e quella conseguente della intersoggettività attraverso essenzialmente la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi,
nel suo costituirsi concretamente e nella sua processualità lungo
l’asse del tempo…
La categoria dell’azione incontra quella dell’uomo in situazione.
Il lavoro sociale con le sue strategie relazionali e istituzionali dentro la quotidianità tende ad accogliere l’“uomo in situazione” nella
sua doppia dimensione di fragilità e di creatività.
Il campo psico-antropologico si struttura così in alcune costellazioni interdipendenti, che attraversano le diverse materie disciplinari :
• quella di una lettura della tradizione e dello sviluppo della
civilizzazione attraverso cui la soggettività umana si è manifestata;
• quella dell’“uomo in situazione” nella sua dimensione emozionale e nell’orizzonte intenzionale della sua azione;
• quello dello studio dell’uomo nella sua dimensione psicologica
generale ed evolutiva;
• quella delle costellazioni storiche-antropologiche (simboliche)
in cui è collocata la sua esistenza individuale, familiare e sociale;
• quella delle forme fondamentali con cui si manifesta l’esistenza umana;
• quella delle forme e delle classificazioni delle perturbazioni e
delle malattie somatiche, psichiche e sociali (“mente-corpo-mondo”) e quella dei modelli di interpretazione dei fenomeni psichici;
• quella dell’istituzionale, che introduce nel rapporto intersoggettivo la dimensione della gruppalità e della culturalità;
• quella della dimensione etica, che non solo ogni relazione
all’Altro contiene ma di cui è in se stessa fondativa;
• quella di una “teoria della prassi” sull’esperienza di lavoro raccolta durante gli stages con vertice relazionale-clinico-psicosociale;
34
• quella dei percorsi di identità dell’operatore sociale, dall’identità personale, all’identità professionale a quella relazionale.
Il curriculum formativo si prefigge dunque di mettere lo studente nella condizione di praticare nel lavoro sociale uno “sguardo psico-antropologico” capace di leggere i diversi momenti della realtà
antropologica, sociale e psicologica in cui l’uomo è posto e trarne
da ciò l’orizzonte della sua azione professionale. Questa acquisizione emozionale e conoscitiva ha al suo centro quell’esercizio critico
del pensiero e della conoscenza, su cui il curriculum formativo dovrà costantemente vigilare.
Il sociale e i suoi attori formano uno spazio-corpo vivente, che
implica un’idea di uomo e di organizzazione sociale, un’etica, una
politica prima ancora che una pragmatica. Appare così chiaro, parafrasando X. Roegier in Savoirs, capacité et compétences à l’école:
une quête de sens (1999), che la formazione dell’operatore sociale
deve concorrere alla costruzione di un sistema di valori, sollecitare
l’uso della facoltà critica e dare strumenti per uno sviluppo armonico della persona chiamata poi alla relazione di aiuto e di cura,
essa dunque non può limitarsi a sviluppare competenze.
Prima tesi: L’uomo è sottoposto a un determinismo psichico e biologico e ad una continua oscillazione tra manifesto e latente, tra
dentro e fuori, tra mondi sociali e mondi psichici, tra coscienza
e inconscio, che ne fanno il suo destino, ma è nello stesso tempo aperto ad una possibile (sempre possibile) altra destinazione,
secondo l’indicazione “Wo es war, muss ich werden, oder muss
(soll) noch immer etwas Anders sein (werden)” (Jean Laplanche
che rilegge Freud).
Seconda tesi: L’uomo è relazione e in relazione, nelle diverse forme di una relazionalità intrapsichica, interpsichica, intersoggettiva, trans-soggettiva familiare e socio-culturale.
Terza tesi: L’uomo è un soggetto storico-anamnestico. È il risultato del suo “giornale intimo”, della sua autobiografia e della sua
biografia; è un soggetto in situazione.
Quarta tesi: L’uomo è un ri-cercatore e costruttore di senso.
Quinta tesi: L’uomo è un soggetto polemico che aspira all’armonia.
Sesta Tesi: L’uomo è un soggetto “assiologico” (che da valore alle cose).
35
Al vertice dell’interesse della riflessione psico-antropologica vi è
la categoria della Cura e della Clinica (non ovviamente intesi nel
senso riduttivo medico-sanitario e terapeutico, ma come metodo
di relazione alla sofferenza dell’Altro, come es-posizione all’Altro)
letta nel rapporto tra mente e corpo, tra mondo psichico individuale e collettivo e organizzazione socio-sulturale.
La Cura (Sorge, che rinvia al Dasein heideggeriano8, alla preoccupazione, alla disposizione all’Altro, alla qualità della presenza e
all’accoglienza empatica, ecc…) è così all’incrocio tra Logos, Pathos e
Techné e implica:
• un’ipotesi topologica del mondo interno (manifesto/latente;
funzione del sintomo e della sua interpretazione);
• un’area di esperienza di relazionalità;
• una condizione di situazionalità, che fa dell’uomo un soggetto
storico e storicamente determinato, un abitatore di mondo;
• una tensione-apertura alla trascendentalità, che ne fa un soggetto teleologico, capace di trasformare il destino in destinazione
tramite il pro-getto.
Come allora coniugare queste categorie del lavoro sociale con la
centralità della qualità della vita, del benessere più che del disagio,
della resilienza, della salutogenesi, della cittadinanza, dell’integrazione?
2.1.3 La Cura
“La ‘Cura’ stava attraversando un fiume, scrive una famosissima
favola della tarda latinità, che Heidegger utilizza per dire l’“Esserci” come Cura, nel suo Essere e Tempo9, quando scorse del fango
cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma.
Mentre stava riflettendo su cosa avesse fatto, interviene Giove. La
8Dasein, termine usato da Heidegger per indicare il modo di essere proprio dell’uomo. Accentuando il senso letterale della parola, Heidegger dice che il
Da-sein, l’esser-ci è costitutivo dell’uomo perché egli è soltanto in quanto ha un
ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. In qusto senso, per
Heidegger “l’essenza del Dasein consiste nella sua esistenza, cioè nel suo trascendersi
rapportandosi agli enti e comprendendosi nel proprio essere”. (cfr. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 2004, p.194)
9
M.Heidegger, “Essere e Tempo“ (1926), a cura di A.Marini, Mondadori
Editore, Milano, 2006
36
Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto,
senza però sapere che cosa sia. Giove acconsente volentieri. Ma
quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre
Giove e la Cura disputano sul nome, intervenne la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome,
perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti
elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la
seguente giusta decisione: ‘Tu Giove, che hai dato lo spirito, al
momento della morte riceverai lo spirito, tu terra, che hai dato il
corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede
forma a questo essere, fin che esso vivrà lo possieda la Cura. Per
quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché
è fatto di humus (Terra)’ ”.
Il concetto di cura si declina in quattro dimensioni: curare,
prendersi cura, avere cura e “fare cura”.
Dimensione antropologica
Culturalità
Dimensione
sociale
Situazionalità
CURA
Dimensione
ontologica
esistenziale
Trascendentalità
Dimensione psicologica
Relazionalità
Intersoggettività
La Cura appartiene intrinsecamente a ciò che è più umano
nell’uomo. Essa è capace di elavere le preoccupazioni e le sofferenze della quotidianità a progetto di vita. Le voci di questo primo
capitolo parlano di “malattie invisibili” che si nascondono spesso nei nostri gesti quotidiani, tanto da divenire parte della stessa
37
quotidianità. Viviamo di nuovo in un tempo di paure, in cui il
rischio da fattore residuo e accidentale della vita è tornato ad essere
elemento centrale della nostra vita individuale. Paure che toccano
da vicino la nostra intimità, messa in pericolo nell’ambito della salute, dell’alimentazione e della sessualità, l’ambiente aggredito da
una cieca idea di progresso, che tutto dovrebbe salvare e risolvere,
l’identità stessa dell’uomo che sta per configurarsi diversamente da
quello che era stato e si era pensato per secoli e la quotidianità in
cui tutte le aggressioni diventano vita vissuta, biografia e paesaggio
individuale. Ogni epoca ha avuto le proprie paure, ma più di un
segnale individuale e sociale ci indica come oggi, stiano nel cuore
stesso di ciò che viviamo come normalità e richiamino con forza
non tanto l’idea di salute, che ci aveva accompagnato dal diciannovesimo secolo, ma quella più antica di salvezza.
Ma a chi chiedere la salvezza in un “tempo di miseria”? E in
questo loro stare nella normalità, nella quasi ovvietà di tutti i giorni divengono sempre più invisibili. Svelarle allora, sulla linea di
orizzonte di questa “foresta di segni” che è la quotidianità, è come
seguire indizi, sintomi attraverso le ovvietà, le banalità, insomma
tutto ciò che sembra appartenere oramai allo “stato delle cose” …
L’altro giorno, mentre un cortese agente di polizia mi stava dando
una multa, si è scambiata qualche parola. “Poteva capitare di peggio”, affermo io, e lui di rimando “quando c’é la salute, il resto…”.
Parole che contenevano una sorta di sotterranea intesa interpersonale e forse anche culturale attorno al valore fondamentale che noi
pensiamo, in questa parte del mondo e in questo tempo della vita,
dare alla parola salute. Ma di quale salute stavamo parlando, quella del corpo, quella dell’anima, quella che ti fa sentire bene nella
tua famiglia o verso gli anziani genitori o persino verso i nonni
defunti, che in quel giorno di novembre andavo a trovare al camposanto, o altro ancora? Sulle illusioni, gli equivoci e i progetti che
questa parola contiene credo si possa comprendere, permettemi il
bisticcio di parole, lo “stato di salute” di una comunità di uomini
e di un’epoca. Uno sguardo dunque che illumina non solo le vicende e le paure individuali ma pure le grandezze e le povertà di
una civilizzazione. “Chi è malato o guarito, felice o infelice, scrive
Galimberti, lo è sempre secondo una idea e le idee sono storiche e
stratificate dallo spessore epocale, percui quando si parla di felicità
38
o di infelicità si parla di modi epocali e all’interno dell’epoca, di
modi personali di sentirsi felici o infelici”.
Attorno al concetto di salute, di guarigione, di malattia e di
cura avviene dunque quella che potrebbe essere chiamata una sorta
di “fabbricazione” pubblica e privata dell’uomo stesso e delle sue
esperienze. È di questa “fabbricazione”, oggi in apparenza senza
più regole certe, che vale la pena, dietro i problemi finanziari e
politici posti al cittadino delle casse malattia e dei costi della medicina, di cominciare a riflettere insieme. L’uomo contemporaneo
cerca infatti affannosamente e a tutti i costi, certamente più che
in altre epoche, la guarigione. Una ricerca che sembra tanto più
frenetica e inarrestabile, quanto paradossalmente maggiori sono
gli strumenti terapeutici oggi a disposizione. Ma da che cosa vuole in realtà guarire o essere guarito? Quale guarigione, dunque?
Un tema che appartiene nello stesso tempo all’ovvietà del lessico
quotidiano e ad una delle più complesse e ambigue configurazioni
antropologiche in cui la soggettività di questa fine-secolo è catturata. Se la modernità aveva decostruito la morte, come ci indica
un saggio di Zygmut Bauman, “in molte malattie spiacevoli ma
addomesticabili”10, obbligandoci a quella sorta di “ipocondria”
novecentesca in cui si deve essere ammalati per guarire e guarire
per ridivenire ammalati, come se la malattia contenesse paradossalmente la sconfitta della morte, questa tarda-modernità sembra
modificare profondamente l’orizzonte.
Avviene infatti, al contrario, una sorta di progressiva decostruzione dell’immortalità, attraverso cui le grandi figure della guarigione, dalla felicità, alla sicurezza, alla salvezza, alla libertà e persino l’idea di eternità e dell’ “al di là” non appartengono più al
sogno del futuro (e del suo progresso), ma al “qui e adesso”. Sono
come miniaturizzate in tante piccole cose della quotidianità di cui
potersi impossessare non nel progetto ma nella consumazione e
nella manipolazione quotidiana. Stiamo tra questi due tempi, e
l’inquietudine e l’incertezza è grande. Nel processo di transizione,
di erosione delle categorie e di addomesticamento dell’immaginario collettivo e individuale in atto, la figura della guarigione si
presenta allora come una figura labirintica fatta di biforcazioni,
10
Z. Bauman, “Mortality, Immortality and Other Life Strategies”. Cambridge, Book History of the Human Sciences.1993; 6: 117-123
39
contraddizioni tra richieste di maggiore tecnologia medico-sanitaria e domande miracolistiche e regressive, tra speranze prometeiche e seduzioni dionisiache. Un intreccio dentro cui è più facile
smarrirsi che trovare, come nel labirinto antico guidato comunque
da un filo conduttore, una via di uscita. In questa labirinticità senza uscite l’uomo di questo fine secolo si sente sempre più frenetico
e spaesato. La via della guarigione, che nel tempo antico era soprattutto iniziazione e conoscenza, è divenuta artificio dietro cui
la soggettività continua a cercare risposte che non trova. Se anche
trova la guarigione del corpo, è paradossalmente l’idea di guarigione (assoluta), che non può essere guarita.
Gli itinerari terapeutici quotidiani mettono sempre più a confronto tradizioni spesso contraddittorie e concorrenziali, per brevità quella che appartiene all’Occidente e al mondo della tecnica
e quella che ci è trasmessa dalle antiche tradizioni sapienziali, oggi
rimasticate in un mix di esperienze terapeutico-religioso-psicologiche, che si ricollegano in qualche modo al vasto orizzonte del new
age. La questione della presenza e della efficacia della dimensione
spirituale nella vita quotidiana e nell’equilibrio tra mente e corpo, quindi anche nel processo di guarigione, sembra essere tornata fortemente di attualità. Ma come porsi nell’intreccio antico e
modernissimo insieme tra malattia, spiritualità e cura? È come se
l’uomo avesse fatto sua più pienamente l’affermazione del filosofo
Wittgenstein qundo scrive “ho indagato il limite dell’isola, ma ciò
che volevo scoprire è il confine dell’oceano”. Quel confronto tra
sapienza antica da riportare alla luce e tecnica moderna deve aprirsi in un dialogo necessario, soprattutto perché rappresenta nella
quotidianità il doppio volto di quella domanda di guarigione, di
salute, di salvezza ecc…, che l’uomo rivolge al silenzio dei cieli o
alla impotenza del mondo.
La guarigione è così uno dei grandi enigmi e delle grandi interrogazioni di questo fine secolo, capace di grandiose realizzazioni
della tecnica ma incerta di fronte ad un uomo sempre più fragile.
Uno sterminato bisogno di guarigione dalla vita, dal corpo, dalla
mente sta nell’uomo di questa nostra contemporaneità infatti accanto ad una altrettanto sterminata fragilità proprio verso la vita,
il corpo e la propria mente. Si chiede oramai alla medicina quello che deve forse essere chiesto alla religione o alla filosofia, che
40
era per gli antichi “medicina mentis”, ovvero “studium ad bonam
mentem” e viceversa ; si chiede alla libertà del cittadino quello che
appartiene ai suoi vincoli, al destino e al campo della necessità
che non ha smesso di governare sotterraneamente il mondo …
Che significato ridare allora alla guarigione, per combatterne le
sue illusioni e i suoi inganni? Credo avesse ragione Kierkegaard
quando affermava “…la nave ha il fuoco a poppa e il megafono del
capitano non indica più la rotta ma ciò che mangeremo domani”.
Se è pur vero che oggi e non solo metaforicamente, molti devono, anche nelle nostre contrade, di nuovo preoccuparsi di ciò che
mangeranno domani, scambiare il cibo per la rotta sarebbe come,
per dirla con Zola, “mangiare illusioni”. Preoccuparsi nuovamente
della rotta non è forse già un processo di guarigione?
Il mondo cambia velocemente persino più veloce di come riusciamo a pensarlo e a sentirlo. Il trasloco verso un nuovo mondo
già da tempo iniziato, tanto da farci vivere oramai da anni in quello stato di precarietà in cui si vive, prima di una partenza quando
i bagagli sono oramai pronti e ci si affanna agli ultimi controlli,
sapendo di dimenticare comunque qualcosa e di dovere altresì rinunciare a tutto ciò che di superfluo non sta nelle nostre già voluminose valige. In quel trambusto, l’attesa della partenza prende
il posto a volte delle necessità del quotidiano e la nostalgia di ciò
che oramai alle nostre spalle comincia ad alimentare i racconti serali a giovani, che non hanno più molto interesse a quello che noi
abbiamo vissuto. Siamo in un tempo in cui la memoria è un bene
a grande e veloce deperimento e il futuro non è che un presente
vissuto sul corpo e nelle emozioni forti del momento prima ancora
che nel paesaggio interiore. Quante volte abbiamo ragionato proprio sul deperimento, sulla perdita di quel paesaggio interiore, sui
segni di una quotidianità, che sembrava fare a meno, per trovare
il suo centro e la sua identità, della memoria. Una soggettività immersa in un bagno comunicativo come mai la storia dell’uomo ha
conosciuto, attraversata da un flusso di infomazioni sterminata e
rinchiusa nel sempre più piccolo contenitore ma paradossalmente sempre più incapace di alimentare le dimensioni interiori della
memoria. Una soggettività disperata tra la potenza delle proprie
capacità e delle proprie conoscenze e la sterilità o l’assenza della
41
memoria, come era la disperazione dei perfetti replicanti di Blade
Runner di Ridley Scott … Le domande che ho raccolto disegnano un paesaggio, una sorta di “arabesco di fine secolo” in cui si
stagliano indicatore di azioni, sentimenti, pensieri, come fossero
delle domande, proprio per la loro quotidianità, chiave con cui
comporre un quadro in grado di sorreggerci, di contenerci o di imprigionarci nei prossimi anni nelle più diverse forme e figure della
vita vissuta. Domande su cui il secolo, che sta alle nostre spalle, ha
intrecciato nelle piccole come nelle grandi cose meravigliosi tappeti ma anche teribili camicie di forza o tragici sudari.
Di fronte alle sfide della quotidianità vi è una parola che assume
sempre più la forza di un indicatore di percorso, è la parola solidarietà. Molti equivoci però la attraversano. Solidarietà è oramai
termine tanto abusato da arrischiare di perdere progressivamente il
suo significato. Bisogna essere “anime belle” per essere solidali? La
scena politica e sociale di questi anni con il ritorno del fenomeno
della povertà su larga scala, con le questioni degli stranieri, assieme
alla realtà della solitudine e della sofferenza quotidiana di molti,
non fa che richiamarne con forza la sua attualità. Ma di che cosa
veramente parliamo quando parliamo di solidarietà? La solidarietà
è solamente disponibilità verso l’Altro, cancellazione di Sé o è contemporaneamente segreta realizzazione di se stessi, a volte persino
delle proprie mancanze? La solidarietà non è allora idealizzazione
delle “anime belle”, ma riconoscimento della ambivalenza dell’uomo e delle sue parti anche oscure. Le parti oscure capaci di creare
luce, vera solidarietà? Un paradosso a cui è inquietante ma anche
utile pensare. Qui sta la sua ambivalenza che rinvia al paradosso di
ogni atto di amore, che non si abbeveri alla illusione balsamica dei
“buoni sentimenti”. “Colui che ama, scrive in un bel libro sull’odio Nicole Jeammet, non ama innanzitutto occupandosi degli altri, ma realizzando l’opera per la quale si è sentito destinato in una
apparente indifferenza verso chi gli sta attorno”. Occuparsi degli
altri serve troppo spesso per nascondere che non ci si ama, per non
riconoscere l’aggressività che ci appartiene, invelenendo e manipolando il dono che si offre con tanta, troppa disponibilità all’Altro.
A volte si è solidali con l’Altro non per amore dell’Altro, ma per
debito, per colpa, persino per odio verso se stessi. Una solidarietà
autentica si fonderebbe così su una sorta di “buon uso dell’egoi42
smo”? Se ogni atto solidale si nutre di responsabilità, di libertà, di
gratuità, di ospitalità, ad esso appartiene pure il riconoscimento
della propria aggressività e della funzione che svolge chi è aiutato
per acquietare le proprie mancanze. L’amore non è qui solo un
dolcificante sociale ma il costante “campo di battaglia” delle ambivalenze, che non può espellere il suo Altro (poi da salvare, da aiutare…). L’essenziale della solidarietà tra gli uomini non sta tanto
infatti nella bontà dell’ aiutare ma nel riconoscimento che anche
l’Altro, il bisognoso, colui che soffre, è nello stesso tempo colui che
ti aiuta in una reciproca interdipendenza. Senza questa interdipendenza, questo soccorrersi a vicenda, questo “amore mutuale” vissuto profondamente e realizzato negli atti non vi è solidarietà ma
altruismo “colonizzatore”. Qui sta il senso più profondo della gratuità. “Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta come atteggiamento morale e sociale, come virtù è
la solidarietà. Questo non è un sentimento di vaga compassione o
di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e
lontane; al contrario è la determinazione ferma e perseverante di
impegnarsi per il bene comune ossia per il bene di tutti e di ciascuno, poiché tutti siamo veramente responsabili per tutti”. Chi così
scrive è Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollecitudo rei socialis.
La solidarietà non è allora beneficienza, “buona volontà”. Le
tentazioni dell’altruismo manipolatorio sono molteplici, dalla solidarietà tecnocratica finalizzata al puro mantenimento dell’organizzazione sociale, alla solidarietà di appartenenza, che suppone
una sorta vicinanza (sociale, culturale, ideologica o religiosa) di
chi viene aiutato, sino alla solidarietà “pelosa”, che suppone spesso
subdolamente la riconoscenza o l’ adesione più o meno esplicita
alle convinzioni ideologiche o morali di chi da l’aiuto. Come fare
allora perché la solidarietà non si fondi, come scrive E. Levinas
nel suo libro Dal Sacro al santo, nello spazio indifferente del caffé,
luogo del futile e dell’oblio dell’altro, ma nemmeno in pratiche più
o meno manifestamente finalizzate alla “cattura” dell’Altro nel circolo della riconoscenza, della colpa e del “buon comportamento”?
“Il caffé è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità
facile, senza responsabilità reciproca … il caffé non è un luogo, ma
un non-luogo, per una non-società, per una società senza solidarietà…”. Un non-luogo in cui si è per l’Altro non “compagni di
43
strada”, ma semplici passanti.
La solidarietà ha poi bisogno di compassione. La compassione non è pura commozione ma assunzione dentro di sé del volto
dell’altro sofferente, che è ritrovamento del proprio volto sofferente. Solo qui la solidarietà diviene “patire insieme” e nello stresso
tempo intelligenza pratica della altrui sofferenza. Infatti il Samaritano del Vangelo di Luca (10, 27-37) si avvicina all’uomo ferito
perché “si mossero le sue viscere” e non per finalità politiche o
religiose. Ma perché l’Altro, lo straniero, il povero e il sofferente
deve riguardarci? La risposta è radicale. L’altro è il mio compagno
essenziale, cioè me stesso. Io sono popolato da una quantità di individui. Questa la rivoluzione antropologica per uscire da una solidarietà solo pragmatica e funzionale. Io sono straniero a me stesso.
L’altro è lo straniero, che è me stesso. Ognuno è esposto ad una duplice alterità, quella che viene dallo straniero e quella rappresentata
dallo straniero che è in noi. È da qui che bisogna iniziare contro le
tentazioni dell’altruismo e della beneficienza strumentale, di cui la
storia della povertà in Occidente e delle sue pratiche sociali, è testimone. Quale diverso orizzonte dunque alla solidarietà? “Fare giustizia dell’Altro, scrive Italo Mancini, significa far passare la misura
della accoglienza nella misura del dono”. Un dono dato e ricevuto
nello stesso tempo poiché anche chi è bisognoso possiede proprio
nella sua bisognosità, nella sua povertà un dono da offrire. Qui
si fonda ciò che potremo chiamare il “circolo della solidarietà”,
il senso vero della reciprocità tra gli uomini. Due pagine sublimi
pur nella loro diversità di contenuto e di tempo parlano di questa trasformazione. Quella del Samaritano sulla via di Gerico nel
Vangelo di Luca (“ma chi è il mio prossimo?”) e quella del poeta
Edmond Jabés nel suo Livre de l’Hospitalité. Non vi è qui spazio
per parlare di quella pagina inaugurale sul tema della solidarietà,
che la parabola del Samaritano, su cui ogni azione sociale dovrebbe
riflettere. Mi limito a riprendere le parole del poeta e al senso della
sua ospitalità. Scrive il poeta in una sorta di programma etico per
ogni pratica di solidarietà: “Ci vide subito e si diresse verso di noi
per invitarci a bere una tazza di thè. Perché fece mostra di non conoscerci? Un atteggiamento che ci parve strano e un poco ci urtò.
Sbagliavamo. Evidentemente non avevamo riflettuto abbastanza
su che cosa è l’ospitalità per i beduini. Fingendo di non conoscer44
ci, aveva fatto sì che la nostra improvvisa visita non prendesse il
sapore di un ritrovarsi effimero”. È dentro queste parole il senso
più profondo di una intersoggettività che fa dell’ospite un evento
per noi. “Davvero ospitale - scrive Jabès - è, fino in fondo, l’attesa”.
Ogni evento vuole una attesa che nasce nel riconoscimento della propria necessità, della propria povertà, così come del proprio
desiderio “egoistico”. Che cosa è dunque l’ospitalità per i beduini,
che fingendo di non conoscerci avevano permesso che la nostra
improvvisa visita non prendesse il sapore di un ritrovarsi effimero e ripetitivo? Non l’ospitalità indifferente del “caffè”, ma forse
qualche cosa che realizza e coglie nello stesso tempo l’evento, che
è atto generativo sia per chi arriva sia per chi attende. Lo stare
alla soglia dei malati, dei bisognosi, dei poveri senza invadere il
loro spazio di vita o la loro libertà (anche di essere diversi da noi),
continuando l’aiuto, questo il cuore della solidarietà. Il tema della
soglia dunque, che impone il ritirarsi da parte di chi aiuta, come
per il Samaritano che lasciò l’uomo ferito alla locanda con qualche
soldo e se ne andò, dicendo che sarebbe passato al suo ritorno per
rimborsare ciò che l’oste avrebbe pagato in più per lui e nulla più.
Andarsene per ridare la libertà all’uomo ferito, per non imporgli
la propria presenza, la riconoscenza o l’adesione al proprio credo.
La solidarietà così diviene una sorta di “ostetrica” della libertà. In
questo senso la solidarietà non ha bisogno di “anime belle”, ma di
anime libere.
2.1.4 La precarietà esistenziale
La precarietà e la vulnerabilità stanno al centro di una condizione esistenziale e mondana che a volte si trasforma in malattia del
corpo e dell’anima. Una condizione che interroga costantemente
il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi smarrimenti, le sue
ferite, le sue discrasie ma anche le sue nuove sfide. Il Modulo si
articola in due movimenti. Il primo centrato sulle nuove sofferenze
esistenziali nei suoi aspetti psicopatologici e socio-culturali, ovvero
nelle “forme della vita”. Il secondo su di un modello di accoglienza
e di cura operativa di questa stessa esistenza malata, ferita e impoverita, come quello proposto dalla “psicoterapia istituzionale”. Il
Modulo di approfondimento dunque si propone di esplorare gli
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intrecci e gli intrighi tra i mondi-della-vita, che ci abitano e che
abitiamo, “naviganti” tra il mondo esterno, il mondo interno e gli
innumerevoli mondi virtuali che le nuove tecnologie ci permettono di attraversare.
Come è mutato allora il quadro psicopatologico in questa nostra
era digitale? Un itinerario indiziario attraverso le nuove malattie e
sofferenze dell’anima sorti negli “spazi antropologico-comunicativi” (P. Lévy) o più complessivamente nei “cronotopi psico-antropologici” (G. Martignoni) della nostra tarda (iper-)modernità
reticolare, che i nuovi mondi comunicativi esprimono e fondano.
La tecnica non è più mero strumento ma a suo modo costruttrice
di mondi in cui abitare, di cui vestirsi, in cui muoversi. Indizi, che
a partire dal vertice dell’infosfera comunicativa e delle sue interfacce, permettono di esplorare il “mondo-della-vita” dell’uomo tardo-moderno, il suo “essere-in-situazione” nell’esistenza quotidiana
e la sua condizione permanentemente “sismica”. È la antropo-psicologia della mutazione, delle sue ansie e delle sue resistenze che
qui è indagata seguendone le sue tracce. Il mondo tecnico e il suo
tecno-immaginario necessita oramai di un paradigma epistemico
che fa della complessità il suo fulcro; un paradigma in grado di
leggere questo nostro tempo di mutazione e di nuove ibridazioni,
in cui per alcuni sarà realizzata la grande sfida della ipermodernità
e dei suoi nuovi oggetti tecnologici, per altri si andrà consumando lo smarrimento fondamentale del senso stesso dell’umanità
dell’uomo di questo nostro tempo. Un tempo, che, come scriveva
il teologo Gogarten negli Anni Venti, “sta tra i tempi”, al crocevia
di nuove alleanze e di nuovi conflitti tra individuo e collettività, di
nuove ibridazioni tra uomo-macchina-natura, di nuove esigenze di
rappresentanza sociale.
Il mondo delle macchine, delle nuove ibridazioni tra macchina e
uomo, tra natura e uomo, capaci di travolgere, mutare, ri-configurare, a partire dalla biologia e/o dal funzionamento cibernetico, la
stessa nozione di uomo. Si vengono così prefigurando attraverso
l’universo tecnico e comunicativo e il suo cyberspace nuove forme
della soggettività, nuovi rapporti tra corpo e mente, tra percezione,
cognizione e sensibilità, capaci di costruire ponti, iterconnessioni,
zone di passaggio e di incontro, ma anche zone di disseminazione
identitaria e di nuove patologie. Punto privilegiato d’osservazione
46
di questo intrigo eco-psico-antropologico nel “frame” che l’info-tecnosfera produce è il rapporto che lega identità, cultura, tecnologia
nei confronti dell’alterità e della “stranierità” che abita l’uomo.
Quali dunque le nuove sofferenze psichiche, psicosociali e psico-corporee che accompagnano l’apparizione dell’uomo “precario”
(Furtos), “flessibile” (Sennet), “liquido” (Baumann), “normalmente
operatorio” (Martignoni), “banale” (Sami-Ali), “incerto” (Ehrenberg), del “cyborg” e del “cibionte” (De Rosnay)?
Mutazione sociale, antropologica e psicologica insieme dunque,
che cerca un discorso etico in grado di guidarla, più che esserne
guidato, in grado di accogliere le sfide del nuovo senza lasciare sul
campo di battaglia oramai inerme e inerte l’anima del presunto
vincitore. L’etica non come astratta dichiarazione di principi ma
come espressione di un’incarnazione del conflitto e della decisione,
a cui la libertà espone, dentro la soggettività dei singoli uomini,
come delle collettività, e soprattutto dentro e sul loro corpo, che è
oggi più che mai luogo ineludibile della stessa mutazione comunicativo-tecnologica e psico-antropologica in atto.
2.1.5 La fragilità 11
La fragilità abita il mondo come l’acrobata sta sul suo filo teso
tra il cielo e la terra. Così sospeso vive incessantemente l’imminente rischio di cadere, ma anche il miracolo di rimanere in equilibrio
sul quel minuscolo frammento di mondo, disegnando con i movimenti incerti del suo corpo sinuose figure nel nulla. La fragilità
è condizione esistenziale dell’uomo, anche lui sospeso tra naufragio e salvezza. A volte la fragilità può apparire prepotentemente
nei rapporti con il mondo, nel corpo malato, nei gesti incerti del
bambino o nel tremore della vecchiaia, così come nella parola incerta e ostacolata, altre può nascondersi in apparente esibizione di
potenza e nella falsità, altre ancora può invadere e dominare tutto
il nostro mondo interiore nelle sofferenze dell’ anima, nella fatica
di essere se stessi, nel senso di inutilità della esistenza, nello smar11
Su questo tema cfr. G. Martignoni, “Fragments d’anthropologie clinique en action”, in Jalons pour une anthropologie clinique, N. Duruz, R. Célis, V.
Dallèves (éd.), Springer Verlag, Psn 5. S1, 2007.
47
rimento di un centro a cui fare riferimento lungo la navigazione
della vita. La fragilità comunque e sempre parla di una intimità a
volte così lontana da non più nemmeno riconoscerla come nostra
o così vicina da bruciare la nostra stessa vita. Il filo teso dell’acrobata ci accoglie a volte, ci riscatta nel fallimento, ma non può
salvarci, come se l’unica possibile salvezza mondana stesse proprio
in quell’accettare di vivere sospesi, scongiurando il naufragio.
L’“uomo fragile” è dunque uomo sempre “in bilico” sul bordo
del mondo, che scivola sotto i suoi piedi fattisi incerti e spesso
diviene nemico e persecutore, come se non riuscisse più a sentire
quella “comunità di destino”, il calore della presenza umana, che
tutti può unire. L’“uomo fragile” facilmente può smarrire, in una
società che certo non è tenera con lui, il senso del suo segreto, di
quella leggerezza del suo sguardo, che spesso viviamo come incertezza, paura, ritrosia, ma che è forse solo rispetto, giusta distanza,
ospitalità nei confronti dell’altro, di quel suo sapere accarezzare il
mondo senza dominarlo o possederlo, che da l’impressione di un
incontro con le cose nel vibrare dell’aria, come il volo di un uccello che gioca con il vento. Rimasto allora senza speranza l’“uomo
fragile” sta sull’orlo del suo corpo ammalato, ferito, abbandonato, estremo tradimento di qualcosa che nei momenti della forza
sentiva sotto il proprio dominio e che ora, d’un tratto, lo trascina
giù nel gorgo del definitivo inabissamento; sta sul confine dei suoi
territori interiori, fattesi estranei, deserti di senso, paludi di noia
o campi di battaglia, da cui si ode lo sferragliare delle lame e il
lamento dei feriti, di cui non si ha più “cura”. La fragilità così, da
condizione incerta ma ancora, come per l’acrobata, capace di disegnare nel cielo le figure della speranza e la felicità di quel vivere per
un istante l’emozione, che si può sentire tra cielo e terra, diviene
pesantezza, dolorosa presenza del corpo, della mente, di un gesto
ieri abituale tanto da dimenticarsi di lui e oggi crudele presenza.
La fragilità non ha tregua, non può riposare nell’oasi di una
serenità conquistata, il suo destino è percorrere inesorabilmente
quel “filo” sospeso di qua e di là nel vuoto che separa le figure
aeree disegnate nell’aria e le impronte scalfite nella terra, sempre
con l’ansia di una caduta definitiva e con la speranza di una nuova
sosta. Che cosa tiene allora l’uomo “in bilico” su quel filo? Non
tanto la sua forza ma la sua capacità di sottrarsi per un attimo
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al peso del corpo senza lasciarsi sedurre dalla leggerezza dell’aria.
Questa è l’ arte della fragilità. Un’arte difficile e spesso destinata
alla sconfitta. Una sconfitta che giunge quando la pesantezza del
corpo nella malattia, i vuoti della memoria e i deserti aridi della interiorità, quando la vecchiaia viene facendoti tremare anche la tua
mano sino a ieri ferma, quando il mondo si allontana da te perché
sei oramai divenuto inutile e superfluo, lasciandoti senza un posto
ove stare. Paradossalmente il nostro tempo è un tempo della leggerezza, leggeri devono essere i corpi, i cibi, i valori, le immagini, il
lavoro, la gioventù è leggera, leggera e spensierata. Eppure proprio
il nostro tempo così leggero, ci consegna alla sua più spietata pesantezza, che espone quel fiore delicato che chiamiamo fragilità al
suo inesorabile “naufragio”. La fragilità non è più in quel naufragio
leggerezza. Essa è piuttosto il doloroso combinarsi per l’uomo di
impotenza per il peso della sua vita, di disperazione, che meriterebbe una forza che non ha più e di speranza, che lo obbliga ogni
volta comunque a rialzarsi e riprendere quel cammino sul “filo”
senza sosta sino alla fine.
L’“uomo fragile”, che il mondo non sa più accogliere, ha bisogno oramai di una dimora, di una “casa”. Una casa “innaturale”,
che si chiama per l’uomo bisognoso storicamente ospedale, manicomio, foyer, ricovero, e altro ancora, luoghi di accoglienza per
coloro che la fragilità ha tradito e colpito più pesantemente, ma
che deve essere nello stesso tempo non un alibi o una soluzione
ad una “cura”, che come comunità non possiamo più dare. Una
cura che investe l’ambiente di vita, le nostre città, il nostro modo
di stare insieme tra le generazioni, tra sani e malati. Come accogliere l’“uomo fragile”, che ci sta dinanzi dopo la caduta dal “filo”
e che non può, appena chiusi gli occhi sulle illusioni di potenza e
di forza, di giovinezza e di bellezza, che ci fanno illudere l’eternità
degli eroi, non farci riconoscere le nostre stesse fragilità. Una accoglienza che è esperienza della soglia, dell’attesa fragile e forte nello
stesso tempo di colui che viene tremando e impaurito verso di noi.
“L’attesa, scrive la Bompiani, come spazio nel quale una freccia tirata da qualche punto si dirige silenziosamente verso un bersaglio.
Il bersaglio è nel cuore di colui che lo aspetta”. Nell’esperienza
della soglia, di quello stare alla soglia dei malati o dei vecchi o dei
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miseri, di coloro che nulla hanno più, aiutandoli a ricostruire con
discrezione e rispetto il loro spazio di vita, vi è per ognuno di noi
il vissuto di una vicinanza di sofferenza e di speranza, che ci può
semplicemente fare sentire uomini tra gli uomini. L’“uomo fragile”
ci guida anche lungo questa esperienza.
Il tema della soglia dunque. Lo spazio della cura della fragilità
ha proprio un suo ritmo nell’alternarsi di soglie, di dentro e di fuori, di chiusure e di aperture, come condizioni e figure dell’esistenza
che si dipana, si interrompe, si perde … La soglia condizione dello
stupore e della possibilità che mai si esauriscono anche quando
tutto sembra perduto e la morte vicina. Smarrire qualcosa dello
stupore di fronte alla esperienza della singolarità dell’uomo fragile,
cadere nella ripetizione, che cancella l’attesa sostituendola nel già
avvenuto, significa impedirsi di condividere l’esperienza del “filo”
su cui tutti in un modo o nell’altro siamo sospesi. Accogliere l’“uomo fragile” è arte del quotidiano. Un libro di Marie Depussé sulla
sua esperienza di incontro con la malattia mentale nella clinica di
La Borde, ci invita a pensare al significato del dettaglio e alla profondità del quotidiano. “A La Borde sentivo che si faceva della vita
quotidiana una possibilità”. Insignificanze dei giorni dove riposa
abbandonato, spesso nascosto il senso delle cose, della vita. “Petits
riens, trivialités du quotidien, - scrive la Depussé - insignifiances
des jours, où repose abandonné le sens. Dieu gît dans les détails”.
E subito la descrizione del luogo, l’atmosfera e il gusto di quella
casa ove ritrarsi per un momento, per sempre forse, ove proteggersi
… i luoghi sono percorsi dal senso della meraviglia e dello stupore
che pervade il quotidiano e i suoi oggetti. Già il senso di un ritmo,
che presto si comporrà in una melodia. Pane grigliato che viene
dalla cucina, qualcosa che dà il senso della ospitalità, di un luogo
come una stazione di un viaggio che si presta ad una sosta. In quel
luogo allora, che non si prendeva troppo sul serio, come in una
grande e tragica raffigurazione avveniva una battaglia per la vita …
“c’era ancora un’altra cosa … Ad un tratto i folli mi davano riposo.
Seppi che si stavano battendo in prima linea anche per me”. Loro
i folli che “si battevano per me”. A testimoniare con la loro corporeità esposta alla fragilità, con la loro temporalità spezzata, con
questo loro errare sul “filo” incerto della esistenza, un avamposto
della vita stessa.
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Questo è un racconto nelle vicinanze dell’“uomo fragile”, che
evoca infine la tenerezza, “la tenerezza che abita ogni frammento
dell’aria”. È infatti il sentimento della tenerezza, che lega la fragilità dell’uomo alla “cura” che dobbiamo disporre per lui. Un sentimento che accarezza i luoghi e modula il tempo, che fa “indietreggiare il terribile” di quella condizione dolorosa. La tenerezza che
abita l’aria leggera e terribile insieme di quello stare “sul filo”. Una
tenerezza, che è capace a volte di tenere a bada il dolore e l’angoscia e di accogliere i corpi, la polvere dei corpi e la loro monotona
desquamazione nelle difficoltà del quotidiano. È in quell’atto di
“balayer doucement” la polvere di una vita fragile, che è sospesa
la figura forte dell’accoglienza dell’“uomo fragile”. Un’accoglienza
della fragilità, che ha trovato il suo più profondo senso etico e che
ha ridato a quella condizione dell’uomo, sospesa tra la caduta e
la speranza, la forza che nascondeva, che è quella di narrarci di
continuo qualcosa della nostra esistenza, di impedirci di divenire
smemorati, infelicemente gai, sino a quando la fragilità inascoltata
si prenderà una rivincita, spezzandoci e abbandonandoci al bordo
di una strada.
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2.2. L’operatore sociale, un’identità nomade
Note di discussione per un profilo
dell’operatore sociale
Graziano Martignoni
Attraverso il tu, l’uomo diventa io
M. Buber
Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni
umane si ripetono così indicibilmente monotone
da caso a caso, ma alla paura per un’esperienza
nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi.
Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude
nulla, neanche la cosa più enigmatica vivrà la
relazione con un altro come qualcosa di vivente e
attingerà sino al fondo della sua propria esistenza.
R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta
2.2.1 Premessa
Nel definire il profilo dell’operatore sociale è certamente più facile
dire ciò che non è, che designarne la specificità. Questa difficoltà sta
nella sua genealogia, nelle mutazioni sociali, economiche e culturali
in atto in questi tempi di transizione, nel suo essere un soggetto
epistemico “bastardo” e “mutante” a seconda dei contesti in cui è
chiamato ad operare. La sua è essenzialmente un’ identità “nomade”, obbligata ad attraversare nel curriculum formativo come nella
pratica professionale saperi e pratiche “forti” senza potervi aderire
completamente, se non correndo il rischio di un suo smarrimento
o di una “colonizzazione” (cfr. l’esperienza della Repubblica di Weimar e degli esordi del nazionalsocialismo). Questa sua conseguente
“debolezza” epistemologica può divenire però una paradossale capacità di vivere, comprendere, interpretare e agire sulla complessità.
Una forza che sta nel suo “stare” nello “spazio intermediario”, ove
la società e i suoi “attori” si strutturano e si destrutturano continuamente. L’operatore sociale abita un area identitaria diffusa, che
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trae dalla sua debolezza disciplinare la capacità di sapere attraversare
epistemi forti piegandoli alle esigenze della soggettività e della singolarità nella dimensione della quotidianità e dell’ azione (pattern
d’azione). Esso si configura così di volta in volta come “giardiniere
di se stesso”, “specialista della quotidianità”, “mediatore socio-culturale”,
“costruttore di ragnatele simboliche-affettive tramite l’azione”, “attore
della terziarietà”, “organizzatore temporale”, “Io ausiliario, ortopedico,
sintetizzatore e progettuale”, “ostetrico della creatività”, ecc…
L’operatore sociale abita dunque con la sua prassi un luogo generativo, ove sintomi, indizi, segni individuali e collettivi del “nuovo”
si scontrano e si articolano con l’antico. Questo accade nelle “configurazioni antropologiche della soggettività” come nelle oscillazioni
tra attualità del quotidiano e antichità dello psichismo umano. Entrambe partecipano a definire la metamorfosi continua del “frame”
(Bateson), che contiene il suo pensare e il suo agire. La sua area
d’intervento ha dunque nella profondità del quotidiano e nel “pattern
d’azione” (Widlöcher) una specificità, di cui il curriculum studiorum
deve tenere conto. Il profilo identitario dell’operatore sociale si colloca così nello spazio affettivo, epistemologico e metodologico di
una “pratica teorica” sull’intertestualità formata dai percorsi, dagli
“intrecci” e dagli “intrighi” della soggettività umana, navigante tra le
costellazioni del suo mondo interno e le trame della sua dimensione
storico-biografica e il “frame” antropologico, sociale e istituzionale,
che la determinano, costituendo le condizioni dell’intersoggettività
nella relazione d’aiuto e di cura e l’orientamento delle sue pratiche.
Le sue competenze s’indirizzano allo studio dell’uomo e della sua
soggettività (cognitiva, affettiva e simbolica) nel suo manifestarsi
biologico, culturale, psicologico e sociali, sullo sfondo storicamente
determinato del confronto dialettico tra normalità e non-normalità,
tra emarginazione e integrazione, tra autonomia e dipendenza, tra
identico e diverso. Due aree sono così al centro del suo operare,
quella della libertà e quella della cittadinanza. Aree che si collocano
a pieno titolo nell’alveo di una storia della civilizzazione, delle sue
rappresentazioni e delle sue pratiche di liberazione e d’oppressione,
che trovano nelle perturbazioni della “Lebenswelt”, nelle malattie
del corpo, della mente, della socialità e della libertà il loro punto di
crisi. L’operatore sociale è così testimone partecipe della crisi, che è
anche momento della decisione.
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Come agire allora nella crisi? Lo specifico campo del lavoro sociale e la centralità in esso della relazione di aiuto e di cura oltre che
dell’ istituzionale, come luogo storicamente determinato per le sue
pratiche, pone come filo conduttore dell’insegnamento la tematica
fondamentale dell’incontro con la presenza dell’Altro (come alterità e
come alienità) e quella conseguente dell’intersoggettività attraverso
essenzialmente la categoria dell’azione, colta nel suo generarsi, nel
suo costituirsi concretamente e nella sua processualità lungo l’asse del tempo. Una categoria su cui si dovrà operare un lavoro di
decostruzione critica (critica delle ideologie soggiacenti, delle teorie
manifeste, delle pratiche e infine di se stessi).
Questo “filo rosso” guida l’attenzione del suo operare nei confronti dell’“uomo in situazione”, ovvero dell’uomo nel suo “stare di
fronte” al bisogno, alla sofferenza e alla malattia, infine alla “mondanità” del suo “essere-nel-mondo”. Il lavoro sociale con le sue strategie relazionali e istituzionali tende ad accogliere proprio la fragilità di
questo “uomo in situazione” nella dimensione profonda e complessa
della quotidianità. Una quotidianità che si nutre sulle categorie d’accoglienza, d’ospitalità e di capacità d’ascolto, di critica dello sguardo e
del “fare”, costituendo una specificità identitaria del lavoro sociale,
delle sue strategie e dei suoi “attori”.
L’operatore sociale dovrà essere così in grado di pensare e agire
criticamente :
• nella lettura della tradizione e dello sviluppo della civilizzazione,
attraverso cui la soggettività umana si è manifestata;
• nel confronto con l’“uomo in situazione” di fronte al bisogno, alla
sofferenza e alla sua “mondanità”, attraverso l’ascolto, l’aiuto e la
cura (nel senso heideggeriano della “Sorge”) dell’uomo nella sua dimensione psicologica, storico-antropologica (simboliche) in cui è collocata la sua esistenza individuale, familiare e collettiva;
• nell’azione dentro l’area del quotidiano e del significato della categoria del “fare”;
• nella comprensione intuitiva dell’esperienza dell’intersoggettività;
• nella capacità di comprendere e influenzare l’ambito istituzionale,
che introduce nel rapporto intersoggettivo la dimensione della terziarietà e della culturalità;
• nella capacità di fare lavorare e interagire tra loro le risorse del territorio sociale tra famiglia, mondo del lavoro, comunità e individuo;
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• nell’attenzione partecipe alla dimensione etica, che non solo ogni
relazione all’Altro contiene ma di cui è in se stessa fondativa;
• nella continua crescita dei suoi percorsi d’identità oscillante dall’identità personale, all’identità professionale a quella relazionale, ecc…
Il suo profilo identitario percorre dunque la fenomenologia e la
ermeneutica di questo “esporsi” e “ritrarsi” alla presenza dell’Altro,
svelandone i nodi, gli intrecci e i suoi perturbamenti, che prendono le forme storiche della sofferenza, della malattia, della emarginazione e del disagio sociale.
2.2.2 Un’identità nomade 12
Porsi il problema di una identità dell’operatore sociale significa pensare a una sorta di “teoria della pratica”, in cui le componenti affettive,
politiche e tecniche del proprio specialismo trovino, nel confronto
con i diversi ascolti della domanda, del desiderio e del bisogno del soggetto, un assetto epistemologico “precariamente” coerente e leggibile.
Scrive J.J. Rousseau nel suo Essai sur l’origine de la langue: “Quando
si vuole studiare gli uomini bisogna guardare vicino a se stessi, ma per
studiare l’uomo bisogna imparare a guardare lontano, bisogna prima
osservare le differenze per scoprire le priorità”13. Discorrere di identità
è certo cosa non facile, costretti ad oscillare di continuo tra ciò che di
ovvio e ciò che di “straordinario” questo concetto porta con sé. L’identità è infatti questione fragile sia sul piano della teoria, in cui funziona,
come scrive Claude Lévi-Strauss, da carrefour in cui convergono molte
discipline, quasi come fu la sessualità per Freud, sia sul piano della pratica. Essa come l’ombra ha bisogno di un supporto ma questo supporto sociale è lui stesso problematico e più che mai precario, legato come
è non solo al mutamento del quadro culturale e di socializzazione, ma
al difficile equilibrio tra mondo interno e mondo esterno che l’Io del
soggetto cerca di raggiungere.
La tendenza è quella di considerare l’identità riuscita come
12
G. Martignoni “Navigare l‘incertezza. Educare, curare, assistere o dei percorsi di identità”, Edizioni Alice, Comano, 1988
13
J.J Rousseau “Essai sur l’origine des langues” (1755), Gallimard, Paris, 1990
55
qualcosa di unitario, come nelle teoresi di Erikson14 o di
Lichtenstein15, in una sorta di concezione unificatoria dell’Io.
Un’ipotesi illusoria, là dove il paradosso dell’identità non come
stato ma piuttosto come processo o come lavoro, impone tutta la
sua forza destabilizzante dentro il soggetto e dentro il collettivo.
L’identità si è infatti sempre mossa tra unità e diversità sottolineando il suo carattere fondamentalmente paradossale e ambiguo. In
fondo non è che effetto di riverberazione speculare, che ci impone
una capacità di tollerare il suo apparire e il suo disperdersi in mille
frammenti come negli eteronimi pessoiani. Scrive Pessoa in un suo
poema del ’33, “Tra il sonno e il sogno / tra me e colui che in me
/ è colui che suppongo, / scorre un fiume interminato.” e ancora
facendo parlare Alberto Caeiro nel 1914 “Si, anch’io che non vivo
che dell’atto di vivere / porto al mio fianco, invisibile, le bugie degli uomini / davanti alle cose ... / come è difficile essere se stessi e
vedere solamente il visibile!”. Pessoa ci fa incontrare un Io poroso,
attraversato da impulsi e correnti diverse; i suoi eteronimi rappresentano altrettante tracce mnestiche, altrettanti eventi biografici e
fantasmi infantili legati ai tanti lutti, separazioni, idealizzazioni,
rabbie invidiose e amori appassionati di un’epoca che si pensava
dimenticata. E la presenza di ciò che Grunberger chiama “la riserva dell’altro” che qui prende forma. La grande poesia pessoniana
diviene così una sorta di palcoscenico parlato di quei “visitatori
dell’identità”, di quella dimensione dell’“Altro” che impone manifestamente o meno la sua presenza attiva sulla scena del soggetto.
La dimensione relazionale dell’identità ci fa scoprire un Io dislocato, “troué, hémorragique, qui essaie de parer à ses pertes, ou
de parer ses pertes, par l’érotisation de ses parties on de sa rage” diverso dai codici-feticci che la professione nella sua fissità simulata
ci permette di mettere in gioco per la nostra illusione di certezza
e di centralità. Come assumersi allora l’angoscia di questa dislocazione? Rafforzando i propri territori, confondendo le proprie
differenze oppure accettando che “l’incontro con l’Altro” iscriva
la mia identità come metafora, “metaphorein”, trasporto, a metà
14
E. H. Erikson Enfance et societé (1982), Delaschaux et Niestlé, Lausanne e
Adolescence et crise. La quête.
15
H. Lichtenstein, Le retour de l’identité dans la psychanalyse: perspective
historique et critique, Psychanalyse à l’Université (Psychanal. Univ.), 1985, vol.
10, no 40, pp. 625-636.
56
strada tra l’oggetto visibile della domanda d’aiuto e l’invisibilità
del pensiero dell’“Altro” che essa contemporaneamente contiene?
Questa la posta in gioco! Rifiutarla significa continuare a credere
in un’unità a tutti costi, in una sorta di narcisismo totalitario, alla
ricerca di specchi che lo possano riflettere senza errore, rendendo
così con il tempo morta l’identità stessa che diviene simulacro,
nient’altro che identità di copia. È la dimensione dell’ombra, del
duplice, che deve essere tenuta in considerazione e che certo fa tensione fra il fantasma di autosufficienza narcisistica e la dipendenza
dal narcisismo parentale. Ne esce il significato e il luogo di quella
idealità, “s’identifer à”, così determinante e allo stesso tempo così
inquietante dentro la costituzione e la costruzione di ogni identità
personale prima, professionale poi.
Una forte referenza simbolica (come quella per esempio alla
base del discorso medico e/o giuridico) certo tiene a bada quanto
d’ambiguo e d’incerto il concetto d’identità contiene, senza però
esaurirlo, mentre una debole referenza come quella presente nel
lavoro sociale fa esplodere la contraddizione. Pensare l’identità è
come mettersi nell’attitudine del viaggiatore alla scoperta di territori familiari e insieme “unheimlich”. Scrive Céline, “voyager c’est
bien utile, ça fait travailler l’imagination … C’est un roman, rien
que une histoire fictive … et puis d’abord tout le monde peut faire
autant. Il suffit de fermer les yeux. C’est de l’autre côté de la vie”.
E se l’identità fosse proprio “de l’autre côté de la vie”16? Un viaggio
che ricorda l’esperienza “esotica” del navigatore e dell’esploratore europeo del secolo scorso, come appare nelle parole di Victor
Segalen e del suo concetto di esotismo. Scrive Segalen “en arriver
très vite à définir, à poser la sensation de l’Exotisme: qui n’est autre
que la notion du différent; la perception du Divers; la connaissance que quelque chose n’est pas soi-même17” … E questa duplice
dimensione di straniero e familiare, di altro e di medesimo che
l’operatore sociale incontra, è con essa che scivola nella confusione,
nella rigidità muta o nel pedagogismo “missionario”. L’operatore
sociale è chiamato, ancora parafrasando Segalen, a sentire “l’ivresse
du sujet à concevoir son objet, à se connaltre différent” e nello
16
Céline, “Voyage au bout de la nuit”, Folio, Gallimard, Paris, 1952
17
V. Segakn, Essai sur l’exotisme, Fata Morgana, Paris, 1978
57
stesso tempo a riconoscere nell’Altro se stesso.
Nel 1908, leggendo Claudel, scrive “l’attitude ne pourra donc
pas dans ces proses rythmées, denses, mesurées comme un sonnet, ne pourra donc pas etre le je qui ressent … mais au contraire
l’apostrophe du milieu au voyageur, de l’Exotique à Exote que le
pénèue, l’assaille, le réveille et le trouble. C’est le tu qui dominera”18. L’incontro che il viaggiatore fa con lo straniero mette in crisi
l’illusione di essere come soggetto comprensibile dentro un modello di identità unitaria e sovverte il rapporto io-altro rendendo vano
ogni tentativo totalitario di definire chi possiede il sapere e chi a
questo “sapere” deve adeguarsi. E qui tutta la violenza della seduzione. Scontrarsi con il tema dell’identità vuol dire dunque tentare
di pensare a un modello di riferimento relazionale, (una sorta di
psicologia a tre persone) non più biunivoco ma corrispondente
a una sorta di spirale nella quale il rispecchiamento e il rinvio al
medesimo divengono la linea di movimento di ogni cambiamento,
ma anche il rischio di ogni immobilità confusiva e speculare. Questa la posta in gioco dell’incontro. Come operare con un sapere
e un’identità che trova la sua capacità d’incontro e d’accoglienza
proprio nel suo essere frammento che rinvia sempre ad un altrove
e non ti esaurisce mai nella semplice presenza o nell’immediatezza
della risposta? L’identità relazionale diviene allora il campo d’articolazione di questi bordi, su cui soggetto e oggetto trovano la
“distanza critica” in cui è possibile vedere e vedersi. Si crea qui uno
spazio per l’autoironia (che è il non prendersi troppo sul serio),
del gioco (come Trauerspiel ma anche Lustspiel), della simulazione
dentro questo gioco.
Mettere in gioco la propria identità, giocarsela … (perché di
ciò si tratta), come risposta dall’uso del fittizio e del falso di una
identità personale e professionale “come se”; qui sta la vera portata
dell’evento che ogni incontro può produrre. L’identità relazionale
è allora il terreno di scontro e di risoluzione di un paradosso, quello delle tensioni antagoniste nell’Io, fra l’essere copia di se stesso
nella ripetizione e l’essere nel suo divenire idealità (o alterità). Vi
è dunque nello stesso tempo l’assoluta somiglianza e ciò che rimanda alla più inalienabile delle singolarità. Come “abitare” nella
pratica dell’incontro con l’Altro (da curare, riparare, educare, ecc.)
18
58
Ibidem.
questo lato apparentemente insanabile? La tentazione perversa,
falsificata sta lì ad offrire la sua comoda via, che cortocircuita la
tensione temporale e l’incolmabilità, dell’alternarsi della presenza e dell’assenza facendo finta di apparire finita, già conclusa nel
possesso di una verità feticcio da proporre come modello o come
risposta adattativa. Siamo così nella totale inconciliabilità con la
capacità negativa che evocano come specifico fondamento e forse
come enigma del lavoro psicosociale. La tensione temporale fra
eredità storico-biografica (depositato nell’identità personale) e cultura della professione (come progetto di lavoro) contiene ed esprime tutte le angosce e i travestimenti che rendono instabile e precaria ogni illusione d’identità relazione garantita e pre-programmata.
È in quest’oscillazione che si può parlare di lavoro dell’identità in
analogia al lavoro del lutto, poiché anche qui vi è un’incessante
perdita nell’accettazione di un’assenza da cui partire per il progetto
creativo.
Qui che si differenzia l’identità come divenire, come processo
da un’identità come automatismo ripetitivo, come replica. Un divenire che sappia ritrovare nella diacronia della propria storia le
tracce da coniugare dentro il più generale impianto storico-concettuale dell’identità professionale. Una sorta di “étayage” a più
piani che permetta, come tradimento-trasferimento, di andare oltre, nella terza dimensione dell’identità relazionale. Come nel film
di Truffaut Le dernier métro l’incontro avviene su una scena “altra”
in cui attori e copione vengono continuamente modificati da voci
di un “altrove” a cui siamo inconsciamente appartenenti. Una affiliazione ad un’altra scena che il duplice decentramento svela, garantendo la somiglianza e la singolarità. Una scena in cui possono
allora apparire, dentro il curare, l’educare, l’assistere, il riparare,
tutti i fantasmi o i visitatori dell’identità. Come scrive A. Green, il
termine d’identità raccoglie diverse nozioni, come quella di mantenimento, di permanenza, di riferimenti costanti che sfuggono
al cambiamento, o ancora quella che si applica alla delimitazione,
che assicura l’esistenza allo stato separato, permettendo di circoscrivere l’unità, la coesione indispensabile al potere di distinzione.
Infine, dice ancora Green, l’identità è uno dei rapporti possibili fra
due elementi, nei quali è stabilita la similitudine assoluta che regna
fra i due permettendo di riconoscerli uguali. Questi tre caratteri
59
vanno insieme: costanza, unità e riconoscimento dello stesso.
È certo che il concetto d’inconscio scoperto da Freud ha radicalmente messo in questione il carattere unitario della coscienza.
L’Altra scena, l’inconscio, tutto ciò mette in crisi l’idea di un’unità
dell’Io e per conseguenza la nozione stessa d’individuo. Dobbiamo
a J. Lacan e alla sua elaborazione della “fase dello specchio” (1936)
una chiarificazione fondamentale. La “fase dello specchio” diviene
allora una sorta di “carrefour strutturale”, in cui si costituisce la
forma dell’Io che è quella di un rapporto erotico del soggetto nei
confronti di una immagine (l’Altro) che lo aliena e di un transitivismo identificatorio diretto sull’altrui; e nello stesso tempo il
luogo in cui si definisce l’oggetto del desiderio la cui scelta si riferisce sempre all’oggetto di desiderio dell’Altro. È in questa trama
che si realizza l’incontro e la mîse en abîme delle identità. Così
diviene lecito chiederci se per identità intenderemo la costanza, la
permanenza oppure la presenza instabile di un’altra scena dentro
l’lo. Certo è che la nozione dell’Altro è, proprio per la sua capacità
d’inquietudine e di “inabissamento” del concetto e della pratica
stessa d’identità, centrale nel nostro discorrere.
Le professioni socio-educative sono infatti professioni che si definiscono proprio per il loro rapporto costitutivo e intrinseco con
l’Altro e per la preminenza dell’ordine della prassi come condizione di una simbolizzazione linguistico-affettiva. Esse pur nella loro
specificità condividono, riassumendo alcuni livelli comuni:
a) gli effetti dell’incontro con l’Altro;
b) la messa in questione del rapporto Medesimo/Differente;
c) l’obiettivo come procedura di normalizzazione in funzione
conservativa e protettiva;
d) la presenza di un’istanza di mediazione legata alla parola e al
linguaggio;
e) la presenza del Terzo istituzionale;
f ) la scarsa efficacia di un territorio simbolico “forte”, e un conseguente adeguamento all’ordine dei discorsi medico-giuridico;
g) l’esposizione ai pericoli della seduzione e della cattura dell’AItro;
h) l’attivazione dei fantasmi di filiazione e di appartenenza immaginaria;
60
i) la presenza di grandi campi discrezionali, al posto di un’area
prescrittiva limitata e la mobilizzazione di specifiche “angosce genetiche” e “generandi” (Fornari);
Come lavorano dunque gli scenari dell’identità dentro un territorio così complesso? La crisi e la disseminazione dell’identità
sociale e professionale si fonda nel contesto attuale nella oramai
scontata impraticabilità di una idea forza unitaria dell’esistenza.
La metafora della mise en abîme come l’evento di una immagine
che, incontrandosi con due specchi posti l’uno di fronte all’altro,
rimbalza all’infinito e vertiginosamente in un gioco di continui
rimandi (nel nostro caso tra le tre dimensioni dell’identità) descrive bene la questione posta. Si tratta di una dissoluzione, in altre
parole di un annientamento oppure di un movimento d’erranze,
rischioso ma necessario? Una sorta di nomadismo da immagine ad
immagine, da identità a identità che può essere contemporaneamente “passo falso”? Il lavoro sociale è dunque luogo “indiziario”
di ciò che avviene dentro le identità collettive sospese tra errore ed
erranza. Un costruttore di pensieri più che di risultati. Sul margine di questi rischi s’irrigidiscono le procedure di divisione del
lavoro e le tecniche a demarcazione dello specialismo (si ricordino
solamente le multiformi suddivisioni del lavoro sociale) oppure
sull’altro versante si tende a privilegiare un volontarismo che non
“lavora” criticamente su ciò che l’incontro con l’utente implicitamente porta con sé, che non si assume la problematica del “Terzo”19, e che vive nell’illusione di una “colmabilità” (la disponibilità
senza limiti) della domanda. Qui l’identità dell’operatore sociale
oscilla tra l’erranza della somiglianza e l’errore della diversità. Nel
mezzo tutte le pretese dell’ideologia e la violenza della sopraffazione consensuale. Si mette in luce un movimento d’identità tra
dissoluzione e rigidità la cui fenomenologia si organizza attorno e
tra possibili eventi difensivi. Espropriazione dell’Altro, colonizzazione dell’Altro, chiusura nel Medesimo, tre pseudosoluzioni alla
precarietà di una pratica d’incontro sempre capace di mettere en
19
Sul concetto di “terziarietà” o di “funzione terza” cfr. il lavoro fondamentale di A. green “L’analyste, la symbolisation et l’absence dans le cadre
analytique”, in Revue Francaise de Psychanalyse, 1, 1975 e inoltre P. Fedida, L’absence, Paris, Gallimard, 1978 e J. Guillaumin, Entre blessure et cicatrice, Champ
Vallon, Paris, 1987.
61
abîme ogni certezza. Come leggere nella pratica del quotidiano i
rischi di queste procedure difensive di un soggetto incapace di “navigare nell’incertezza”? Il superamento degli arroccamenti difensivi
significa ridare parola e riconoscere nell’evento relazionale l’insorgenza dentro l’Io di quei fantasmi d’identità, come fossero attori
che al di là del copione manifesto si mettono a recitare un testo
“altro”, inatteso, contraddittorio (per esempio nella divaricazione
tra obiettivi possibili, presunti, realizzabili…). Queste le condizioni fondamentali di possibilità del lavoro sociale, che la formazione
deve porre al centro del proprio progetto, che è nello stesso tempo
cognitivo, affettivo e esperenziale.
2.2.3 Il carrefour identitario
Chiedere cosa sia l’identità è porre nello stesso tempo una domanda fondamentale, sia sul piano individuale che sociale (quante
oramai le sofferenze e gli atti che denotano una sua “messa in malattia”, tanto da farla oggi il carrefour più significativo per comprendere molti dei fenomeni sociali e delle angosce degli uomini)
e dall’altro arrischiare banali generalizzazioni. Discorrere d’identità
è dunque cosa non facile, costretti ad oscillare di continuo tra ciò
che di ovvio e ciò che di “straordinario” questo concetto porta con
sé, tra ciò che appartiene al “dentro” di noi e ciò che in esso rinvia
ad un “fuori”, tra le “sostanze” opposte che contiene, sostanze che
parlano dell’Identico e nello stesso tempo del Diverso. L’identità
è infatti una terra fragile e frastagliata, abitata da presenze e voci
spesso opposte e inconciliabili tra loro. Paradossalmente abitata
da Stranieri. Questione fragile dunque sia sul piano teorico sia su
quello dell’esperienza che noi tutti facciamo quotidianamente di
lei.
Questo mio breve tentativo di riflessione non potrà che essere
dunque che una piccola mossa d’avvicinamento. L’identità come
l’ombra ha bisogno di supporti. Essa infatti si fonda sia su quello che attiene al nostro mondo interiore, che è il grande libro in
cui si è scritta e si continua a scrivere (traducendola) l’esperienza
vivente e vissuta della vita e della storia biografica e immaginaria
di ognuno di noi, sia sulle “stelle polari” del nostro stare al mondo, come la percezione e il sentimento che abbiamo dello spazio,
62
dell’abitare, della casa, del familiare, sia su quella della temporalità,
che a partire del vissuto del presente apre le sue ali sul passato e
sul futuro o ancora quella che riguarda la nostra stessa corporeità
in cui ci riconosciamo come identici a noi ma di cui ben presto dobbiamo accettare l’estraneità, il suo esserci dato ma anche il
fatto che non ci appartiene veramente. Bastano piccole modificazioni, turbamenti, anche temporanei, di questi “appoggi” perché
l’identità individuale (e forse anche quella di una comunità) vibri,
vacilli, si smarrisca, si ammali. Vi sono tempi della vita, quelli che
chiamiamo normalmente tempi di “passaggio”, come ad esempio
l’adolescenza, la maternità, la vecchiaia, lo sradicamento dell’esule
o anche solamente lo spaesamento del viaggiatore o la temporanea condizione di “follia” dell’innamorato, ecc…, in cui tutto ciò
prende la velocità e l’intensità del turbine e in cui l’identità, ancora
in costruzione per alcuni, messa a “testa in giù” per altri, invasa
da voci straniere o persino posseduta da forze distruttive per altri
ancora diverrà il vero campo di battaglia, su cui l’individuo sarà
chiamato a giocare la partita della vita.
2.2.4 L’Io multiplo
“Appoggi d’identità”, loro stessi mutevoli e precari, legati non
solo al mutamento del quadro culturale e sociale, ma al difficile
equilibrio tra mondo interno e mondo esterno che l’Io del soggetto cerca di raggiungere nel corso di tutta una vita … L’illusione
è dunque quella di considerare l’identità riuscita come qualcosa
di unitario e stabile, come se l’Io (quella condizione psicologica
attraverso cui possiamo dire “Io sono”, “Io faccio”) fosse una sorta
di patria monolitica e chiusa. La realtà è ben diversa. L’identità è
al contrario un arcipelago che si riconosce come unità nella sua
diversità. È abitato dai segni di ciò che mi fa sentire identico a
me stesso nello stesso tempo dalle voci più estranee e straniere a
me stesso, voci che giungono dai luoghi di un’Alterità, che spesso
faccio fatica a accettare. Meno queste voci sono accolte dentro di
noi, meno dialoghiamo con esse in modo familiare, più la nostra
stessa identità è fragile e a volte malata. Vi sono forme sociali e
comportamenti individuali, che stanno, come ad esempio, quelli
del fanatico, dell’uomo settario o quelli di una certa violenza gio63
vanile legata allo sport, proprio a testimoniare il paradosso di una
identità ad una sola dimensione (ad un solo colore), sempre sulla
difensiva, arroccata anche con violenza alle proprie convinzioni, ai
propri manifesti segni d’identità o al proprio territorio (inteso qui
in senso quasi animale) e nello stesso tempo fragilissima.
Una volta un filo di ferro e un giunco si misero a discutere su
chi tra loro fosse più forte e resistente alle intemperie e ai cambiamenti. Il giunco all’arrivo della tempesta sembrava sbatacchiato di
qua e di là, sempre sul punto di rompersi, mentre il “fil di ferro” si
erigeva con tutta la sua certezza e immobilità. Ad un certo punto
però, mentre ancora il giunco sembrava soffrire e piangere sotto
lo sferzare del vento che lo piegava sino a terra, si sentì un fragore
violento. Era il “fil di ferro”, che spezzato, cadeva rovinosamente a
terra. L’identità del giunco, flessibile, capace di adattarsi ma anche
di tornare al suo centro, in grado di prendersi il rischio di essere
piegata sino a rompersi, si era rivelata ben più forte dell’apparente
durezza e delle certezze arroganti e del “fil di ferro”. Ecco dunque
la sfida che l’identità pone a noi tutti, giovani e adulti, indistintamente, saper essere sempre fedele a stessa e nello stesso tempo
capace di accogliere senza timori dentro la “casa” quelle diversità,
quello Straniero, che forse viene da fuori, ma che null’altro è che
lo Straniero, che già ci abita e ci fonda. Una sfida difficile di maturazione personale ma anche di crescita collettiva di una cultura di
comunità, che non usi la parola difesa dell’identità per nascondere
la sua fragilità e la sua paura.
2.2.5 Il compagno segreto
Come raffigurarci dunque i fantasmi di identità, questi viaggiatori un po’ familiari e un po’ stranieri che sorgono dentro la nostra
identità? Partiamo da un esempio letterario, ricordando la novella di
Joseph Conrad Il compagno segreto del 191220. Riassuntivamente è la
storia di un capitano al momento di affrontare la sua prima prova di
viaggio e di comando. E al calar delle tenebre, decide di montare lui
stesso la guardia, sconvolgendo la pratica (e l’identità) normale dei
20
J. Conrad, Il compagno segreto, (1920) Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano, 1984.
64
lavori a bordo e così commettendo un “errore” (si confronta e assume una parte dell’identità altrui, quella dei marinai). I suoi uomini
sono sconcertati da questo gesto inconsueto che esce dalla tradizione
(il codice formativo professionale) che s’appoggia su un terreno simbolico certo in cui tutti si riconoscono.
“Udii l’altro alzare la voce incredulo. - Come? Il capitano in persona - Mi resi conto con una certa inquietudine che io - un estraneo
- stavo compiendo qualcosa di insolito, quando diedi l’ordine di far
scendere sotto coperta tutti i marinai senza disporre di un servizio
diporto. Proposi di rimanere io stesso sul ponte…”.
Allora i marinai si ritirano senza nemmeno completare il servizio e lasciarono pendere fuori dalla nave una scaletta di corda. La
nave (l’identità) è per un momento incustodita. Qui avviene, grazie
a questo “errore” iniziale (questa identità che si frantuma) l’incontro del giovane capitano incerto con Legatt, il compagno segreto.
Il clandestino che il capitano trova nella sua cabina è una presenza
da occultare, una sorta di visitatore inatteso e di incerta identità.
“La sua imprendibilità (chi è veramente?) è l’incertezza del capitano
verso se stesso; la presenza dapprima inquietante e pericolosa diviene
poi familiare e capace di restituire l’identità al capitano smarrito.
Come scrive Kirschner, nel “compagno segreto, un uomo da rifugio
a un fuggiasco e scaccia i propri scomodi sentimenti di estraneità
(alla nave, al viaggio) con rischio personale che si assume, per simpatia istintiva…”21. E come se la forza metaforica di questo racconto
ci mostra il dialogo-scontro-riconciliazione fra la parte conscia (il
capitano in cerca, in bilico di identità) e le parti inconscie, “inaccettabili” (Legatt, il criminale) dell’Io del soggetto. È questa presenza
che possiamo chiamare “fantasma di identità”. Scrive Conrad “non
ero del tutto solo con la mia nave: poiché c’era quell’estraneo nella
mia cabina. O meglio, non mi davo a lei interamente e con tutto me
stesso. Parte di me era assente. Questa sensazione mentale di essere
in due luoghi nello stesso tempo influiva su di me fsicamente come
se lo spirito del mistero mi fosse penetrato fino in fondo all’anima”.
Poi sopraggiunge Arcibold, un capitano sicuro di sé (della regola
21
P. Kirschner, Conrad: the Psychologist as Artist Edinburgh, Oliver and
Boyd, 1968.
65
professionale, una sorta di figura superegoica professionale) e della
sua verità, in cerca di Legatt accusato di un crimine. Il capitano della
nave si finge allora sordo (come se volesse mettere tra parentesi le
funzioni dell’Io professionale, così che la sordità del proprio “sapere”
possa lasciare sentire l’Altro) per poter far sentire meglio a Legatt, il
suo “doppio” oramai, ciò che sta dicendo Arcibold. Legatt è nascosto dietro una tenda, nelle quinte della scena manifesta guidata da
una verità solo “professionale”. Alla fine della novella sarà il cappello
bianco donato dal capitano a Legatt che salverà la nave dallo schiantarsi nelle rocce, facendo virare la nave su quel punto, permettendo
così di ricominciare il viaggio con più sicurezza.
Legatt ritorna nelle tenebre. Il giovane capitano acquista nella
prova consapevolezza e autorità nel navigare. Sa allora di poter
condurre la sua nave. Il compagno segreto è stato la sua traccia
divenuta traccia della via, è l’aver riconosciuto l’altro di sé che gli
permette di navigare, di comandare la propria nave, superando
l’estraneità iniziale. Così Conrad la esprimeva, “a causa di alcuni
avvenimenti di nessuna particolare importanza, tranne che per
me, mi era stato assegnato il comando della nave solo da una
quindicina di giorni. Non sapevo molto del resto dell’equipaggio.
Tutti gli uomini erano insieme da diciotto mesi e la mia posizione
era quella dell’unico estraneo a bordo … Ma ciò che sentivo di
più era il fatto di essere estraneo alla nave e se devo dire tutta la
verità ero in certo qual modo estraneo pure e me stesso”. Che
cosa in fondo evoca l’immagine di Legatt? Che cosa significa per
il nostro capitano? Che cosa significa per ognuno di noi quando
l’incontriamo o lo sfuggiamo? Ognuno di noi può consegnarlo ad
Arcibold perché lo arresti e lo porti via. Oppure divenire “sordi”
per un momento perché lui possa comprendere così il dialogo
tra i personaggi del nostro “gruppo interiore” e questo alla fine
salvarci la nave e renderci più certi nell’incerta navigazione. Una
metafora che si apre a tutto ciò che abbiamo da incontrare, con
cui dobbiamo confrontarci in questa navigazione, che è il lavoro sociale e l’incontro con l’Altro, su cui si realizza il percorso
della identità professionale e il rischio dell’identità relazionale.
L’oscillazione tra dimenticanza e ricordo delle tracce dell’identità
personale, questo è quello che, a mio modo di vedere, è il lavoro
66
della identità. Quando Legatt se ne va e la nave è salva, il giovane
capitano non sa se esserne del tutto lieto. Un senso di nostalgia
lo cattura. Qualcosa per continuare a navigare deve essere perso.
L’Io di una identità “in progress” è in fondo un Io che sa attingere
e abbeverarsi ai rivoli della nostalgia, una sorta di “ Io nostalgico” come risultato di un lavoro (“durcharbeiten”) sui fantasmi
di identità. Questo a mio modo di vedere la ipotesi di fondo di
quanto sto riflettendo. Lavorare sulla professionalità è allora certo
necessario ma non sufficiente poiché è solo nell’ascolto della voce
di Legatt, che si attua la congiunzione tra le mie voci interiori e le
voci dell’Altro. Solo là l’emergenza delle voci nascoste dell’identità, la sua dimensione nostalgica può opporsi alla costituzione del
falso e della simulazione.
Educare, curare, assistere divengono allora le “scene”, metafore
infantili in cui i fantasmi dell’essere curato, dell’essere educato,
dell’essere assistito tornano a parlare con voci d’amore e di rabbia,
di invidia e di gratitudine, nell’assunzione piena dell’ambivalenza
di fondo. Come riconoscerli, come accettarli come propri anche
se sembrano venire da “fuori ”)? Incontrare l’Altro è allora per tutti una occasione, se ci permettiamo a momenti di divenire ciechi
o sordi, come il giovane capitano, in modo così da poter reincontrare se stessi e una parte della propria storia. In fondo “ciechi” per
vedere meglio! È in questo momento che l’identità come risultato
virtuale diviene trasparente ai molteplici e a volte contradditori
percorsi delle identificazioni, a chi ci ha parlato nella nostra biografia e a chi ci parla ora solo dentro nei tanti “dialetti” dell’inconscio. Il lavoro sociale e l’operatore sociale non può sfuggire
a questa polifonia, anche se questo può trasformarsi drammaticamente nel rumore assordante, fascinoso, incomprensibile e a
volte persecutorio proveniente da una “torre di Babele” oramai
intollerabile per il soggetto. È necessario dunque l’apprendimento di una sorta di nuova “percezione psicodinamica” dell’identità
professionale, perché la polifonia rimanga possibilità trasformativa e spinta creativa.
67
2.2.6 I fantasmi di identità
Il concetto di fantasmi di identità è mutuato dalle riflessioni
che Alain de Mijolla ha volto attorno al concetto di identificazione e in particolar modo nel suo lavoro del 1986 Les visiteurs du
moi. Scrive l’autore “les ‘fantasmes d’identifications’ représentent
le stade psychique inconscient qui précède et de qui procèdent un
certain nombre de symptômes, de rêves ou de comportements que
nous allons tenter di mieux connaître. Ce sont eux qui mettent en
‘scène’ des visiteurs du moi…”22.
Non solo sintomi ma più estesamente variazioni d’identità, intesa come espressione globale del sé in interazione con il contesto
socio-culturale in cui si fonda la socializzazione primaria dell’individuo. Come leggerle queste ingombranti, loquaci e certo inattese
presenze? Come voci per un progetto creativo, come persecutori
bizzarri o ancora come irreparabili perdite con cui congiungersi
melanconicamente o come soggetti che ci pervadono obbligandoci
all’agito? I fantasmi di identità hanno una loro storia nel mito personale e nella ideologia collettiva ed è di questa storia che bisogna
farsi carico e ricostruirne la trama. Sono come liquidi di differenti
densità mescolati in un recipiente. A riposo le zone non si confondono, sono parallele, però basta muoverle un po’ e i limiti diventano fragili. Se il movimento aumenta, ci può essere una emulsione
stabilizzata per sempre, e un cambiamento di stato. Questo movimento è determinato dalla relazione. Che cosa significano dunque questi fantasmi che attraversano e determinano l’identità. “Je
est un autre” scriveva Arthur Rimbaud per descrivere il mondo
di certezze che sentiva rompersi attorno a lui e in lui; certo ma
quale altro, quali altri? Tutto un mondo vive in noi dentro la nostra certissima e impeccabile identità professionale. Tutto è pronto
per l’emulsione, per mettere in bilico questa formale certezza. Si
ha paura ad interrogare queste ombre assonnate come se qualcosa
d’altro poi si potesse svegliare a nostra insaputa. Un cambiamento
di luogo di lavoro, come per gli operatori psichiatrici che si muovono oramai fuori dall’ospedale, una nuova realtà scolastica come
dentro l’universo della scuola media, l’incertezza di un territorio
22
A. De Mijolla, Les visiteurs du moi, Confluents psychanalytiques, Les
Belles Lettres, Paris, 1986.
68
così debolmente simbolico come quello dell’educatore, producono sorprese, dubbio, voglia di rinsaldare le file nello specialismo o
annullarne gli effetti in una polivalenza senza punti di riferimento,
producono l’incapacità di fare quella integrazione o interazione tra
spazio, tempo e ruolo sociale necessario, per sapere dove si è lungo
la navigazione. Il non ascolto dei “visitatori dell’Io” (fantasmi di
identità), la colonizzazione a cui ci sottopongono o la collusione
con essi formano la triade sintomatica dell’identità professionale capace di costruire formazioni simulacrali e false dell’identità
stessa. Forme vuote, inerti secondo le varie modulazioni della impostura. E a questo punto che sorge importante la riflessione sul
“gruppo di lavoro”, sull’équipe come analizzatore di questi “Altri” che ci percorrono e che si mostrano nelle mutazioni affettive,
fantasmatiche e comportamentali secondo i vari livelli della catena economico-simbolica dei soggetti che la compongono. Ma di
questi aspetti specifici parlerò in un’altra occasione. Quali figure
teoriche assumono allora la capacità di coagulare l’apparizione dei
fantasmi di identità nel loro attraversare silenzioso anche gli aspetti
più ovvi e quotidiani del “lavoro sociale”?
Alcune di queste figure le individuo in altrettanti scenari su cui
misurare, qualificare la specificità dell’incontro.
1. Il rapporto d’amore come luogo del transfert e delle vicissitudini
della seduzione.
2. La trama di una identità (di un Io) nostalgica che l’Altro ravviva, riproponendo un vissuto di perdita e insieme di “messa al
mondo”.
3. La dimensione dello sguardo e la mutazione delle cose.
4. L’amicizia come incerta nozione tra collusione/confusione e libertà.
5. La passività come dimensione fondante l’ospitalità e l’accoglienza.
Non voglio qui entrare nel dettaglio di queste “figure che meritano a loro volta un lavoro approfondito che esula da questa introduzione e che mi riservo di fare altrove, tuttavia qualche appunto
generale e ancora provvisorio, per concludere.
69
1) La costituzione dell’identità, scrive Pogatschnig23 si presenta
iscritta fondamentalmente in un rapporto di amore che precede il
logos e stabilisce la trama delle vicissitudini identificatorie con cui
il soggetto diviene tale. E proprio la dimensione dell’amore e della
passione che intacca la saldezza del cogito e la sua unità “purificata” (e anche la sua moderna propensione all’esattezza delle cifre), e
definisce la non centralità della coscienza, di cui è stata ed è ancora testimone la rivoluzione freudiana. Vi è una immissione di un
“altrove” che contamina continuamente l’ordine della praxis come
quello del pensiero. Di fronte a questo smarrimento si può rafforzare
come già dicevo il codice o racchiudersi tautologicamente nell’ordine delle “cifre e delle curve” oppure assumersi come elementi di
“precaria verità” la tensione e la rappresentazione che questo “sapere
della passione”24 introduce nel reale. Questo è in fondo il senso di
quel “navigare” che abbiamo assunto a metafora del nostro lavoro
sull’identità. Come non pensare allora alla dimensione del “doppio” che la psicoanalisi ha ripreso e approfondito dalle raffigurazioni
letterarie del romanticismo ottocentesco (Hoffmann, Poe, Nerval,
ecc.). E attraverso la via angusta di questo sdoppiamento (doppio,
sosia, ombra, altro)25 che il soggetto trova, ritrova, costituisce paradossalmente la sua identità. Una identità allora che rimanda costituzionalmente a qualcosa che lo nega, che la “inabissa”. Non c’è
dunque nella relazione con l’Altro un Io che ha da svelarsi come già
dato (l’Io professionale già dato) possessore di una coesione e unità a
cui assimilare (violentemente) il partner, ma piuttosto, da entrambi
i lati del rapporto Io-Tu, una costituzione di se stessi come identità,
proprio nel momento in cui, presentificandomi mi decentro e mi
ritrovo paradossalmente nell’Altro. Operazione certo a rischio poiché “dolce è il perdersi”, dolce lo smarrimento nell’universo di un
ritrovamento illusorio quanto a volte gratificante. Ma dentro l’amore che costituisce legami, scambi è all’opera anche un principio di
23
M. Pogatschnig, “Le identità scambiate”, in Aut Aut, 206-207, 1985.
24
A questo proposito cfr. F. Rella, La battaglia della verità, Feltrinelli,
1986 in cui discute il significato di un “sapere della passione, di un logos come
mescolanza e non più come ‘purezza’ decontaminata a fondamento di una epistemologia che può avere il suo significato di sfondo anche per i campi di pensiero e
di azione di cui stiamo qui parlando”.
25
70
O. Rank, Il Doppio, Sugarco, Milano, 1979.
seduzione, che tende alla dipendenza, all’assoggettamento dell’Altro.
“Quand deux etres parlants se rencontrent, un principe de séduction
est à l’oeuvres, il remplace et il appelle l’autre chose qui manque”26.
L’“autre chose” è ciò che fa il desiderio racchiuso dentro i fantasmi di
identità e che siamo chiamati a riconoscere continuamente, e che
ogni incontro inevitabilmente e incessantemente fa sorgere. La seduzione (che è, a mio modo di vedere, costitutiva, inevitabile all’incontro stesso e immediatamente la sua più mortale trappola, spesso
presente nella ripetizione) è come una prima “mise en place” della
dimensione inconscia. È una sorta di “levier” che fa sorgere i fantasmi di identità, è ciò che più coscientemente determina i sentimenti
che l’Altro è capace di suscitare al suo primo apparire. (Quanto la
nostra disponibilità, la qualità e la quantità del nostro intervento è
iscrivibile a ciò che è dell’ordine della simpatia o dell’antipatia che
l’Altro è capace di provocare in noi, anche se tutto ciò passa per lo
più inosservato?). “La séduction ne serait-elle donc que le contact de
deux ‘inconscients’, quand deux discours enroulés l’un sur l’autre et
pris dans la spirale qui les excèdes, se retrouvent a lieu commun de
leur inconscience” ? E non è questo “ritrovarsi” in un luogo comune
la virtualità inerente ad ogni incontro? Incontro di due soggetti, di
due o più figure del desiderio? L’amore-seduzione lo rende possibile,
lo fa evento. L’amore poi lo rende discorso, mentre la seduzione fa
dell’Altro solo te stesso, del suo dire il tuo dire in una circolarità
interminabile. Si potrebbe anche pensare che l’amore fa prendere al
desiderio la forma del fantasma e lo fa attraversare i momenti della
relazione che ne viene così vivificata. La seduzione all’opposto “eternizza” questo attraversamento, lo rende ripetizione, feticcio (le prese
a carico interminabili…!).
2) L’identità nostalgica che si presenta nella vicenda del giovane
capitano di Conrad è l’ingombro del soggetto a se stesso. L’Io che
la relazione (non seduttiva e feticizzata) svela è un Io nostalgico,
che si è lasciato qualcosa alle spalle (sul versante dell’identità personale e professionale) per acquisire sull’assenza una nuova realtà,
nata dentro l’incontro, dentro il desiderio dell’Altro. Ma la nostalgia è un ritorno doloroso, che l’Altro ci rinnova, contro cui ten26
D. Sibony, L’amour inconscient, Grasset, Paris, 1983; sul tema della
seduzione cfr. inoltre i diversi contributi apparsi sulla rivista Etudes freudiennes,
27, 1986, “De la séduction en psychanalyse”.
71
tiamo il più delle volte di proteggerci rinforzando la somiglianza
(non c’è perdita) o la differenza (nel tecnicismo) che evita qualsiasi
“ritorno”. Come nel racconto di Conrad la presenza minacciosa
e rischiosa diviene nella fragile soglia dell’amico-nemico presenza
familiare, ma anche inquietante perché ignota. L’Io dell’identità
personale e professionale diviene un Io nostalgico dunque, di qualcosa di sé che si è lasciato dietro e che si vuole “formare, curare,
restaurare, riparare” … In questo cammino di un’estraneità che si
fa vicina e di una vicinanza che si allontana, il comandante della
nave ha percorso e ha acquisito una parte di sé, posta nella forma
dell’Altro e della sua duplicazione. Così il rapporto con il clandestino è il rapporto con l’identico ma anche con l’alterità in cui,
quando qualcosa si è conquistato, nello stesso tempo si rende di
nuovo. La relazione quale è allora la possibilità di vivere lo spaesamento di sé che è condizione del ritrovamento di ciò che si è
perso. E l’oscillazione tra una assimilazione che annulla l’altro e un
distanziamento definitivo. Come riconoscere la soglia, il solco che
impedisce la fusione e lega nello stesso tempo i bordi. Qui, è utile
sottolinearlo ancora, la problematica del “terzo” che fa da “spazio
intermediario”27 assume un ruolo decisivo dentro l’enigma dell’incontro e della pratica del lavoro psicosociale. È ciò che permette e
proibisce, avvicina e allontana.
3) La dimensione dello sguardo. Scrive Peter Handke in Trasformazioni nel corso di una giornata, “il legame con le cose mi definisce e
mi generalizza. Gli sguardi altrui mi categorizzano in una identità
comune … Un tram mi fa passeggero, un bambino mi fa adulto,
un guardiano mi fa persona non autorizzata … Per uno sguardo
nel buio sono una figura dell’oscurità”28. Dal mondo mi vengono
identità plurime. Sono utente e operatore, malato e infermiere, allievo e docente allo stesso tempo. “Mi siedo sull’erba accanto ad
27
Sul tema della “intermediarietà” cfr. Kaes, “La catégorie de l’intermédiare chez Freud”, in L’Évolution Psychiatrique, 50, 4, 1985, 893-926, e il mio
lavoro “Postilla a Note per un modello teorico. L’Antenna come spazio intermediario” in Mutamenti generazionali e fenomeno droga. Esiste un nuovo tossicomane?,
G. Martignoni (ed.), Edizioni Alice, Lugano, 1986, 201-215.
28
P. Handke, ll mondo interno dell’esterno dell’interno, Feltrinelli, Milano,
1980, pag. 52-54.
72
uno e sono finalmente un altro. Vi è come un processo di cattura da
parte dell’Altro in cui l’impossibile pacificazione tra me e lui è insieme motore e tomba della relazione. Sembra di sentire le parole di
Martin Buber, “non vi è un Io in sé ma solo l’Io della coppia Io-Tu”
(una tesi fatta propria anche da Winnicott). L’amicizia e la passività
divengono qui due modi di essere dentro la coppia Io-Tu, due figure virtuali in cui indagare, nella dualità che rimanda a un “Terzo”
presente-assente, il processo di costituzione stesso dell’identità. Una
sorta di ritorno dall’identità relazionale a quella personale divenuta
allora per un momento più completa, più vicina al suo “segreto”.
4) L’amicizia. L’amicizia è un concetto inconsueto e spesso incompreso nella pratica sociale. Richiama facilmente la collusione, la
confusione, la non-professionalità. A mio modo di vedere però, racchiude, in un suo ripensamento concettuale, anche una dimensione esistenziale nell’ordine dell’incontro che può fare salutare effetto
di perturbamento sulle nostre certezze. Scrive Blanchot nell’Amitié
nel 1972, “l’amicizia, questo rapporto senza dipendenza, senza episodi in cui pure entra tutta la semplicità della vita, passa attraverso
il riconoscimento della comune estraneità che non ci consente di
parlare dei nostri amici ma solo di parlare con loro … Il movimento
di un’intesa per cui parlando con noi anche nella più grande familiarità serbano la distanza in vista. La fondamentale separazione a
partire dalla quale ciò che separo diviene rapporto”29. È in questa
distanza allora così terribilmente vicina, “legame” più che semplice
e immediata appartenenza a qualcuno (anche a se stessi) che si fonda la relazione. Estraneità, separazione che fonda paradossalmente
il rapporto io-tu. Il bordo dell’identità oscilla qui tra il pericolo
della captazione seduttiva e il rischio dell’impossibile contatto. Il
rapporto con l’Altro si stabilisce sul versante duplice della costituzione e dell’oblio di sé, nelle modalità dello stare “per”, dell’essere
“come se”, del divenire “al posto di”. L’altro che mi istituisce è anche l’altro che mi consente di evadere da me in un altro possibile
di me (l’ideale). Questa è una linea di fuga. Nella relazione affido
così all’Altro anche il compito di sostituirmi. Con l’Altro ripetiamo
infinitamente il gioco del rocchetto, in cui chi appare e di nuovo
29
M. Blanchot, L’amitié, Gallimard, Paris, 1972.
73
scompare non è la madre rassicurante ma io stesso. L’identità quindi si colloca tra evasione e istituzione di sé stessi. Come dunque
rimanere presso di sé nel cambiamento? Come esserci pur nel vagabondare del navigante? Come assumere l’esilio dell’identità senza
cadere nella disperazione o nella confusione? Questa è la posta in
gioco del lavoro sociale.
5) L’accoglienza come ospitalità30. Le professioni sociali sono di
fronte all’oscillazione continua tra attività e passività. Anzi si potrebbe dire quanto in esse vi sia di valorizzazione dell’una, l’attività,
il fare, rispetto all’altra. Una passività vissuta come impotenza, incapacità più che come condizione all’ascolto e alla ricettività ospitale.
Forse è proprio dentro questo tanto inabituale concetto che può
iniziare una interrogazione sul senso e sul percorso del nostro “agire” quotidiano. Forse è necessario, partendo dalla dimensione più
inquietante della passività quella che indebolisce per un momento
l’identità professionale, ridare a questa esperienza il suo posto fondante la pratica di “accoglienza”. Un indizio in questo senso può
essere ripreso dai lavori di Lévinas, a cui faccio qui solo un breve
cenno e dalla sua particolare elaborazione del concetto di passività.
Levinas discute l’accezione limitativa della categoria ricettività/accoglienza. La passività non è il contrario dell’attività. Essa chiama
in causa l’intero atteggiamento soggettivo. È attraverso la passività che si attua il movimento stesso della erosione e della ricerca
dell’identità. È là dove si arresta il fare (guarire, formare, restaurare)
nell’educare, nell’assistere, nel curare. Là dove si ascolta, si accompagna, si accoglie la capacità dell’allievo, il desiderio del paziente. È
uno stupore, un essere colpiti nell’incontro (betroffen sein) da qualcosa che non era previsto. E un ritrarsi: passività è movimento di
indebolimento dell’identità verso una identità patica, o forse etica
come scrive Levinas, come stile, tono, disposizione verso le cose del
mondo.
L’identità patica viene da lontano, è accompagnata dai suoi “visitatori”. La passività è dunque una condizione della ospitalità, è
30
Il riferimento è alla concettualizzazione dell’accoglienza, “l’accueil”,
fatto dalla psicoterapia istituzionale francese e dalla scuola fenomenologica, in
particolare cfr. J. Oury, Il, donc, 10/18, Paris, 1978, e A. Bidault, “Approche du
schizophrène en milieu institutionnel” 10/18, La folie, no. 1, Paris, 1977; si veda
pure il mio lavoro “Là, per i luoghi della narrazione - viaggio tra gli oggetti istituzionali” in Bloc Notes 11-12, Bellinzona, 1985/86.
74
qualcosa che fa funzione di “ospite” di ciò che ci viene da dentro
e/o fuori da noi. Vi è un riconoscimento di una dipendenza, di una
debolezza dell’Io, non di una presunta forza unitaria che dà il tono
complessivo alla soggettività e all’incontro. Etica è la capacità di
mantenersi all’interno di questo movimento. L’“insonnia” sempre
secondo Lévinas è la grande esperienza di passività senza vigilanza.
L’oscillazione veglia-risveglio diviene il passaggio da una vigilanza
ad un modo della presenza. A volte bisogna dunque rinunciare ad
essere per un momento vigili per divenire “presenti”. Sul concetto
di passività come metafora del rapporto con l’altro scrive provocatoriamente Levinas: “il apparait ainsi que à la base du besoin il
n’y a pas une manque d’être, au contraire une plènitude. Le besoin
n’est pas dirigé vers l’accomplissement totale de l’être limité vers la
satisfaction mais vers la délivrance et l’évasion”31.
Come garantire allora una “risposta” che non sia illusione di una
completezza (a volte solo additiva) ma una possibilità aperta ad una
“evasione” che ridia lo spazio di libertà e di creatività al soggetto?
Come essere “mediatori”, “accompagnatori” di un processo di liberazione? A quali “bisogni” dobbiamo oggi rispondere, a quale
“soggetto” tendere l’ascolto? Forse bisogna rifondare dentro concetti-metafora come quelli di passività, di identità nello sguardo, di
amicizia, un pensiero sulla soggettività oramai indissolubile dalla
questione sull’identità. Una rifondazione che prende avvio dalla
denucleazione del soggetto e dall’erosione dell’identità attraverso la
passività di fronte all’Altro. Si tratta di discendere da ciò che “l’evidenza rende chiaro verso un soggetto che piuttosto che annunciarvisi vi si spegne”, scrive Lévinas. Verso un risveglio in cui si profila
una razionalità che rompe con le norme che comandano l’identità
del medesimo. In questo campo di battaglia “epistemico” e antropologico si va a collocare anche questa riflessione ancora frammentaria
su una sorta di “teoria della pratica” del lavoro sociale, assistenziale
e curativo. E qui che ho tentato di pensare al “lavoro” dell’identità.
Uno sguardo all’oscillazione tra la dimensione etica e quella tecnica
dell’incontro che la crisi dell’esistere e le nuove forme di sofferenza
31
E. Levinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris, 1978; inoltre sulla elaborazione del concetto di passività in questo autore cfr. P. A. Rovatti “L’insonnia.
Passività e metafore nella fenomenologia di Lévinas”, in Aut Aut, 209-210, 1985
e S. Petrosino, La verità nomade, Jaca Book, Milano, 1979.
75
antropologiche oltre che reali, oramai impongono. Una riflessione
sull’identità risulta alla fine essere possibile solo nella disillusione32,
come la intendeva Winnicott, non dunque nelle illusioni perdute
ma nella perdita dell’illusione onnipotente, su cui rifondare il nuovo. E qui che si snoda il cammino per ricercare nuove vie, nuovi assetti, nuovi modelli, in un inesauribile, necessario e quotidiano lavoro. In fondo come le vicissitudini dell’identità, che anche quando
sembrano apparentemente concluse, rimandano immediatamente,
se ne vuole seguire la via, ad un altrove sconosciuto. Navigare l’incertezza, dunque! Strategie di navigazione, capacità di essere sempre
di nuovo, come operatori sociali, stupiti, sorpresi! Come scrive Jean
Cocteau “les miroires feraient bien de refléchir un peu plus avant
de nous renvoyer notre image”, poiché è nella deformazione/dislocazione di questi specchi che può essere costituita e riconosciuta un
po’ della storia del soggetto.
2.2.7 Riassumendo in undici soste
Quale è, per concludere il nostro percorso, l’orizzonte, tra virtù
e competenze, tra conoscenze e abilità, tra vo-cazione e professione,
su cui collocare la formazione di chi è chiamato alla cura e all’aiuto
dell’Altro sofferente nell’anima, nel corpo, nei suoi rapporti con
il mondo? Questo il quesito costantemente posto e suscitato proprio dalla condizione epistemologicamente e metodologicamente
fluttuante del lavoro educativo e sociale in un tempo di grande
mutazione antropologica.
Il nostro itinerario formativo è sempre stato quello di navigare
tra Scilla e Cariddi. Da una parte quello che potrebbe chiamarsi
il “Sociologico” e dall’altra lo “Psicologico”. Il “Sociale”, come ci ha
insegnato ad esempio la lezione fenomenologica di Alfred Schütz,
non è però riducibile né all’uno né all’altro, ma è da pensare come
una categoria dell’esperienza di vita, come l’intreccio e l’intrigo tra
i due, tra forme dello psichismo espanso e le interazioni interumane
intersoggettive e collettive ed ecologico-ambientali. Se Psicologia e
Sociologia (qui richiamate, per semplicità, come due dei poli fon32
A questo proposito cfr. J.-F. Rabain, Le maternel et la construction
psychique chez Winnicott, conf. en ligne, SPP, Paris, 2002 e inoltre D.W. Winnicott, Jeu et réalité, Gallimard, Paris, 1975.
76
danti delle scienze umane) appartengono alla dimensione categoriale, il Sociale appartiene all’esistenza, che si possibilizza in gesti,
in parole e in emozioni. Il Sociale come luogo di una “corporeità
incarnata”, segnata da tracce, da memorie individuali e collettive
ma anche da vaste amnesie. È dunque la dimensione del vissuto
esperenziale (Erlebnis) che sta al centro del nostro cammino formativo. Un’esperienza che cresce e si ampia incontrandosi con i
contesti territoriali e istituzionali più vari, dalle istituzioni stazionari, alle istituzioni “leggere”, dalle istituzioni di cura a quelle di
accoglienza, di protezione. Come ben si vede il profilo teorico e
pratico della cura educativa a confronto con il Sociale, ma anche
nell’educativo e nel sanitario (ovviamente con le loro specificità), appartiene a quella dimensione della terziarietà, che è rivelata non tanto dall’ovvio lavoro interdisciplinare, quanto piuttosto
da quello transdisciplinare (come nella lezione di Edgar Morin, di
Stéphane Lupasco, di Basarab Nicoluscu, cfr. la Carta della transdisciplinarità del 1994)33.
Tutto ciò implica grande attenzione a non scivolare da una parte
o dall’altra, garantendo una formazione multifocale, da una parte attenta alle relazioni intersoggettive “uno ad uno” e dall’altra a
quelle collettive, gruppali e mondane. È come se gli abitanti di
Scilla dovessero far posto e ospitare quelli di Cariddi e viceversa.
Ogni famiglia disciplinare, con le sue categorie e i suoi linguaggi e
le sue pratiche, deve così dichiarare i propri limiti sui quali i Saperi
e i Metodi dell’altra possono divenire generatori di altri Saperi e di
altre Pratiche. Una convinzione che potrebbe unire i diversi sguardi, che si confrontano sul terreno del sociale, che voglio esprimere
con le parole di Henri Maldiney (1961), “Si l’homme n’est pas
un objet, que signifie l’objectivité des sciences humaines”? E in
particolare, aggiungo io, della sociologia, della psicologia e della
pedagogia soprattutto nella loro deriva meramente “ingegneristica” e utilitaristica ?
Un cambiamento di paradigma che certo aiuterebbe a porsi
adeguatamente di fronte al problema fondamentale del senso della
vita, che vediamo così spesso infranta, lesa, ferita, perduta nei nostri utenti, pazienti, ospiti, ecc …
33
B. Nicoluscu, Transdisciplinarité. Manifeste, Edition du Rocher, 1996.
77
Tutto ciò ha però bisogno di un orizzonte etico su cui collocare il
nostro progetto formativo e quindi anche la specificità del nostro
Modello. L’etica a cui qui faccio riferimento non si riduce però a
mere procedure, protocolli e codici deontologici, ma è costitutiva dell’esistenza stessa, è “ethos”, soggiorno e dimora dell’uomo,
è appello e chiamata verso l’Altro. L’appello etico è chiamato ad
“essere”, come nella lezione di Lévinas. Ecco perché il nostro itinerario formativo vuole accompagnare gli studenti, accanto alla loro
crescita professionale, in quella più personale (sempre rispettosa dei
limiti del setting formativo) e infine in quella etica, dove abitano
parole come dignità, responsabilità, cittadinanza …
Il richiamo costante alla pratica e all’esperienza vissuta e narrata
è così essenziale per ripensare alla categoria dell’azione (cfr. Gabriel
Marcel), che non è un semplice saper fare o un mero protocollo
convezionale e già prestabilito, ma è soprattutto capacità creativa
e generatrice di nuovo. Ecco perché è necessario favorire nella formazione la creatività, che non è solo progetto ma vera e propria
Opera. Scrive a questo proposito Jean Oury in Creazione e schizofrenia (1989): “Una malata schizofrenica, con un delirio mistico,
passava il tempo a raccattare vecchi stracci, pezzi di lana, pezzi di
filo. Era molto importante, per lei, raccogliere le cianfrusaglie del
mondo per costruire qualcosa. E su quei vecchi stracci completamente usati passava un po’ di matita colorata … Eppure, era
un’opera. Aveva attirato l’attenzione di alcuni visitatori che si sono
detti: ‘Povera donna, raccoglie questi rifiuti! Facilitiamole il lavoro’. E le hanno comperato stoffa e filo in rocchetti già confezionati.
Non ha più fatto opere…”.
Un ultimo ma essenziale richiamo tocca il tema della creatività.
Creatività come condizione di tutta l’azione sociale, come educazione al Bello e non solo come semplice tecnica. Remo Bodei nel
suo testo Le forme del bello, scrive che il bello “tiene sempre in serbo la sua ultima arma: la sorpresa” e aggiunge che questa sorpresa
è data dal continuo sorgere di forme impreviste di bellezza. Ma per
parlare del bello e del suo elemento sorpresa abbiamo bisogno di
un ingrediente indispensabile, che Bodei appunto segnala essere
la creatività. Mutatis mutandis nella nostra formazione dovremmo
permettere agli studenti di avvicinarsi sempre più alla forma della “bella relazione” ossia della relazione che sia foriera di felicità,
78
di possibilità di incontro, che non è solo relazione o buona comunicazione. Sempre Bodei definisce così la creatività (come non
ricordare qui la lezione di Winnicott e del suo spazio potenziale),
“lo sconvolgimento degli schemi e degli stili abituali, con l’apparire struggente - accompagnato da un ‘brivido’ analogo a quello
che si prova nell’esperienza del sacro - di qualcosa di nuovo che
ci sembra, tuttavia, di aver sempre conosciuto, come se fosse l’eco
in chiaro dei nostri più oscuri sentimenti e dei nostri più confusi
pensieri”. Questo mi porta a rilevare un punto critico della nostra
formazione. Quanto spazio è lasciato alla creatività ai nostri studenti? I momenti creativi sono relativamente pochi, musica, pittura, ecc … quasi assenti. Quelle che nella Repubblica di Platone
si chiamavano le arti dinamiche non stanno certamente al centro
del nostro dipartimento. Si è provato qua e là, ma ho l’impressione
senza troppa convinzione, come se fossero cose belle ma secondarie. Credo anche di intuire la ragione. Si è privilegiato, forse troppo, quella che Gilbert Durant chiama la ragione diurna lasciando
quella notturna (la ragione sensibile, di cui ho parlato) sullo sfondo. Al centro vi è un’episteme basata in modo più o meno esplicito
(lo dico riduttivamente) su di una concezione “positivistica” delle
scienze sociali (ovviamente di antica e nobile memoria) ma incapace di dire il mistero del mondo o almeno la sua parte invisibile.
Questo per dire che a mio modo di vedere bisognerebbe incrementare uno sguardo sul lavoro sociale e sull’identità dell’operatore,
che tenga più conto di questa dimensione, diciamo per semplicità,
creativo-poietica. Come ben sapete vi sono corsi di laurea in lavoro
sociale nel Nord Europa in cui si insegna musica, si disegna, si fa
teatro, ci si occupa di retorica, e anche della voce, insomma arte e
vita, privilegiando così una ragione estetica, senza con questo per
nulla confondere l’azione di aiuto e di cura nel sociale con le sole
tecniche di animazione (ne sarei il primo critico). Animare infatti
non vuole dire meramente “intrattenere” o solamente “socializzare”, ma, come scriveva il poeta Keats, vuol dire “fare anima” (che è
ben altra cosa!) e con gli sconfitti e i feriti della/dalla vita e del/dal
mondo non è cosa comunque da poco (…).
Questi assi teorici nutrono le nostre lezioni e i nostri programmi. Un punto è però per me importante e decisivo. Nasce dalla pratica quotidiana e vuole ritornare alla pratica quotidiana. È
79
per me (anche se nei corsi a volte parliamo di cose importanti ma
apparentemente lontane) il cuore dell’architettura formativa, che
deriva dalla mia concezione dell’identità dell’operatore sociale e
del telos del lavoro sociale stesso. È la questione fondante e fondamentale della relazione all’Altro (nelle forme dell’Altrui, dell’Alterità
e dell’Alienità), che mette in crisi prima di tutto se stessi, che è pratica dell’intersoggettività incarnata, che svela l’accadere e l’azione
dell’incontro. Dunque anche una sorta, non solo di fenomenologia dell’azione, ma anche di etica dell’azione.
Ma, incontro con che cosa? Azione verso/per/con chi e verso/per che
cosa? Inevitabilmente (da non mai scordare) con la sofferenza, il
dolore, l’ingiustizia, il trauma, la ferita d’esistenza, ecc … sempre
e dunque con chi è per anche solo un momento sconfitto. Il tema
tragico dunque della vulnerabilità e della fragilità esistenziale, psicologica, antropologica e socio-economica. Dalla parte degli sconfitti
perché ritrovino la strada per risalire, per sperare e forse anche rendere possibile i possibili. Da qui il senso militante di un’etica dell’incontro e del lavoro sociale, che vuole e deve essere sempre e comunque
trasformativo della realtà individuale e collettiva.
La nostra idea di Cura (la scrivo infatti con la maiuscola), è bene ribadirlo, non ha nulla a che fare direttamente con la cura medico-psicologica e nemmeno con la/le terapie in senso stretto, anzi è a volte
critica proprio nei confronti di questi approcci, che portano sulla
strada sdrucciolevole di quei fenomeni deteriori di “medicalizzazione”, “sanitarizzazione” o “psicologizzazione” di tutta una società e
di conseguenza dei servizi di assistenza e di aiuto. È Cura dell’Altro
(l’avere cura dell’Altro, ancor più del curare o del prendersi cura),
ma anche foucaultiana “cura di sé”. Non basta infatti per divenire
un “buon” operatore sociale, come mi ha detto un collega34, una
vera passione per la materia di studio, da affrontare con costanza e
perseveranza e non basta avere passione e amore per le persone che
ci chiedono aiuto, anche se entrambe queste passioni sono essenziali
e ineludibili. Bisogna anche avere una passione per la cura di sé,
condizione fondamentale per fare delle nostre vulnerabilità, non un
ostacolo o un pericolo, ma un vero strumento di lavoro.
34
Devo questa riflessione sulle tre passioni necessarie a divenire un buon
operatore sociale e psicoeducativo a Stefano Artaria, direttore del Centro terapeutico per adolescenti Arco di Riva San Vitale.
80
2.3 L’operatore sociale sospeso fra orizzonte e dettaglio
Ornella Manzocchi
Giobbe rimase solo,
e un uomo lottò con lui sino allo spuntar dell’alba
Genesi, 25, 32
2.3.1 Dalla vocazione alla motivazione
Incontrando gli studenti che si stanno formando per divenire
operatori sociali, così come ritrovandoci fra professionisti dell’aiuto
e della cura che già sono in attività, una domanda sorge spontanea:
cosa vi ha spinti ad occuparvi della cura dell’Altro? La storia ci insegna che ci fu un tempo in cui i filosofi, ossia i costruttori di sapere, si
occupavano direttamente della cura del corpo e dell’anima costruendo un sapere relativo alla cura di Sé e dell’Altro che avesse coerenza e
potesse definirsi “vero e giusto”. Tutti gli altri, il popolo, il cittadino
della Polis greca, coloro che dunque non erano filosofi, come in seguito il servo medioevale, il vulgos del rinascimento, si occupavano
della cura del corpo non per conoscenza e cultura ma per vocazione.
“Vocazione” dal Dizionario Etimologico Zanichelli, significa
“Chiamata rivolta dalla divinità a un uomo perché elegga la vita
religiosa o compia opere volute da Dio, figurativamente inclinazione
innata verso un’arte, una disciplina, una professione”.
Nel corso della storia dell’umanità, con il diffondersi delle Accademie e delle Scuole Universitarie, la cura di Sé e dell’Altro passa via
via da una dimensione vocativa ad una professionale. Figlio illustre
di questa evoluzione è il pensiero scientifico positivista35 che legge
l’uomo “positivamente”, ossia ricerca la causa e la possibilità della
35
Indirizzo filosofico caratterizzato dalla posizione privilegiata che in esso
assumono le scienze naturali quali unica fonte legittima di conoscenza anche nel
campo della psicologia e della sociologia. Invece che al Dio trascendente il positivismo “crede” nell’Umanità. Questo movimento divenne l’indirizzo predominante della seconda metà del XIX secolo.
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sua guarigione dentro l’ordine dell’invisibile (i liquami che parlano
della salute dell’uomo), dando così inizio alla medicina del vivente. Tale medicina porta alla descrizione dell’uomo “nell’ordine della
distanza”. Per conoscere l’uomo secondo l’obiettivo dell’esattezza
occorre guardare l’uomo come un’entità organica che possiamo studiare, ma che non ha bisogno della nostra presenza, della nostra vicinanza. È durante questo secolo che nascono le prime grandi scuole,
nell’intento di strutturare ciò che prima era lasciato alla vocazione,
che ricordiamo significa “qualcuno ti chiama”. La Chiesa istituisce
e controlla Accademie che sappiano costruire un sapere che leghi
dogmi e positivismo. In seguito il sapere, anche quello medico in
senso lato, si svilupperà secondo modalità sempre più svincolate dal
potere religioso, arrivando sino ai nostri giorni. Ed è così che lentamente si è eroso il potere trainante della vocazione sorretta da una
fede incrollabile nella voce interiore che rappresentava il richiamo
di Dio, lasciando spazio ad un sapere laico che richiede al curante
una motivazione forte che nasce sì dall’interiorità ma che è sorretta
e nutrita da un sapere che richiede a sua volta conoscenza e fiducia e
che si scontra o al più non necessita della fede. Potremmo affermare
che da questa contrapposizione tra vocazione e sapere laico nascono
i temi forti della professionalizzazione della cura: la conoscenza, il sapere, l’attitudine alla relazione e all’aiuto, l’interesse per le vicissitudini dell’Altro sofferente, la creatività, l’etica, la conoscenza di sé, le
competenze, la progettualità, ecc., ossia tutto ciò che ci si aspetta da
un professionista della salute in senso lato. Stando a quanto sin qui
scritto è lecito affermare che affinché un professionista della cura,
nel nostro caso della cura della quotidianità, ossia della cura “della e
nella” relazione, si possa definire tale, occorre sappia tenere in tensione una coppia di attitudini apparentemente antitetiche: la capacità di dare e la capacità di ricevere. Dare e ricevere nella relazione
formano una coppia imprescindibile sia nella costruzione del sapere
che in quella della relazione. L’esperienza insegna che lo studente nel
corso della formazione, seppure interessato, colto e talentuoso, segue
talvolta le lezioni sostando nella posizione passiva di colui al quale
viene offerto cibo per la mente, senza troppo riflettere sui contenuti
ricevuti o su ciò che desidera, che lo incuriosisce o che gli manca;
infine talvolta senza darsi la pena di partecipare fattivamente alla
costruzione di questo sapere. Tutto ciò lo possiamo declinare anche
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nella relazione fra curante e curato/paziente/ospite. Capita infatti
che l’ospite cada e resti imprigionato, o sia involontariamente mantenuto tale, in uno stato di passività nei confronti di colui che si adopera per offrirgli una cura, non partecipando così in prima persona
alla costruzione della cura di Sé.
Chiaro, direte voi, noi tutti seguiamo o abbiamo beneficiato di
una formazione proprio per ricevere dai professori le loro suggestioni, così come quando siamo pazienti ci attendiamo che siano i nostri
curanti ad occuparsi di noi, a pensare a e per noi.
Ogni persona di buon senso sa però che se non siamo disposti
a dare, se non abbiamo un animo umanamente e intellettualmente generoso, difficilmente saremo in grado di accogliere ciò che ci
viene offerto. Insomma, per saper ricevere occorre saper dare. Così
ciò che ritenevamo semplice (ricevere un sapere, ricevere una cura)
si rivela sovente difficoltoso tanto quanto se non di più del dare e
saper offrire cura. La condivisione, compartecipazione, com-passione, com-prensione, ecc. all’interno di un quadro chiaro e definito di
bisogni e di capacità, di responsabilità e di riconoscimento, rimangono un punto di arrivo per ogni e per qualsiasi tipo d’incontro, a
maggior ragione nell’ambito della cura dell’Altro in difficoltà, malato, sofferente, addolorato, ferito, “infragilito”, spaventato ecc.
Dare e ricevere non sono che due vertici alla base di un triangolo
in continua tensione e mutevolezza, al vertice del quale sta la persona con la sua identità relazionale. Questa tensione fra poli rappresenta la nostra capacità di funzionare mentalmente, di sentire e di
pensare, di esser-ci di pro-gettare e di fare.
Esser-ci
Pro-gettare
Fare
Potremmo paragonare la tensione fra questi punti all’oscillazione di un pendolo che si sposta dal polo del dare a quello del
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ricevere, avendo come punto d’origine la persona. Più esso oscilla
energicamente verso il polo del dare e più riceverà una spinta verso
il polo del ricevere e viceversa, in un continuo ritmo oscillatorio
che determina la crescita del nostro essere, del nostro sentire, del
nostro pensare, del nostro sapere, del nostro fare. Una crescita che
prende forma e si intesse di riconoscimento, gratitudine, stupore
verso ciò che riceviamo e di riconoscimento, responsabilità, gratuità nei confronti di ciò che sappiamo offrire.
Identità relazionale
Ricevere
Riconoscimento
Gratitudine
Stupore
Ricevere
Dare
Riconoscimento
Responsabilità
Gratuità
Dare
Per l’operatore sociale, ai fini di svolgere il proprio mandato in
modo sensato, è utile tenere in considerazione tre caratteristiche
dell’essere umano. In primo luogo il fatto che la mente umana
sembra avere necessità di esperienze legate all’incontro con il sapere, il realistico e la veridicità; tanto quanto l’organismo vivente
ha necessità di esperienze legate all’incontro con il cibo e la cura.
In secondo luogo, l’operatore sociale dovrebbe parimenti tenere in
considerazione il fatto che l’essere umano è profondamente “incarnato” nella relazione. In terzo luogo, da ultimo ma non come
ultimo, l’operatore sociale non dovrebbe scordare che l’uomo necessita per così dire del sostegno dell’esperienza del credere e dello
sperare, di cui è quotidianamente attraversato.
In un tempo in cui all’educatore, all’operatore sociale e sanitario
sono chieste vieppiù competenze teoriche, metodologiche e operative complesse ci pare di grande importanza l’invito a riflettere sul
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contributo che il pensiero psicodinamico offre a queste pratiche
professionali.
Queste riflessioni vogliono estendere una tenue luce che permetta almeno parzialmente di cogliere gli intrecci, gli intrighi e
gli snodi fra mondo interno e mondo esterno, nel loro darsi quotidiano.
Questo scritto vuol dunque offrire un umile contributo riflessivo in merito all’identità dell’operatore sociale, così come di tutti coloro che nell’ambito della relazione di cura sono chiamati a
stare accanto, vicino, di fronte all’Altro ferito, malato, sofferente,
addolorato, infragilito, spaventato, confuso ecc. Crediamo infatti
fermamente che tutte le forme del fare necessitano della presenza
forte e costante da un lato della disposizione a sentire e accogliere
e dall’altro del lavoro del pensiero, prima, durante e dopo l’azione.
2.3.2 Sospeso fra orizzonte e dettaglio, fra paradigma
psicoanalitico e dimensione fenomenologica
L’esercizio del pensiero ci pone nella condizione di chiederci in
che modo il paradigma psicodinamico ci può aiutare a sentire e a
pensare, ossia a curare, educare, aiutare l’Altro.
Freud definì queste professioni impossibili, pur essendo “mestieri” che attengono al cuore stesso dell’uomo.
Questa sottolineatura umanistica ci porta a chiederci - di che
uomo stiamo parlando - che “cosa” è l’uomo di cui ci occupiamo
durante la nostra pratica professionale. Al fine di fugare il rischio
di una deriva “occidentalocentrica”, va premesso e non trascurato
il fatto che questi pensieri altro non sono che narrazioni prettamente occidentali attorno al tema dell’essere umano e del prendersi cura di esso. Questo scritto non ha dunque la pretesa di coprire
in modo unilaterale lo scibile del pensiero riguardante questi temi.
Noi tutti siamo carichi di identità narrativa, modellata grazie ai
segni incisi in noi ad opera della nostra cultura, della nostra storia,
della nostra religione, come tale la nostra visione, il nostro sapere,
la nostra comprensione, i nostri costrutti e modelli teorici di condivisione e creazione di sapere, altro non sono che una parziale se
pure coerente visione.
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Questa nostra identità narrativa occidentale prende vita a partire da tre veri e propri luoghi originari. Una prima fondazione del
nostro pensiero si origina ad Atene e da qui si espande e radica in
gran parte dell’occidente. Il logos e il mytos si realizzano nella nostra capacità, nel nostro bisogno, nel nostro desiderio di capire e
comprendere il mondo. Il convivio platonico, l’Amore, la nascita di
Eros trovano, nascono e prendono vita in questo alveo. La seconda
fondazione del nostro pensiero si origina a Gerusalemme e da qui
si espande e si radica in gran parte dell’occidente. Gerusalemme,
culla della cultura ebraico-cristiana, fondazione nella quale prende
vita e si sviluppa la nostra sensibilità alla colpa. Ed è proprio da
questa sensibilità alla colpa che prendono avvio e spinta il pensiero
e la clinica psicoanalitici. La terza fondazione della nostra identità
narrativa nasce e si sviluppa a Parigi, espandendosi e prendendo
saldamente piede in gran parte dell’occidente grazie all’avvento
dell’illuminismo che, a ben vedere, è espressione congiunta delle
prime due fondazioni. Da qui si origina il credo occidentale e laico
nella forza e bontà della ragione.
L’idea che noi abbiamo dell’“IO” e del “TU” è fortemente influenzata da queste tre fondazioni che ci hanno trasmesso una cultura, una tradizione e che hanno favorito lo sviluppo di un sapere
e di una comprensione, di tecniche e di attitudini utili alla costruzione della cura di sé professionalizzata.
Il diciannovesimo secolo realizza pienamente i paradigmi dell’illuminismo, nasce infatti in questo secolo un movimento filosofico
e scientifico denominato positivismo. Il positivismo legge l’uomo
positivamente, la scienza medica che si sviluppa nel suo solco porta
alla descrizione dell’uomo, nell’ordine della distanza. Esso insegna che per conoscere l’uomo, secondo l’obiettivo dell’esattezza
che non è data ma sarà, occorre guardare all’uomo stesso come ad
un’entità organica che possiamo studiare ma che non ha bisogno
della nostra diretta e appassionata, nel senso di pathos, presenza.
Durante questo secolo nascono le prime grandi Scuole nell’intento
di strutturare ciò che prima era lasciato alla vocazione. Come già
scritto la Chiesa istituisce Accademie nell’intento di generare un
sapere che leghi dogmi e scienza.
Ma nell’800 potremmo dire che “si aggira un gemello” antitetico del positivismo, che non è assolutamente luogo del luminoso. Si
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tratta del romanticismo, al quale interessano le ombre fra le pieghe
dell’umano, l’interdetto, la passione, gli affetti, l’oscillazione degli
affetti (a tale proposito si ricordino opere quali I dolori del giovane
Werther di Johann Wolfgang von Goethe, pubblicato nel 1774; la
musica di Robert Schumann che riflette la natura profondamente
individualista del periodo romantico ecc.). Il romanticismo ci mostra, ci racconta, ci indica, che dentro l’uomo e dentro la sua ragione si annida un’alienità che spesso è alterità, una presenza che non
ci permette di esperire un senso di unità interiore. Il romanticismo
ci parla di un uomo che contiene zone diverse fra loro, alcune visibili altre invisibili, alcune descrivibili, altre intuibili.
Potremmo dire che la spiegazione, cuore dell’illuminismo, e
l’intuizione, cuore del romanticismo, trovano un loro punto d’equilibrio nella comprensione che domina il ’900.
È in questo clima di sapere luminoso e di intuizione oscura che
Freud inizia la sua avventura clinica e teorica.
Così la psicoanalisi si profila da un lato quale sapere che origina
un modello teorico di riferimento e dall’altro quale comprensione
che origina una pratica clinica. La tensione di questo nuovo approccio è volta alla comprensione dell’essere umano sofferente a
causa delle proprie vicissitudini esistenziali. Vengono così elevati
a tema di studio e attenzione per quanto attiene al comprendere
l’Altro, aspetti quali: la giusta vicinanza nella relazione di cura,
l’interiorità, l’alterità e l’alienità, la soggettività, l’individualità, la
relazionalità, ecc. Nel contempo vengono pure elevati a tema di
studio e attenzione, per quanto attiene al sapere teorico, aspetti
quali: il valore epistemologico di un modello di riferimento, la
costruzione della diagnosi, la prevedibilità, la generalità, l’attendibilità, la coerenza.
Il ’900 ed in particolare la psicoanalisi, impone una rottura epistemologica. Freud mette in luce alcuni aspetti della nostra vita di
cui tutti siamo oggi testimoni. In primo luogo il fatto che interiormente non siamo un’unità monolitica, ma siamo “composti di
varie parti”, di varie modalità di essere. In secondo luogo che queste nostre parti interiori o, meglio detto, modalità di essere, sono
fra loro in conflitto. In terzo luogo il fatto che il mondo interno
composto da parti in conflitto fra loro è il teatro in cui si mettono
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in scena le figure importanti della nostra vita (il nostro romanzo
familiare). In quarto luogo la comunicazione e la relazione non si
manifestano solo su un piano evidente ma soprattutto su un piano
per così dire nascosto, celato, velato, opacizzato e sfuggente. La
psicoanalisi si occupa proprio del piano rimasto in ombra nelle
comunicazioni e nelle relazioni umane. In quinto ed ultimo luogo
Freud, attraverso la psicoanalisi, evidenzia la forza e la capacità
della cura attraverso l’uso della parola.
Il paradigma psicoanalitico che implica dunque un modello di
comprensione dell’uomo, nasce e ha il suo cuore nella relazione
a due, fra chi cura e chi è curato. Questo paradigma interroga
tre luoghi o tre livelli di indagine: l’intra-psichico, l’inter-psichico,
l’inter-personale o inter-soggettivo.
La psicoanalisi ci insegna che nessuna relazione è mai veramente
solo a due: qualcosa d’altro si insinua sempre fra noi.
Tornando all’operatore sociale e all’ospite di cui è chiamato a
prendersi cura, al di là delle diversità biografiche e soggettive, essi
vivono, condividono e compartecipano una dimensione esistenziale che si origina, si sviluppa e si manifesta all’interno di cinque
dimensioni esistenziali che sono: il tempo, lo spazio, il corpo, la
relazione, il mondo.
Gli esseri umani hanno in comune il fatto di vivere, percepire,
riflettere, pensare, condividere, differenziare, andare alla ricerca del
senso del proprio esistere, tentare di rispondere ai propri bisogni,
sognare e adoperarsi affinché i desideri sognati si trasformino in
possibilità concrete, costruire il proprio senso di integrità, unicità e serenità grazie alla tensione verso due luoghi vitali che sono
da un lato la capacità di impegnarsi con buona soddisfazione in
un progetto e dall’altro quella di coinvolgersi provando benessere
nelle relazioni (lavoro e amore). Tutto ciò avviene e si manifesta attraverso, dentro e grazie ai cinque assi esistenziali sopra scritti, che
vengono percepiti e declinati a partire dalle proprie caratteristiche
genetiche, dal proprio ambiente, prima familiare poi sociale ed
infine ultimo ma non da meno, dal proprio ambiente naturale. In
una parola attraverso la propria storia e la propria biografia.
Quando operatore sociale e ospite si incontrano in un percorso
di cura, le risonanze e le differenze del modo di sentire, percepire,
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pensare, condividere, differenziare la quotidianità declinata secondo questi assi esistenziali, danno vita ad una specifica relazione che
parla delle due persone in gioco e che permette loro di comprendersi, riconoscersi, differenziarsi, aiutarsi, colludere, fraintendere.
La capacità di mantenere uno sguardo fenomenologico funge da
garanzia contro la propensione a imprigionarsi in preconcetti basati su saperi presunti forti, che in luogo di funzione vettoriale e
ordinatrice del pensiero, possono impercettibilmente trasformarsi
in gabbie cognitive entro le quali irretire e mortificare, appiattendo
e omologando la specificità dell’umana presenza.
Detto ciò ipotizziamo che si possano profilare due vie maestre
che l’operatore sociale nel suo procedere professionale quotidiano percorre, secondo una temporalità precisa che non può essere
invertita, pena la “morte” della relazione autentica e della sua dimensione di cura. La prima via da percorrere è quella della comprensione fenomenologica, che ci aiuta a dare vita alla relazione di
aiuto a partire dalla vicinanza, dalla condivisione, dalla consonanza, dalla “comprensione dal di dentro”. Una vicinanza grazie alla
quale l’altro viene colto e sentito nel suo essere uomo in tutto e
per tutto simile a me malgrado la sofferenza, il disturbo o la ferita
di cui è portatore. Questa è la via del gesto e dello sguardo che
generano e tengono in vita la fondamentale dimensione dell’accoglienza dell’Altro che attraverso il suo darsi nella relazione, evoca
in noi alterità e alienità del tutto soggettive che fanno di noi la
persona che siamo. Alterità e alienità che abitano ogni uomo e
che in questo caso sono evocate in noi a partire dall’Altro e dal
suo specifico modo di esporsi alla relazione. Queste dimensioni
indiscutibilmente ci abitano, talvolta spaventandoci, altre volte interrogandoci. Questa vicinanza nella quale ci riconosciamo come
esseri umani ci permetterà in seconda battuta di avviarci lungo la
seconda via dell’aiuto e della cura, quella offerta dalla dimensione
del sapere, cuore della psicologia dinamica. Un sapere che ci aiuta
a prendere distanza e attivare uno sguardo il più possibile “oggettivo” facendo capo alle mappe, al modello di comprensione di cui
è portatore; una sorta di scacchiera che produce ordine fra tutti i sentiti e percepiti raccolti durante il viaggio fenomenologico.
Questo secondo modo di procedere ci dovrebbe sorreggere in una
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triplice tensione. Da un lato ci dovrebbe permettere di riconoscere
l’Altro per come si manifesta e non per come noi immaginiamo,
desideriamo, temiamo, percepiamo, riferendoci soprattutto alla
nostra biografia. In secondo luogo dovrebbe sorreggerci anche nel
portare la comprensione dal piano del singolo uomo a quello della
moltitudine. In terzo luogo, ultimo ma non da meno dei precedenti, questo sapere ci dovrebbe sorreggere nello spostamento dal
piano della casualità a quello della prevedibilità e ripetitività. Questa è la via del pensiero, della consapevolezza e della criticità, caratteristiche che immerse nella fondamentale dimensione dell’accoglienza dell’Altro nella sua alterità e/o alienità garantiscono il suo
autentico riconoscimento, allontanando le derive collusive fondate
su facili moti empatici e comprensioni entro le quali tendono a
dominare le modalità proiettive.
In buona sostanza potremmo affermare che per accompagnare nella sua quotidianità un ospite, l’operatore sociale necessita di
quattro caratteristiche. La prima riguarda la vocazione alla cura, la
seconda riguarda il talento relazionale e narrativo, la terza riguarda
il possedere in buona misura uno sguardo analitico e un pensiero
sintetico. Infine, ultima ma non da meno, la quarta caratteristica
corrisponde al possedere uno sguardo bifocale che permette da un
lato di cogliere l’incontro nel suo darsi fenomenologico che accomuna, avvicina, mette in campo la similitudine; dall’altro questo
sguardo bifocale dovrebbe favorire una comprensione della relazione da un punto di vista psicologico-dinamico che coglie ed evidenzia le differenze, le specificità, e che aiuta a circoscrivere “il come e
il cosa” accade durante l’incontro di aiuto e cura.
Detto altrimenti l’operatore sociale a cui pensiamo e che ci auguriamo di incontrare, si muove fra tre polarità. La prima è quella
che riguarda la costruzione e comprensione di un senso della vita
propria e dell’Altro. Costruzione che avviene solo nella vicinanza
sia con sé stessi che con l’Altro di cui siamo chiamati a prenderci
cura. Questa polarità è garantita da una buona consapevolezza e
conoscenza di sé stesso e dalla vocazione alla cura ben coltivata e
educata. La seconda polarità è legata ai saperi forti quali la fenomenologia e la psicologia dinamica che permettono di costruire
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una spiegazione, di cogliere un senso dentro l’accadere relazionale
dedicato alla cura dell’Altro, grazie alla vicinanza e alla presa di
distanza, alla riflessione, al confronto garantiti dalla conoscenza
della semiologia, della nosografia, dell’epidemiologia, ecc. La terza polarità riguarda la trasformazione che talvolta può essere resa
vitale e rafforzata grazie alla capacità di stare con/accanto all’Altro
nel suo dolore, nella sua sofferenza, nel suo disagio e talvolta pure
nel suo spavento di vivere, offrendosi come esempio di capacità
di stare, comprendere, trasformare quando possibile, il dolore, la
sofferenza, la difficoltà, lo spavento in una nuova e diversa possibilità di vita.
L’operatore sociale che si occupa della quotidianità della vita
dell’ospite deve dunque essere un navigatore che veleggia fra le
acque dello spirito e quelle della natura. Nelle acque dello spirito
incontra e comprende la quotidianità grazie alle scienze umanistiche che privilegiano la lettura coincidente fra soggetto e oggetto
e indagano i nessi relazionali e le modalità di connessione fra di
essi. Nelle acque della natura incontra e comprende la quotidianità
grazie alle scienze naturali che privilegiano la differenziazione fra
soggetto e oggetto mentre i nessi che le scienze naturali ricercano
sono quelli fra causa ed effetto.
Va da sé che lo sguardo maestro rimane quello della vicinanza,
della comunanza, uno sguardo che si sviluppa e si sostanzia dal di
dentro. È solo riconoscendo in noi il modo di vivere e la sofferenza
che l’Altro ci porta che avremo la possibilità di rimanergli accanto affinché questa sua difficoltà di vivere divenga sopportabile, o
tollerabile o trasformabile e forse anche in alcuni casi fortunati, le
cause stesse che provocano questo dolore possano essere debellate
o contenute.
Questa vicinanza con l’ospite implica da parte dell’operatore sociale l’impegno a sviluppare e coltivare alcune capacità. La prima
capacità è quella di guardare, accogliere e ascoltare l’Altro come
un soggetto che può e sa prendere posizione, sa contestualizzare,
sa pensare e sa parlare del proprio modo di vivere. Ossia saper dare
ascolto a come l’ospite racconta, come vive ciò che vive, come si
sente, cosa gli è successo, se ha già vissuto ciò che sta vivendo ora
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e in che misura, come immagina il proprio futuro, come desidera
se lo desidera il proprio futuro, ecc. La seconda capacità è quella
di accogliere l’altro con interesse nei confronti della sua storia di
vita riconoscendogli la statura dell’uomo-biografico che racconta
con autorevolezza e autenticità da dove viene, cosa desidera, cosa
ha fatto. La terza capacità riguarda il saper tenere in considerazione quello che Stanghellini e Rossi Monti definiscono il principio
della vulnerabilità strutturale dell’esistenza umana36, ossia il poter
accogliere l’Altro con empatia grazie alla consapevolezza che il suo
oscillare da salute a sofferenza-malattia-dolore-disturbo-spavento,
non è un fatto meramente privato e casuale, un fatto che riguarda
solo lui perché sfortunato, o incapace, o fragile. L’oscillazione da
salute a sofferenza-malattia-dolore-disturbo-spavento e viceversa,
riguarda la condizione umana stessa, che strutturalmente è fragile
e limitata. La quarta capacità consiste nel saper dare valore a tutte
le parole dette e non dette, con la consapevolezza del fatto che ci
muoviamo dentro un pensiero che fa capo alle scienze umane, le
quali hanno come oggetto di attenzione, di conoscenza, di comprensione e di spiegazione proprio questi scambi linguistici. La
quinta capacità consiste nel saper dare valore a tutti i segni di varia
natura che ci scambiamo in ogni relazione, con la consapevolezza che ci muoviamo dentro un pensiero che fa capo alle scienze
umane, le quali hanno come oggetto di attenzione, di conoscenza,
di comprensione e di spiegazione anche questi scambi. Ed infine
la sesta capacità riguarda il saper esplorare il territorio esistenziale
dell’Altro con l’Altro, senza la fretta e la presunzione di trasformarsi in “sonda” psicoanalitica di bioniana memoria37, o di piantare
cartelli segnaletici o montare una trivella per esplorare le profondità dalle quali avrebbe origine il fenomeno del disturbo, del dolore,
o della malattia, o dello spavento, secondo una bella immagine di
Stanghellini e Rossi Monti38.
36
G. Stanghellini, M. Rossi Monti, Psicologia del patologico, Raffaello
Cortina editore, Milano, 2009, pag XVI.
37
Wilfred Bion, Attenzione e interpretazione, Armando editore, Roma,
1973, pag 100.
38
92
G. Stanghellini, M. Rossi Monti, op. cit., pag XIII.
Affinché ciò sia possibile l’operatore sociale deve sapersi muovere
lungo l’asse temporale della relazione con l’ospite, senza fretta e
senza capovolgimenti, lasciando che la propria fluttuante attenzione si snodi lungo una direzione che sia catturata in ordine sequenziale da tre diversi momenti. Il primo momento sarà impregnato
dalle suggestioni e dalle emozioni e percezioni suscitate dal “come
avviene ciò che avviene nell’incontro”. Ciò significa che l’ospite e
l’operatore sociale saranno calati dentro la fascinazione operata dal
tema del come vivono ciò che stanno vivendo, come si raccontano
e si ascoltano, come si muovono, come si immaginano. Il secondo
momento che subentrerà solo quando la dimensione del “come”
avrà pienamente saturato di sé la mente e l’anima dei due soggetti
in relazione, sarà polarizzato dalla dimensione del “cosa avviene
nell’incontro”. La dimensione del “cosa” permette di portare ordine in queste sensazioni e percezioni che saranno per così dire
differenziate e catalogate grazie ad una sorta di griglia, di scacchiera teorico-clinica che aiuta l’operatore sociale a differenziare e
evidenziare i singoli segni, gesti, fenomeni, sintomi.
Per finire il terzo momento prenderà sostanza, quando possibile, grazie al sorgere della domanda riguardante il “perché avviene ciò che avviene in quell’incontro”, ecc. Solo a questo punto,
sempre grazie ai modelli psicodinamici, l’operatore sociale potrà
formulare, quando possibile, le prime ipotesi sui “perché” in quella
particolare relazione avviene ciò che avviene, abbozzare una diagnosi e confrontarla con quella di altri specialisti in rete per avvicinarsi ad una diagnosi il più verosimile possibile e soprattutto
utile. Importante e imprescindibile è la capacità di tener conto nel
proprio operare quotidiano delle conoscenze e delle consapevolezze acquisite in merito a questo ospite, verificare sia il procedere
della relazione di cura che il proprio stato di benessere attraverso
gli incontri di équipe, le supervisioni, il lavoro su di sé, la cura nei
confronti del proprio vivere.
A questo punto della riflessione si impone un’ulteriore sottolineatura riguardante una caratteristica che risulta essere un prezioso
alleato per l’operatore sociale il quale deve poter contare in buona
misura sulla “capacità negativa”, quella che il poeta John Keats
così magistralmente descriveva ai suoi fratelli in una lettera datata
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1817, “ … La Capacità Negativa, cioè quando un uomo sia capace
di rimanere in incertezze, misteri, dubbi, senza lasciarsi andare a
un’agitata ricerca di fatti e ragioni”39. Infatti la quotidianità professionale e personale dell’operatore sociale si impone attraverso
le molte domande a monte della riflessione attorno all’arcipelago
delle sofferenze psichiche, che richiedono una buona capacità di
riflessione, prima di “agitarsi” e passare alla progettazione e attivazione di possibili percorsi di cura.
Elenchiamo di seguito alcune delle possibili domande che dovrebbero abitare l’intimità quotidiana dell’operatore sociale e che
necessitano, per essere convenientemente affrontate, di una sua
buona “capacità negativa”. Prima domanda: con quale termine
designare le persone a cui ci riferiamo in ambito professionale socio-sanitario? Le possibilità sono molteplici, ognuna di esse veicola
un senso che andrebbe conosciuto e condiviso. Sul fronte della
cura utilizziamo termini quali medico, terapeuta, educatore, operatore sociale, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista;
sul fronte della sofferenza designiamo l’Altro con termini quali
paziente, ospite, utente, cliente. Che significato veicolano questi
modi di definire? Seconda domanda che si impone all’attenzione dell’operatore sociale in situazione: di che cosa ci occupiamo
quando parliamo di cura? Dolore, malattia, sofferenza, disturbo, normalità, patologia? Terzo interrogativo: quale spazio dare
nell’ambito della cura sociale a temi quali la verità, la menzogna,
il mito, la narrazione? Quarta questione interrogante: cosa intendiamo quando parliamo di empatia? Un sentimento di vicinanza
che ci permette di sentire ciò che sente l’Altro, senza per questo
rapinarlo del suo stato d’animo o senza cancellarlo dentro un eccesso di nostra presenza? Oppure la disposizione a spogliarci del
nostro mantello di saperi e pre-giudizi permettendo all’Altro di
venirci vicino per quanto gli è possibile e gradevole40? La propensione a metterci noi nei panni dell’Altro? Quinto interrogativo:
cosa distingue il costruire dal colludere in una relazione di cura?
Come perdere e ritrovare costantemente l’equilibrio fra vicinanza
39
J. Keats, Lettere sulla poesia, N. Fusini (ed.), Feltrinelli, Milano, 1984.
40
L. Boella, A. Buttarelli, Per amore di altro, l’empatia a partire da Edith
Stein, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
94
e lontananza, comprensione e confusione, desiderio e bisogno, sapere e com-passione? Sesta domanda di fondo, ultima ma non da
meno, riguarda il senso del prendersi cura: ci occupiamo dell’Altro
ferito, disturbato, sofferente, spaventato, affinché possa finalmente
tornare felice? Affinché sia in grado di soffrire meglio? Affinché sia
in grado di debellare le cause della sua sofferenza? Affinché possa
espandere e rafforzare il proprio senso di libertà, di indipendenza
e di responsabilità? Affinché sia in grado di mantenere viva la speranza? Affinché sia capace di stare in una condizione di solitudine
sentendosi accompagnato da sé stesso e dalle esperienze della propria vita41? Affinché sia in grado di vivere creativamente42?
Questi minuti sparsi pensieri riguardanti la costruzione che
riteniamo sia sempre in fieri, dell’identità dell’operatore sociale,
hanno avuto la presunzione di segnalare una possibile via di riflessione e di azione ai naviganti del mondo della cura nella e della
quotidianità. Naviganti che congiuntamente, chi dal versante del
sentito bisogno di aiuto e chi da quello delle presunte capacità
di accoglienza, ascolto, cura, scelgono di imbarcarsi sul vascello
che da un arcipelago all’altro mostrerà loro quanto la possibilità
di non essere soli, né alienati a sé stessi né agli altri, sia di fondo la
necessità ultima, suprema e cardine della nostra vita. Saper stare
soli con sé stessi quale condizione imprescindibile per una vita creativa e degna di essere denominata tale che si espanda all’incontro
e contaminazione con l’altro in noi e fuori di noi: questa la posta
in gioco per ognuno di noi, indipendentemente dal nostro statuto
esistenziale. 41
D. Winnicott, La capacité d’être seul, Payot, Paris, 2012.
42
D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 1993.
95
2.4 Appunti e spunti sull’operatore sociale nel
fastello delle professioni di aiuto
Lorenzo Pezzoli
Mobilis in Mobili
J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari
Di fronte alla molteplicità delle declinazioni professionali, alla
frantumazione progressiva della psicologia e al prezzo alto che si
paga alle specializzazioni, a mio modo di vedere la figura dell’operatore sociale, nella sua ancora benefica unitarietà, ci permette di
riflettere sull’importanza di questo professionista nella rete sociale.
Questo anche perché i rimandi che arrivano da molti fronti insistono su alcuni punti che hanno certo un valore in sé, ma che corrono il rischio dello svuotamento di senso o della perdita di senso
da parte di chi li veicola o se ne fa poi portatore; un rischio elevato questo, un rischio sul quale è necessario prestare un’attenzione
particolare. L’insistenza che ci raggiunge è pur sempre quella che
si declina nelle solite parole chiave: la bravura, l’eccellenza, la perfetta applicazione della tecnica, l’evidenza … Visioni del mondo,
queste, che ci seducono e vorrebbero suggerirci che la perfezione:
di condotta, di esecuzione, di conoscenza e quant’altro, possano
esaurire il nostro gesto, magari anche quello di cura, finirlo nel raggiungimento della perfezione appunto. La nostra cultura predilige
la settorialità, il sapere fatto a fettine, scomposto, che da origine
e vita (forse “vita” ma più spesso una gelatinosa esistenza) ad una
pluralità di specialisti che, se ben coordinati, avrebbero la pretesa
di restituire al mondo un’immagine perfetta e magari pure ricostituirne l’unitarietà. In un contesto come questo ogni specialista
si vanta di sapere solo quello che è di sua competenza. Una sorta
di sentimento onnipotente personale, “so tutto tranne quello che
esula dalle mie competenze!”, che si riflette in quello collettivo:
tanti specialisti messi insieme restituiscono salute, serenità, pace
96
del cuore (chissà se c’è qualcuno ancora che se ne occupa…), professionalità, competenza umana … Gian Piero Quaglino insiste
nei suoi scritti e nelle sue parole su questi temi sottolineando giustamente che in questa prospettiva il singolo uomo con le sue curiosità, con il suo bisogno di fare esperienza, viene completamente
dimenticato. Dimenticato l’uomo cosa resta dell’operatore sociale?
Ha ragione Carl Gustav Jung, nella sua riflessione complessa sulle
dimensioni che fanno l’uomo, ha ragione Jung e io con lui sottoscrivo: “La vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma
della completezza”. Le seduzioni della perfezione sono dietro l’angolo mentre le prospettive della completezza sono più difficili da
assumere perché implicano invece un coinvolgimento più profondo e significativo; coltivare la completezza significa saper accogliere
e dialogare anche con le parti in ombra (le parti in ombra di sé in
primis) parola che viene dall’arabo e vuol dire l’inseguitore. Dunque l’operatore sociale lo intendo come colui che coltiva questo
dialogo con i propri “inseguitori”, tutto ciò che fatica ad accogliere
di sé, tutto ciò che ancora si muove in maniera poco differenziata,
tutto ciò che mette da parte perché non considerato luminoso. Ed
è questo dialogo che gli offrirà poi la possibilità di dialogare con
le parti in ombra altrui, che gli consentirà di farlo senza restarne
preda o diventarne complice. Capace di ascoltare diversi linguaggi
come nella fiaba antica della raccolta dei Grimm I tre linguaggi
che proprio evoca la necessità, per diventare padri e cioè capaci
di generatività, di apprendere linguaggi diversi e di saper prestare
attenzione a voci non familiari, anche molto distanti dalla propria.
L’operatore sociale è anche colui che si mostra capace di aspettare,
coltivando la speranza, come il principe de La bella addormentata,
o meglio della fiaba Rosaspina: attento ai segnali della realtà ma
anche a quelli che provengono da dentro di sé; con l’evocazione
di questa fiaba intendo sottolineare una figura di operatore sociale
non come portatore di eroismi attinenti alla sfera del meraviglioso
e dello straordinario, eroismi forse vicini ad una visione dell’eccezionale e dell’insolito che gratificano l’immaginario narcisistico (e quindi le seduzioni di una pretesa perfezione a sfavore della
completezza), ma vorrei intravvedere un operatore sociale che è
testimone dell’eroismo della quotidianità: un eroismo umile, silenzioso e poco altisonante nella sua espressione, tuttavia potente
97
e motore di grandi trasformazioni. L’operatore sociale può essere
portatore dell’eroismo del principe de La bella addormentata nel
bosco, quello della favolistica antica, se ne accetta le condizioni: un
eroe che non ha nulla a che fare con l’ammazzadraghi o con l’estirpatore di roveti, con il condottiero che arriva dinnanzi alle spine
che avvolgono il regno dove riposa la principessa ed estratta la sua
spada, affronta a colpi di fendente l’oscuro incantesimo che avvolge il castello e imprigiona la bella dama. Il principe di Rosaspina è
colui che arriva al momento giusto perché sa aspettare, che legge i
segni e ascolta le indicazioni che la realtà e le persone gli offrono,
e quindi si dispone all’incontro attendendo la disponibilità dell’altro, una sua apertura, magari il suo cenno. Non è un caso, credo,
che la fiaba racconti, con una moltiplicazione degna della più classica ripetizione onirica di un medesimo personaggio, che prima
del cavaliere “giusto” ci siano molti altri cavalieri che perdono la
vita davanti al roveto: uno dopo l’altro periscono e cadono nella
speranza e nel tentativo di raggiungere la bella principessa. Mille
cavalieri per dire che l’ultimo che arriva è, in fondo, il medesimo
che c’è stato prima di lui, e che questo è a sua volta lo stesso di
quello prima e così via fino al primo della lista. Ovvero, e in altre
parole, che il cavaliere sia uno e che la sua moltiplicazione non rappresenti altro che una disposizione interiore che io ritengo quella
che deve accompagnare l’operatore delle relazioni d’aiuto. Quella
di colui che è capace di “morire” mille volte, tante quanti sono i
cavalieri, o di “morire” per cento anni, che è il tempo di durata
dell’incantesimo, pur di potervi essere al momento giusto: quello
in cui il roveto da solo si aprirà e lascerà a un varco attraverso cui
passar e raggiungere il cuore del regno dove dorme la principessa.
Ora, tornando alla provocazione che ho espresso all’inizio di
questa breve riflessione, e cioè che l’operatore delle relazioni d’aiuto dovrebbe essere in grado di coltivare la completezza e non di seguire una presunta e impossibile perfezione che viene poi declinata
“coi” e “nei” vocabolari professionali, piuttosto che imbrigliata in
pratiche codificate la cui semplice esecuzione dovrebbe garantire il
risultato (e se poi il risultato non c’è ci si protegge dicendo che è
per un problema che riguarda il paziente sollevando chi ha attuato
alla lettera quanto doveva da ogni messa in discussione), tornando
alla provocazione iniziale direi che solo la ricerca della completezza
98
consente di svolgere il compito del cavaliere di Rosaspina, solo la
completezza consente di “morire” e aspettare, di rilanciare la speranza, di incontrare le ombre altrui. Direi che la coltivazione e la
ricerca della completezza, che è per sua natura un’opera che dura
una vita e che non si conclude con attestati o diplomi, è ciò che
permette anche di acquisire delle tecniche senza restarne prigionieri o, peggio, vittime o senza fare a propria volta con queste prigionieri o proseliti. Il motto che porrei nell’araldica dell’operatore
sociale e, più in generale, nell’araldica delle professioni di aiuto
è quello stampato nella cabina del capitano Nemo del romanzo
di Verne: Mobilis in mobili. Cioè capace di muoversi, di stare in
movimento, di essere vivo in un ambiente a sua volta mobile e
cangiante, mutevole e vario. La fissità che presuppone la perfezione è attinente alla pietra, al granito, e la pietra nel mare non ha
altro destino che affondare. L’operatore sociale è un viaggiatore,
mobilis in un universo mobile e cangiante, come il Marco Polo
di Italo Calvino, quello delle Città invisibili, in grado di spostarsi
fino ai confini del regno e osservare, di raccontare e condividere,
ma anche capace di attraversare le città infernali, quelle del disagio,
della solitudine, dello stare assieme con quello che gli uomini a
volte costruiscono, o nei quali si imbattono. Un uomo capace di
trovare nell’inferno, come scrive ancora Calvino, ciò che Inferno
non è e dargli spazio e tempo affinché si possa sviluppare. È come,
nell’universo tolkiano, chi attraversa le terre di mezzo per portare
a termine il proprio compito, capace di camminare nonostante
l’esito incerto della missione. Forse l’identità di operatore sociale è
l’identità che sta alla base di ogni professione di aiuto, quella sulla
quale poi si possono sviluppare le altre declinazioni delle identità
professionali: mobilis in mobili.
99
2.5 A proposito di identità
Lorenzo Pellandini
Non posso fare a meno di immaginare l’operatore che vorrei
non incontrare
Mi era già capitato
A proposito d’identità non posso fare a meno di avere delle idee
Avere un sogno
Non vorrei incontrare
L’annoiato
Il giudicante
Il certo
L’arrogante
Il presuntuoso
Il codardo
A proposito di identità non posso fare a meno di sognare
La meraviglia
Il pensiero pensante
Il dubbio
La modestia
L’incertezza
L’audacia
Ah! che meraviglia se un giorno, anche lontano, incontrassi colei
o colui che ancora avranno l’audacia di scoprire la modestia del
dubbio, come se fosse un vestito, e di avere nel pensiero pensante
la forza e il desiderio di stupirsi ancora, anche dei piccoli gesti.
Anche se sarà in un tempo lontano, ah! che meraviglia se potessi
incontrare, colei o colui che sapranno ascoltare sussurri e sospiri
che non sono urlati ma sono solo accennati, in punta di tacco.
Ci vogliono mani di seta per abbracciare una lacrima, ci vuole delicatezza per stare con l’altro, si ascolta con garbo e si parla
con-tatto.
Ah! che meraviglia poter sognare anche solo un istante d’incon100
trare colei o colui che avranno speso la loro esistenza nell’accogliere, raccogliere racconti, e con tenacia e coraggio avranno provato e
riprovato a trasformare in straordinario l’ordinario.
Sarebbero potuti essere cercatori d’oro saranno stati cercatori
di “l-oro”, saranno stati trovatori di narrazioni, esploratori di esistenze.
Ah! che meraviglia.
101
102
3. Mappe di navigazione
103
104
3. Mappe di navigazione
3.1 “Individuo, identità e vita affettiva”
3.1.1 L’arcipelago identitario,
Mappa del “Primo mondo”
Memorie
Cura di Sé
Simbolico
Riti di passaggio
Cura dell’Altro
Cyborg
Identità
ontologico-esistenziale
Identità
Ecologico-climatica
Riti funebri
Sessualità
Nuovi Eroi
Reale
Immaginario
Graziano Martignoni
Per approfondire la Mappa del “Primo Mondo” consultare il pieghevole presente alla fine del volume.
105
3.1.2 Mappe di navigazione
Lo Sviluppo
nei cicli di vita
Cicli di vita
Relazionarsi con
gli adolescenti
P. Lavizzari, O. Manzocchi,
C.Marazzi, A. Spagnoli
Identità
e
alterità
Individuo e
identità personale
G. Martignoni
C. Mustacchi
L. Pellandini
L. Pezzoli
1 Sem.
Intervento con
utenze specifiche
Identità
e
alienità
Sofferenze
psichiche
G. Martignoni
O. Manzocchi
Fenomenologia
del gesto di
cura
Spazi di cura
e
gesti di ospitalità
G. Martignoni
L. Pellandini
Strumenti della
relazione psicoeducativa
Pratiche di intervento
educativo nell’infanzia e
nell’adolescenza
P. Lavizzari
L’origine
Prima infanzia
e
Nido
P. Lavizzari
Cura educativa
e
disagio
psichico
Pratiche
di intervento
educativo
O. Manzocchi
G. Martignoni
2 Sem.
2-4 Sem.
2-4 Sem.
5 Sem. Educatori
Supervisione
O. Manzocchi, G. Martignoni
2 sem.-4 sem.: individuale 5 sem-6 sem.: in gruppo
Per approfondire le Mappe di Navigazione consultare il pieghevole presente alla
fine del volume.
106
3.2 “Individuo, identità e vita affettiva”
Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini,
Lorenzo Pezzoli
3.2.1 La lezione: Individuo, identità e vita affettiva
Graziano Martignoni
Quaestio mihi factus sum
S. Agostino
L’evento è senza ragione, senza fondamento,
senza fondo.
Arriva e accade in un incontro.
Ma se vi è incontro, vi è incontro sempre
con un altro,
mai con l’alterità in generale.
Henri Maldiney
In sintesi si potrebbe dire che la lezione:
Rifletterà sulla complessità dei saperi, sulle diverse epistemologie,
sul rapporto tra soggetto e vita affettiva e sui percorsi delle identità
e i loro margini di confronto piegandoli progressivamente verso la
dimensione professionale.
Sarà un percorso che dovrà essere comunque da considerare introduttivo e dunque orientato a preparare i successivi gradini formativi.
Dovrà così presentare le grammatiche delle varie strategie discorsive
tese alla costruzione personale e sociale del Sé dotandosi di una competenza linguistica, concettuale e bibliografica adeguata.
Dovrà navigare in una sorta di Niemandsland, ove nessuno può
considerarsi veramente un esperto di identità né personale né professionale. Non vi sono dunque specialisti d’identità. L’identità non
è infatti una disciplina ma un carrefour, un’interrogazione abitata da
più esperienze e da più Saperi. Saperi tutti legittimi e tutti parziali,
ma mai neutri rispetto all’idea che ognuno di noi si fa dell’uomo
107
e della società. L’identità personale e professionale è infatti parlata
da più voci, e allora come divenire capaci di ascoltarle, interpretarle,
dare loro cittadinanza nel nostro operare quotidiano di fronte alle
pratiche di aiuto, di cura e di progetto, che il lavoro sociale contiene?
L’identità professionale si costituisce su una sorta di “carta epistemologico-affettiva” che sostiene una domanda preliminare “che cosa è per
me l’operatore sociale, che diverrò”?
Un discorso sull’identità personale e soprattutto professionale necessita un atto di testimonianza. È a partire da questo essere testimoni in prima persona nel sentire, nel pensare e nel fare nei confronti
dell’Altro e dell’Alterità (versus Alienità) che possiamo veicolare la necessaria passione identitaria. Ognuno di noi è portatore di un Sapere,
di un’esperienza di vita e di un’esperienza professionale, di uno stile. È
a partire da questi punti che ognuno di noi fonda la propria de-cisione
identitaria.
Il passaggio dalla vocazione al ruolo è percorso soprattutto intimo e
privato. Non potremo solo mostrare degli indicatori e degli analizzatori di percorso più per evitare le illusioni, le idealizzazioni eccessive,
le trappole ideologiche che per risolvere una questione che va ben
oltre le competenze del Modulo.
Prende senso così per me l’articolazione in tre momenti. Una prima parte che riflette sull’identità come peripezia del sub-jectum ontologico-esistenziale, biologico, psicologico, antropologico e trascendentale. Una seconda parte che si centra sull’identità come Erlebnis
scegliendo tra i possibili alcune aree esperenziali come il corpo, la memoria, l’immaginazione, la fantasia e l’emozione. Una terza sull’identità come rappresentazione (all’incontro/scontro tra discorsi ed esperienza) nelle sue fasi di decostruzione delle rappresentazioni ingenue,
riconoscimento genealogico-ideologico delle rappresentazioni, nuove
costellazioni rappresentative, ecc.
L’identità si appoggia sulla coscienza intenzionale, nelle quattro
dimensioni ontologica, biologica, psicologica e antropologica. Da qui
nasce l’asse dell’azione. Una coscienza sempre “affettata” e inquietata
dalla presenza dei tanti “dialetti” parlati dall’inconscio.
Un’azione che ha come asse paradigmatico della pratica educativa
la dimensione della Cura.
Il modulo avrà come vertice il tema delle manifestazioni fondamenta108
li dell’esistenza (“existentialia”) e si orienterà nel senso di un discorso
sulla natura e sulla forma delle “passioni” dell’anima esposte all’enigma dell’intersoggettività, e dunque alla fondazione e costruzione dell’identità (l’operatore sociale come “giardiniere di se stesso”, come “specialista della quotidianità”, come “mediatore socioculturale”, “costruttore di
ragnatele simboliche-affettive tramite l’azione” ecc…), secondo i quattro assi di riferimento delle:
• figure della esteriorità (temporalità, spazialità, corporeità, mondanità);
• figure della intersoggetività, (sguardo, ascolto, volto, commozione,
simpatia, amicizia, ecc.);
• figure ermeneutiche (le forme della donazione di senso);
• figure della interiorità (silenzio, solitudine, attesa, speranza, gioia,
dolore, senso della morte, ecc.).
In particolare svilupperà una riflessione soprattutto nei seminari
sulla scrittura e la memoria, cercando di tenere lontano ogni teorizzazione categoriale e lavorando molto sulle rappresentazioni soggettive,
sul significato di alcune esperienze umane come il silenzio, la solitudine, l’attesa, la speranza, la gioia, la felicità, l’apertura, la nostalgia,
lo sguardo, la commozione, il dolore, il senso della morte e altre oscillazioni fondamentali dell’esistere tra aperto/chiuso, vicino/lontano,
pulito/sporco, veloce/lento, medesimo/altro, ecc.
3.2.2 Tredici approdi
TEMI
Incipit
“Quaestio mihi factus sum” (S. Agostino)
Identità e temporalità
Mappe nell’arcipelago dell’identità
Prepararsi al viaggio: bibliografia, mappe di navigazione,
approdi e soste di una pedagogia esistenziale-fenomenologica;
arcipelago identitario; le tesi psico-antropologiche.
109
Primo approdo
Le domande guida: Chi sono io? Che cosa sono io?
Per che cosa e per chi sono io?
Piccolo lessico di bordo, i triangoli identitari, isolario,
ontogenesi e filogenesi identitaria, riconoscimento
e individuazione.
Secondo approdo
Le isole del mito
Le città fondatrici, da Gerusalemme, ad Atene, a Roma, a
Firenze, a Parigi, a Los Angeles, a Shanghai; i miti fondatori,
il giardino dell’Eden, il viaggio di Ulisse e di Abramo.
Terzo approdo
L’isola antropologica
L’identità antropologica, lo straniero, i riti di passaggio
(Van Gennep), la dimensione del simbolico, il “mytomoteur”,
la dimensione del corpo simbolico (Le Breton). L’appartenenza
e l’esclusione. Amico-nemico. I segni identitari di appartenenza.
I percorsi di riconoscimento.
Quarto approdo
Le isole storiche e sociologiche
Io, soggetto, individuo, persona.
Gli spazi psico-antropologici: premodernità, modernità
e postmodernità.
Quinto approdo
L’isola di Psyché
L’Io e la cittadella interiore (S. Agostino), la nascita dell’Io,
tra interiorità ed esteriorità, le soglie identitarie, il corpo
immaginario. Accoglienza e ospitalità: La Cura.
La nascita del dolore. “La torre di Babele” e il vaso di Pandora.
L’incontro; l’Altro, lo straniero. Chi è il mio prossimo?
Le forme dell’amore, la nascita di Eros.
110
Sesto approdo
Lectio extra muros
Rappresentazioni d’identità.
Visita al Museo Vela a Ligornetto: il tema del Volto.
Settimo approdo
L’isola bio-genetica: “L’anatomia è il mio destino”
L’uomo neuronale (J-D.Vincent), “Il cervello bagnato”
Il “nucleo centrale fluttuante”, la dinamica dei fluidi tra cervello,
psiche e mondo, il “Sé sinaptico”, Genoma e “connectoma”.
Ottavo approdo
L’isola ontologico-esistenziale
“Vattene!” Viaggio, esilio ed esodo; Gilgamèsh, Abramo,
Odisseo, dall’Ulisse dantesco sino all’Ulisse di Joyce.
L’itinerario ontologico-esistenziale: “L’uomo in situazione”,
“dall’esodo, al racconto, alla storia”. L’uomo tra destino e
destinazione, il progetto.
Nono approdo
L’isola dei morti
Arnold Böcklin, 1879.
Il tema dell’angoscia esistenziale, identità e dimensione
tanatologica.
Decimo approdo
L’isola del racconto
Narrazione, identità narrativa
con Guenda Bernegger.
111
Undicesimo approdo
Lectio extra muros
Il Castello; il tema della notte, della caduta, dell’inciampo
e dell’aurora.
Dodicesimo approdo
L’isola della Cura
Identità, affettività e cura
Necessità ontologica della Cura, la Cura come asse
paradigmatico della pratica educativa. L’affettività come
struttura fondamentale dell’avere-cura.
Tredicesimo Approdo e fine del viaggio
“Mise en scène” del percorso del modulo.
3.2.3 Seminari esperenziali
a. atelier fenomenologico
b. autobiografia
c. corpo e teatro
d. fiabe
e. atelier antropologico
Testi di approfondimento
- Boella, L., Sentire l’altro, Raffaello Cortina, Milano, 2006.
- Demetrio, D., Raccontarsi, Raffaello Cortina, Milano, 1996.
- Douglas, M., Purezza e pericolo. Il Mulino, Bologna, 1996.
- Demetrio, D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina,
Milano, 2005.
- Bettelheim, B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1993.
112
I Seminari esperienziali
Atelier fenomenologico
Perché la scrittura? Come scrivere le proprie emozioni, come
raccontare i propri paesaggi emozionali, non basterebbe viverli?
Scrivere vuol dire tradurre, anche quando ci si immagina di creare
dal nulla la parola che appare sulla pagina di un foglio bianco.
L`operatore sociale è costantemente chiamato a questa opera di
traduzione del pensiero e degli affetti nel flusso intersoggettivo,
che l`incontrare suscita, un flusso da Se stessi all`Altro e viceversa.
Il seminario propone un viaggio partecipativo in forma di laboratorio attraverso alcune aree della vita affettiva a partire dalle quali
si costruiranno alcune “figurazioni rappresentative”, un pensiero
emozionante ed emozionato. Rimane la domanda perché scrivere,
non basterebbe fare?
Atelier di narrazione e scrittura autobiografica.
Nello svolgersi del tempo, nei mutamenti del corpo, nei cambiamenti dei pensieri e degli umori, nell’avvicendarsi gioioso o
drammatico degli eventi qualcosa resta irriducibilmente uguale a
se stesso, immutabile nel mutabile. A quel “qualcosa” viene dato
anche il nome di identità. Inafferrabile all’oggettivazione, si mostra con evidenza in un fenomeno quotidiano e umile: il ricordo.
Il laboratorio approfondirà le implicazioni esistenziali e formative del racconto della propria vita attraverso la sperimentazione in
prima persona delle tecniche che sostengono la narrazione orale e
scritta. Un incontro con il ricordo come luogo di costruzione di sé,
come strumento di ricerca, come pratica educativa, come stimolo
creativo per lo sviluppo di esperienze formative a misura dell’essere
umano.
Testo di riferimento: Demetrio, D., Raccontarsi: L’autobiografia
come cura di sé, Milano: Cortina, 1996.
Atelier d’esperienza corporeo-espressiva
In questo seminario si tratterà di incontrare, con la mediazione
113
dello spazio scenico teatrale, emozioni e situazioni affettive come
la gioia, il dolore, la tristezza, ecc.
Saranno momenti privilegiati dove affrontare l’imbarazzo legato
allo sguardo dell’altro e alla paura di sbagliare. D’altro canto però
sarà data l’opportunità di lavorare sulle proprie risorse attraverso
“la ricerca e l’osservazione dei dettagli”. Il seminario offre quindi
l’occasione per riconoscersi e rappresentarsi agli altri, mettersi in
relazione con il gruppo e con se stessi, interrogarsi sulle proprie
attitudini. Lo studente attraverso l’utilizzo della gestualità, della
voce e del corpo riconosce e identifica alcuni aspetti caratterizzanti
del proprio essere, della propria storia di vita che li rappresenta
mediante una breve messa in scena collettiva. Incontro, quindi,
con “ lo strumento corpo - voce “ per una riflessione sull’identità
dove dare spazio anche alla creatività.
Testo di riferimento: Mustacchi, C., Ogni uomo è un artista.
Roma: Meltemi, 1999.
Atelier fiabe
Le fiabe, i miti e le leggende, non sono proprietà esclusiva di
qualche mente particolarmente creativa ma si riferiscono ad un
modello che è comune all’umanità intera. Tutti possono trasformarsi ed immedesimarsi nel protagonista sincronicamente alla lettura di una fiaba, proprio perché l’autore e il protagonista, ovvero
l’archetipo, ha caratteri di universalità. La fiaba rappresenta uno
strumento di conoscenza di sé, del proprio mondo interno, delle
dinamiche della psiche che prendono la forma dei personaggi.
Per questo la fiaba si presta, con particolare plasticità, all’attività
di gruppo, ed è proprio il gruppo che si trasforma in amplificatore
dei contenuti della fiaba. L’utilizzo di fiabe per la formazione aiuta
il soggetto che ne entra in contatto, a familiarizzare con il proprio
mondo interno, a “codificarlo” e a comprenderne le dinamiche.
Le fiabe rappresentano uno strumento prezioso per i momenti di
passaggio e di criticità della vita, ma anche per momenti di riflessione identitaria e professionale soprattutto per chi è impegnato
nell’universo delle relazioni di aiuto, e la condivisione nel gruppo
diventa un ulteriore fattore di facilitazione all’accesso e all’appro114
fondimento dei contenuti proposti.
Nel gruppo fiabe il partecipante si rende conto di questa “attualità” dei temi proposti dalla fiaba sia nell’auto-osservazione che
nella partecipazione e nell’osservazione del gruppo e delle sue dinamiche. La fiaba anima la dimensione personale e quella collettiva.
Atelier antropologico
Il seminario approfondirà tre sfaccettature dell’identità dal punto di vista antropologico. Partendo dagli oggetti si incontrerà in un
primo momento l’identità personale e corporea. Si esploreranno
diversi modi di osservare il corpo, i segni corporei, gli accessori e
gli abiti. In un secondo tempo, sempre grazie al medium dell’oggetto, si analizzeranno l’identità di genere e le costruzioni sociali
delle differenze tra i generi. In conclusione, si cercherà di analizzare l’identità personale e sociale a partire dai concetti di “non-luogo” e di “luogo antropologico” di Marc Augé.
Questo percorso esplorerà queste tematiche grazie alla scrittura,
ad oggetti del quotidiano, ai testi di narrativa e scientifici e ad
itinerari nei luoghi.
115
3.3 Identità e alienità
Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi
Dedicatio
(cerimonia attraverso la quale una cosa veniva proclamata sacra)
A loro, ai folli,
a chi vive incatenato ai bordi dell’abisso,
a chi per un sogno arrischia di perdere la vita,
a chi per un’illusione o per una più vera verità smarrisce la vita,
a chi è spaventato dall’oscurità.
a chi teme la luce,
a chi vagabonda nelle terre desolate,
a chi soffre l’assordante rumore della battaglia,
a chi, posseduto dal furore, brucia nel proprio fuoco,
a chi non ricorda,
a chi non può smettere di ricordare,
a chi si porta dentro un deserto di pietra,
a chi sosta sulla frontiera senza trovare casa,
a chi vola nel vento e contro il vento sino alle cime delle più
alte montagne come fosse un uccello per poi cadere,
a tutti coloro a cui nessuno rivolge più la parola perché li
considera nessuno,
a tutti coloro che soffrono il dolore di un’anima ferita,
a tutti coloro su cui il destino ha giocato la sua crudele partita a dadi,
a tutti colori che ci aiuteranno a trovare noi stessi,
a tutte queste donne e a tutti questi uomini, che cercando
la nostra mano e la nostra ospitalità diverranno senza saperlo i
nostri veri “maestri”,
A tutti loro è dedicato questo nostro Modulo.
A loro, ai folli…
Graziano Martignoni
116
3.3.1 La lezione: epistemologia e clinica
Graziano Martignoni
La pazzia è veramente una malattia? Non è
soltanto una delle tante misteriose e divine
manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove
le emozioni sono più sincere e non meno vive?
I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere
umano e se qualcuno non li capisce non deve
sentirsi superiore.
Mario Tobino, 1953
Il fatto è che la psicopatologia è parte delle
scienze umane e come tale è interessata non ad
una sistematica della malattia mentale, bensì
all’individuazione di dispositivi antropologi, di
modelli di funzionamento della psiche umana, i
quali forse attraversano la salute e la malattia, e
certamente non sono confinati in singole forme
morbose ed hanno per scopo di articolare la
congerie delle esperienze interne di una persona
delineandole in un mondo. Gli organizzatori
psicopatologici sono cioè categorie generatrici di
senso, il cui scopo potrebbe essere d’iniziare,
avvicinare, stabilire un rapporto con un mondo
estraneo.
Ballerini, Stanghellini, 1991
Premessa
La psico-pato-logia come discorso sulla sofferenza e sulle passioni dell’uomo è evento storico-culturale, biologico, clinico-relazionale. È scienza culturale, che necessita di modelli epistemologici
ed ermeneutici. È l’ascolto di voci che vengono da quelle regioni
dell’uomo, che chiamiamo mondi psichici. Non è dunque mera
psicologia patologica ma soprattutto psicologia del patologico in
cui l’uomo esprime e soffre la sua mondanità e la sua trascendenza.
In questa sua molteplice determinazione e interconnessione appartiene alle questioni che legano simultaneamente mondo interno e mondo esterno, cervello e mente, corpo e psiche, individuo
e società. L’evento psicopatologico non è dunque pensabile al di
fuori dal suo ineludibile rapporto con il processo di civilizzazione e le sue procedure di disciplinamento della soggettività a cui
anche il lavoro sociale appartiene. L’evento psicopatologico non è
nemmeno pensabile al di fuori della sua intrinseca condizione di
relazionalità e di intersoggettività a partire da cui il mondo interno
117
del soggetto si forma e si fonda. L’evento psicopatologico non è
neppure pensabile al di fuori dalla dimensione clinica, dove abita
la Cura. L’evento psicopatologico non è infine pensabile al di fuori
dai luoghi del suo apparire sociale e dal suo frame eco-sistemico.
TEMI
LETTURE
Prima/Seconda stazione:
1. L’uomo malato: l’incontro con la
sofferenza e la dimensione della cura
dell’esistenza malata.
Incipit: La categoria di humanitas e di
officium al cuore della Cura; dall’alterità all’alienità; la crisi e la catastrofe
dell’identità; le sette premesse;
Lavoro sociale e follia, quale ruolo e
quale obiettivo?
Sofferenza, dolore, malattia; i modelli
della malattia;
L’etica della cura.
Bianchi, E. - Cacciari, M., Ama il tuo
prossimo, Il Mulino,
Bologna, 2001.
Foucault, M., Malattia mentale e psicologia, Cortina Milano, 1997, 8797.
2. L’uomo è abitato
e abita molti mondi!
3. La follia:
Che cosa vuol dire essere sofferente
nell’anima?
Terza/Quarta stazione:
1. “Il cannocchiale epistemologico”,
per un’“epistemologia ospitale”
Una questione di metodo;
Mappa psicopatologica: tra mappa e
territorio, tra verità e rappresentazione;
Che cosa è la psico-pato-logia? Il chiasma psicopato-logico;
Le dimensioni psicopatologiche: clinico-relazionale; biologica, semiologica, antropologica, sociale, storica,
fenomenologica, spirituale;
Comprendere, spiegare e intuire;
Epistemologia ospitale (differenza tra
epistemologia positivistica e fenomenologica)
2. Le ermeneutiche: sintomo, struttura, sistema, situema, fenomeno.
Il modello psicodinamico (struttura,
difesa, angoscia, inconscio);
Il modello antropo-fenomenologico
(Dasein, esistenza)
Il modello antropologico-etno-psicopatologico e altri …
118
Ionescu, S., 14 approches de la psychopathologie, Armand Colin, Paris,
2011.
Jaspers, K., Scritti psicopatologici.
Esplorazione, individuazione e cura
dei disturbi mentali, Alfredo Guida
Editori, Napoli, 2004.
Scharfetter, C., Psicopatologia generale. Una introduzione, Fioriti Editore,
Roma, 2004.
Quinta/Sesta stazione:
La dimensione storica:
Non vi è psicopatologia se non storica!
La psicopatologia non è neutra!
Chi e che cosa è normale o patologico,
malato, abnorme?
Follia, malattia e processo di civilizzazione;
L’Occidente e l’idea di normalità e
patologia (la dimensione sociologica,
antropologica, statistica, psichica della categoria della normalità)
L’asse della nominazione: follia, malattia mentale e mental disorder; follia-possessione e pre-modernità, malattia mentale e modernità, mental
disorder e post-modernità;
L’asse dei luoghi: l’“Asilo”, l’ambulatorio, il servizio, il territorio, la strada,
la casa. Settima/Ottava stazione:
Bergeret, J., La personalità normale e
patologica. Le strutture mentali, i caratteri, i sintomi, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1996, 14-30.
Civita, A., Introduzione alla storia
e all’epistemologia della psichiatria,
Guerini, Milano, 1996, Cap. 2, 55192.
Foucault, M., Storia della follia nell’epoca classica, Rizzoli, Milano, 1998.
Martignoni, G., L’archivio della follia.
DOS/OSC, 1997, 1-17.
La dimensione biologica
Cervello, psiche, mente e anima: che
cosa significa psichico? Psyché, Erlebnis, e storia e mondo;
Il “cervello bagnato”;
Topografia e anatomo-fisiologia della vita affettiva: il cervello, il “nucleo
centrale fluttuante”: la dinamica dei
fluidi tra cervello, psiche e mondo; Il
Sé sinaptico;
Dall’emozione alla lesione: la psicofisiologia delle emozioni.
Ionescu, S., 14 approches de la psychopathologie, Armand Colin, Paris,
2011.
Jaspers, K., Scritti psicopatologici.
Esplorazione, individuazione e cura
dei disturbi mentali, Alfredo Guida
Editori, Napoli, 2004.
Scharfetter, C., Psicopatologia generale. Una introduzione, Fioriti Editore,
Roma, 2004.
Nona stazione:
Film Diario di una schizofrenica, Nelo
Risi (Italia, 1968) e discussione
Sechehaye, M., Diario di una schizofrenica, Giunti, Firenze, 2000.
119
Decima/Undicesima stazione
La psicopatologia non è, se non clinica!
L’intersoggettività e l’incontro;
Gli existentialia: mondanità, temporalità, corporeità, spazialità;
Campi fenomenici: l’acuto, il reattivo,
il conflittuale, il periodico, il parossistico, lo stabile-cronico;
Le morfologie: conflitto, trauma, usura, carenza, mancanza;
I temperamenti: ciclotimico, schizoide, parossistico;
Dodicesima stazione:
1. Come costruire una diagnosi:
diagnosi psichiatrica, diagnosi psico-antropologica;
Le terapie e le “arti dinamiche”
Tredicesima stazione
Mise en scène
Passioni e follia. L’incontro con la tragedia
(Sofocle, Euripide, Eschilo ecc.).
120
Jaspers, K., Scritti psicopatologici.
Esplorazione, individuazione e cura
dei disturbi mentali, Alfredo Guida
Editori, 2004.
Sims, A., Introduzione alla psicopatologia descrittiva, Raffaello Cortina,
Milano, 2009, Cap. 23.
3.3.2 Seminari
TEMI
Seminario: le psicosi
LETTURE (consigliate)
Bergeret, J., La personalità normale e
patologica. Le strutture mentali, i caratteri, i sintomi, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1996, cap. 2 e 3.
Martignoni, G. (ed.), Il mondo psicotico, SUPSI - DSAS, 2013/14.
Pewzner, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi, Torino,
2002, cap. 4.
Tatossian, A., La Phénoménologie des
psychoses, L’Art du comprendre, Paris,
1997.
Seminario: le nevrosi
Bergeret, J., La personalità normale e
patologica. Le strutture mentali, i caratteri, i sintomi, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1996, cap. 2 e 3.
Manzocchi, O. (a cura di), Le nevrosi,
SUPSI - DSAS, 2013/14.
Pewzner, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi, Torino,
2002, cap. 5 e 6.
Seminario:
le organizzazioni limite
Bergeret, J., La personalità normale e
patologica. Le strutture mentali, i caratteri, i sintomi, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1996, cap. 1 e 4.
Caviglia, G. - Iuliano, C. - Perrella,
R., Il disturbo borderline di personalità, Carocci (Le Bussole), Roma,
2005.
Milani E. (ed.), Le organizzazioni limite, SUPSI - DSAS, 2013/14.
121
3.3.3 La tragedia
Programma
8.30 - 8.50
Prologo
A cosa serve leggere la tragedia?
Graziano Martignoni
9.00 - 9.30
Rappresentazione gruppo I
Tragedia Edipo Re, Sofocle 430 a.C.
9.40 - 10.10
Rappresentazione gruppo II
Tragedia Le Baccanti, Euripide 403 a.C.
10.20 - 10.50
Rappresentazione gruppo III
Tragedia Le Troiane, Euripide 415 a.C.
11.00 - 11.30
Rappresentazione gruppo IV
Tragedia Medea, Euripide 431 a.C.
11.40 - 12.10
Rappresentazione gruppo V
Tragedia Aiace, Sofocle 445 a.C.
12.20
Epilogo
Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi
12.35
Aperitivo
122
Quale miglior modo per concludere un Modulo incentrato sulle
sofferenze psichiche, se non quello di evocarle attraverso la potenza
e la profondità della tragedia greca?
Leggere e mettere in scena la tragedia ci permette di comprendere una dimensione della follia che non può essere appresa soltanto attraverso lo studio di teorie e di testi scientifici. La follia, che
sta al cuore non solo della malattia, ma soprattutto dell’esistenza
umana, ci offre una chiave di lettura dell’umano che abita ogni
uomo, come un fondale oscuro, un fiume carsico dall’antichità
ad oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tradimento, il cannibalismo,
il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte ecc. richiedevano allora
come oggi un “luogo” e una “parola” entro i quali essere avvicinati
e vissuti in una “giusta distanza”, che permettesse di vivere in prima persona la tragedia umana, senza per questo esserne travolti.
Questa era ed è la funzione catartica della tragedia, già individuata
da Aristotele e che ancora ai nostri giorni ci cattura e seduce.
Ornella Manzocchi e Graziano Martignoni
123
3.4 Fenomenologia del gesto di
“cura (psico)-educativa” nelle vicinanze della
“follia”. Spazi di cura e gesti di ospitalità
Graziano Martignoni e Lorenzo Pellandini
La follia, che sta al cuore dell’uomo, non solo come malattia,
ma soprattutto come cifra dell’esistenza umana stessa, ci offre una
chiave di lettura privilegiata di ciò che è umano nell’uomo. Essa
è come un fondale oscuro, un fiume carsico che ci interroga sin
dall’antichità. La psicosi ne è il suo teatro più radicale. Mette in
scena con il suo corteo di sintomi l’appartenenza ad altri “mondi”, che abitano tragicamente l’esistenza dell’uomo. Mondi che
parlano della loro radicale alterità, dell’abisso di immobilità e di
dismisura, che da sempre hanno evocato il divino e il demoniaco,
come forma del destino ma anche della possibilità di rigenerazione. I folli, e per chiamarli così bisogna amarli, hanno accesso, nella
nudità con cui si espongono al mondo-della-vita, ad una sorta di
“passaporto delle ombre”. Negare e cancellare le loro voci, le parole
di questi altri “mondi”, senza potervi dialogare e comprendere la
“prodigiosa riserva di senso”, come scrive Foucault, che contengono, è condannare il malato ad una doppia solitudine e ad una
doppia alienazione. Una condizione, quella del folle, che interroga costantemente il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi
smarrimenti, le sue ferite, le sue angosce, ma anche le sue sfide.
Un dialogo, che ha bisogno di luoghi, di gesti, di parole e di una
sensibilità insieme forte e tenera, capace di coglierne nell’“ordine
del cuore” (De Monticelli) il ritmo, le atmosfere, i paesaggi e i
frammenti di una parola interrotta, estranea, spesso irruente, violenta e bizzarra. Il Modulo cerca le parole di questo incontro, che
necessita di una ragione sensibile, come quella che abita la “cura
educativa”. Il Modulo si focalizza così attorno alla ricerca di una
vera e propria “fragile” fenomenologia del gesto di cura all’interno
124
di un modello di accoglienza e di cura della follia e della sua esistenza sofferente, malata, ferita e impoverita, che è quello proposto
dalla “psicoterapia istituzionale francese”, che ha influenzato anche
la cultura psichiatrica del nostro paese e delle sue istituzioni di
cura, per esplorarne gli intrecci e gli intrighi tra i mondi-della-vita,
che ci abitano e che abitiamo anche come curanti. Curanti, operatori di aiuto e di cura come “psiconauti” tra il mondo esterno e
il mondo interno e gli innumerevoli “altri mondi”, che la psicosi
evoca imprigionandoci, ma che anche a volte permette di attraversare facendoci “compagnia”.
125
3.4.1 Stazioni
Fenomenologia del gesto di cura all’incontro della “follia”
Il modello della psicoterapia istituzionale e comunitaria
Prima parte: aspetti storici
Il modello della psicoterapia istituzionale e comunitaria
Seconda parte; aspetti teorici e operativi:
La comunità, i luoghi e gli spazi
Parole-chiave per una fenomenologia del gesto di cura :
Atmosfera
Accoglienza e ospitalità
Predisporsi (être-déjà-là; être-là; être-encore-là)
Sostare
L’eterogeneità
La singolarità
Postura educativa in ambito psichiatrico: “orizzontalizzarsi”
e “passività accogliente”
Costellazioni
Il club; strumento o concetto?
La patoplastia istituzionale; la doppia alienazione
Gli oggetti mediatori, come trovarli nella quotidianità? Possono essere
attraversati dalla passione?
L’istituzione come “organismo vivente”. Note di psicologia istituzionale
Trasversalità, terziarità, transizionalità
L’opera e il progetto
Per una fenomenologia della cura educativa: costruzione di una
mappa per la navigazione
126
3.5 L’origine
Dalla nascita alla scoperta di sé e dell’Altro
Ornella Manzocchi
Dì tutta la verità ma dilla obliqua il successo è nel cerchio sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia
la superba sorpresa del vero Come il lampo è accettato dal bambino
se con dolci parole lo si attenua così la verità può gradualmente
illuminare - altrimenti ci accieca Emily Dickinson, 1129
- Questo non lo posso credere, - disse Alice.
- No? - disse la Regina in tono di compatimento
- Provatici. Fa un respiro lungo, e poi chiudi
gli occhi.
Alice si mise a ridere.
- È inutile che mi ci provi, - ella disse - non si può
credere alle cose impossibili.
- Forse non hai la pratica necessaria, - disse la Re gina. - Quando io avevo la tua età, m’esercitavo
per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte credevo
nientemeno che a sei cose impossibili prima della colazione …
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, 1871
Cuore di questo modulo, denominato nel curriculum formativo
Prima infanzia e Nido, è l’intreccio saldo fra contenuto e metodo,
che permette agli studenti di vivere costantemente la tensione fra
i poli del
fare
conoscere
sapere
sentire
comprendere
127
Questi tre vertici intrecciandosi costantemente caratterizzano
la trama e l’ordito grazie ai quali prende forma il contenuto del
modulo. Un contenuto che si sostanzia grazie ad attività che permettono allo studente:
a. di riflettere sulla relazione fra identità personale e identità
professionale;
b. di sviluppare la capacità di immaginare, pro-gettare, attuare e
riflettere sul piano della prassi;
c. di prendersi cura da una lato della passione e dall’altro della
capacità di studio sul piano squisitamente teorico.
La tensione fra questi tre poli prende forma grazie ad attività che
si configurano come:
1. laboratorio esperienziale sullo sviluppo della conoscenza e
2.
3.
128
consapevolezza del proprio personale stile cognitivo, relazionale e esperienziale affrontato grazie ad un percorso personale
che si articola fra tre piani dell’esistere: biografico, relazionale,
creativo;
lavoro sul campo affrontato come:
a. esperienza diretta di una relazione con un bambino. Una
relazione che si snoda incontro dopo incontro con particolare
attenzione ai dettagli del prima, del durante, del dopo i singoli
incontri e con un occhio attento a tutta l’esperienza nella sua
globalità;
b. esperienza tesa a permettere ai soggetti di rimanere in relazione
con un buon grado di soddisfacimento reciproco;
c. possibilità di immaginare, pensare, pro-gettare, svolgere,
ri-pensare, condividere e narrare sotto forma di scrittura un percorso relazionale;
d. esperienza che favorisce la presa di consapevolezza delle
proprie capacità e delle proprie fragilità nel sapere mantenere
in vita una relazione con un bambino. Un’esperienza che vuol
favorire la capacità critica dello studente nei confronti della
dinamica relazionale che man mano si va sviluppando.
la teoria della prassi avvicinata e approfondita grazie a mo
menti diversificati nel corso dei quali verranno affrontati:
a. la messa in comune delle proprie esperienze sul campo nei
momenti settimanali di confronto in gruppo, seguendo la
modalità di una supervisione in gruppo;
b. la visita assistita presso nidi d’infanzia, arricchita dalle
riflessioni e discussioni animate dalle responsabili delle
strutture;
c. l’incontro e le riflessioni con operatori sociali o studiosi e
ricercatori impegnati direttamente sul campo della prima
infanzia o nello studio di aspetti esistenziali che riguardano la
prima infanzia;
d. l’elaborazione di un protocollo che raccoglie la narrazione
del percorso relazionale svolto con un bambino, affrontato sia
dal punto di vista della prassi che da quello della teoria;
e. due giornate esperienziali dedicate al tema dell’origine della
vita e del nascere, svolte in una regione montana che
permetterà di affrontare sia da un punto di vista strettamente
corporeo che da uno squisitamente mentale e infine
intellettivo una dimensione regressiva, di nascita, di cesura,
meditativa, di condivisione sul piano esperienziale e su quello
simbolico-rappresentativo e riflessivo;
f. l’approfondimento teorico riguardante lo sviluppo
psico-affettivo della prima infanzia attraverso le lezioni e le
presentazioni-discussioni di letture.
129
3.5.1 Incontri
Incontri
Contenuti
1
Percorso personale.
Riflessione teorica: dalla scissione all’integrazione, attraverso la
ricerca e la costruzione del primo rapporto oggettuale (Freud
A., Klein, Winnicott). Video Umberto Galimberti, Le mappe
emotive.
Presentazione modulo.
2
Percorso personale.
Riflessione teorica: teorie delle origini, a) lo sviluppo dell’apparato mentale fra costruzione di significato e ricerca di senso,
b) il codice affettivo (Bion, Klein, Fornari, l’oscillazione da PS
a D e viceversa, la relazione contenitore contenuto, il codice
affettivo).
Prima supervisione in gruppo.
Come “abitare” la biblioteca DSAS.
3
Un contributo di Angela Paulon responsabile del Nido per l’infanzia di Germignaga: accogliersi, separarsi, ricongiungersi fra
Nido e Famiglia.
4
Alla biblioteca cantonale di Lugano un contributo di Luca Saltini, Dott. PhD, Storico Collaboratore scientifico, Responsabile dell’attività culturale della Biblioteca cantonale di Lugano in
Viale Carlo Cattaneo 6: Storia ticinese del Novecento, Sanità e
infanzia nel Ticino del Novecento.
5
Un contributo di Susanna Mantovani, Pro-rettore e professore
ordinario di pedagogia generale e sociale all’Università di Milano Bicocca, Dipartimento di scienze umane per la formazione “Riccardo Massa”: Una riflessione critica attorno al tema
dell’accoglienza, alla luce dei cambiamenti sociali.
6
Visita al Nido per l’infanzia della Supsi, con un contributo della
responsabile Elena Giambini: la costruzione della giornata tipo,
il progetto educativo e le attività proposte in relazione allo sviluppo psichico del bambino.
Percorso personale.
Seconda supervisione in gruppo.
7
Un contributo di Claudio Mustacchi docente ricercatore
SUPSI-DSAS: L’architettura per l’infanzia a partire dal punto
di vista di alcune figure pedagogiche importanti.
Percorso personale.
Terza supervisione in gruppo.
130
8
Un contributo di Camilla Leoni licenziata in antropologia, assistente SUPSI-DSAS: L’infanzia dall’antichità ai nostri giorni,
i bambini nella storia.
Percorso personale.
Presentazione testo: Pedagogia al Nido, dal primo al settimo
capitolo.
Quarta supervisione in gruppo.
9
Un contributo di Elisa Milani licenziata in psicologia, assistente
SUPSI-DSAS: La vita del bambino prima della nascita e la psicopatologia materna nel periodo perinatale.
Percorso personale.
Presentazione testo: A piccoli passi, cap. II, IX, X, XII, XIII,
XIV, XV, XIX.
Quinta supervisione in gruppo.
10
Visita al Nido Il Trenino in Via Ronchetto 16A, Lugano, con
un contributo della Responsabile Chiara Martignoni: come
nasce un Nido e come si costruisce la propria identità professionale.
11
Presentazione delle giornate alle Grotte con Lorenzo Pezzoli.
Percorso personale.
Riflessione teorica: Il primo anno di vita dall’oggetto transizionale ai fenomeni transizionali in una espansione da gioco a
cultura (Winnicott).
Presentazione testo: Persone da zero a tre anni, dal primo al
settimo capitolo.
Sesta supervisione in gruppo.
12
Percorso personale.
Riflessione teorica: aver cura attraverso la comprensione del
funzionamento mentale caratterizzato da proiezioni, identificazione proiettiva, rêverie, empatia (Klein, Bion, Boella, Speziale-Bagliacca).
Presentazione testo : Persone da zero a tre anni, dall’ottavo al
quindicesimo cap.
Settima supervisione in gruppo.
13
Percorso personale.
Riflessione teorica: le linee di sviluppo del bambino (A. Freud).
Presentazione testo: Attaccamento e inserimento, dal primo al
quinto capitolo.
Ottava supervisione in gruppo.
14
Giornate alle Grotte Europa e Caverna Buco del Corno.
Tema : L’origine, la nascita, la condizione del nascere.
131
3.6 Cura educativa e sofferenza psichica
3.6.1 Pratiche di intervento educativo
Incontrare il folle e la sua follia: dove,
quando, come?
Graziano Martignoni e Lorenzo Pezzoli
“J’appelle formations et processus intermédiaires
les formations et des processus psychiques de
liaison, de passage d’un élément à un autre, soit
dans l’espace intrapsychique (formation de com
promis, pensée de liaison, moi, métaphore ...),
soit dans l’espace interpsychique (médiateurs,
représentants, délégués, objets transitionnels
porte-parole ...), soit dans l’articulation entre ces
deux espaces”.
(R. Kaës, Le groupe et le sujet du groupe, 1993, p. 231)
Obiettivi :
L’uomo folle abita ed è abitato da un doppio spazio, quello determinato dal suo mondo interiore e quello dal mondo sociale determinato storicamente. Questo suo doppio abitare determina la
fenomenologia del suo disagio psichico ed esistenziale e le strategie
relazionali e di cura che si sono di volta in volta costruite attorno a lui. Abita nello stesso modo una sempre diversa temporalità che dall’acuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge
sino alla cronicità. Le nominazioni del suo esistere come malato
sono mutate nel percorso per ridargli una cittadinanza perduta,
ma nello stesso tempo a volte per cancellare la verità che la sua
follia contiene. Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che determina gli assi portanti di questa costruzione e rappresentazione
sociale. È in questa condizione di frontiera che vengono a determinarsi le diverse strategie relazionali. Incontrare la follia con uno
sguardo orientato alla cura psico-educativa (C.Palmieri, L. Mortari,
E.Borgna) vuol dire incontrare da una parte la singolarità di ogni
condizione esistenziale soggettiva e psicopatologica insieme (mai
132
del tutto omologabile ai codici di classificazione), ma anche fare i
conti con il territorio che ne determina il quadro concreto e le sue
scelte legislative e organizzative.
Il Modulo vuole esplorare le modalità operative delle pratiche di
cura educativa nei confronti della sofferenza e del disagio psichico
e psicosociale. Il vertice oscilla tra le categorie dell’intersoggettività
e quelle dell’istituzionale, come del territorio. Luoghi di pensieri,
parole e gesti in cui realizzare sul campo il progetto di cura educativa e quindi la funzione e il ruolo specifico dell’operatore sociale
nell’ambito delle équipes pluridisciplinari. L’uomo folle abita uno
spazio nel mondo psichico e nel mondo sociale determinato storicamente. Questo suo abitare determina la fenomenologia del suo
disagio psichico ed esistenziale e le strategie relazionali e di cura
che si sono di volta in volta costruite attorno a lui e alla sua follia.
Abita nello stesso modo una sempre diversa temporalità che dall’acuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge sino alla cronicità. Le nominazioni del suo esistere come malato sono mutate
nel percorso per ridargli una cittadinanza perduta ma nello stesso
tempo a volte per cancellare la verità che la sua follia contiene.
Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che determina gli assi
portanti di questa costruzione e rappresentazione sociale. È di questo molto concreto disegno che il Modulo vuole parlare con uno
sguardo particolarmente orientato al nostro territorio e alle nostre
scelte legislative e organizzative. Un secondo livello di riflessione
verterà sugli elementi di specificità della cura educativa in ambito
psichiatrico e psicosociale costruendo una sorta di microfenomenologia dell’agire educativo.
133
Itinerario in dieci soste :
Prima sosta: L’esistenza in bilico, “Non tutte le relazioni sono
un incontro”
1. Che cosa significa educare di fronte alla follia?
2. Come incontrare la follia? Le forme della razionalità
3. Il pensiero melodico (M. Zambrano)
4. Dove incontrarla? Gli spazi di vita e di cura;
5. Che cosa incontrare? La malattia, il disagio, la sofferenza,
l’alienità, la diversità, l’anormalità, l’estraneità, la stranierità;
6. Quando incontrarla? I tempi dell’incontro: l’acuto, il cronico,
il periodico, il parossistico, lo stabile …
Seconda sosta : Vivere l’“avec” schizofrenico
Terza sosta: Abitare l’“entre” (il “fra”; l’intermediario, l’interstiziale)
Quarta sosta: Il dilemma dello sguardo
Quinta sosta: Corpo a corpo
Sesta sosta: L’“armonia mundi” tra caos e cosmo, il tema del ritmo
Settima sosta: Il “contatto”, con-tatto , “Takt”
Ottava sosta: L’evento e la storia
Nona sosta: L’ atmosferico
Decima sosta: Ogni relazione è una relazione etica. Etica e gesto
di cura.
134
3.7 Cura di sé e cura dell’Altro:
il percorso di supervisione
Ornella Manzocchi e Graziano Martignoni
Introduzione
Il testo che segue corrisponde al regolamento interno al nostro
dipartimento, per quanto attiene al percorso di supervisione formativa. Il testo presentato nei capitoli che vanno da 3.6.1 a 3.6.5
viene consegnato sia agli studenti e che ai supervisori per orientarsi
rispetto a questo tema e alle regole interne al nostro dipartimento,
per la supervisione formativa. Il testo presentato nei capitoli che
vanno da 3.6.6 a 3.6.8 riguarda un’estensione dei concetti presentati succintamente nel regolamento interno della supervisione
formativa. Infine il testo presentato nell’ultimo di questi capitoli (3.6.9) dedicati alla supervisione formativa, è la testimonianza
dello svolgimento di due percorsi di supervisione formativa svolti
con due nostre studentesse secondo il pensiero che sostiene questo
nostro percorso di supervisione formativa della SUPSI.
3.7.1 Premessa
La supervisione formativa è un elemento importante del processo
di formazione dell’operatore sociale. Da essa si dipana il filo rosso
che nella formazione lega tra loro la dimensione dell’essere di fronte all’Altro e quella dell’azione e del progetto.
La supervisione guida il candidato nella relazione, riproducendo
“en miroir” (tra supervisore e candidato) l’esperienza relazionale
tra operatore e utente. La supervisione è inoltre exemplum di una
modalità di lavoro in cui, nella pratica dell’incontro intersoggettivo e collettivo, la dimensione affettivo-simbolica si affianca e completa quella pratico-cognitiva.
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“Una centralità che appartiene sia alla specificità del lavoro sociale di aiuto e di cura come esperienza di ‘presenza’, di esposizione
e di progettualità nei confronti all’Altro, sia a quella che lo vede
‘mediatore sociale’, capace di negoziazione nei confronti delle molteplici agenzie sociali e coordinatore della progettualità individuale
nell’ambito del mondo produttivo e culturale”.
La supervisione si occupa degli affetti, delle emozioni e delle
fantasie che si sviluppano nella relazione (amore, odio, aggressività, invidia, seduzione, noia, indifferenza, ecc.), così come dei sentimenti di onnipotenza, di impotenza e di colpa, che la relazione
con l’Altro mette in scena. Essa si interessa ai vissuti che nascono
nel lavoro di gruppo (confronto con l’autorità, rivalità fraterna,
conflitti tra fedeltà e trasgressione) e alle esperienze identitarie legate all’essere operatore sociale in azione.
3.7.2 Modalità della supervisione
La supervisione è di regola centrata sull’analisi del “caso” e/o del
“frame” sociale, culturale famigliare e istituzionale in cui la relazione prende forma e contenuto. La supervisione orienta il suo sguardo verso le dinamiche relazionali intersoggettive, gruppali e istituzionali, che la relazione di aiuto, di cura o di progetto suscita e da
cui è influenzata. Le vicissitudini personali evocate dal candidato
sono sempre piegate nel contesto della relazione con l’utente o con
il gruppo. La supervisione formativa non affronta direttamente le
problematiche psichiche individuali del candidato.
Per gli studenti del curricolo a tempo pieno il percorso di supervisione formativa nella sua specificità esperenziale e introspettiva
avrà momenti individuali e in gruppo. Per gli studenti del curricolo parallelo all’attività professionale (PAP) essa avviene unicamente
nella formula individuale. In entrambi i casi essa avrà quale orizzonte la crescita identitaria del candidato nelle diverse dimensioni
personali, etiche e relazionali. Il supervisore occupa così un ruolo
specifico e discreto nel triangolo formativo costituito dal supervisore, dal docente di laboratorio di pratica professionale e dal responsabile pratico interno alle varie istituzioni di lavoro.
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La supervisione dovrà perlopiù guidare il candidato nell’esperienza relazionale, di cui è attore durante lo stage per quanto attiene agli studenti del tempo pieno. Per il PAP essa si realizzerà lungo
l’intero percorso formativo e avrà una stretta attinenza con la realtà
professionale in cui lo studente lavora.
Compito della supervisione è di offrire ai candidati un’esperienza di conoscenza di Sé tramite e attraverso l’incontro con l’Altro
(chiamato di volta in volta utente, paziente, ospite, residente e
persino cliente). Nell’esperienza di supervisione formativa in gruppo questo Altro diviene anche il partecipante e i partecipanti del
gruppo stesso con funzione di confronto, di delimitazione identitaria e di rispecchiamento.
3.7.3 Obiettivi della supervisione
• Prendere confidenza con gli affetti, le emozioni e le fantasie
suscitate dalla relazione con l’utente, sapendo distinguere il proprio dall’altrui;
• sviluppare le capacità di empatia e di identificazione;
• riconoscere le controattitudini e gli “agiti” che il processo relazionale provoca;
• aprirsi alla molteplicità dei “punti di vista” sul “caso” o sulla
situazione;
• comprendere i propri limiti e le risorse dell’utente e del gruppo, così come le possibilità e i limiti invalicabili della relazione
stessa;
• individuare gli ostacoli relazionali alla realizzazione di un progetto di lavoro sociale e apprenderne le modalità di risoluzione
nell’ambito intersoggettivo e collettivo;
• riconoscere e fare esperienza delle dinamiche gruppali, dei loro
conflitti e riconoscere le potenzialità e gli impedimenti che il gruppo suscita e svela nell’individuo e nell’azione;
• riconoscere e fare esperienza delle risorse del gruppo come
organizzatore del pensiero e come generatore di un possibile progetto condiviso;
• vivere il gruppo come spazio del confronto etico.
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3.7.4 Organizzazione e tempi della supervisione
Per gli studenti a tempo pieno, la supervisione formativa prevede, nel corso dei tre anni, una supervisione individuale e una
supervisione in gruppo.
La supervisione individuale intende centrarsi soprattutto sul piano della maturazione identitaria personale rispetto alla scelta professionale e alle prime esperienze di pratica professionale.
La supervisione in gruppo si focalizza in particolare sull’identità
professionale nelle sue dimensioni personali, istituzionali e relazionali.
Essa avviene in concomitanza con l’iscrizione all’opzione educatore, rispettivamente assistente sociale. Si realizza mediante 7
incontri di 2 ore per seduta.
Per gli studenti del curricolo PAP la supervisione è a carattere
solo individuale e si svolge a partire dal III semestre. Essa comporta per ciascun studente 20 sedute di 1 ora cadauna da concludersi
entro la fine dell’ultimo semestre.
3.7.5 Programma
Secondo semestre:
Due pomeriggi di formazione in vista dell’inizio della prima
esperienza di supervisione che si svolgerà in forma individuale. I
due pomeriggi corrispondono a due lezioni frontali tenute dai responsabili di modulo. Vengono trattati in questa sede i rudimenti della supervisione, ossia, una breve parte storica; il senso della
pratica discorsiva, narratologica che si snoda fra supervisionando e
supervisore con al cuore i temi riguardanti l’identità professionale
dell’operatore sociale; il processo, il setting, le trasformazioni, che
la supervisione mette in campo.
Per gli studenti a tempo pieno la supervisione si comporrà di 10
incontri e avrà luogo durante il corso del primo stage. Per gli studenti del cours en emploi la supervisione si comporrà di 20 incontri
e avrà luogo durante il corso dell’intera formazione. Per gli studenti a tempo flessibile la supervisione si comporrà di 14 incontri e
avrà luogo durante il corso degli stages.
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Quarto semestre:
Due pomeriggi di formazione a seguito dell’esperienza di supervisione individuale, nel corso dei quali gli studenti condivideranno
con i colleghi di corso e i responsabili di supervisione, l’esperienza
di cui hanno fatto tesoro durante i dieci incontri di supervisione
individuale. Prendendo spunto dalle loro particolari e variegate
esperienze verranno ripercorsi i temi al cuore della supervisione. In
particolare: le modalità di analisi del caso o del frame sociale, culturale, famigliare e istituzionale in cui la relazione ha preso forma;
l’esperienza “en miroir” che nel corso degli incontri di supervisione
ha preso forma; la possibilità di usufruire di una relazione professionale privilegiata che ha funto da exemplum di una possibile
modalità di lavoro; la messa in gioco della propria persona (biografia e auto-biografia) nell’incontro di supervisione che dovrebbe
rappresentare la congiunzione fra saggezza, sapienza e competenza.
Quinto semestre:
Un pomeriggio di formazione tenuto da un relatore esterno su
di un tema particolare legato all’esperienza della pratica di supervisione che nel corso del sesto semestre verrà ampliata permettendo
agli studenti di sperimentare una forma di riflessione professionale
ampiamente diffusa nelle istituzioni: la supervisione in gruppo.
Temi di fondo quali il nesso fra sapienza, saggezza e competenze;
la relazione fra pratica biografica, auto-biografica e riflessione oggettivante, senso e pratica della supervisione in ambito sociale ecc.
saranno affrontati di anno in anno.
Per gli studenti a tempo pieno la supervisione in gruppo si comporrà di 7 incontri e avrà luogo durante il corso del secondo stage.
Gli altri studenti del cours en emploi e del tempo flessibile svolgeranno la supervisione solo in forma individuale.
Sesto semestre:
Due pomeriggi di formazione durante i rientri del secondo
e ultimo stage che aprono alla riflessione congiunta fra tutti gli
studenti sia educatori che assistenti sociali. Nel corso di questi
incontri la presentazione di casi problematici affrontati durante
la pratica di stage permetterà di arricchirsi e “contaminarsi” reciprocamente così che il cuore pulsante dell’educatore, tanto vicino
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alla quotidianità dell’ospite possa nutrirsi della pratica sia organizzativa che riflessiva dell’assistente sociale e viceversa. I pomeriggi
saranno condotti dai responsabili di modulo con la partecipazione
attiva di un supervisore, di un docente di laboratorio educatori e di
un docente di laboratorio assistenti sociali. Questo permetterà agli
studenti di correlare e differenziare i contributi che in forma diversificata concorrono alla formazione della loro identità professionale, potendo leggere, comprendere e trasformare una situazione
valutandola dal punto di vista della riflessione sul proprio modo di
sentire, pensare, agire (supervisione), sulle pratiche adottate (laboratorio di pratica professionale) sui modelli di riferimento (lezioni
teoriche) ed infine sulle azioni intraprese (responsabile pratico).
La cura
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente
attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore,
dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce
per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te.
Vagavo per i campi del Tennessee
(come vi ero arrivato, chissà).
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni
attraversano il mare.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza.
I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
Ti salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te …
io sì, che avrò cura di te.
F. Battiato
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3.7.6 Il setting in supervisione formativa
Ornella Manzocchi
La supervisione formativa è quella particolare esperienza di condivisione che prende forma attraverso il lavoro di conciliazione fra
atto e parola.
In supervisione formativa lavoriamo infatti grazie ad un medium, la parola. La supervisione formativa potrebbe dunque essere
correttamente definita un atto di parola, una pratica discorsiva.
In supervisione formativa non ci occupiamo dunque di evidenziare o di certificare una verità, bensì di fare tesoro della capacità
di riconoscere l’errore, nel senso dell’erranza nella pratica professionale. Nella supervisione formativa facciamo pratica discorsiva e
siamo “lontani” fisicamente e temporalmente dalla pratica quotidiana della professione. Ciò di cui ci occupiamo è la parola, come
racconto della pratica quotidiana e dei vissuti ad essa correlati. La
cura e il trattamento, che in supervisione formativa dovremmo
e possiamo garantire a questo racconto va nell’ordine dell’”interpretazione”, sia da parte di chi narra (il supervisionando “sceglie”,
consapevolmente o inconsapevolmente, cosa e come narrare ciò
che narra, guidato dalle proprie emozioni, dal proprio sapere, dalla
propria storia ecc.) sia da parte di chi accoglie, ascolta e partecipa alla costruzione di una nuova visione (l’ascolto del supervisore
formativo è sempre filtrato dalla sua sensibilità, dal suo modello
teorico di riferimento, dalle sue emozioni ecc.). Risulta dunque
piuttosto chiaro che la supervisione formativa appartiene all’area
del pensiero debole, del pensiero della verosimiglianza e non della
verità.
La supervisione formativa si svolge e si sviluppa dentro l’ordine
del giorno, quello in cui noi ci confrontiamo principalmente con
lo spazio esterno, quello che ci permette di mettere in scena un
copione che riguarda ad esempio lo spazio pubblico entro il quale
si dispiega il mandato istituzionale dell’operatore sociale.
Ma la supervisione formativa, pur svolgendosi e sviluppandosi
dentro l’ordine del giorno, grazie al suo specifico setting che favorisce la regressione pur contenendola e limitandola, ci permette di
avventurarci e confrontarci con il nostro spazio mentale interno,
con la nostra affettività, con i nostri vissuti passati e futuri, ecc. Lo
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specifico setting della supervisione formativa favorisce nella coppia
supervisore-supervisionando l’assunzione chiara di ruoli asimmetrici, garantendo la possibilità di esplorare luoghi non solo esterni
pertinenti all’ordine del giorno, ma pure luoghi interni pertinenti
all’ordine dell’interiorità.
La supervisione formativa non si prende cura del disagio di vivere che l’interiorità del candidato mette in scena, ma del suo disagio
nell’incontrare l’alterità nel mondo del giorno, quando questa rimanda subitaneamente e lo riporta imprescindibilmente alla propria personale e intima alterità.
Il supervisore grazie alla cura del setting dovrebbe mantenere la
dimensione regressiva della supervisione formativa in un costante
clima di speranza che la avvicina molto alla funzione del contenimento materno, alla relazione materna. Il supervisore, come la
madre, avverte l’urgenza e la necessità che il candidato esprime
narrando le proprie esperienze professionali le quali trasformano
subitaneamente quell’incontro in una condizione di condivisione
irripetibile e personalizzata.
La risposta al bisogno così espresso si configura attraverso l’attenzione a un setting denso di rigore e nel contempo di flessibilità.
Condizioni queste che garantiscono l’integrità del supervisionando e del supervisore, indipendentemente dalle modalità e dai contenuti del gioco di narrazione che fra i due si va via via intessendo.
Il setting o quadro è quella qualità della relazione di supervisione formativa che se perturbata richiede subito una donazione
di senso essendo questa un’esperienza con alto tasso di significato.
Non sono in sé e per sé la perturbazione o l’errore nel setting che
creano problema, quanto la loro mancata investitura di pensiero e
parole, il loro abbandono nel non detto, nel non senso condiviso.
La regola in supervisione formativa non ha importanza in sé, ma in
quanto esperienza di condivisione; la regola infatti non si discute,
ma eventualmente la si contraddice aprendo il discorso al senso di
questo perturbamento o errore.
Riferendoci in modo particolare all’esperienza della perturbazione del setting, sia esso agito dal supervisionando o dal supervisore, va tenuto conto del fatto che oggi, più che di perturbamento
o attacco al setting varrebbe la pena di parlare, con Simona Argentieri, di sfilacciamento o di erosione del setting, in un quadro
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culturale che vede i riti, soprattutto quelli basilari di passaggio,
decadere progressivamente. Il rito o setting sono quella particolare
struttura che risponde al nostro bisogno di identità, di appartenenza, di comunità. Oggi questi bisogni vengono meno o sono
meno riconosciuti, ne consegue dunque l’indebolimento, lo scioglimento, il rimescolamento delle strutture di pensiero e di azione
che si ponevano a guardia e garanzia di risposte adeguate e facilitanti il passaggio ad un più raffinato e strutturato senso di identità
e di appartenenza.
Con la supervisione formativa ci troviamo nell’ordine di una
relazione fra domanda e risposta. In un percorso di psicoterapia la
parola è declinata nel mondo interno. In un percorso di consulenza la parola è declinata nel mondo esterno. In un percorso di supervisione formativa la parola è declinata nel mondo intermedio,
quello che lambisce tanto il giorno quanto la notte, è intessuta di
Imago e Fantasmi oltre che di Immaginazione e Pensieri, veicola e
mostra i sottesi meccanismi difensivi.
La parola condivisa in supervisione formativa attiva un processo a partire dalla scintilla dell’emozione. Il supervisore usa la
parola nell’ordine del cognitivo che rinvia ad un pattern d’azione
che mette in campo una trasformazione la quale a sua volta mette
in campo nuovi pattern d’azione. Lo psicoanalista usa la parola
nell’ordine del fantasmatico. Più la parola agisce tonificando l’emozione, più entriamo nell’ordine dei sentimenti. La supervisione formativa si misura proprio su questo terreno, come un vaso
comunicante che permette il mescolamento delle emozioni e dei
vissuti fra ospite, supervisionando e supervisore. Si tratta in definitiva di una vera e propria messa in malattia affinché avvenga una
trasformazione nell’ordine del professionale.
La supervisione formativa permette al candidato di narrare e di
mettere in scena ciò che avviene nel suo mondo interiore a seguito
dell’impatto professionale, aiutandolo ad evitare il passaggio all’atto fatto di fantasmi e imago vissuti come pericolosi e dolorosi, grazie alla simbolizzazione. La trama simbolico-narrativa diviene dunque la garante della capacità di non passare all’atto. L’esperienza di
supervisione formativa permette dunque al candidato di affrontare
le emozioni legate alla vita professionale con il corollario di difese
psichiche che queste suscitano: idealizzazione, banalizzazione, de143
vitalizzazione, negazione e proiezione ecc. Lo spazio strutturato e
regolato della supervisione formativa, grazie alla cura del setting,
permette al candidato di avvicinarsi a queste dimensioni psichiche
mirando, con l’aiuto del supervisore, all’integrazione fra pratica
e teoria, affinché quella particolare situazione relazionale che noi
chiamiamo supervisione formativa, si svolga in una condizione il
più possibile favorevole allo sviluppo di una relazione declinata
secondo criteri costruttivi occorre predisporre un contenitore, un
quadro o un setting che favorisca questo stato di cose.
Il setting sta alla costruzione di un sapere condiviso come l’ordito e la trama stanno al tessuto. Dunque il nostro setting è un
dispositivo che crea ordine (trama e ordito) là dove apparentemente regna il caos (matassa di fili). Il setting è il garante della possibile riuscita anche e soprattutto là dove le difficoltà rischiano di
sabotare il lavoro. Il setting è dunque una specifica modalità di
contenimento della parola detta ed ascoltata. Alcune modalità di
contenimento messe in gioco nel setting di supervisione formativa
sono in particolare: la disposizione mentale, lo spazio, il tempo, le
regole, la capacità di essere pazienti, la capacità di stare in uno stato
di sospensione, la capacità di meravigliarsi e lasciarisi sorprendere,
la capacità di andare alla ricerca di un fatto scelto che offra senso
al discorso (coerenza, nesso logico, comprensione), il desiderio di
ascoltare, il desiderio di narrare, il rigore, la flessibilità, la costanza.
La supervisione formativa è dunque un’esperienza di rimessa in
forma della parola. Attraverso un rapporto “pensoso” con le parole
narrate e ascoltate, il candidato si confronta in modo costruttivo
con l’inadeguatezza delle parole rispetto al senso dell’esperienza
che vuol narrare, condivide con il supervisore l’esperienza di dolore mentale che questa inadeguatezza comporta, costruendo incontro dopo incontro la propria identità professionale e rafforzando
quella personale. Potremmo dire che la supervisione formativa
permette al candidato di costruire e imparare ad utilizzare in modo
corretto la propria bussola interiore professionale.
Il setting è quel dispositivo mentale e spazio-temporale che ci
sostiene permettendo al nostro lavoro di proseguire anche quando
le condizioni si fanno difficoltose a causa di interferenze dovute
al desiderio di evitare il dolore mentale causato dal confronto e
dalla condivisione. Quando la condivisione ci getta in uno sta144
to di sconforto poiché ci sentiamo perseguitati dalla depressione
o depressi dalla persecuzione e minacciati nella nostra identità,
dobbiamo mantenere la capacità di diventare nello stesso tempo
sufficientemente nomadi e sufficientemente disidentici rispetto a
noi stessi e al nostro sapere senza smarrirci confusamente nei meandri dei sentimenti depressivi o paranoici. In queste condizioni
tempestose il setting, se predisposto con autenticità e umiltà, viene
in nostro soccorso offrendoci appunto un quadro, e come tale dei
limiti entro i quali fluttuare da un granitico senso di identità ad un
inquietante senso di disidenticità, senza smarrirci e senza andare
a pezzi, operando quella che i biologi chiamano osmosi e che noi
chiameremmo elaborazione, integrazione delle parti in gioco.
Il setting è dunque uno spazio mentale e fisico entro il quale
è possibile svolgere un incontro di supervisione formativa. Entro
questo prezioso spazio, entro i confini che esso traccia con chiarezza, ci è relativamente gradevole evidenziare una peculiarità del nostro agire. Questa particolare pratica discorsiva è costituita in larga
misura dal “lavoro del pensiero” che possiamo immaginare come
una bussola che guida la nostra attenzione e la nostra sensibilità
verso il “qui e ora” con constante tensione rivolta al “come” più
che al “cosa” andiamo ascoltando, pensando, desiderando, progettando, facendo. Il nostro viaggio in supervisione formativa trova
dunque la sua guida, la sua bussola nella nostra capacità di riferirci
al qui e ora illuminandolo con il faro della nostra attenzione rivolto al “come accade ciò che accade”. Un accadere fatto di parole,
sguardi, agiti, racconti, silenzii, rimembranze e altro ancora.
L’attività che il supervisionando condivide con il supervisore è
soprattutto “il pensare”. Va dunque tenuto in seria considerazione l’uso che il supervisionando fa della sua capacità di pensare in
situazione di supervisione formativa. Il supervisionando svolge la
sua attività di costruzione di un sapere condiviso rivolgendosi al
supervisore, pensando silenziosamente, rendendo subitaneamente
partecipe il supervisore per mezzo della parola, comunicando con
gli sguardi, informando con gli agiti secondo l’uso che lui stesso
può e ne vuole fare. Detto ciò risulta chiaro che l’importanza del
contenuto delle comunicazioni del candidato va compreso e valutato in base all’uso che costui ne fa. Come insegna Wilfred Bion,
uno degli aspetti sempre in gioco nella relazione è il modo in cui i
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soggetti usano la loro attività di pensiero. Questo non è certamente l’unico elemento in gioco in una relazione, ma sicuramente è il
più continuativamente significativo, ed è quindi degno di essere
seguito con attenzione, di essere isolato e di essere messo in rilievo.
L’evoluzione del pensiero circa il nostro rapporto con la realtà
esterna e anche con quella interiore prende corpo secondo una
modalità a prima vista senza regole, poiché non risponde ad alcun
ordine temporale o spaziale. Lo sviluppo delle nostre capacità di
rapportarci in modo adeguato con il mondo, altrimenti detto lo
sviluppo del nostro apparato per pensare e lo sviluppo stesso dei
nostri pensieri, procede a strappi e bocconi secondo una geometria
che rinvia più a categorie topologiche che euclidee. Questo dato di
fatto ci “getta” nella scomoda posizione di colui che deve allenarsi a
tollerare l’ansia generata dalla frustrazione del non sapere, per quel
tanto di tempo che basta affinché un senso prenda forma. Poincaré
scriveva nel 1909 in Science et Methode “Un nuovo risultato, per
avere qualche valore, deve unire tra loro elementi noti da tempo ma
fino a quel momento slegati ed apparentemente estranei l’uno all’altro
ed introdurre improvvisamente l’ordine là dove regna l’apparenza del
disordine. Ecco allora che ad un tratto ci accorgiamo del posto che ogni
singolo elemento occupa nell’insieme. Come i nostri sensi, così la nostra
mente è talmente fragile che si perderebbe nei complicati meandri del
mondo se non vi fosse armonia in tale complessità; come nella miopia,
essa vedrebbe i dettagli più prossimi dimenticandoli non appena si accingesse ad osservare quelli più lontani. I soli fatti degni d’attenzione
sono perciò quelli che apportano ordine in questa complessità, rendendola in tal modo accessibile.”.
Potremmo dunque affermare che l’esperienza di supervisione
formativa condotta da parte del supervisore con cura e attenzione
al setting, permette al supervisionando di confrontarsi con la propria e altrui disposizione all’ascolto, all’accoglimento ed infine al
riconoscimento di un “fatto scelto” (Wilfred Bion) che permetta
di scorgere un ordine a noi compiutamente comprensibile là dove
prima pareva regnare il caos di una comunicazione priva di senso.
Questo “fatto scelto” ci permette dunque di legare fra loro gli elementi della comunicazione. Elementi che sino ad ora ci erano apparsi privi di nesso logico, poiché apparentemente slegati fra loro,
trovano una forza coagulante che permette loro di disporsi in un
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nuovo ordine meno opalescente e dunque meglio comprensibile
alla nostra lettura.
Interessante a questo punto mi pare lo sforzo di individuare alcune asperità che potrebbero generare fraintendimenti ed intralciare in supervisione formativa la condivisione e la costruzione di
un sapere congiunto. Quali possono essere alcune possibili lacerazioni nel contenitore mentale, nel setting che garantisce la continutià della pratica di supervisione formativa?
Riprendendo il sentiero a volte tortuoso che ci invita alla riflessione, mi pare di poter affermare che il supervisore, nell’alveo degli
incontri di supervisione formativa, si rende garante della “cura di
sé”. Intendiamo con cura di sé quella capacità di accogliere, di
comprendere ed infine di generare trasformazioni che vanno a toccare i rapporti con l’alterità, dentro e fuori da noi. La supervisione
formativa sembra corrispondere ad un’esperienza del tutto simile
a quella a cui sono sottoposti i liquidi versati e contenuti in vasi
comunicanti. In questo caso si tratta naturalmente di vasi-comunicanti-mentali che danno luogo all’auto-trasformazione dei soggetti
in gioco (supervisore e supervisionando).
Da incontro ad incontro sia il supervisore che il supervisionando si trasformano, sfuggono a sé stessi, come dice Pier Aldo Rovatti
nel suo saggio “La fiolosfia può curare?”. Infatti nel momento stesso in cui ci sentiamo padroni del nostro esercizio di supervisore ed
esercizio di supervisionando, in quello stesso momento, paradossalmente non siamo più padroni di noi stessi poiché siamo riusciti
a cedere un poco del nostro spazio all’Altro e a prendere un poco
di tempo su di noi. In questo movimento che si snoda da incontro a incontro dentro una pratica di gioco regolato dall’esercizio
condiviso e sottoposto a regole, quelle del setting di supervisione
formativa, l’alterazione di sé offre un guadagno di spazio mentale,
identitario e operativo. Ma il giocare è quella particolare esperienza
di vita di cui non si può dare insegnamento, lettura, teoria e in
questo senso la nostra pratica discorsiva potrebbe essere definita
“il gioco della supervisione formativa”. Il gioco è una pratica, bisogna giocarlo e in questo caso occorre giocare alla supervisione
formativa non prima o dopo ma durante la pratica professionale.
La supervisione formativa è un gioco regolato dalle regole del setting e permette ai due soggetti di riconoscersi e di ampliare il loro
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spazio mentale, identitario, relazionale e operativo, traendo via via
piacere da questa esposizione di sé stessi a sé medesimi prima ancora che all’altro. Il gioco di supervisione formativa corrisponde,
come abbiamo già avuto modo di dire, ad una pratica discorsiva.
Pier Aldo Rovatti viene ancora una volta in nostro soccorso ricordandoci che grazie al gioco noi allarghiamo lo spazio e il tempo
svincolandoci così dalla strettoia in cui ci troviamo, creando pause
e pieghe soprattutto grazie al racconto, ci poniamo nella condizione di far ripartire il pensiero mediante la pensosità. La supervisione formativa deve essere proprio questo saper fare, saper giocare,
questo saper vivere l’opportunità e non l’affanno di un “deficit di
senso” che potrebbe da incontro a incontro permettere la tessitura
di una nuova apertura alla vita, alla professionalità, alla pensosità
ecc. fatta di trama e ordito attraversati da tagli alla Lucio Fontana.
La pratica di supervisione, come il gioco, da un lato dovrebbe
permettere di provare una serena condizione di benessere e dall’altro dovrebbe permettere di esercitarsi al rischio insito in ogni nuova apertura. Apertura come già detto all’alterità dentro e fuori da
noi. Non va dimenticato che questa pratica, per essere veramente
tale, deve prendere corpo nel “qui e ora” che si traduce nella capacità di aprire i nostri sensi, ossia nella capacità di lasciarci sorprendere dalle modalità, dagli umori, dalla qualità della relazione
che va via via intessendosi fra supervisore e supervisionando, e dai
contenuti più o meno latenti del discorso. A tale proposito ricordiamo quanto già detto poc’anzi: l’importanza del contenuto delle
comunicazioni che intercorrono fra supervisore e supervisionando
va compreso e valutato in base all’uso che entrambi ne fanno. In
una relazione uno degli aspetti sempre in gioco è il modo in cui i
soggetti usano la loro attività di pensiero.
Nell’incontro di gioco o pratica discorsiva di cui ci occupiamo,
il supervisore si rende dunque garante dello spazio e del tempo dei
pensieri. Pensieri forse ancora tremuli che prendono forma grazie
alla capacità del supervisore di mantenersi in una condizione di
marginalità rispetto alla centralità del lavoro del pensiero che il
candidato è chiamato in prima persona a mettere in scena. Un
lavoro del pensiero che come già detto apre e avvicina all’alterità.
Il supervisore dovrebbe dunque fare in modo che il supervisionando possa compiere per conto proprio l’esercizio di cura di sé
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nell’apertura sull’alterità. Per dirla con Pier Aldo Rovatti qualcosa
si muove quando i due piani, quello dell’identità e quello dell’alterità si sovrappongono, scivolano l’uno sull’altro, l’uno dentro e
fuori dall’altro, si incontrano, o forse meglio dire: vicendevolmente si attraversano, senza per questo confondersi in una sorta di
abbraccio confusivo o in uno scontro collusivo.
Nello svolgimento della pratica di supervisione formativa il supervisore stesso ed il supervisionando fanno esperienza di cura di
sé stessi nel senso che si esercitano ad applicare alla propria esistenza l’apertura all’altro, sia dentro di sé che fuori da sé, insomma si
esercitano entrambi a governarsi secondo un orientamento critico.
3.7.7 I coefficienti di trasformazione nella pratica
discorsiva della supervisione formativa
nelle professioni sociali
Ornella Manzocchi
Innanzitutto vorremmo ricordare che la supervisione formativa
della quale ci occupiamo si svolge secondo una circolarità pratico-discorsiva che tocca tre poli del sapere, ossia
Sapere intuitivo
Sapere pratico
Sapere teorico
Ci preme qui sottolineare come siano fondamentali le motivazioni che stanno alla base della scelta di formazione in ambito di
aiuto e cura .
Questa scelta professionale nasce da un bisogno precocissimo
che potremmo definire un “non-evento”, una mancanza che ha
lasciato una traccia indelebile nella nostra personalità ancora tutta
in formazione, traccia della quale siamo spesso inconsapevoli, ma
che come ormai sappiamo, lavora silenziosamente dentro di noi.
Un non evento per dirla con Aldo Carotenuto, che ha lasciato
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dentro di noi una feritoia, un minuscolo varco che ci permette di
essere in contatto con il nostro mondo interiore. Grazie a questa
feritoia siamo nella condizione di rappresentarci il nostro mondo
in una dimensione temporale (passato, presente, futuro). Ma la
temporalità mette in scena quello spazio opaco che è lo scarto fra
ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Questa è la geografia entro la quale si sviluppa la nostra erranza,
intendiamo in questo senso l’esperienza del viaggio, della peregrinazione, del nomadismo, della navigazione formativa e professionale.
Non va dimenticato che nell’esperienza di supervisione formativa fra supervisore e candidato, noi riproduciamo “en miroir” ciò
che avviene nel corso dell’esperienza professionale fra operatore e
ospite.
Nel corso della supervisione formativa il candidato vive nella
pratica discorsiva un’esperienza multipla di terziarietà che può toccare più modalità relazionali, ossia quella di incontro, di scontro,
di confronto, di conflitto, di condivisione, ecc. in un continuo
gioco di rimandi riflessivi, esperienziali, ipotetici.
Contesto
Tempo
Attori
Istituzione
Candidato
Ospite
Supervisore
Candidato
Ospite
Leader
Gregario
Critico
Vorremmo ricordare come il primo protocollo di supervisione formativa di cui disponiamo riporta la fantasia attraverso la quale molti
pazienti guardano il loro curante. Mi riferisco allo scritto del 1908 di
150
Sigmund Freud in Analisi della fobia di un bambino di cinque anni
(caso clinico del piccolo Hans).
Un giorno Freud incontrò il piccolo Hans accompagnato dal suo
papà, con il quale in quell’occasione scambia un paio di battute in
seguito alle quali Freud stesso ci dice “Ma mentre guardavo i due seduti
davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura,
mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale,
come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi ad Hans in tono scherzoso
se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo
papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse
evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca”
non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo
papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva
che perciò il babbo fosse arrabiato con lui, ma non era vero, il babbo gli
voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto
tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un
piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla sua mamma da aver paura,
per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà (…)
Ritornando a casa Hans chiese al padre: - Com’è che il professore sapeva
già tutto prima? Forse parla col buon Dio? - Sarei straordinariamente
fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi
provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria”.
Questa fantasia (il professore parla con Dio) non è comune solo
ai pazienti in analisi, in questo novero possiamo considerare pure noi
supervisori che da trattanti raccontiamo i nostri trattamenti ai candidati. Così come non dobbiamo sottovalutare la tentazione alla quale
a loro volta sono esposti i candidati che stanno per raggiungere proprio questa anelata posizione di trattanti! Solo scoprendo nell’ombra
questa tentazione potremo e soprattutto potranno i nostri candidati
evitare di cadere nella trappola di doversi assumere il carico davvero
insopportabile quanto non costruttivo, di mettersi al posto di Dio, di
sentirsi in dovere di sapere tutto.
Che cosa sa e che cosa trasmette dunque il supervisore al candidato
e dunque quale esperienza di pratica discorsiva è veramente formativa?
Il supervisore è una cerniera fra il sapere e il saper-fare e si nutre
di una particolare attitudine che è intessuta della capacità di non ingombrare il campo del lavoro comune con ciò che già sa, favorendo
la rielaborazione del candidato. Per dirla con Bion e con il poeta Joan
151
Keats, il supervisore si nutre della capacità negativa, è il portatore di
un talento negativo. Questa disposizione a stare quanto necessario nella nebbia, nell’attesa che dalla trama del racconto prendano corpo una
forma, un senso, corrisponde pure a quella pietra miliare che ci aiuterà
anche nel momento della costruzione della valutazione del candidato.
Potremmo dire che lo scopo ultimo della supervisione formativa è
quello di permettere al candidato di ri-orientare il proprio pensare e il
proprio agire. Nella tensione che ci accompagna in questa direzione
siamo per così dire guidati dalla ferma determinazione a rimanere al
nostro posto senza prendere quello del candidato, garanti di uno spazio di gioco, come avrebbe detto Winnicott, in grado di sostenere il
pensare i pensieri più a fondo possibile. Il supervisore non è colui che
sa meglio, ma colui che sa diversamente.
La lezione bioniana ci insegna che la capacità di pensare i pensieri
sino in fondo e di generare pensieri, nasce dalla duplice e congiunta
esperienza di “mancanza” da un lato, e “qualità della presenza” dall’altro. Adottare uno o entrambi questi stili comunicativi in supervisione
formativa porta sia il candidato che il supervisore medesimo a cimentarsi con l’esperienza dolorosa di una mancanza oppure con l’idea gratificante di una sostituzione che diminuisce lo stato d’ansia (ambiente
facilitante winnicottiano).
Pensiero
pensare
i pensieri
sino in fondo
Mancanza
Presenza
Tutto ciò dovrebbe portare il candidato ad uscire dall’esperienza di supervisione formativa non come vi è entrato: la supervisione
formativa assume dunque le connotazioni di una pratica di trasformazione.
Potremmo paragonare il supervisore ad un ostetrico (dal latino
stare davanti), ad una levatrice del pensiero, non in quanto già ne
conosce il contenuto, ma in quanto lo mette in forma. Il supervisore
dovrebbe quindi farsi collaboratore, garante della conversazione (dal
152
latino frequentare qualcuno, aggirarsi, andare verso, trovarsi insieme) a partire da quanto è in grado di portare e elaborare il candidato, raccogliendo e rilanciando i suoi pensieri.
Questa riflessione ci permette di offrirvi il pensiero di Marianella
Sclavi che nel suo testo Arte di ascoltare e mondi possibili , come si
esce dalle cornici di cui siamo parte, ci regala un elenco di sette regole
dell’arte di ascoltare, alle quali aggiungeremmo, quale definizione
dell’universo entro il quale inserire queste sette regole, la massima di
Platone che recita “Il pensiero nasce dallo stupore”. Siamo così chiamati a confrontarci con quella che a prima vista sembra essere una
condizione paradossale “esercitare la propria capacità negativa grazie
all’erranza nell’universo ignoto con la disposizione mentale allo stupore, e questo anche grazie al sostegno di alcune regole”.
Il pensiero nasce dallo stupore
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni
sono la parte più effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a
vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi
assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose
e gli eventi dalla sua prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se
sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa
vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili.
I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla
coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi,
marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e
della comunicazione, affronta i dissensi come occasioni per
esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa
dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una
metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare,
l’umorismo viene da sé.
153
E allora, quali supervisori non possiamo non chiederci in quale
modo favoriamo e permettiamo lo svolgersi degli incontri con il candidato in supervisione formativa. Dentro questo contenitore il candidato ha la capacità e l’opportunità di mettersi in discussione? Come
affrontiamo queste occasioni di crisi? Mettiamo in atto un ascolto
passivo o un ascolto attivo? Marianella Sclavi nel suo libro ci offre a
piene mani esempi e occasioni di ripensamento. “Quando un bambino impara la propria lingua materna, gioca e gli adulti giocano con lui.
Questo rapporto giocoso non è qualcosa di superfluo, di aggiuntivo, è un
tratto vitale delle dinamiche emozionali/cognitive (…). Se il bambino
indica gli occhiali e dice “mela”, la madre di solito gli dirà “sbagli”, “sei
uno stupido”, più facilmente si comporterà come se pensasse: “Ma guarda
come è intelligente questo bambino che ha associato la forma rotonda
della mela alla forma rotonda delle lenti!”e trasformerà questo “errore”
in un gioco dentro il quale il bambino impara a chiamare “occhiali” gli
occhiali, ma anche che lei ha imparato qualcosa di nuovo, ha “giocato”
con ciò che prima dava per scontato”.
Gli esempi di questo tipo potrebbero moltiplicarsi, l’invito è a pensarsi dentro un incontro di supervisione formativa con il candidato,
ma quando il candidato eravate voi stessi! Questa capacità di “ascolto
attivo”, come la definisce Marianella Sclavi, nella psicologia del profondo viene definita rêverie (Bion), termine che deriva da sogno, e sta
alla base della generazione e dello sviluppo dell’apparato per pensare i
pensieri. Una scelta linguistica che illumina questa particolare impresa umana in tutta la sua profonda dimensione affettiva.
Ma veniamo a noi e al cuore di questo nostro breve scritto, ossia
i coefficienti di trasformazione in supervisione formativa. La definizione di coefficiente rinvia a ciascuna delle cause o fattori valutabili
che concorrono a un determinato effetto o risultato; in matematica e
fisica è una grandezza costante o dipendente da variabili … che mediante moltiplicazione permette di ottenere dalla misura data di una
certa grandezza la misura corrispondente di un’altra grandezza; nello
sport, elemento collegato alla particolare difficoltà della prova eseguita che concorre alla determinazione e assegnazione di un punteggio.
Tornando alla supervisione formativa potremmo affermare che
i coefficienti di trasformazione sono l’espressione dell’idoneità del
candidato, ma di quale idoneità stiamo parlando? Non ci riferiamo
alla sua capacità complessiva di divenire un buon operatore sociale,
154
neppure ci riferiamo alla totalità della sua persona, ci riferiamo molto
limitatamente alle sue capacità di misurarsi e avvicinare gli obiettivi
della supervisione formativa.
Per quale ragione scegliamo di definire queste capacità attraverso
dei coefficienti di trasformazione? I coefficienti sono elementi che
intervengono nella relazione tra supervisore e candidato e hanno funzione di risposta agli obiettivi di una supervisione formativa dinamica
e trasformativa.
I coefficienti di trasformazione sono sempre vissuti nell’ordine dell’ambivalenza. Ci spieghiamo: osservando il funzionamento
dell’apparato mentale e quello dell’apparato digerente possiamo scorgere delle forti analogie fra i due. Ad esempio un sintomo somatico
quale la stipsi si accompagna generalmente a una simile propensione
anche sul piano del funzionamento mentale, accompagnando dunque la nevrosi ossessiva. Sostituiamo al cibo per il corpo (alimenti) il
cibo per la mente (pensieri) e la similitudine parla da sé: alla sofferenza da stipsi corrisponde la sofferenza da pensieri ripetuti ossessivamente (“avere un chiodo fisso in testa”).
Tornando ai nostri coefficienti di trasformazione e al loro funzionamento ambivalente la similitudine è data una volta ancora dal confronto fra funzionamento mentale (coefficienti di trasformazione) e
funzionamento metabolico secondo due modalità, quella catabolica
e quella anabolica. Grazie al catabolismo, l’organismo disintegra le
sostanze alimentari scindendo le molecole complesse in molecole
semplici con conseguente acquisizione di energia e eliminazione dei
prodotti di rifiuto. Il processo anabolico per contro è caratterizzato
dalla sintesi di sostanze complesse che vengono in parte a costituire la
sostanza vivente dell’organismo che le elabora.
Coefficienti di trasformazione
Metabolismo
ambivalente
Processo anabolico
Sintesi
Processo catabolico
Analisi
La supervisione formativa funziona dunque secondo lo schema
155
A x B = C (dove il x sta per coefficiente di trasformazione), ponendo fra loro in relazione due sostanze (mentali) ne produciamo una
terza che non è la somma o la sottrazione delle due, bensì un’operazione tra di esse. Parlare dunque di coefficienti di trasformazione
ci permette di definire la supervisione formativa come un processo
dinamico, intersoggettivo, di trasformazione.
I coefficienti di trasformazione possono essere classificati dentro
Aree, e precisamente
Area cognitiva
Area affettiva
Area della prassi
Queste aree ci danno conto dei tre poli entro i quali si esplica
tutto il lavoro di cura e aiuto, che corrispondono a
Gesto
- Importante distinguere Azione/Atto o Agito -
Parola
Affetto, emozione
Il cuore di ogni esperienza di supervisione formativa è il linguaggio, con questo intendiamo una pratica linguistica che non
necessariamente è di tipo verbale.
Il discorso che si sviluppa in supervisione formativa è sempre
dislocato rispetto all’evento, ciò fa si che l’oggetto del quale ci occupiamo in supervisione formativa non è l’azione, l’evento stesso,
bensì la capacità del candidato di rappresentarsi e rappresentarci
quell’evento, quell’esperienza.
La supervisione formativa è come un palcoscenico sul quale il
candidato, accompagnato dal supervisore, mette in scena un evento attraverso una narrazione che apre a mondi possibili.
156
Narrazione
Evento
Menzogna
o impostura
Lutto della Verità presunta
e della realtà
La menzogna è parte imprescindibile, anzi, diremmo vitale della
pratica linguistica in supervisione formativa, ove il candidato porta
l’inevitabile distorsione linguistica di ciò che già per natura è distorto. Dentro l’unico spazio possibile, quello dell’hic et nunc della supervisione formativa, il candidato ci offre una traduzione in
linguaggio della sua esperienza della Verità presunta e della Realtà.
Affinché supervisore e candidato possano svolgere un progressivo lavoro di elaborazione del lutto sia della Realtà che della Verità
presunta e a questo punto pure della loro Identità professionale
occorre sviluppare la capacità di mettersi in “crisis”, ossia in malattia nelle tre aree precedentemente indicate, cognitiva, affettiva,
prasseologica. Sapersi dotare della capacità di stare in supervisione
formativa, di stare nella formazione, di stare nella professione, in
sintesi potremmo dire di stare nella vita, in condizione di fragilità
e di debolezza è dunque necessario affinché si dia una relazione
di cura e/o di aiuto. L’ordine della crisi ci rinvia necessariamente
all’ordine dell’inatteso e questi sono fattori di perturbamento e
spaesamento identitario.
Vediamo dunque di passare in rassegna alcuni dei criteri che
potrebbero esserci d’aiuto nella definizione dei coefficienti di trasformazione in supervisione formativa.
1. La qualità della porosità
Del candidato in supervisione andiamo via via conoscendo le
modalità di funzionamento mentale secondo la triade cognitivo/
affettivo/pratico. Possiamo dunque avere un’attenzione particolare
alla qualità della porosità che percepiamo grazie alla parola che egli
porta in scena. La teoresi di Franco Fornari ci aiuta nell’individuazione e comprensione del pattern d’azione dell’operatore sociale,
che può appunto essere letto secondo quattro stili, ossia:
• lo stile fallocentico: teso alla lotta, il male è da sconfiggere, che
157
conta è l’asse vincere/perdere
• lo stile onfalocentrico, che si esplica attraverso l’attitudine al
contenere, confondere, sostenere, e rinvia al codice materno
• lo stile obiettivo, che si sviluppa sull’asse che congiunge integrazione/assimilazione/trasformazione
• lo stile generativo che riassume in sé i primi tre stili modulandoli di volta in volta a seconda della condizione sia interiore
che esteriore del candidato
Potremmo dire che questi stili corrispondono alle quattro fenomenologie che declinano il triangolo gesto/parola/affetto.
2. La qualità della flessibilità
Valutata sempre secondo le tre aree cognitiva/affettiva/della
prassi.
Questa qualità ci illustra compiutamente come il candidato si
confronta con il contesto. Ossia come egli sa rispettare e riconoscere le condizioni entro le quali avviene la sua esperienza:
• il quadro o setting di supervisione formativa,
• le differenze fra l’intervento del supervisore, quello del
responsabile pratico e quello del docente.
1. Il docente dà la formazione teorica, l’esperienza che il candidato vive si sviluppa nel territorio della teoria, della prassi
e della pratica teorica.
2. Il responsabile pratico lavora nel qui e ora dell’incontro fra
l’ospite e lo studente, ha responsabilità diretta di ciò che accade
e detiene gli strumenti della professione sociale.
3. Il supervisore ha il compito di lavorare sulla pratica lingui
stica, ossia sulla pratica della rappresentazione. Questa pratica si
limita forzatamente sempre in una condizione di insoddisfazione. Tende verso la trasformazione ma esclusivamente dentro
la pratica di rappresentazione che trova le sue proprie radici
nelle dimensioni cognitiva-affettiva-pratica.
3. La qualità della plasticità
Il triangolo, supervisore-candidato-utente ci parla della qualità
del nostro candidato, riferita al suo sapersi mutare, diremmo come
un foglio di gomma in geometria topologica, o come un blocco
di marmo nelle mani sensibili di uno scultore che procede “per le158
vare” sino a dare forma, oppure ancora ad un grumo di argilla che
sinuosamente prende vita. Un mutamento armonioso ma tangibile in funzione dell’incontro con l’alterità. Qualità valutata sempre
secondo le tre aree cognitiva/affettiva/della prassi.
4. Lo spessore del funzionamento mentale
Ossia la capacità di fantasticare, di perdere il filo del pensiero
e del discorso senza essere colto dall’ansia, di creare delle associazioni, di costruire delle rappresentazioni, di costruire dei legami
fra passato-presente-futuro, di collegare impressioni, emozioni,
sentimenti, traducendoli in parole condivisibili e generatirici di
mondi possibili, di muoversi mentalmente fra le due dimensioni
periscopio/volo d’uccello.
Un esempio di rappresentazione della prassi: se muovo “questo”
così allora immagino che succeda “questo” e/o che non succeda
quello”. In questo contesto ci troviamo sui nostri tre livelli: quello
della prassi con la molteplice capacità di rappresentazione della
stessa, quello degli affetti grazie alla capacità di dare parola, di rappresentare i sentimenti provati, quello cognitivo con la rappresentazione delle possibili consonanze teoriche.
5. La vitalità
Entro la quale tocchiamo con mano l’apatia, la devitalizzazione,
sempre nelle tre aree cognitiva/affettiva/della prassi. La dimensione temporale illumina la qualità di questa dimensione del candidato che deve sapersi confrontare con il tempo riconoscendone
il carattere processuale all’interno della supervisione formativa, la
quale si sviluppa per fasi:
1. Presa di contatto
2. Elaborazione
3. Fase di separazione
Questo processo tripartito si vede pure dentro il singolo incontro di supervisione formativa.
La capacità del candidato di “darsi il tempo” ci parla della sua
dimensione affettiva. L’esercizio al quale il candidato si sottopone
gli permette di fare esperienza del ritmo che il tempo contiene,
ritmo che permette la trasformazione del “movimento della forma”
in una “forma”. Questo passaggio da movimento della forma a
159
forma rappresenta la capacità di sintesi del candidato. A sua volta
il tempo diviene generativo.
6. I limiti
In che modo il candidato si sa affacciare alla propria interiorità confrontandosi autenticamente con le fragilità alle quali le tre
aree esperienziali lo “costringono”. Nel caso in cui il candidato
non aderisce autenticamente alla propria posizione, facilmente si
produrranno delle interferenze di natura difensiva che si manifesteranno sotto forma sintomatologica secondo alcune forme protettive che possono oscillare dall’indifferenza all’iper-attività, alla
passività ecc. Questo aspetto ci rinvia alla quarta triangolazione
(gregario, leader, critico).
7. La capacità di spostamento di piano
Secondo il modello dei cerchi concentrici che partendo dal
centro (Sé) e andando verso la periferia implica la capacità di attraversare in entrambe le direzioni, con le adeguate traduzioni, i
confini che separano ma allo stesso tempo congiungono le varie
fasce dell’esistere. Questi confini non sono mai fortemente impermeabili, offrono sia l’occasione di possibili contaminazioni che
l’opportunità di generare nuove forme di sapere e di relazione. Il
candidato deve naturalmente essere in grado di mantenere salda la
bussola e il profondimetro esistenziali che lo aiutano, sia a non oltrepassare i livelli di propria competenza che, a non avventurarsi in
voragini vertiginose entro le quali correrebbe il rischio di essere inghiottito (penso ai turbamenti ed alle opacità della vita inconscia).
Il modello dei cerchi concentrici contiene, andando dal nucleo
all’esterno: il Sé, l’Individuo o Io, la coppia, il gruppo, l’Istituzione, il territorio, la società, l’universo, la trascendenza.
In conclusione questi sette criteri dovrebbero aiutaci a capire:
1. in che modo il candidato entra in malattia, in crisis,
2. in che modo viene attraversato dalla crisi di identità professionale,
3. in che modo si espone all’inatteso.
L’alleanza di lavoro che dovrebbe sostenere la pratica di supervisione formativa permette al supervisore di misurare:
160
1. la capacità del candidato di oscillare con regolarità dal linguaggio naturale al metalinguaggio, evidenziando nel caso
alcuni possibili rischi, quali:
a) l’ingenuità eccessiva (forma difensiva),
b) l’intellettualismo,
c) l’ingenuità da salotto;
2. la capacità del candidato di riconoscere il carattere indeterminato della sovradeterminazione data dallo sguardo in sé
teorico;
3. la capacità di mettersi in rapporto con il supervisore;
4. la capacità di iniziativa mentale del candidato a confronto
con i propri limiti (rabbia, indifferenza, ecc.);
5. la capacità di sintesi al termine di ogni incontro di supervisione formativa;
6. la capacità di tradurre il proprio vissuto esperienziale in
pensiero e il pensiero in vissuto;
7. la capacità di riconoscere le proprie risorse come condizione
per riconoscere quelle dell’ospite.
3.7.8 La costruzione condivisa della valutazione del
percorso di supervisione; i coefficienti di valutazione
Ornella Manzocchi
Premessa
In questo breve scritto ci occupiamo della costruzione di un giudizio critico riguardante il cammino di supervisione svolto dallo
studente nel corso degli incontri di supervisione formativa. Una
costruzione che ancora una volta si vuole condivisa e non potrebbe che essere così poiché ogni nostro sapere si sviluppa nell’alveo
dell’esperienza che fonda la nostra datità: la relazione. A nostro
avviso la costruzione condivisa di un giudizio critico riguardante
il cammino svolto in supervisione formativa dovrebbe esser parte
integrante e fondamentale del percorso medesimo. E ci spieghiamo: da incontro ad incontro, supervisore e candidato dovrebbero
maturare una consapevolezza comune del valore dell’esperienza
che stanno congiuntamente vivendo, avere entrambi una comune
visione del percorso che stanno affrontando, sentirsi entrambi par161
te attiva di questo peregrinare fra i territori del pensabile. Un pensabile che come abbiamo già avuto modo di sottolineare più volte
si fa pratica-discorsiva condivisa. Questo assetto deve permettere,
sia al supervisore che al candidato, di maturare un senso critico nei
confronti di svariate capacità che il candidato dovrebbe sviluppare
nel corso della pratica formativa. Le capacità di cui parliamo e
che il candidato dovrebbe enucleare ed affinare nel corso della supervisione formativa, potrebbero essere così riassunte: la capacità
di pensare, di fare, di riflettere, di raccontare, di condividere, di
trasformare, di giudicare. Riassumendo: oggetto della valutazione
critica, sottolineiamo nuovamente maturata sia dal supervisore che
dal candidato, dovrebbe dunque essere la capacità del candidato
medesimo di esser-ci in modo autentico. Questo giudizio fa parte
integrante della crescita del percorso di supervisione formativa: se
il candidato non matura un senso critico e autenticamente veritiero nei confronti delle sue proprie capacità di esser-ci in un contesto
professionale, a nostro modo di vedere la supervisione manca uno
dei suoi principali obiettivi. Questa capacità di prendere posizione
in modo autentico e veritiero nei confronti del proprio esser-ci va
naturalmente inserita nel contesto della condivisione con il supervisore. Torniamo a ricordare quanto sia fondamentale per il candidato maturare la capacità di sostenere un confronto leale e aperto
fra le parti in gioco, in questo caso lui ed il supervisore.
Va ricordato quanto la pratica di supervisione sia soprattutto
una pratica-discorsiva piegata sul “caso”, una pratica dislocata rispetto all’evento stesso, una pratica che ci porta a prestare attenzione alla capacità del candidato di rappresentarsi e rappresentarci
quell’evento. In questa esperienza la dimensione dinamica che si
offre al candidato genera la possibilità sia di riprodurre come “en
miroir” ciò che avviene fra lui e l’ospite sia di vivere un’esperienza
multipla di terziarietà che si sviluppa secondo modalità che vanno
dall’incontro allo scontro passando per il confronto, il conflitto e
la condivisione.
Segnaliamo pure l’importanza svolta dalla motivazione alla scelta della professione sociale che anche in supervisione svolge un
ruolo importante, favorendo o sfavorendo nel candidato una disposizione giocosa e serena alla pratica di trasformazione.
Va altresì ricordato il delicato ruolo del supervisore che deve
162
porsi come garante di uno spazio di condivisione all’interno del
quale una delle sue principali funzioni è quella di “mettere in forma” il pensiero del candidato, di offrirsi come colui che sa diversamente e non come colui che sa meglio e di più.
Infine non vanno scordati i coefficienti di trasformazione del
pensiero e dell’azione. I coefficienti di trasformazione che ci possono aiutare nel compito valutativo del percorso di supervisione
formativa svolto dal candidato sono riferibili al suo funzionamento mentale e sono i seguenti: la porosità, la flessibilità, la plasticità,
lo spessore, la vitalità, i limiti, la mobilità. Questi coefficienti di
trasformazione permettono di evidenziare in che modo il candidato entra in crisis, in che modo ne viene attraversato, in che modo
si espone all’inatteso e in che modo apprende da queste esperienze
di spaesamento.
Potremmo dire che questi “luoghi mentali” ci sottopongono allo
sforzo di puntare per così dire l’attenzione al micro, al particolare,
alla cosa incontrata lungo il cammino, e precisamente la qualità della “mobilità” mentale dello studente, la qualità della porosità del suo
funzionamento mentale e via dicendo. Il rischio è quello di trascurare di prestare attenzione al cammino in sé, al percorso stesso della supervisione formativa in virtù dell’attenzione dedicata ai coefficienti
di trasformazione che, ricordiamo, non possono mai essere disgiunti
da un’attenzione costante alle modalità d’uso degli stessi.
In questo scritto, abbiamo approfittato del fatto di avere già per
così dire “visitato” molti dei luoghi importanti del mondo della
supervisione. Liberi dall’urgenza di ricevere una risposta puntuale
ed appagante, liberi dall’impellenza del desiderio di visitare ogni
singolo luogo legato alla supervisione formativa, vi chiediamo di
peregrinare con noi lungo le vie del pensabile, un pensabile che
riguarda evidentemente la costruzione della valutazione in supervisione, prestando attenzione al percorso più che ai luoghi, al peregrinare più che alla meta. Il nostro “percorso del pensabile condiviso” si attarda entro alcune importanti aree di riflessione che
abbiamo scelto di affrontare secondo quest’ordine: 1. l’area che
riguarda la capacità di pensiero sino alla determinazione della fedeltà al fenomeno pensabile, 2. l’area che riguarda la fedeltà sino
alla ricerca della verità, 3. l’area che riguarda la ricerca della verità
sino alla costruzione del giudizio sull’esperienza. Ci siamo sforzati
163
di ordinare queste riflessioni per quanto le nostre capacità ce lo
hanno permesso, evidenziando sia il punto di vista del supervisore che quello del candidato. Troverete dunque sovente una breve
presentazione del pensiero pensabile, seguita dalla puntualizzazione di ciò che esso comporta per il supervisore e per il candidato
medesimi.
1. Dalla cura del pensiero alla capacità di mantenersi fedeli al
fenomeno pensabile
Forzatamente la pratica discorsiva svolta nel corso della supervisione si disvela attorno all’uso del linguaggio, e noi sappiamo
che pensiero e parola si anticipano, si aiutano o si intralciano vicendevolmente. Come ben segnala Luigina Mortari nel suo testo
Aver cura della mente, “imparare ad aver cura della vita della mente
significa allora anche imparare ad aver cura delle parole”.
Cosa significa questo per un supervisore? Diremmo che principalmente significa sostare in una posizione di ascolto nei confronti
del candidato che tenta di esprimere e condividere con lui un fenomeno, quello del suo incontro con l’ospite. Le parole del supervisore dovranno quindi veicolare la sua disposizione all’ascolto.
Le parole che il candidato usa dovranno essere scelte con cura
tanto da offrire la possibilità di essere abitate dal senso forte della
sua esperienza professionale.
Ma affinché si dia la possibilità di ascolto e quella di espressione
del senso forte di un’esperienza, occorre desiderare.
Il supervisore deve essere sostenuto fortemente dal desiderio di
trovare un senso nella sua attività di ascoltatore di un’esperienza
tradotta in parole più o meno balbettanti. Il desiderio è uno slancio verso ciò che sta oltre la mera quotidianità, la facile ovvietà. E
allora potremmo dire che il compito del supervisore è duplice. Da
un lato il supervisore deve cercare per sé stesso quelle parole che
aiutano la nascita, che custodiscono, che proteggono e che mettono in forma il suo proprio desiderio di essere soprattutto un buon
ascoltatore; d’altro lato deve essere in grado di sostenere il candidato nella cura del proprio personale desiderio di operatore sociale.
Il candidato a sua volta, sostenuto dalla capacità di ascolto del
proprio supervisore, dovrebbe pian piano, anche grazie all’uso delle parole condivise in supervisione, svelare sia al supervisore che a
164
sé stesso la forma del proprio desiderio, proteggerla e renderla via
via sempre più solida e matura. Il desiderio del candidato dovrebbe
essere quello di prendersi cura sia di sé stesso che degli ospiti di cui
si occupa.
Il discorso che si dipana fra ascolto, ricerca di senso, nascita
e messa in forma di desiderio, genera nuovi orizzonti di senso,
amplia le aree di pensabilità. Abitare con senso la propria vita,
riconoscersi nel tremulo e ancora fragile germoglio di un personale
desiderio, passa indiscutibilmente attraverso un rapporto pensoso
con le parole. Coltivare un rapporto pensoso con le parole implica
la capacità di saper attendere, di saper scegliere, di saper rinunciare. Come uno scultore che opera per levare e non per aggiungere,
così l’operatore sociale dovrebbe operare per spoliazione del discorso. Poche, semplici, puntuali parole che tendono ad avvicinarsi
sempre più al cuore del cuore di ciò di cui si intende parlare. Un
rapporto pensoso con le parole ci permette di prendere distanza
dalla quotidianità e dalla sua ovvietà, per stagliarci pian piano nella
nostra singolarità con coraggiosa umiltà e determinazione.
Il supervisore sostenuto dal rapporto pensoso con le parole, sia
le proprie che quelle ricevute dal candidato, si dispone ad ascoltare
e a restituire. La restituzione di quanto accolto dovrebbe avvenire
senza fretta; il supervisore si deve dare il tempo della trasformazione di quanto ricevuto. Una trasformazione che mira a rendere la
parola ricevuta in una forma un poco meno tremula ed imprecisa dell’originale, per quanto possibile più chiara e comprensibile.
Quella del supervisore non sarà una parola cristallina, ma opalescente, una sorta di rimessa in forma che aiuta il candidato ad andare oltre. Una parola sempre un poco mancante che incoraggia chi
la riceve, il candidato appunto, a renderla ancor più perfettamente
sferica, ancora più aderente e coesa al fenomeno che vorrebbe rappresentare. Una parola opalescente, quella del supervisore, che accompagna il candidato in una tensione costante, infatti la parola in
sé per quanto sferica e perfetta possa essere ci imporrà sempre un
piccolo resto di indecifrabilità, si rivelerà pur sempre irriducibile al
senso dell’esperienza. È fra le pieghe di questo scarto che il desiderio si insinua, cresce e ci sostiene nel costante impulso ad ampliare
le aree di pensabilità, a dare un nome, a mettere ordine mediante
165
la parola, là dove prima regnava il caos di un’esperienza fortemente
in balia delle emozioni. Ma affinché vi sia spazio, scarto, in modo
tale che si formino delle pieghe entro le quali possa prendere forma
e consistenza il desiderio del candidato, le parole del supervisore
dovrebbero essere per così dire “trattenute” nella loro eccedenza.
Avere cura della propria mente per il supervisore significa dunque sapere trattenere le parole, pronunciarle solo quando sono una
necessaria e rispettosa rimessa in forma di quelle ricevute dal candidato. Chiacchiere, silenzi indifferenti, parole seduttive, parole
precostituite, sono alcuni degli ostacoli alla crescita di una sana
pensosità del pensiero. Il supervisore deve dunque essere in grado
di non cercare affannosamente una parola che imbrigli un pensiero ancora tremulo. Il piacere del supervisore dovrebbe esprimersi
appieno nel suo sostare in attesa, un’attesa che permetta alla parola
adeguata di affacciarsi sulla scena della supervisione, con lui spettatore serenamente ma autenticamente in ascolto. Riassumendo, il
supervisore è colui che sa stare nel contempo con la mente aperta
sia a ricevere le parole del candidato sia a scegliere le parole adeguate alla restituzione sbarazzandosi di tutte quelle che ingombrano e
incalzano disordinatamente la scena mentale.
Il candidato in grado di vivere un rapporto pensoso con le parole si troverà vieppiù confrontato con l’inadeguatezza delle stesse
rispetto al senso dell’esperienza che sente di avere vissuto e che
desidera veicolare. Il suo discorso, nel gioco di pacato, accogliente
e rispettoso scambio con il supervisore dovrebbe esporsi in tutta
la sua indicibilità, inducendolo ad avere sempre più cura delle parole stesse cui affida il proprio dire. Come scrive Luigina Mortari
“La pratica dell’imparare a pensare è, quindi, tutt’uno col prestare
attenzione al pronunciare parole tali che si costituiscano come matrici
generative di senso”. Da incontro a incontro il candidato dovrebbe
maturare la consapevolezza di essere alle prese con un compito che
non si realizzerà mai compiutamente: quello della nominazione
del senso dell’esperienza. Questa consapevolezza dovrebbe naturalmente essere la garante e non l’affossatrice del desiderio del candidato. Ma sappiamo quanto sia fragile l’essere umano confrontato
con i limiti, con le difficoltà, con le fragilità, con le manchevolezze,
con l’inadeguatezza, con la finitudine, proprio per questo il ruolo
del supervisore quale garante della tenuta in vita del desiderio è di
166
vitale importanza. La capacità di attesa che abbiamo visto essere
assai preziosa, anzi di capitale importanza per il supervisore, dovrebbe dunque divenire vieppiù strumento prezioso del bagaglio
professionale del candidato.
Più ci addentriamo nella nostra riflessione più ci rendiamo conto di come le parole, anche quelle espresse in supervisione, non siano riducibili in modo perfettamente aderente al senso della nostra
esperienza. Questo ci espone ad uno stato di sofferenza mentale:
ci troviamo quotidianamente in bilico, quotidianamente a rischio
di smarrimento, quotidianamente in attesa. Come sostenerci ed
aiutarci in un contesto nel quale prende forma vieppiù la consapevolezza della fragilità del discorso?
Sia per il supervisore che per il candidato la sofferenza della fragilità del discorso può essere non solo tollerabile, ma pure foriera
del desiderio di andare oltre il già noto, pur nella consapevolezza di
non trovare nulla di definitivo, se e solo se essa è contenuta entro
un quadro di riferimento forte e stabile. Ci riferiamo all’importanza della costruzione di un sapere condiviso che prende forma
entro una cornice garante di questa alleanza di lavoro costruttiva
fra supervisore e candidato.
Va sicuramente ricordato che tutto il lavorìo linguistico del supervisore, teso alla ricerca delle parole per ascoltare e per restituire
il senso accolto e tutto il lavorìo linguistico del candidato, teso alla
ricerca delle parole per dire e per narrare il proprio vissuto, dovrebbe sostenere e sospingere entrambi i soggetti in gioco verso una
costruzione della propria identità, sia personale che professionale,
sempre più complessa ed equilibrata nella sua sfaccettazione.
Ma se la parola è così fragile, manchevole, legata allo spazio e
al tempo, quale bussola può sostenere il supervisore lungo la via
dell’ascolto? E quale bussola può aiutare il candidato nell’esercizio
di messa in forma della propria esperienza?
Martin Heidegger in Essere e Tempo ci suggerisce di “lasciar vedere da sé stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé stesso”
nel senso di prendere la decisione per un attivo consenso all’automanifestarsi delle cose. Il principio che sostiene questa affermazione, propria del metodo fenomenologico, presuppone un’intima
connessione tra ciò che è e ciò che appare. Destinati a vivere in un
mondo che appare, non ci è data altra scelta che assumere questo
167
apparire come lo stesso essere. L’apparire delle cose non è accidentale, bensì manifestazione dell’essere. Ma il mondo non ci appare
pienamente, non è tutto in luce, la vita è misteriosa, lo abbiamo
sottolineato poc’anzi evidenziando l’impossibilità di trovare le parole che contengano interamente le esperienze, o altrimenti detto
di vivere delle esperienze interamente dicibili. In ciò che vediamo
e dunque in ciò che accogliamo e in ciò che ascoltiamo c’è sempre
un lato nascosto. La nostra bussola funziona dunque secondo due
regole che seguono due principi, quello di evidenza e quello di
trascendenza. La prima regola assume che vi è una stretta connessione fra essere e apparire, e la seconda assume che non tutto ciò che
è appare.
Questa bussola ci aiuta dunque anche nello scorgere ciò che
non appare, il suo profilo è infatti accennato, evocato, anticipato o
suggerito dal profilo di ciò che invece appare.
Il supervisore dovrebbe quindi nutrire una posizione fiduciosa riguardo alla propria capacità di ascolto, di accoglimento e di
comprensione riguardo a tutto ciò che appare del candidato in
supervisione. Le parole di quest’ultimo, i suoi gesti, i suoi sguardi,
i suoi silenzi, le sue assenze, parlano di lui, in essi si manifesta il
suo modo di essere, meglio detto il suo essere. Ma il supervisore
deve pure rimanere vigile e attento sapendo bene che il candidato
in supervisione non si manifesta pienamente in tutto il suo essere, non tutto della sua, e pure della nostra vita emerge alla scena
dell’incontro, della relazione.
Il supervisore dispone dunque di una bussola che lo guida attraverso i meandri degli incontri che si delineano nel quadro di
supervisione. Ma in quale modo deve usare questa bussola che indica due soli punti cardinali, quello dell’apparire e quello del non
apparire? Prima importante regola da seguire per l’uso della bussola è quella di utilizzarla, di leggerla, di interpretare i dati che ci segnala in modo sufficientemente sensibile nei confronti dell’alterità
che non si mostra. Il supervisore-esploratore, guidato dalla propria
bussola, conserva, nel proprio cuore memoria dell’esistenza di ciò
che pur tuttavia non si svela. Questa sensibilità verso le cose che
non si svelano completamente, che mantengono comunque e sempre un alone di mistero è la modalità d’uso della bussola. Umiltà,
rispetto e sensibilità nei confronti del mistero sono le regole del buon
168
uso della bussola.
Potremmo dunque concludere questo primo passo riflessivo,
affermando che come supervisori dovremmo essere in grado di
prestare un’attenzione sufficientemente umile, rispettosa, sensibile, fluttuante e prolungata, sospesi nell’attesa di una parola che offra
forma e senso all’esperienza che stiamo vivendo con il candidato.
Mentre il nostro pensare diviene vieppiù simile ad un ascoltare che
attende il divenire delle cose, sospeso nel mistero di un senso compiuto che solo in parte si rivelerà, esso si discosta sempre più dal
guardare che richiama invece un movimento attivo verso ciò che si
cerca, carico di desiderio e volontà di imporre a priori una forma,
un senso. Il supervisore non dovrebbe caricare l’incontro di uno
sguardo e di un udito indagatori poiché questa attitudine ad “andare verso” non mette il candidato nella condizione di accoglienza
di cui necessita per svelarsi, seppure parzialmente. Lo sguardo indagatore, l’udito perquisitore e la parola inquirente lo respingono
lontano. Il buon supervisore è colui che sa sostare per ascoltare.
Dunque il domandare e il cercare con lo sguardo, che spesso usiamo come antidoto al silenzio, o come ordinatore del caos, dovrebbero essere attraversati dalla disposizione profonda all’ascolto,
all’accoglimento. Affinché ciò sia possibile la nostra mente di supervisori dovrebbe farsi sgombra, divenire un contenitore ben definito pronto ad accogliere e mettere in forma possibili contenuti.
Il pensiero socratico ci viene in soccorso offrendoci l’opportunità
di ridefinire la funzione del supervisore come l’esercizio non di
colui che sa, ma di colui che pone questioni di spessore che incoraggiano il candidato a pensare a fondo i pensieri, esponendosi a
continue aperture verso nuovi mondi, prendendo le distanze dalle
proprie convinzioni.
2. Dall’imperativo alla fedeltà alla tensione verso la verità
dell’esperienza
Ragionando attorno al tema dell’imperativo alla fedeltà abbiamo
appreso che questa fedeltà avviene entro un campo saldamente
delimitato, il quadro o setting in supervisione formativa. Questo
quadro si rende garante nei confronti dello spaesamento che produce l’esperienza di essere di fronte all’apparenza dell’essere che in
parte si cela e celandosi lascia intuire ai più sensibili, rispettosi e
169
umili fra noi, il valore dell’altro.
Ora si tratta di ragionare attorno al valore di verità che il nostro
pensare l’alterità può o meno assumere, se siamo fedeli e abbiamo
cura della nostra capacità di pensare i pensieri sino in fondo non
possiamo che muoverci in direzione del raggiungimento della verità. Sottolineiamo il valore del muoverci in direzione della verità
e non tanto del raggiungerla. Di questo abbiamo già avuto modo
di riflettere, si tratta di vivere questa tensione verso e non di essere
affannati e affranti dalla brama di conquistare la verità.
Seguendo l’insegnamento socratico potremmo affermare che il
dire la verità equivale al vivere in una condizione di verità, ossia
stare in una relazione veritiera con la vita. Per Socrate si dice il vero
quando non c’è discrepanza fra ciò che si dice e ciò che si fa, egli
parla di “perfetta sintonia e corrispondenza che esiste fra chi parla e
ciò che viene detto”. Stare dentro un orizzonte di verità significa
dunque dire ciò che pensiamo sforzandoci di essere noi stessi sino
in fondo.
Il supervisore è dunque chiamato a dire la verità in modo assai
sintonico con sé stesso, animato e guidato dalla passione per la
cura della mente, dei pensieri, delle parole, della pensabilità. Il
supervisore diviene un testimone di un modo autentico e rispettoso di stare nel mondo, nella tensione verso la ricerca della verità
dell’accadere umano. Ma come può il supervisore essere autentico
stando dentro un orizzonte di verità sostenuto dal desiderio di curare la pensabilità del pensiero, evitando al contempo le strettoie
del giudizio mortificante? Crediamo che ciò sia possibile nella misura in cui il pensare sia un pensare costruttivo che si declina fortemente nel verbo materno dell’accoglienza, della comprensione,
della benevolenza. Un pensare e un dire la verità che aprono spazi e
tempi su nuovi mondi pensabili, un vivere nella verità che sostiene
costantemente in vita la speranza di una possibilità futura prestando nel contempo attenzione a ciò che è stato e a ciò che è. Ecco,
la verità della quale dovrebbe essere intessuto il buon supervisore
ha le caratteristiche di una messa in vita del senso di possibilità
attraverso le maglie della speranza. Il buon supervisore dovrebbe
dunque aver cura di vivere lui stesso e poi seminare lungo il percorso di supervisione la capacità di prendersi cura del futuro senza
per questo scordare il passato e distrarsi dal presente, anzi trovando
170
una possibile misura per abitare in modo sufficientemente buono
e veritiero il presente.
Da parte sua il candidato si troverà nella condizione, incontro
dopo incontro, di pensare e narrare nuove pensabilità, nuovi
mondi, nuovi orizzonti. Come se ad ogni incontro fosse possibile esercitarsi a cambiare punto d’osservazione dal quale accogliere e ascoltare l’accadere delle proprie esperienze professionali. La
vicinanza al suo vissuto da parte del supervisore, l’autenticità di
quest’ultimo nel vivere e comunicare ciò che coglie con sensibilità
e rispetto, saranno il nutrimento al senso di speranza e possibilità
dello studente, incoraggiandolo a sua volta ad addentrarsi lungo la
via della fragilità e della finitudine umana. Riprendendo le parole di Luigina Mortari, in questo caso potremmo affermare che la
supervisione corrisponde ad una “comunità di pratiche di pensiero”
entro la quale si possono “costruire mondi con le parole”.
3. Dalla tensione verso la verità al giudizio sull’esperienza
Il supervisore al termine degli incontri con il candidato deve essere in grado di redigere una valutazione del percorso svolto, deve
dunque giudicare l’esperienza avvenuta mettendo al centro della
sua attenzione l’evoluzione del candidato. In questo momento decisionale è solo con sé stesso, così come in ogni atto di creazione
tutti noi lo siamo, sebbene in quanto esseri relazionali potremmo
dire che siamo in una solitudine accompagnata. Sebbene intessuti
di relazione e nati nel linguaggio, vi sono momenti della vita in
cui non possiamo esimerci dall’assumere in solitudine, nel silenzio
dei nostri pensieri e del nostro cuore, le nostre decisioni. Anche in
questo caso la tensione verso la verità delle cose dovrebbe sostenerci nell’impegno a pensare da noi stessi cercando quelle vie di
comprensione che meglio ci permettono di essere fedeli all’evento da valutare. Evento che in questo caso si compone di parecchi
incontri di supervisione, ragione per la quale come già segnalato,
oggetto privilegiato di valutazione, ma non per questo il solo, sarà
la disposizione che il candidato ha mostrato alla trasformazione,
all’apertura.
Esercitare a fondo la propria facoltà di giudizio significa anche e
soprattutto confrontarsi con la parzialità e la finitudine della no171
stra esperienza, pensiamo ai due punti cardinali che hanno guidato
la nostra navigazione in supervisione fra apparire e non apparire
nel mare dell’essere. Evidentemente nel momento in cui il supervisore si assume la responsabilità di un giudizio si espone all’altro,
al candidato, alla scuola, a sé stesso. Risulta allora chiaro come la
capacità di giudicare sia in stretta correlazione con la capacità di
vivere la propria libertà di pensare, indipendentemente da ciò che
gli altri pensano.
Se poc’anzi abbiamo sottolineato come un importante nutrimento
per il candidato in supervisione sia la speranza, ora è giunto il momento di dire di cosa si nutre in particolare il supervisore, soprattutto nei momenti in cui è preso dallo scoramento della solitudine
nella quale l’esercizio del giudizio lo “getta”. La passione di capire
nutre il buon supervisore. Ma si tratta di una passione di capire che
riporta alla capacità di condividere, di confrontarsi, di allontanarsi
da sé, di navigare in acque sconosciute rimanendo fedele al proprio
intento. Per questo la costruzione di un giudizio non dovrebbe avvenire nascostamente e subitaneamente, ma svilupparsi lentamente, incontro dopo incontro, nella disposizione all’attesa e all’ascolto.
Il giudizio così costruito sebbene prenda forma in solitudine, sarà
intessuto del pensare intrecciato fra candidato e supervisore.
Anche il supervisore, tanto quanto il candidato, è alle prese con la
disposizione a pensare partendo da più punti di vista, ad allargare
il proprio orizzonte di pensabilità, a esercitare un pensiero critico
ponendosi anche dal punto di vista dell’altro, che non significa
guardare come l’altro, comunque impossibile.
Giudicare necessita forzatamente porsi delle questioni importanti
e fondanti dal punto di vista etico, delle questioni generali che
travalicano la contingenza del giudizio da emettere. Il supervisore
in questo particolare frangente si trova suo malgrado interrogato
da questioni che vanno nell’ordine generale del “che cosa è giusto,
che cosa è bene, che cosa è male, …”.
Il pensare eticamente impegnato è la cornice di tutte le cornici,
potremmo dire che il pensare eticamente è il setting universale
entro il quale vengono a formarsi altri spazi particolari, altri setting definiti in funzioni particolari. Questa cornice universale è la
garante della nostra possibilità di mettere in dubbio, di fragilizzare
le nostre stesse particolari cornici di riferimento attraverso l’uso e
172
l’esercizio di un pensare critico e riflessivo che si lascia muovere
dall’amore per il bene, sia nella sua funzione critico-negativa che in
quella critico-positiva.
3.7.9 L’incontro con Pandora e il viaggio con Dafne
Riflessioni riguardanti il crinale fra supervisione
formativa e psicoterapia psicoanalitica
Ornella Manzocchi
Tutte le cose terrificanti
non sono forse altro che cose senza soccorso,
che aspettano che noi le soccorriamo.
Rainer Maria Rilke
Quindi, perché le persone si capiscano a vicenda,
occorre che camminino o giacciano a fianco.
Marina Cvetaeva
Questo scritto è la testimonianza di un’esperienza in primo luogo umana, ma anche professionale che ho avuto modo di vivere assieme a due studentesse che alcuni anni or sono frequentavano La
Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI),
presso l’allora Dipartimento di Lavoro sociale (DLS), divenuto in
seguito Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) e oggi
Dipartimento di Economia Aziendale, Sanità e Sociale (DEASS).
Lo scritto si compone di due parti, la prima riguardante il percorso di supervisione formativa svolto con Pandora e la seconda
riguardante quello svolto con Dafne43.
Questa narrazione è accompagnata dal desiderio di proteggere
le vicende qui esposte, per questa ragione in essa sono presenti for43
Pandora e Dafne erano allora studentesse confrontate con la pratica
professionale, mentre la scrivente era il loro supervisore formativo. Nel presente
scritto non vengono mai riportate in modo completo e esaustivo le conversazioni
o gli accadimenti riguardanti i percorsi qui presentati, ma unicamente quegli
aspetti che a nostro modo di vedere possono essere indicativi del processo attivato
e delle riflessioni scaturite. In quegli anni la Scuola Universitaria Professionale
della Svizzera Italiana prevedeva per gli studenti in Lavoro sociale, un percorso
di supervisione formativa della durata di 24 incontri individuali, suddivisi in due
blocchi che si svolgevano durante i periodi di pratica professionale situati al terzo
e al sesto semestre della formazione triennale.
173
ti elementi di distorsione, nell’intento di preservare il più possibile
l’anonimato delle due studentesse in supervisione formativa.
Sicché la tua scelta è proprio tua;
nasce da un tuo bisogno, antico, precocissimo.
Non un’offesa o una violenza, ma qualcosa che ti
è stato negato
- che agli albori della vita è la violenza più
devastante;
una lacuna, un vuoto, la mancanza di un
elemento essenziale
nella tua dieta affettiva - ... insomma un
non-evento della tua
personale preistoria, che però ha lasciato una
traccia indelebile
nella tua personalità allora in formazione.
... dal training si esce “sanati ma non troppo”,
si affronta la professione
con una qualche ferita non perfettamente
rimarginata
- che poi è la ragione per cui non si cambia
mestiere Aldo Carotenuto
L’incontro con Pandora
Al nostro primo incontro Pandora suona il campanello e irrompe nello studio dove mi trovo con un paziente44. La invito
ad aspettare in sala d’attesa sino al termine della seduta in corso.
Quando poi le chiedo di entrare nello studio, Pandora è visibilmente agitata, si mantiene quasi sospesa dentro la poltrona che la
accoglie e che pare essere per lei un letto di fachiro; al contempo il
suo sguardo perlustra la stanza senza sosta, come una farfalla che
si posa di fiore in fiore, instancabile, frettolosa. Per contro ascolta
con disinvoltura il mio invito, in futuro, a non entrare direttamente in studio, attendendo che io vada ad accoglierla in sala d’aspetto.
L’irrequieta e paurosa farfalla si è tramutata in un placido rinoceronte, nulla lo impensierisce.
Come ad ogni primo incontro di supervisione formativa con
uno studente a me sconosciuto, la invito a presentarsi.
Irretita non sa bene da che parte iniziare, cosa narrarmi. Di nuovo fragile farfalla i suoi grandi occhi si posano qua e là, indugiano
44
In quanto psicoterapeuta, la mia giornata in studio si scandisce fra
sedute di psicoterapia psicoanalitica con i pazienti e supervisioni formative.
174
timorosi su di me, le spalle si stringono a formare una muraglia
protettrice. La ascolto e quando di tanto in tanto, quasi furtivamente, i nostri sguardi si incrociano, le sorrido.
Lei è l’ultima di una fratria alla quale appartiene anche una sorella maggiore infragilita da una schizofrenia cronica. Ha alle spalle
una precedente formazione professionale che le ha permesso di
essere indipendente economicamente e di entrare direttamente in
contatto con le persone, anche se, come precisa si trattava di “un
contatto che non poteva essere che superficiale”. Questa nuova formazione invece le darà la possibilità di stare a contatto con gli altri
in modo più profondo e veritiero.
Il suo racconto di presentazione prosegue affrontando il tema
del romanzo familiare: alle soglie della sua adolescenza i genitori
si sono separati e di conseguenza loro, i figli, hanno vissuto con
la madre. Da quel momento la sorella, già provata dalla malattia
psichiatrica, non è più stata autosufficiente, tanto da dover ricorrere al suo internamento in un Istituto. Per lei, Pandora, ciò ha
significato sentirsi sempre più in colpa verso questa sorella tanto
sfortunata quanto buona. Da piccine questa sorella, malgrado le
sue fragilità, si è occupata di lei sino a quando ha potuto. Con il
trascorrere del tempo lei inesorabilmente cresceva e diveniva via
via sempre più indipendente, tanto da rovesciare la situazione di
cura e di accudimento: ad un certo punto infatti fu lei ad occuparsi
della sorella schizofrenica e non viceversa. Giunto dunque il tempo
in cui lei, divenuta ormai grandicella, avrebbe potuto aiutare questa sorella sfortunata e buona, ecco che come una tempesta nella
tempesta, la separazione dei genitori e contemporaneamente la sua
crescita (adolescente piuttosto scapestrata e indipendente) hanno
gettato nello sconforto totale la sorella, sino al punto di doverla
allontanare da casa. Pandora si rimprovera di non avere capito il
disappunto della sorella che la vedeva crescere e divenire indipendente e di averla trattata spesso poco amorevolmente, di non averla
saputa accogliere così com’era. In quella situazione, con i genitori
che divorziavano e il padre che se ne andò, Pandora cresceva interamente occupata da sé stessa, “mia sorella non ha potuto far altro
che peggiorare, non ha certo potuto scegliere”. Tutto questo, spiega, le fa ancora oggi “montare dentro una grande rabbia”. Silenzio.
Le sorrido, aspetto e penso: ha aperto il vaso, cosa ancora si river175
serà all’esterno? Rimarrà sul fondo un briciolo di speranza? Certo
queste sono riflessioni che mi pongo da una prospettiva che non è
quella della supervisione formativa, bensì della cura psicoterapeutica. Sin da queste prime battute dunque mi rendo conto che la
folata che mi ha investita porta con sé tutte le sventure del mondo
di questa giovane donna. Da qui la mia decisione di chiamarla in
questo breve scritto, Pandora.
In grado comunque di riprendere il filo del percorso che l’ha
portata a questo incontro, Pandora passa alla narrazione riguardante la formazione professionale. Mi spiega che ha iniziato uno
stage e che si trova in un mare di problemi. Cambia postura, come
un fiero felino raddrizza collo e schiena, la testa alta, gli occhi indagatori che paiono non perdonare, mi scrutano, chiede il mio parere rispetto alla situazione di pratica professionale che mi illustra.
Vengo così a conoscenza del suo stage, nel corso del quale si trova
a contatto con dei bimbi piccini. Le operatrici che si occupano
abitualmente di loro le hanno spiegato che i bambini non possono scegliere e che per questa ragione deve astenersi dall’entrare
direttamente in contatto con loro; il suo unico compito, durante
le prime settimane è quello di osservare, non deve mai imporre la
propria presenza ai bambini.
Mentre la ascolto e la osservo con interesse, dentro la mia mente
i pensieri si affollano e si dispongono in nuove congiunzioni di
senso: queste educatrici che “si permettono” di dire che i bambini
non sanno scegliere, le inducono molta rabbia proprio come mamma e papà le hanno fatto provare molta rabbia quando hanno per
così dire intrappolato lei e la sorella nella condizione di non poter
scegliere. Loro e loro soltanto hanno deciso di divorziare e questo
ha comportato per la sorella un crollo e per lei un ingombro insopportabile, un nodo di rabbia e di sensi di colpa.
Mi limito a sottolineare come, sia nel caso dei suoi genitori che
in quest’ultimo delle educatrici, il suo stato di impotenza, quello
provato da sua sorella e infine quello che lei ipotizza vivano i bimbi
al nido, le suscitano molta rabbia. Le chiedo se pensa vi sia un legame tra la sua attuale scelta professionale e i sensi di colpa che ha
accumulato nei confronti della sorella che l’aveva accudita amorevolmente nella sua infanzia e alla quale durante la sua adolescenza
ha poi mostrato poca comprensione e gratitudine.
176
Pandora ascolta attentamente: crede vi sia un legame fra la sua
vita familiare e questa scelta professionale, ma non sa bene di che
tipo. Non è però soddisfatta della mia riflessione, la ritiene troppo
generica, vuole sapere con precisione se “teoricamente” sia possibile affermare che un bambino non sa scegliere. Aggiunge di essere
d’accordo con me, ritiene di essere sempre stata molto ribelle, anche arrogante, si è sempre comportata in modo estremo, nel bene
e nel male; dunque chi si frappone fra lei e questo suo modo di
essere la fa arrabbiare. Conclude rispondendo da sé alla propria
domanda, afferma che non è vero che non si può scegliere, anche
da piccoli si può.
Sento che ci stiamo muovendo nella tormenta dei mali del mondo, un passo falso e saremo travolte da folate nefaste che rischiano
di lasciare dietro di sé non uno stato di crisi, foriero di possibili trasformazioni nell’ordine del funzionamento mentale, ma uno stato
di catastrofe, portatore di disperazione e morte o di mutamento
della struttura mentale45. Pandora sembra dirmi “Guarda che io
ci sono e so scegliere”, infatti è entrata piuttosto energicamente,
di prepotenza nello studio e malgrado io le parli dandole del Lei,
continua a rivolgersi a me dandomi del Tu.
Per avvalorare la sua tesi Pandora ora mi racconta di un precedente stage, nel corso del quale non ha avuto l’imposizione di dover stare a osservare per settimane senza partecipare direttamente
e da subito alla vita dell’Istituto. Anzi, veniva trattata con parità
rispetto agli altri educatori che lavoravano, non c’era riunione alla
quale non partecipasse. Non solo, ma il fatto di essere nuova, senza
esperienza, la autorizzava ad esprimere tutto ciò che si sentiva di
dover dire, addirittura la invitavano a farlo e la ascoltavano con attenzione, le concedevano insomma una certa “autorità”. Era considerata a tutti gli effetti “una di loro”.
Pongo nuovamente in luce il tema del limite, che questa volta
prende spessore attraverso l’esperienza di una pratica professionale
durante la quale era “troppo dentro” mentre nella pratica professionale attuale pare essere “troppo fuori”.
45
Di questa riflessione siamo debitori nei confronti del pensiero dell’epistemologo francese Edgard Morin (1921), secondo il quale la catastrofe porta
mutamenti nell’ordine strutturale mentre la crisi porta mutamenti nell’ordine
funzionale. Riteniamo che catastrofe o crisi dell’esistenza investono sempre l’ordine della paticità, anche nel caso di esperienze di supervisione formativa.
177
Pandora è sorpresa, sorride imbarazzata. Già, ma allora, dice, durante nessuna delle due pratiche professionali sono riconosciuta.
Sospiro, sorrido. Certo questo è un tema centrale per ogni persona e in particolar modo in questa occasione per lei: essere riconosciuta e riconoscersi. Tema che si impone sia nella sua vita
privata che nella sua formazione professionale, tanto che fra lei e le
educatrici, dalle quali dipende per questo stage si sono già creati e
accumulati una serie di fraintendimenti.
Fissiamo un prossimo incontro e Pandora se ne va, dopo essersi
informata sulla mia professione e sul mio modo di operare in psicoterapia psicoanalitica.
Seguono altri incontri di supervisione formativa nel corso dei
quali Pandora ancora irrompe nello studio, si rivolge a me dandomi del tu, arriva in ritardo, apre il suo vaso e una folata di malanni
personali saturano l’aria: da fobie a difficoltà somato-psicologiche
a tentativi di cura attraverso terapie di gruppo, terapie alternative,
eccetera.
Mi sento caricata di una responsabilità che non sono autorizzata
a condividere con la SUPSI. Infatti fatte salve situazioni di gravità
tale da dover mettere in forse il proseguimento della pratica professionale, il supervisore formativo non intrattiene alcun contatto
con gli altri enti coinvolti nella formazione dello studente. La supervisione formativa presso la SUPSI è per contratto un momento
eminentemente privato, intimo, ciò che avviene durante quel percorso rimane vincolato strettamente al supervisore formativo e al
supervisionando. La supervisione formativa si caratterizza anche
grazie a questo suo rimanere ai margini, nell’ombra, pur essendo
elemento di valutazione centrale per la formazione dello studente. Infatti esso non può presentarsi all’esame di laurea se non ha
concluso positivamente, il suo percorso di supervisione formativa.
Questo modo di procedere avvicina fortemente il momento di
supervisione formativa a quello della cura psicoterapeutica, eticamente e deontologicamente legato al segreto professionale, fatte
salve situazioni eccezionali.
La possibilità per il supervisore formativo di prendere contatto
con la SUPSI, nel caso in cui il percorso con il supervisionando
mostri elementi di gravità, è sicuramente una scelta che garantisce
il buon funzionamento di una supervisione formativa obbligatoria
178
ed economicamente a carico della Istituzione di formazione. Questa possibilità risulta meno importante nel caso in cui uno studente si dimostrasse persona equilibrata, serena, con una buona vocazione alla cura e buone conoscenze teorico-pratiche. Nell’infelice
caso in cui uno studente mostrasse, ad esempio, un uso dominante
della modalità relazionale proiettiva, sia sulla scena della supervisione formativa che su quella del luogo di pratica professionale, la
questione diverrebbe cruciale. In questa eventualità la possibilità
di prendere contatto con la SUPSI, rompendo la dimensione di
intimità e protezione tipica del percorso di supervisione formativa,
aprendosi al confronto con l’Istituzione garante della formazione,
si mostrerebbe in tutta la sua dimensione formativa.
Non va sottovalutato il fatto che ogni persona professionalmente impegnata in campo sociale, ha alle spalle esperienze di vita più
o meno intensamente dolorose che l’hanno messa nella condizione di doversi confrontare in modo specifico con la frustrazione, e dunque con il dolore mentale, affettivo, cognitivo, fisico e
quant’altro. Non ci sarebbe altrimenti ragione per volersi occupare
di questi temi46. Dunque non è il passato difficoltoso che Pandora
ha vissuto e vive tuttora a impensierire. Occorre però riconoscere
e distinguere con chiarezza il bisogno di operare in campo sociale
nell’illusione di sanare le proprie ferite attraverso la cura di chi
pare condurre la propria esistenza ancora peggio di noi, dalla reale
capacità di stare accanto a chi soffre offrendosi quale contenitore in grado di accogliere, contenere e restituire il dolore mentale,
dopo averlo reso sufficientemente tollerabile, grazie al buon funzionamento della capacità di rêverie47, solidamente radicata in una
buona conoscenza del proprio mondo interiore.
Con Pandora sento di muovermi su di un crinale che funge da
spartiacque fra psicoterapia psicoanalitica e supervisione formativa,
non posso dunque esimermi dal pormi alcune fondamentali questioni: dove sta se c’è, soluzione di continuità fra queste due specifiche e differenti esperienze? Vi sono più risposte possibili, ognuna
46
Aldo Carotenuto, Lettera aperta a un apprendista stregone, Bompiani,
Milano, 1998
47
Wilfred Bion, Learning from experience, Heinemann, London, 1962,
Tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972, pag. 73; ed. USA, Aronson, New York, 1983.
179
delle quali parimenti valida e ognuna delle quali apre a nuovi orizzonti di riflessione e trasformazione. Una prima possibile risposta
è la seguente: per la supervisione formativa l’obiettivo è quello di
porre in luce per quanto possibile, passo dopo passo nel corso dei 24
incontri, la collusione fra mondo interno e mondo esterno. Ciò potrebbe fungere da stimolo per Pandora ad iniziare un vero e proprio
lavoro di psicoterapia psicoanalitica. Una seconda possibile risposta
riguarda la possibilità di piegare rigorosamente le suggestioni che
Pandora porta in supervisione formativa, riguardanti il suo rapporto
con i bimbi con i quali sta svolgendo la pratica professionale, così
da sospingerla a spostare e mantenere l’attenzione sul suo modo di
interagire con loro. Terza possibile risposta è quella riguardante la
possibilità di privilegiare soprattutto il tema legato alla dinamica che
si è creata fra lei e le educatrici, nel tentativo di dipanare qualche
nodo confusivo e collusivo con l’équipe.
E per finire altre due questioni si impongono alla nostra attenzione, proprio perché Pandora ha scelto volutamente di rivolgersi
ad una psicoterapeuta psicoanalitica per svolgere la supervisione
formativa, a fronte di altre possibili figure professionali che non la
interessavano.
La prima domanda è la seguente: durante gli incontri di supervisione formativa, quanto del suo mondo interno questa studentessa
ha riversato nella narrazione dell’esperienza di pratica professionale e quanto invece è stata particolarmente vicina all’esperienza
professionale vera e propria? O altrimenti detto: di quale grado di
contaminazione fra mondo interno e mondo esterno è stata testimone la narrazione in supervisione formativa?
La seconda domanda riguarda il mio modo di pormi come persona e il mio essere professionalmente profilata quale psicoterapeuta psicoanalitica. Quanto questi aspetti la hanno in un certo
qual senso indotta, invitata, autorizzata a portare sulla scena della
supervisione formativa i suoi vissuti personali, piegandoli talvolta
poco, talaltra puntualmente, sul singolo caso o sull’intera esperienza professionale che stava svolgendo?
Ringrazio Pandora poiché mi ha permesso, durante questi nostri incontri di vegliare con attenzione ma anche con complicità,
affinché la supervisione formativa non si perdesse nei “meandri
dell’osceno”. Quei meandri che riguardano la vita personale e in
180
particolare la paticità di Pandora. Intendiamo con questo tutto ciò
che si trova fuori dalla scena della vita esteriore, raccolto e protetto
dall’oscurità e dalle pieghe del nostro mondo personale, “dietro le
quinte” e dunque fuori dalla scena, o-sceno appunto; esperienze
che appartengono all’inconscio o al più al pre-conscio.
In questi incontri ho cercato di mantenere in vita la mia attenzione fluttuante senza imbrigliarla in un Falso Sé teorico, così da
garantire il più possibile il mio “sentire”, nella speranza di non spogliare, impoverire e banalizzare una narrazione carica di sofferenza
mentale e a volte fisica.
A questo punto pare profilarsi più distintamente un imprescindibile buon obiettivo per questa nostra supervisione formativa: il
riconoscimento da parte di Pandora di un bisogno, e la conseguente richiesta di aiuto psicoterapeutico.
Come il marmista può cadere vittima della silicosi, così l’operatore sociale può facilmente ammalarsi di una malattia psicologica.
Il marmista ha cura dei propri polmoni proteggendoli grazie ad un
filtro e sottoponendosi regolarmente a specifici controlli medici.
L’operatore sociale, nel nostro caso Pandora, come può proteggersi
garantendosi primariamente una buona salute psicofisica e di conseguenza la capacità di operare il più possibile in funzione del bene
di sé stesso e dei propri ospiti? Per noi non vi sono dubbi, senz’altro
grazie alla buona conoscenza del proprio mondo interiore, alla buona qualità delle conoscenze di teoria della prassi del lavoro sociale, al
talento personale nelle relazioni di aiuto e di cura. Garante centrale
di tutto ciò non può essere che un serio lavoro su di sé.
Il quesito si pone dunque in questi termini: come aiutare Pandora affinché la voce del bisogno, che nella sua economia pulsionale la sospinge senza sosta nei pantani del fraintendimento e nella
scarica psicosomatica, possa trovare la via adeguata per farsi sentire
e riconoscere?
Una possibilità ci pare essere quella di insinuare, con lievità, un
dubbio dentro questo suo mondo così rigidamente scisso in “con
me o contro di me”. Solo attraverso questa feritoia48 potrà allora
spirare una nuova brezza, permettendo che parte dei mali della
48
Aldo Carotenuto, Lettera aperta a un apprendista stregone, Bompiani,
Milano, 1998
181
cittadella interiore che la ingombrano e la addolorano, lascino spazio affinché la luce di una nuova aurora le permetta una diversa
prospettiva per la vita.
Il viaggio con Dafne
Anche per il viaggio con D.49 il tema centrale della riflessione
riguarda la differenza che intercorre fra l’esperienza e la trasformazione messi in essere grazie al percorso di supervisione formativa
e l’esperienza e la trasformazione messi in essere grazie ad un percorso di psicoterapia.
La supervisione formativa è un’esperienza bizzarra, un poco
provocatoriamente potremmo affermare che il suo unico obiettivo
è che il supervisionando vi “esca non come ci è entrato”.
Questo significa che la supervisione formativa è essenzialmente
una pratica di trasformazione riguardante l’identità professionale
del supervisionando, ma come ben possiamo intuire, ogni cambiamento nell’ordine dell’identità professionale ha delle ricadute
dirette anche per quanto attiene all’identità personale, e naturalmente questo vale anche in senso contrario, ogni cambiamento nel
solco dell’identità personale, apportato grazie ad un percorso di
psicoterapia, non può che avere delle ricadute dirette sull’identità
strettamente professionale.
La supervisione formativa funge dunque da “messa in moto”
nella dinamica relazionale dei soggetti che vi partecipano, potremmo dire un “riscaldamento” della mente in vista dei futuri incontri
con la realtà professionale.
D.: Con il supervisore ho riflettuto su me stessa e sulla relazione che instauravo con l’ospite o con il supervisore stesso. In
tale modo ho potuto considerare aspetti nuovi riguardanti il mio
modo di fare e di essere. Questo mi ha inoltre permesso di meglio
evidenziare e comprendere i vari punti di vista dell’altro (ospite o
supervisore). La supervisione formativa ha consentito e favorito un
sensibile cambiamento che mi ha aiutata a modificare la prospet49
Abbreviamo i nomi delle due persone coinvolte con la lettera iniziale:
D. per Dafne e O. per Ornella. In questo modo trascriviamo sia le suggestioni, o
gli avvenimenti attinenti a Dafne, nonché le restituzioni della scrivente, che allora
era il suo supervisore formativo. Queste annotazioni non riguardano naturalmente mai un incontro completo di supervisione formativa, ma unicamente degli
stralci che a nostro modo di vedere possono essere indicativi del processo attivato.
182
tiva dalla quale riflettevo sia sul lavoro che sulla mia vita privata.
Per finire mi ha permesso di conoscermi meglio sia dal punto di
vista lavorativo che personale, di comprendere meglio i miei limiti
e le mie capacità.
Il travaglio che qualifica le relazioni di aiuto e di cura è sommariamente definibile in questa semplice quanto complessa regola:
permettere all’Altro di esserci per quanto gli sia possibile. Detto
altrimenti si tratta di favorire il nascere e lo svilupparsi del desiderio di coinvolgersi in una relazionale costruttiva.
Questo scritto è testimone delle riflessioni scaturite durante i
primi quindici incontri di supervisione formativa. D. sin da principio ha sollecitato i miei organi di senso soprattutto grazie al suo
particolare modo di “entrare-stare-uscire” dal mondo delle relazioni, e in particolare da questa nostra relazione legata alla supervisione formativa. Sintetizzo in due battute ciò che dal mio punto
di vista potrebbe dire D. per caratterizzarsi: “Sono tanto insicura,
è meglio che mi si noti il meno possibile, ma più la mia attenzione è
volta alla prudenza più incappo nella goffaggine di un giullare!”. O
ancora: “Mi sento sempre come se camminassi sulle uova, più ci sto
attenta più rischio di muovermi come un elefantino che combina una
frittata!”
Questa impressione è circoscritta ai pochi incontri avuti e dunque a ciò che nel - qui e ora - delle quindici supervisioni è avvenuto, grazie alle comunicazioni che ci hanno permesso un incontro
denso di intrecci narrativi, fattuali, cognitivi, emozionali.
Al primo incontro D. arriva con anticipo ma non trova lo studio,
malgrado sia ben segnalato ed io le abbia spiegato l’ubicazione. Rintraccia però la mia abitazione privata, della quale peraltro non le
avevo parlato, suona il campanello di casa e rimane alcuni infruttuosi
minuti in attesa. Poi si aggira lungo i vialetti del parco e seguendo le
mie indicazioni trova lo studio! Con un filo di voce e stretta di mano
incerta mi saluta mettendomi prontamente al corrente di quello che
definisce un suo sbaglio, riferendosi alla ricerca dello studio e alla confusione con la mia abitazione privata.
Si presenta senza troppe difficoltà e tiene a farmi presente che è una
persona sensibile e assai indecisa. Mi informa che in precedenza ha
lavorato per parecchi anni in nidi per l’infanzia, senza alcuna formazione e senza supervisione. Poi ha deciso di intraprendere la scuola per
183
avere più strumenti. Con i bambini non si è trovata bene poiché non
era in grado di dar loro dei limiti e ciò a volte le “faceva paura”. Nel
corso del precedente stage si è trovata a suo agio con persone portatrici
di gravi disabilità poiché le consegne erano chiare, si trattava di svolgere con persone adulte e poco indipendenti dei “lavoretti manuali”. Si
sentiva invece insicura in foyer dove aveva il compito di occuparsi di
loro per ciò che attiene alla vita quotidiana: imboccarli, lavarli, cambiare loro il pannolino, aiutarli a coricarsi ecc. Per questa ragione era
riconoscente alla responsabile dell’Istituto che ha accolto la sua peraltro
sinceramente motivata richiesta di spostamento in un laboratorio.
Si informa in merito ai criteri di valutazione della supervisione
formativa.
Da parte mia raccolgo questa sua richiesta sottolineando la prematurità di tale preoccupazione. La informo comunque sul mio modo di
intendere il processo di valutazione e auto-valutazione come un momento che trova la propria naturale specificità inserendosi nei modi,
negli spazi e nei tempi dei singoli incontri di supervisione formativa
grazie alla nostra verbalizzazione condivisa nel qui e ora. La specificità
della comunicazione che attiene alla supervisione formativa risiede appunto anche nel sapersi decentrare sia per narrare gli accadimenti sia per
comprendere e valutare le nostre risposte e le trasformazioni che queste
generano in noi e nell’ospite. Sarà indicativo anche il nostro senso di
benessere o viceversa malessere, provato nel corso degli incontri.
Chiedo se è al corrente del significato della supervisione formativa,
delle regole, ecc. D. dimostra di avere le idee piuttosto chiare in merito
[tanto che mi permetto di anticipare sin d’ora, non avremo assolutamente problemi in tal senso durante l’intero svolgimento di questi
primi quindici incontri, che procederanno con regolarità, centrati su
singoli casi, sullo scambio con l’équipe, sui suoi vissuti inerenti tali
esperienze, su ciò che avviene nel qui e ora delle supervisioni stesse].
Data la mia formazione professionale il mio “orecchio musicale”
dovrebbe essere soprattutto in grado di cogliere alcune sonorità
che dalle profondità inconsce sono attirate alla superficie della coscienza e viceversa, dando vita a nuove melodie emozionali, cognitive, fattuali. In questo sta senz’altro l’intensità, ma anche la
riduttività del mio sguardo-ascolto-gesto.
D.: Al secondo giorno di stage vedo una paziente sul balcone che
mi saluta a grandi gesti e io rispondo con molto entusiasmo perché
184
sono felice di essere riconosciuta e attesa. Ma repentinamente lei volta
le spalle e se ne va. Incredula la raggiungo e la risaluto assai calorosamente e le chiedo spiegazione del suo strano ritirarsi. Lei mi tratta
male e io rimango ammutolita, non so cosa sia successo.
O.: Come si sentiva avvicinandosi a questo luogo di stage?
D.: Sicuramente un poco incerta, fumavo una sigaretta per tenere a
bada l’ansia. Quando ho visto e udito quel gran saluto diretto a me ho
tratto un sospiro di sollievo, come se fossi stata riconosciuta e accettata.
Ma poi quel brusco voltafaccia: ho pensato subito che dovevo capire,
chiedere perché. Sono praticamente corsa da quella signora.
O.: La sua ansia la pre-occupava? [spiego il significato di pre-occupazione].
D.: Si parecchio. E dopo quel brusco darmi di spalle lo ero a maggior ragione. Poi ho chiesto spiegazione al mio RP50 che mi ha detto
che questa signora fatica molto nell’accettare nuove persone e per questo assume comportamenti così imprevedibili: o troppo confidenziali o
troppo scontrosi.
O.: Ciò che mi ha appena raccontato pensa possa anche avere a che
fare con i suoi stessi atteggiamenti?
D.: In fondo anch’io non ho avuto una giusta misura con lei, sono
forse inizialmente stata troppo calorosa, quasi invadente e poi eccessivamente distante. Lì per lì non ho pensato che io ero un’estranea e che
arrivando potevo creare scompiglio, erano loro gli estranei per me. ...
...
D.: Quel signore mi metteva in imbarazzo ripetendomi di continuo
che in un prossimo futuro avrebbe partecipato ad una festa religiosa,
non solo, ma mi si avvicinava molto fisicamente. Non sapevo come
fare. Se gli davo ascolto non ripeteva che quella frase stereotipata, io
comunque non osavo ingiungergli di “smetterla”. Penso sempre che
dare un limite equivalga a far star male l’altro. Invece poi il Responsabile pratico mi ha consigliato di dargli un limite, ossia: della festa
ne parliamo una volta al giorno. Così effettivamente la questione si è
un poco distesa. Al rientro in Istituto dopo il fine settimana trascorso a
casa, durante il quale si è svolta la famosa festa, io eccitata subito gli
chiedo come è stata. Lui risponde imbronciato che non ci è andato. Io
50
Responsabile pratico, ossia un operatore sociale esperto che nell’istituzione lavora fianco a fianco dello studente in stage ed ha nei suoi confronti la
responsabilità formativa legata all’azione della pratica sociale.
185
rimango impietrita, inizio a parlare d’altro e a proporgli un’attività
che lo distragga da ciò che immagino sia per lui un dolore.
O.: Cosa le fa pensare che parlare della mancata partecipazione
alla festa corrisponda a procurare un dolore aggiuntivo, mentre occuparsi subito d’altro, nel tentativo di ignorare quanto è avvenuto sia di
sollievo?
D.: Forse l’abitudine che in generale abbiamo di non parlare di ciò
che fa male. Lui aspettava con molto entusiasmo quella festa, chissà
che delusione deve aver provato.
O.: Lei può sapere che delusione ha provato, come si sentiva quella
domenica, o nel momento in cui gliene stava parlando?
D.: In modo chiaro no perché non abbiamo più toccato l’argomento.
O.: Come si sentiva mentre gli parlava d’altro e proponeva qualche
lavoretto “sostitutivo”.
D.: Non bene, come se non fossi capace di aiutarlo.
O.: Qui con me lei cosa sta facendo?
D.: Parlo principalmente delle mie difficoltà.
O.: E io?
D.: Mi ascolta, mi incoraggia a spiegarmi sempre meglio, mi fa
parlare.
O.: Possiamo affermare che la incoraggio a condividere con me il
peso delle sue preoccupazioni, dei suoi dubbi ecc.? Oppure dobbiamo
dirci che infierisco contro di lei obbligandola in certo qual senso a stare
dentro una situazione che le fa male?
D.: Mi incoraggia certo, non mi sento sola di fronte alle difficoltà e
per finire comprendo meglio le situazioni e capisco che sono forse meno
difficoltose di ciò che da sola avevo percepito.
O.: E questo come la fa sentire?
D.: Capita, aiutata, non giudicata, non lasciata sola.
O.: Non pensa che questo potrebbe valere anche per il signore della
festa mancata?
D.: Credo proprio di si, ma io ci sono rimasta così male che ho pensato di ignorare questa situazione che ormai era passata. ...
Man mano gli incontri di supervisione formativa si susseguivano, D. ha avuto sempre più e sempre meglio la capacità di calarsi
in una relazione chiara e definita nella sua parte strutturante, rispettando tutti gli elementi di asimmetria e intercambiabilità che
ciò comporta. Per quanto riguarda il mio ruolo, D. non ha avuto
186
difficoltà nel riconoscere nel nostro rapporto la cifra di un “pensiero basato sul potere della capacità al servizio della crescita dell’identità professionale”. Da parte sua D. ha messo le sue risorse,
sia affettive che cognitive, al servizio del desiderio di “far nascere
Sé stessa, la propria identità sia professionale che personale” nello
scambio timido ma sincero che si è vieppiù permessa con me.
D.: Ho chiesto a quel signore perché usava solo il giallo per dipingere, gli ho mostrato tutti i colori della tavolozza. Ma lui non mi ha
risposto, ho avuto l’impressione che si fosse arrabbiato.
O.: Cosa le ha fatto credere che quel signore fosse arrabbiato?
D.: Il fatto che non mi ha risposto e ha smesso di dipingere.
O.: Allora di fronte alla sua richiesta di spiegazione, che nelle sue
intenzioni era volta ad aprire nuove possibilità, nuove pensabilità,
nuovi sensi, il “pittore del giallo” si è bruscamente chiuso in sé interrompendo sia la sua attività pittorica che la vostra conversazione.
D.: Già, è andata così. Ma non so come avrei potuto fare diversamente, io volevo solo incoraggiarlo ad usare anche altri colori.
O.: Secondo lei il giallo è un colore che al “pittore del giallo” piace?
Ne usa una sola tonalità? Ha problemi di vista, forse non riconosce
altri colori? Usa questo colore solo per dipingere o lo predilige anche
nei cibi, nelle bevande, negli indumenti, ecc.
D.: Non lo so. Non ho pensato che avrei potuto avvicinarlo in questo modo. Come fa lei qui con me!
O.: Abbiamo l’abitudine di chiedere o chiederci immediatamente
il perché delle cose, senza darci il tempo di sostare nella nebbia, là
dove ancora non capisco, ma guardo, annuso, ascolto, accarezzo, gusto.
Agendo così frettolosamente, restituiamo al mittente il suo messaggio,
il suo dono che ci consegna poiché per lui è probabilmente eccessivamente ingombrante e “in-significante”. Questa comunicazione corrisponde alla sua richiesta di aiuto, di comprensione. La restituzione
immediata, paro-paro, attraverso una domanda che vuole colpire al
cuore dell’esperienza (perché sceglie sempre il giallo?) al di là delle parole pronunciate, conferma che non lo capiamo, che deve pensarci lui a
meglio comprendersi e anche a fare in modo che noi lo possiamo capire
subitaneamente e inconfutabilmente, insomma deve essere chiaro e sicuro con sé stesso e con noi! Come si potrebbe fare per restituirgli invece
un pensiero parzialmente elaborato, tanto da non lasciarlo di nuovo
solo o viceversa sommerso da una prematura saturazione di senso che
187
non gli appartiene?
D.: Come lei sta facendo con me, a volte riformula ciò che le dico,
a volte mi stimola a proseguire nel racconto, a volte mi sorprende, a
volte mi aiuta anche mostrandomi alcuni agganci alla teoria che nel
corso delle lezioni scolastiche ho avuto modo di apprendere, oppure
mi sorprende chiedendomi di “guardare” di essere attenta a ciò che sta
avvenendo qui in supervisione con lei ora, congiuntamente a ciò che le
sto narrando rispetto ad un avvenimento accaduto in Istituto, e a come
si sta svolgendo il nostro incontro. In questo modo mi aiuta a scorgere
dei legami tra quello che lei chiama il - qui e ora - e il mio racconto e il
mio stato d’animo. Ad esempio ora comprendo “nei fatti” e non solo a
parole, cosa significa - la restituzione - che durante le lezioni di tecnica
del colloquio il professore ci illustra. Già, io sono sempre così insicura
che saturo le situazioni chiedendo subito alla persona “Perché hai fatto
così?”. È anche vero che in questo modo la lascio “sola” di fronte alla
indefinita vastità del suo mondo.
O.: Quando io la sorprendo?
D.: Quando mi “fa vivere” con una battuta come sia possibile interrompere un evento ripetitivo, circolare, che appare sempre più incomprensibile e inarrestabile. Oppure, sempre grazie alla battuta di
spirito, quando mi permette di poter parlare di una situazione, senza
il peso dell’angoscia generata da ciò che si sottrae alla comprensione, provando direttamente il benessere generato da questa possibilità.
Potrei accogliere nel locale pittura quel signore con un “Ben venuto
al nostro pittore del giallo” oppure potrei ironicamente battergli una
mano su di una spalla dicendogli che “Se continua di questo passo non
avremo più giallo. Dovrò pensare di rifornirmene presto!”
O.: Certamente, anche se qui si apre un nuovo capitolo che riguarda la sensibilità rispetto alla giusta vicinanza. Non sempre è possibile
avvicinare l’ignoto, che in quanto sconosciuto è sempre vissuto con
apprensione se non terrore, attraverso la battuta di spirito. ...
...
Ho dunque avuto modo grazie alla partecipazione attenta e disponibile di D., e anche alla sua capacità di accogliere e elaborare
le suggestioni, di calare come fosse una sonda lo strumento della
supervisione formativa, dentro quel suo strato di porosità che separa il topos arcaico e sommerso dell’inconscio o del pre-conscio
da quello più aereo e prossimo alla “fattuità” condivisibile del con188
scio, grazie in particolare alla donazione di senso che ogni buona
nominazione può garantire.
Sin dall’inizio ho comunque avvertito questo suo “tenue esserci”
che tanto richiamava, almeno in me, una sua velata ma riconosciuta richiesta di relazione di aiuto per sé stessa più che una di
supervisione formativa.
Di questo ho avuto conferma non solo grazie alle narrazioni di
casi di supervisione che ogni volta mi ha consegnato con trepidità,
quasi come quando ci si passa da un grembo all’altro un bimbo
appena nato, ma anche dalla chiara richiesta di un consiglio nella
ricerca di uno psicoterapeuta al quale rivolgersi per un aiuto riguardante una miglior conoscenza di sé.
Queste sono le ragioni che mi hanno portata alla decisione di
chiamarla con il nome naturalmente non veritiero, di Dafne. Nella
sua etimologia greca questo nome significa - alloro, la pianta amata
dal dio -. Dafne, figlia del fiume Ladone e della Terra supplica il
padre di trasformarla in questa pianta, affinché non sia raggiunta da Apollo, di lei innamorato. Mentre la variante laconica della
leggenda la vede alle prese con un altro innamorato, Leucippo, e
termina con “lo stare di entrambi nel mondo ma al prezzo di non
esserci”: Dafne trasformata in alloro e Leucippo reso invisibile.
Non possiamo non sottolineare il rischio che il nostro incontro
poteva correre, o forse ha addirittura corso: ci riferiamo al rischio
di confondere due richieste, due diversi modi di stare in relazione,
due obiettivi forzatamente differenti, che necessitano di attenzioni e risposte differenti. Ci riferiamo da un lato alla supervisione
formativa e dall’altro alla psicoterapia. Questo rischio è bene illustrato dallo psicoanalista Wilfred Bion, nel suo scritto intitolato
Seminari clinici51 al capitolo Arrangiarsi alla meno peggio. Egli sottolinea come, quando due individui si incontrano, si crea sempre
una tempesta emotiva. Non è detto che da questa turbolenza scaturisca necessariamente qualcosa di buono rispetto alla situazione
precedente questo incontro. Ciò che si può fare è decidere di “arrangiarsi alla meno peggio”. Non si sa immediatamente quale sia la
natura di questa tempesta emotiva, resta il problema di come trarne comunque il meglio. Tornando a noi, il supervisionando non
51
Wilferd Bion, Clinical seminars and four papers, Feetwood, Abingdon, 1987, Tr. it. Seminari clinici, Brasilia e San Paolo, Cortina, Milano, 1989.
189
è tenuto a fare ciò, può non essere disposto o non esserne capace.
Il supervisore deve invece possedere quello “strumentario” di base
che gli permette di navigare verso l’universo ignoto affrontando le
tempeste e le bonacce che ogni navigazione comporta.
Le cinque qualità del supervisore
Da questo punto di vista al supervisore risultano indispensabili
cinque qualità:
• una salda preparazione professionale;
• una buona conoscenza di sé stesso;
• la capacità di “stare nella nebbia” (quella capacità che il poeta
John Keats definisce - Negative Capability52-);
• una sostanziosa esperienza sia professionale che di supervisionando;
• la capacità di avere un’attenzione fluttuante.
Sono queste qualità che il supervisore deve possedere in buona
misura, affinché la coppia supervisore-supervisionando sia al riparo
dai rischi di fondo che insidiano questa pratica di trasformazione.
Per quanto riguarda la prima di queste cinque qualità, ossia una
salda preparazione professionale, mi permetto di far tesoro del
pensiero di Grinberg che ci segnala quattro rischi di fondo che
hanno a che vedere con la preparazione professionale del supervisore:
• Guardare solo la dimensione emozionale ponendo grandemente
l’accento sulla dimensione transfero-contro-transferale della relazione. Il rischio in questo caso è quello di modificare l’assetto della
supervisione avvicinandolo troppo al setting psicoterapeutico;
• Centrare lo sguardo unicamente sul supervisionando e non
sulla relazione tra il supervisionando e il suo ospite, tanto da avvicinare vertiginosamente la supervisione ad una prova di esame;
• Centrare la pratica della supervisione troppo sulla figura
dell’ospite tanto da porre in campo il rischio di un apprendimento
per imitazione;
• Trasferire un’ideologia nella supervisione, tanto che la supervisione stessa divenga un atto pedagogico.
52
John Keats, Letters, a cura di M. B. Forman, Oxford U. P., London,
1952, Tr. it., Lettere sulla poesia, (a cura di) Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano,
1984
190
D.: Oggi sono stata in un nuovo laboratorio e una signora mi si
è avvicinata dicendomi che mi avrebbe strappato gli occhi per metterli all’orsetto che stava cucendo e che poi mi avrebbe anche preso le
mani ecc. Io le ho subito chiesto perché, le ho anche spiegato che così
mi avrebbe fatto male e le ho mostrato tutto il materiale che aveva a
disposizione per la costruzione del suo orsetto.
O.: E questa signora cosa le ha risposto?
D.: Che lo faceva perché ne aveva voglia, che andavano meglio i
miei occhi e le mie mani. Ero preoccupata. Mi ha detto che tanto io
non ero mai lì e poteva prendersi i miei occhi.
O.: La sua entrata nel nuovo laboratorio era stata annunciata?
D.: Si certo, l’educatore mi aveva anche detto che quella signora
faceva particolarmente fatica ad accettare le persone nuove.
O.: E quando si fa fatica ad accettare una persona nuova, un estraneo, secondo lei cosa si può fare?
D.: Se non sono troppo preoccupata lo accolgo “bene”, se mi preoccupa cerco di tenerlo alla larga.
O.: E quella signora cosa ha fatto con lei?
D.: Mi ha fatto paura, mi ha fatto stare alla larga. ... Adesso capisco che io, come sempre di fronte alla paura, cerco di razionalizzare
e le ho detto che andavano meglio gli occhi di vetro per il suo orsetto,
piuttosto che i miei che servivano a me. Già, ma in fondo lei lo sapeva
molto bene, fa sempre quel lavoro in laboratorio. Forse potevo chiederle se le dava fastidio che ci fossi lì io invece della solita educatrice,
oppure avrei potuto sedermi accanto a lei e mentre si lavorava farmi
conoscere, raccontarmi. ...
Dal processo che i nostri incontri di supervisione formativa
hanno attivato posso ritenere di non essere particolarmente incorsa nei rischi soprascritti. Questa convinzione si radica innanzitutto
nelle trasformazioni che da incontro a incontro ho avuto modo
di - sentire, percepire, comprendere - in D.:
• sviluppo delle sue capacità di auto-comprensione;
• messa in moto delle sue capacità di approfondimento e di concettualizzazione rispetto a ciò che avviene nella relazione con gli
ospiti. Nulla di tutto ciò ha a che vedere con l’intellettualizzazione.
Evidentemente ciò implica un lavoro psichico non indifferente che
dovrebbe favorire lo sviluppo della capacità di essere al contempo
osservatore e partecipante;
191
• grazie al lavoro di sintesi finale avvenuto quasi ad ogni incontro,
D. ha preso coscienza del carattere processuale della supervisione;
• al termine di questi primi 15 incontri di supervisione è in grado di cambiare le prospettive di comprensione degli eventi, dando
vita così a un effetto di “sopra-determinazione” dell’accadere. È
così sempre più in grado di immaginare la molteplicità delle significazioni dell’accadere dentro la relazione con l’ospite, con l’équipe
e con l’Istituzione.
D.: Oggi purtroppo è morta una delle ragazze che da anni frequentavano l’Istituto. Ero molto provata e preoccupata. Sono rimasta assai
meravigliata e tranquillizzata da come gli educatori hanno informato
gli altri ragazzi, dando largo spazio all’espressione verbale di ognuno di
loro, alla gestualità, ai tempi e desideri di ognuno. In seguito verso fine
giornata anche per gli educatori, me compresa, si è ritagliato uno spazio
di tempo per condividere i pensieri, il dolore. Non avrei immaginato.
Per i ragazzi abbiamo preparato in un locale una grande ciotola contenente una rosa per ognuno di loro, attorno alla grande ciotola delle
ciotoline con una candelina accesa. Ogni ragazzo era seduto sul suo tappetino, assieme agli altri, in cerchio. L’educatore ha dato loro la notizia:
ognuno ha potuto raccontare qualcosa e poi ognuno ha scritto un suo
pensiero, alcuni hanno dovuto essere aiutati. È stato commovente. Alla
fine erano tristi ma molto uniti e non troppo angosciati. Ognuno con
la sua ciotolina contenente la candelina, la rosa e il biglietto con un
pensiero, siamo andati al laboratorio e abbiamo ripreso l’attività di ogni
giorno, con la consapevolezza di aver perso una compagna. Ogni tanto
qualcuno piangeva e io lo consolavo, gli chiedevo se conosceva questa ragazza da molto tempo, a cosa stava pensando in quel momento, se aveva
già vissuto l’esperienza di una persona vicina che muore ecc.
Ad un certo punto però non ho saputo bene come fare e ho subito
razionalizzato. Un ragazzo si è arrabbiato con un altro che è cieco e gli
ha detto di piantarla di rompere che tanto lui era cieco e non aveva mai
visto neppure sua madre, non solo la compagna morta. Io sono subito intervenuta difendendo il ragazzo cieco spiegando in primo luogo che lui
sua mamma l’aveva potuta vedere perché la vista l’aveva persa dopo la
nascita, in secondo luogo sebbene non avesse mai visto con i suoi occhi la
compagna morta, la conosceva anche lui e per questo ne soffriva quanto
tutti loro. Poi ho proposto alcune attività che mettevano in gioco altri
organi di senso, così da ristabilire un certo equilibrio di capacità fra loro,
192
come dire che il cieco vale quanto gli altri. Mi sentivo troppo maestra.
Era un pomeriggio particolare, era morta una ragazza.
O.: Quel ragazzo che ha aggredito verbalmente il compagno cieco
come stava quel pomeriggio in laboratorio?
D.: Era triste, abbiamo dovuto lasciarlo più volte solo in un locale
a piangere perché agitava troppo gli altri, quando è così, non solo nel
caso della morte di questa loro compagna, lo si accompagna in un locale
tranquillo e lo si lascia lì sino a quando si calma, può tornare con gli
altri quando vuole, quando se la sente lui. Non è per punirlo, è per offrirgli uno spazio tutto suo, protetto. Lui lo apprezza. Conosceva molto
bene quella ragazza.
O.: Dunque lei ha pensato subito di soccorrere fra i due colui che le
pareva essere stato ingiustamente ferito.
D.: Si certo, ma ho calcato un po’ troppo la mano sui giochi tattili,
uditivi ecc. ho sentito che avevo paura e razionalizzavo.
O.: Ma questo ha portato sollievo al ragazzo cieco e ai compagni?
D.: Si, certo ma ...
O.: E all’”aggressore” che piangeva la compagna morta?
D.: Non partecipava ai giochi sensoriali. Poi io gli ho detto che capivo
che era triste perché piangeva, ma non avrebbe dovuto attaccare così
questo compagno che in fondo già è menomato perché non ci vede.
O.: Come i morti! (D. stupita mi guarda).
D.: Non ci avevo pensato.
O.: Oltretutto lui che non ci vede è pure vivo e l’amica che ci vedeva,
come i vivi, invece è morta.
D.: Già, chissà quanto dolore e quanta rabbia doveva avere dentro
di sé.
O.: Infatti l’ha scaricata sul compagno.
D.: Ho pensato soprattutto a quello che mi sembrava ferito e non a
lui che aggrediva.
O.: Come avrebbe potuto pensare anche a lui?
D.: Forse dicendogli che capivo il dolore fortissimo che provava in
quel momento e che lo rendeva tanto arrabbiato. Occupandomi un poco
di lui anche senza dire nulla in particolare, ma senza allestire una “lezione” sui nostri cinque sensi. ...
A conclusione di questa prima parte di momenti di supervisione
formativa, credo di poter affermare che nel corso della ritmicità dei
nostri incontri si è potuto sviluppare un processo di valutazione e
193
auto-valutazione sia in D. che in me.
Per quanto riguarda sia il processo di auto-valutazione che quello
di valutazione D. ne ha dato prova e ne darà prossimamente, in
quattro distinte occasioni:
• principalmente nel qui e ora degli incontri di supervisione;
• attraverso la stesura del protocollo inerente la relazione con un
singolo ospite, da consegnare ai professori che si occupano del Laboratorio di pratica professionale presso il Dipartimento di Lavoro
sociale. Un protocollo di una trentina di pagine riguardante la pratica professionale svolta;
• sviluppando un breve lavoro scritto con alcuni compagni riguardante la messa in luce delle singole peculiarità e degli intrecci tra
supervisione - sostegno del Responsabile Pratico - agganci alla teoria
studiata alla SUPSI;
• e da ultimo lasciandosi sorprendere dalla capacità di narrarsi
attraverso una metafora che illustra il suo essere operatrice sociale.
Da parte mia il processo di auto-valutazione mi ha vista impegnata:
• nel favorire le trasformazioni di cui sopra, da una supervisione
formativa all’altra, attenta ai rimandi che D. stessa mi restituiva e
al mio senso di benessere o meno, di soddisfazione e adeguatezza,
riferiti alla situazione presentata e a quella generata nel qui e ora;
• durante le riflessioni accolte e quelle donate durante le lezioni
del corso di formazione alla supervisione, dei laboratori e delle giornate di studio;
• e per concludere grazie allo sforzo di analisi e soprattutto di
sintesi che la stesura di questo breve scritto dell’esperienza che ho
intitolato “In viaggio con D.” mi ha stimolato.
Al termine di questi primi quindici incontri D. pare tuttora incerta nella capacità di prendere in esame, con la dovuta tempestività
e direttamente sul luogo di lavoro, aspetti attitudinali e contro-attitudinali. Per contro è in grado di prenderli in esame durante la supervisione formativa, seppure con qualche difficoltà che si manifesta
nella scelta di descrivere più che di riflettere, e dunque in una sorta
di selezione mentale e di conseguente comunicazione che ha a che
vedere più con la dimensione cognitiva che con quella emozionale.
La supervisione sin qui svolta le ha permesso l’oscillazione tra due
poli, quello della costruzione dell’immagine dei propri ospiti e quel194
lo del recupero dell’immagine di sé stessa, in un continuo va e vieni.
Per quanto riguarda me stessa presumo di avere avuto la capacità
di trasmettere a D. la seguente ed importante effettività: il supervisore non è colui che possiede il sapere o che sa meglio ma, è colui che
sa altrimenti come anche Hermann Hesse ci ricorda.
La seconda qualità del supervisore: una buona conoscenza di sé
stesso, mette al riparo di facili proiezioni e moti difensivi eccessivi,
che potrebbero scaturire dall’incontro con il supervisionando. Affinché ciò sia possibile occorre naturalmente che il supervisore affronti
un percorso personale di psicoterapia psicoanalitica o di psicoanalisi.
La terza qualità del supervisore, definita “capacità negativa”, risulta anch’essa indispensabile. Da un lato per saper navigare dentro la
tempesta emotiva che scoppia nell’incontro tra due persone, come
già sopra scritto, dall’altro per saper oscillare tra il polo del sapere e
quello del non sapere; così come tra il polo del sapere e quello del
com-prendere.
Tutto ciò ancora non basta. Per essere in grado di navigare l’incertezza il supervisore deve possedere una quarta qualità: l’esperienza. Caratteristica questa che ci rinvia ad un tema tanto caro
a Bion e che appare come titolo ad un suo scritto del 1962, Apprendere dall’esperienza53. Ciò significa che il processo che avviene
in supervisione formativa corrisponde ad una messa in comune
dell’esperienza. Da questo punto di vista potremmo affermare che
la coppia supervisore-supervisionando si incontra anche su di un
piano che non è della totale asimmetria.
Un elemento inevitabile e particolarmente delicato sta nel fatto
che la supervisione induce dei processi psichici che decentrano,
“desecurizzano”, mettono in malattia parziale e costruttiva le posizioni di partenza del supervisionando. Fa dunque parte integrante del processo di supervisione il riaffiorare della triangolazione e
delle sue dinamiche, quale cuore della nevrosi esistenziale, ma non
necessariamente patologica della nostra cultura occidentale. Per i
supervisori degli studenti in formazione presso la SUPSI, questo è
un elemento centrale. Questi giovani, futuri operatori sociali, hanno generalmente sin qui maturato una relativa scarsa conoscenza
53
Wilfred Bion, Learning from experience, Heinemann, London, 1962,
Tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972; ed. USA, Aronson,
New York, 1983.
195
di sé e della propria interiorità. Paradossalmente però si trovano
confrontati con esperienze professionali durante le pratiche di stage che mettono in campo la dimensione relazionale triangolare
della “parentalizzazione”. Dunque in un periodo della loro vita
in cui ancora non ne sono fuori loro medesimi si trovano a dover
rappresentare l’Io-ausiliario per l’ospite di cui si occupano, condividendo questa funzione con i colleghi, l’équipe, l’Istituzione,
e ultimo, ma non da meno, ritrovandosi in una dimensione di
terziarietà anche in supervisione dove le tre polarità in tensione
costante e costruttiva sono appunto: il candidato, il supervisore
e l’ospite, oppure l’équipe, oppure l’Istituzione. La supervisione
deve dunque affrontare il tema della terziarietà, che avvicina inesorabilmente all’esperienza terapeutica: il supervisore diviene infatti
attrattore pulsionale nei confronti del candidato e questa è una
condizione delicatissima seppur necessaria.
Il campo di lavoro nel quale la coppia supervisore-supervisionando si incontrano è strettamente connesso al linguaggio dei
sentimenti, della realtà e della teoria. Il supervisore deve dunque
possedere una sua capacità non ostruttiva. Di nuovo emerge una
delle caratteristiche principali della supervisione formativa che è
quella di oscillare da una pratica che molto si avvicina alla psicoterapia per quanto attiene alla capacità del supervisore di accogliere,
contenere e restituire, a una pratica che comunque si astiene rigorosamente dall’interpretazione e dall’analisi privilegiando la sintesi
in un movimento di continuo ripiegamento sul caso e sul qui e ora
dell’incontro di supervisione formativa.
Questa osservazione ci permette di evidenziare la quinta qualità
del supervisore, ossia la sua capacità di avere e di mantenere un’attenzione fluttuante.
Tenendo conto di quanto scritto sopra vien da chiedersi a cosa
mai debba prestare la sua attenzione fluttuante il supervisore di
un giovanissimo candidato, nel bel mezzo della tempesta emotiva scoppiata al loro incontro. Va allora ricordato come la “nudità
dell’anima” si mostra sempre attraverso i sintomi. Ciò significa che
per forza di cose il supervisore deve permettere al supervisionando
di mettere in scena un retroscena di cui non si può non prendere atto. Naturalmente il supervisore deve poter contare su di un
solido modello di riferimento (fatto non solo di teoria ma pure
196
di pratica su di sé), tanto solido da poterlo “dimenticare”, proprio come quando si è automobilisti esperti e ci si permette di
chiacchierare, pensare ad altro, ascoltare i Vesperali di Mozart ecc.
giungendo comunque a destinazione senza incidenti. Non solo, il
supervisore deve conoscere con chiarezza i propri limiti, non scordarsi insomma che i piloti di formula uno hanno una preparazione
che differisce enormemente da quella dell’automobilista comune.
Dunque quando il sintomo si mostra in tutta la sua evidenza di
sintomo clinico54 il supervisore “sufficientemente buono”, parafrasando Donald Winnicott55, è colui che con autorevolezza offre al candidato, se questo è disposto a coglierli, gli strumenti per
comprendere e di conseguenza agire, decidendo di intraprendere
un lavoro su di sé. A tale proposito, per rispetto e riservatezza, mi
astengo volutamente dal riportare in questo breve scritto elementi
che avvalorano il percorso che in tale direzione D. ha praticato nel
corso dei nostri primi quindici incontri di supervisione formativa.
Da quanto scritto si desume che le supervisioni formative
nell’ambito della SUPSI e del Dipartimento di Lavoro sociale,
possono sortire tre diversi effetti:
• Non succede nulla;
• Le difese del supervisionando, ossia i suoi stili di azione, vengono messi in crisi e si modificano passando da un parziale crollo
o dalla loro completa caduta;
• Le difese del candidato aumentano evidenziando una rigidità
del suo pattern di azione.
La supervisione formativa deve dunque aiutare il candidato a
costruire delle diverse possibilità di comprensione e di azione, si
tratta di un lavoro di sintesi sia sul piano affettivo che su quello
cognitivo.
Gli incontri di supervisione formativa sin qui affrontati ci hanno permesso di sfiorare le seguenti esperienze:
• un livello di mentalizzazione grazie al quale la supervisione
formativa ha permesso di controbilanciare le spinte pulsionali, nel
senso che a volte si può porre quale anestetico, altre volte quale
54
Sigmund Freud, Tecnica della Psicoanalisi, 1912, Vol. VI, Boringhieri,
Torino, 1975
55
Donald Winnicott, Gioco e realtà, 1971, Armando, Roma, 1974
197
eccitante, a seconda della situazione;
• la supervisione formativa non è rimasta cieca ma ha teso a
incoraggiare la capacità di D. nello stabilire dei legami, delle connessioni che abbiano il valore della comprensione. A tale proposito
ricordiamo la lezione bioniana56 secondo la quale il terrore rimane tale sin quando è senza nome, innominabile e innominato. La
nominazione dà inizio ad un processo di contenimento indispensabile alla crescita conoscitiva. In una parola il supervisore deve
essere il garante dell’area della parlabilità, ossia della capacità di
nominare. La supervisione formativa risistema dunque nell’ordine
della sintesi e non dell’analisi;
• la supervisione formativa ha permesso di iniziare a sfiorare
un livello di riorganizzazione dello spazio mentale delle pulsioni
lungo l’asse adulto-bambino, passivo-attivo ecc.; in una parola ha
permesso un legame equilibrato fra un Io collaborativo ed un Super-Io non persecutorio;
• la supervisione formativa ci ha dato la possibilità di cogliere
la qualità della presenza di D. nello spazio della quotidianità. Tale
qualità è data dalla capacità di ascolto della domanda dell’ospite e
dalla altrettanta capacità di de-costruzione di tale domanda tanto
da poterla narrare al supervisore sotto forma della inevitabile menzogna, quale distorsione di ciò che per natura è già distorto.
Vorremmo suggellare questa riflessione con un pensiero di Fabrizia Ramondino:
“La capacità di viaggiare è inversamente proporzionale alla quantità di bagaglio; se il bagaglio mentale, una valigia stipata di luoghi
comuni, ha la stessa mole e quantità di quello materiale, è come se non
si viaggiasse affatto.
Impermeabili, calze di nylon, gambaletti, scarpe da trekking, ...
Tutto questo ha il suo corrispondente nel bagaglio mentale. È bene
invece portare un talismano, consacrato da noi stessi se non ci convincono le consacrazioni altrui. Affinché, proprio mentre siamo più
disponibili a uscire da noi stessi, come dovrebbe accadere in viaggio,
esso ci avvicini, non affettuosamente come un pupazzo di peluche, ma
fatalmente al noi stesso più irriducibile e segreto, quello che ci consente
56
Wilfred Bion, 1966, Catastrophic change, “Bull. Br. Psycho-Anal.
Soc.”, 5, Tr. it. Il cambiamento catastrofico, in Il cambiamento catastrofico. La
Griglia. Caesura. Seminari brasiliani. Intervista, Loescher, Torino, 1981
198
di dire “io” anche se è “un altro” - non specchio ma cornice vuota, non
limpida superficie d’acqua ma pozzo senza fondo dove non arriva a
rispecchiarsi nemmeno la luna, non seme celato dalla polpa del frutto,
ma fiore del desiderio o soffione, prima però di soffiarci sopra e verificare, a seconda che tutte le infiorescenze siano volate via o qualcuna
ne sia rimasta, se il desiderio espresso celatamente potrà realizzarsi. ...
E non potrebbe proprio essere il soffione un emblema di tutto il nostro
bagaglio di viaggiatori? Ché, quando in un soffio sia esso del caso o di
un ladro, siamo stati spogliati del nostro bagaglio, essi ci hanno aiutati
a realizzare il più segreto dei desideri: essere sempre più spogli, perché
solo a questa condizione potremo rivestirci di nuovo. Un desiderio così
segreto a noi stessi, così ineffabile, che mai riusciremo a formularlo.” 57
Questi non sono che brevi spunti di riflessione riguardanti due
esperienze di supervisione formativa condotte da me e condivise
con Pandora prima e Dafne poi. Pandora e Dafne che ringrazio
con gratitudine per ciò che nel corso dei nostri incontri mi hanno
incoraggiata a scoprire, perdere e diversamente ritrovare.
Oggi che ci accingiamo a pubblicare queste esperienze, Dafne
ha terminato la formazione e si è dedicata alla sua vita privata,
coronando un grande sogno: divenire mamma e occuparsi pienamente della sua piccola creatura, demandando a anni futuri l’inserimento nel mondo del lavoro. La formazione professionale dentro
la quale si inserisce anche il percorso di supervisione formativa, e il
percorso di psicoterapia intrapreso, hanno comunque permesso a
Dafne di immaginare che la sua futura scelta professionale sarà in
un ambito vicino al mondo del sociale, ma non a diretto contatto
con gli ospiti degli Istituti di aiuto e di cura.
Pandora ha terminato la formazione, si è cimentata con la professione di operatore sociale sin quando la convinzione riguardante
la sua scelta professionale ha iniziato a vacillare. Ha dunque deciso
di impegnarsi in una professione vicina al mondo dell’aiuto sociale, ma non a diretto contatto con gli ospiti. Ha intrapreso un
percorso personale di psicoterapia psicoanalitica, impegno che ha
maturato, scelto, chiesto, e ottenuto al prezzo di un non indifferente carico di angoscia, complici le brecce che pian piano si sono
insinuate lungo il muro di cinta della fortezza nella quale si era
57
Fabrizia Ramondino, In viaggio, Einaudi, Torino, 1995
199
barricata. Dunque un briciolo di speranza è rimasto miracolosamente integro, sul fondo del suo vaso.
… ho letto una volta che gli antichi saggi
credevano che nel corpo ci fosse un ossicino
minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità del
la spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si
decompone dopo la morte né brucia nel fuoco.
Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al
momento della resurrezione dei morti. Così per
un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cer
cavo di indovinare quale fosse il luz delle persone
che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima
cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da
distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati.
Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna
parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho
smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché
l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea
si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero,
folle e dolce, che forse il mio luz non si trova
dentro di me, bensì in un’altra persona.
David Grossman
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202
Portfolio
203
204
Le immagini scattate nel corso delle attività svolte al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona,
al Teatro Sociale di Argono, ai Musei Lombroso e di Anatomia di
Torino, alle grotte della Valle Imagna, rappresentano scampoli di
emozioni, pensieri, e vibrazioni che hanno contraddistinto il lavoro svolto sia dagli studenti che da noi stessi. Quando si selezionano
le immagini ci si chiede sempre perché tra le tante, tantissime, che
abbiamo catalogato, proprio queste hanno avuto il merito di essere
presentate per accompagnare il testo.
Non sappiamo se queste siano le fotografie migliori, ma sono quelle capaci, nello sfogliarle, di richiamare la nostra attenzione e conquistarsi uno spazio.
Seguendo la lezione di Roland Barthes potremmo anche affermare di aver scelto queste fotografie, poiché esse hanno esercitato
una fascinosa seduzione su di noi. Una fascinazione ovviamente
soggettiva grazie ad un particolare che ci ha catturati, il punctum
dell’immagine, testimone della nostra storia, in questo caso intessuta fra identità personale e identità professionale. Questa scelta
corrisponde inoltre a un nostro comune sentire, quello che Barthes
definisce lo studium di un’immagine. Ci auguriamo che questa nostra fascinazione offra anche al lettore la possibilità, oltre che di
scegliere o essere scelto dal suo proprio punctum, di riconoscersi in
uno sguardo condivisibile, lo studium, una sorta di inconscio collettivo che testimonia dei particolari dell’immagine che uniscono
gli sguardi in una comprensione emotivo-cognitiva, rendendoci
coralmente partecipi della situazione evocata dall’immagine.
Lo scatto fotografico, una volta eseguito non appartiene più al
fotografo, prende una sua strada, corta o lunga che sia, e sono
gli occhi di chi lo guarda a risvegliarlo, a partire dal catalogo dei
propri ricordi. Così per le immagini scelte: che siano prese dal
lettore come quei frammenti dell’esperienza che sono stati capaci
di sedurre ancora lo sguardo di chi, quell’esperienza, l’ha vissuta.
205
La nostra studentessa incontra la Contessa Maria Isimbardi d’Adda nei suoi ultimi
e estremi momenti di vita (1851/1853). La giovane Contessa, nel quieto e doloroso
raccoglimento della sua stanza pare intessere un silenzioso, intenso e lieve colloquio
con sé stessa e con la trascendenza. Accanto a lei la studentessa, colta da un richiamo empatico nei confronti di questa donna e dal fascino sacro che questo incontro
emana, pare ascoltare il non detto, cogliere le rimembranze, i saluti e l’estremo distacco che la Contessa irradia nel suo composto silenzio. Lei, la giovane studentessa
si “annida” a terra, in una sorta di rispettoso gesto di condivisione discreta e pur
tuttavia intensa e commovente.
206
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2013
207
Queste donne, L’Italia riconoscente alla Francia, 1861-1862, La libertà, monumento funerario a Giacomo e Filippo Ciani, 1869-1872 e La Dea della Scienza,
Minerva, 1858, sembrano richiamare l’eco di un profondo bisogno dell’umanità.
Ci riferiamo al bisogno di solidarietà, di pensosità, di riconoscenza, di gratitudine
e di decisionalità che possano indicare la via da seguire nella quotidianità, una via
che si snoda fra le pieghe formatesi nell’incontro fra luce e ombra. Di queste pieghe
paiono occuparsi con impegno e trasporto le nostre studentesse, anch’esse prese
dal bisogno di essere l’un l’altra solidali nei fatti e nei pensieri che quell’atmosfera
emana. Ognuna accanto ad una statua, ma tutte raccolte in quella stanza.
208
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2013
209
“Le tue mani Cristo al limite dell’universo / Perché i confini dell’universo / sono il tuo
amore / che genera eternità / in ogni direzione / Sei tu col tuo sguardo / a dilatare la
beatitudine e la materia” (Arnoldo Mosca Mondadori).
Il Cristo-uomo sembra dirti in questa immagine: vieni! Sembra invitarti a porgergli
la tua mano in quelle sue mani di dolore a dargli il tuo sguardo in quel suo sguardo
di accoglienza, perché incontro sia.
210
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012
211
La preghiera del mattino di Vincenzo Vela 1846: la testa china, non abbassata,
come per raccogliere un pensiero, come per formulare un’immagine interna prima che il giorno cominci. Il giovane e la statua dialogano nella postura, lei con il
quaderno già poggiato sul ventre, lui con i fogli tra le mani ancora ad occupare gli
occhi, prima che le braccia, pure loro, si abbassino per lasciare spazio all’infinito.
212
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012
213
Le anime, dopo essere fuggite dai corpi, sembrano nascondersi nell’immobilità
delle statue. È come se, prima di ritrovare la parola, tutto già avvenisse nell’attesa
paziente e tranquilla, nell’ascolto del silenzio.
“Ma a volte, il silenzio cambia il gioco e forma una parola nell’abisso. Allora la parola
diventa un altro gioco in noi” (Roberto Juarroz).
214
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012
215
Come le statue immobili del Vela, così nella fotografia anche le persone presenti
diventato loro malgrado e a loro modo statue: fermate come loro in un gesto, in un
atteggiamento, in una posa. È come se la fotografia ponesse un parallelismo tra chi
è vivo e si muove nello spazio e chi, le statue appunto, sono ferme nella posa scelta
dallo scultore. Fermi nel tempo nel teatro di Vincenzo Vela, in dialogo silenzioso e
perenne con i suoi protagonisti esposti allo sguardo del visitatore.
216
Al Museo Vincenzo Vela, un incontro fra volto e maschera, autunno 2012
217
Come abbandonati al crepuscolo del mattino, ancora con una parte di sé nella notte e nel cuore l’attesa per l’alba, si fa partecipe il corpo, lo si muove e lo si colloca
in uno spazio che è spazio condiviso; ci si abbandona per un attimo lasciandolo
pesante, al suolo, estremamente denso prima del levarsi, che cambia la propria
posizione e con essa la prospettiva e la visuale aprendo orizzonti nuovi e muovendo
lo sguardo verso altrovi sconosciuti. È il tempo dell’attesa dove dal tempo lunare
della notte si passa a quello solare del giorno, un tempo fragile come fragili sono le
terre e i tempi di mezzo. Interstizi del vivere aperti al mistero.
218
Al Castello Sasso Corbaro, fra notte e aurora identitaria, inverno 2012 219
Abitare l’aria, nella danza, di fronte alla vertigine dell’estasi … abitare la terra in
quell’abbraccio che sembra proteggere dalla vita stessa. Due polarità dell’esistenza
di cui la tragedia greca (“Le Baccanti” di Euripide) qui rappresentata parla. Immagini di corpi, acrobati della vita, sospesi gli uni nella frenesia del movimento e gli
altri nell’immobilità del dolore sempre a rischio tra l’altrove e l’abisso del dolore,
corpi che dimorano pienamente nel tragico dell’esistenza.
220
Al Teatro Sociale, fra passione e follia, la messa in scena delle Baccanti di Euripide, primavera 2014
221
Il dolore di Medea, la tragedia della sua lacerazione fra amore materno e ferita
narcisistica non possono che evocare tutte le Medee e i Medei dei nostri giorni,
feriti, traditi, abbandonati, disperati, persi nella follia di una vita che li ha travolti
e uccisi nell’animo. Tutto ciò pare essersi incarnato nei corpi e nelle espressioni
delle nostre studentesse. Da esse emana una sorta di gesto estremo, di forza interpretativa che è segno della loro capacità di cogliere, patire e interpretare l’intensità
della sofferenza. Al contempo l’immagine non permette equivoci, ma evidenzia il
contesto entro il quale questa interpretazione patica avviene. Sia l’operatore sociale
che l’attore, si avvicinano all’Altro, ospite o personaggio che sia, tanto da sentire
il fuoco del suo patimento, lo strazio della sua vicenda esistenziale. Poi entrambi,
operatore sociale e attore, lasciano per così dire la scena e tornano a vestire i panni
della loro quotidiana esistenza. In questo continuo va e vieni fra giusta vicinanza e
giusta distanza, sta il cuore della buona interpretazione per l’attore e della corretta
accoglienza e cura per l’operatore sociale. Non solo, in questo oscillare fra giusta
vicinanza e giusta distanza è racchiusa anche la cura di sé, l’attenzione alla propria
identità personale e professionale, sia per l’attore che per l’operatore sociale.
222
Al Teatro Sociale, fra passione e follia, la messa in scena della Medea di Euripide, primavera 2014
223
Il cadavere di cera parla di quel Körper che diventa oggetto e non è più Leib,
corpo vissuto che palpita nella vita, spera, soffre, gioisce e freme, che incontra e
intenziona il suo muoversi nel mondo. Ma quei tratti, quegli occhi, la scelta di una
pettinatura raffinata, la pelle liscia che sembra morbida, quei tratti che stridono
con l’apertura delle interiora, con l’esposizione impietosa delle viscere ci ricordano
la persona che abita il corpo; ci ammonisce, nella percezione di questo stridore, che
la cura del corpo è cura alla persona e ammonisce chi si accinge a prendersi cura
della corporeità a non dimenticare gli sguardi, le emozioni, le angosce e le paure
della persona di cui ci si occupa. E davanti a questa moderna venere che impudica
ci svela le sue interiora organiche, ci si ferma attoniti, silenziosi, rispettosi, come se
quella cera, cera non fosse; ci si dispone a semicerchio, come a creare un collettivo
contenitore ideale a quelle emozioni che fluiscono forti dalla giovane rappresentata.
224
Al Museo di Anatomia, gli sguardi sull’umano e le sue metamorfosi, primavera 2014
225
“Se non veniamo a patti con i morti, scrive Sonu Shamdasani in un dialogo con
James Hillman sul Libro rosso di Jung, semplicemente non possiamo vivere. ... la
nostra vita dipende dalle risposte che diamo alle loro domande rimaste senza risposta”.
L’immagine della ragazza che dialoga con i teschi, che la guardano come se fossero
in attesa di una sua parola, sembra cogliere l’attimo di quel loro segreto e intimo
dialogo che è quasi irriverente disturbare. Delicato e quasi sospeso nel tempo quel
loro guardarsi, quel loro parlarsi senza parole, sommessamente, quasi potessero
fermarlo.
226
Al Museo Lombroso, gli sguardi sull’umano e le sue metamorfosi, primavera 2014
227
Ha ragione Bachelard che il dimorare nella grotta permette l’inizio di una meditazione terrestre, così è avvenuto sotto l’antro del Buco del Corno, dopo le esplorazioni sotterranee. Qui abbiamo condiviso emozioni e pensieri, testi e citazioni,
ciascuno con il proprio libro di riferimento, che fosse romanzo, raccolta di racconti, che si trattasse di un saggio o di poesie. Ogni pensiero e ogni commento è stato
depositato in questo utero tellurico facendolo partecipare così alla vita della terra.
228
Alla Caverna Buco del Corno, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2014
229
Ogni atto creativo necessita della fatica del corpo e della mente, una fatica tutta
intessuta di una solitudine, non terrificante e alienante, ma accompagnata; una
solitudine che si vive e si percepisce grazie all’accoglienza, in questo caso della terra
madre. Nel caso della nascita di un bambino la si percepisce dal corpo materno, che
lo ha accolto e nutrito sino a quel momento e che continuerà a sostenerlo nel corso
della vita. Il sentire diviene finalmente percezione ed emozione, dentro quella dimensione di fatica che dal mondo di dentro ci accompagna sino al mondo di fuori.
Come Bion insegna, è la cesura che richiede maggior attenzione e cura, evocata dal
cunicolo che ci porta dal dentro al fuori.
230
Alla Grotta Europa, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2013
231
Nella notte, proprio prima del grande buio, quando le pareti della grotta si rendono accoglienti al fuggitivo gioco delle ombre, quando la battaglia tra luce e oscurità
si fa più intensa, s’odono parole come fossero voci giunte dal profondo. Le stesse
ombre sembrano per un attimo fermarsi ad ascoltare e si aprono davanti a quell’ultima luce.
232
Alla Caverna Buco del Corno, fra sottosuolo, origine e cesura, primavera 2013
233
234
4. Mappe di esplorazione
235
236
4. Mappe di esplorazione
La definizione di esplorazione è
esplorazione 1 l’esplorare; viaggio, spedizione intrapresa allo scopo di esplorare: andare in esplorazione; esplorazioni geografiche,
spaziali 2 ricognizione volta ad accertare consistenza e dislocazione
delle forze nemiche: esplorazione tattica, strategica 3 esame a scopo
diagnostico di una parte del corpo di un ammalato, o di un organo
interno, di una lesione ecc.: esplorazione della regione addominale;
esplorazione di una ferita.
237
4.1 “La Nottola di Minerva inizia il suo volo
sul far del crepuscolo”58
Esplorazioni ed esperienze attorno alla
“ragione sensibile”
Graziano Martignoni
La vie n’est pas un problème à résoudre mais une
réalité à expérimenter
Guillaume d’Orange
Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni
umane si ripetono così indicibilmente monotone
da caso a caso, ma alla paura per un’esperienza
nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede
maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non
esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica
vivrà la relazione con un altro come qualcosa di
vivente e attingerà sino al fondo della sua propria
esistenza.
R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta
Si può ritenere che la meraviglia della vita sia
sempre a disposizione di ognuno in tutta la sua
pienezza, anche se essa rimane nascosta,
profonda, invisibile, decisamente lontana.
Tuttavia c’è, e non è né ostile né ribelle. Se la si
chiama con la parola giusta, con il suo giusto
nome, essa arriva. Questa è l’essenza
dell’incantesimo, che non crea, bensì chiama.
F. Kafka, Diari, 1921
58
238
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1968, 17.
4.1.1. Cari “esploratori di terra e naviganti di mare”
mirando il volo notturno della hegeliana “nottola di Minerva”
ci accorgiamo, che la conoscenza dell’uomo e del suo “mondo-della-vita” (quello che traduciamo riduttivamente con la parola “sociale”) non si esaurisce nella misurazione, nella pesatura o nella
classificazione del visibile, ma spinge oltre la linea di orizzonte, nel
richiamo dell’Altrove, come per l’Ulisse dantesco alle porte delle
colonne d’Ercole. Guida di questo viaggio è il nostro “cuore”, la
forza delle nostre emozioni, l’ardore del nostro desiderio e delle
nostre passioni. Il “cuore” dunque, ciò che pulsa, respira, palpita
di desiderio. Senza questo “organo” la nostra anima si ammala e
si immiserisce. Nel pensiero fisiologico antico è insieme kardia,
organo centrale del corpo, stethos, petto e thymos, ardore. Aristotele
parla di pneuma come soffio, per dire la forza vitale. Nel cuore abita la conoscenza sensibile, l’immaginazione. Educhiamoci allora
alle pulsazioni del cuore e apriamo le porte dell’invisibile, che ci
abita e che abita il mondo.
È sullo sfondo di questi pensieri che si è pensato di accompagnare l’abituale itinerario studiorum che avviene all’interno dell’aula con sei “stazioni” extra moenia, presentate in queste mappe di
esplorazione. “Stazioni”, esplorazioni trasversali ai diversi Moduli
soprattutto del primo anno di studio e centrati sull’asse del triangolo identità-alterità-alienità, tese a sollecitare appunto l’esperienza e il pensiero sensibile del “cuore”, che diviene così strumento
di conoscenza, oltre che indice per l’operatore sociale della qualità
della sua presenza all’Altro e al mondo. Il quadro è allora quello
di una sorta di “pedagogia fenomenologico-esistenziale”, che converge, a mio modo di vedere, fluidamente nell’“anima” del profilo
identitario intellettuale e professionale, che andiamo costruendo.
L’operatore sociale sarà così attore non solo di inter-disciplinarietà,
ma di una vera e propria trans-disciplinarietà, generatrice di nuovi
oggetti di studio, di nuove realtà e di nuove possibilità di trasformazione.
239
4.1.2 Il pensiero complesso
“L’intelligence - scrive Morin nel suo La Methode 359 - est Une/
Plurielle. C’est une metis (Détienne, Vernant), mêlant en elle des
qualités très diverses, dont certaines semblent répulsives l’une à
l’autre, mais dont l’association lui est indispensable. Elle est ouverte
et polymorphe, constructive et destructive (critique), combinatoire (articulant ensemble les qualités intelligentes) et éventuellement
rotative (sachant faire se succéder ces qualités selon les événements
et les modifications de situation). L’art de l’intelligence, c’est aussi
de savoir choisir intelligemment les moyens intelligents propres à
traiter spécifiquement une situation donnée”.
È sulla scia di questo necessario “cambiamento di scena” e di
“punto di vista” (“per conoscere il proprio punto di vista bisogna
forzatamente cambiare punto di vista”), che, trasversalmente ai
diversi Moduli d’insegnamento dell’itinerario psico-antropologico, descritto nel dossier di presentazione “Mappe di navigazione
2013-14”, si è scelto di sostare lungo il percorso in alcuni luoghi
significativi a forte evocazione immaginativa, per farvi opera di
esperienza vissuta in prima persona e di scrittura nel quadro di
quel paradigma narrativo e fenomenologico-esistenziale, che orienta
i nostri insegnamenti. Luoghi che evocano l’attesa, l’immobilità, la
perdita, la partenza, la nostalgia, la lontananza e la paura. Sembrano a prima vista luoghi muti, testimoni di chi non c’è più, di chi è
già partito, di chi ha lasciato solo qualche vaga traccia.
4.1.3 Le mappe, i luoghi della “ragione sensibile”
Il Museo ove interrogare e farsi interrogare dalle statue per farle rivivere di nuovo nella scrittura, ove confrontarsi con il tema del Volto
che rivela e della maschera, che copre senza smettere di raccontare
ciò che è invisibile, il Cimitero come luogo monumento/documento
delle infinite storie che fondano la memoria collettiva, il Castello per
attendere che la notte cada e torni il giorno, metafora della caduta/
ricaduta, dell’inciampo e della risalita, con cui tante volte l’operare
sociale deve confrontarsi e poi la Grotta per vivere l’esperienza dell’oscurità, dello stretto pertugio in cui la paura dell’essere inghiottiti si
59
240
E. Morin, Il Metodo, vol. 3, Feltrinelli, Milano, 1989.
alterna con la gioia della rinascita e infine la scena teatrale, il palcoscenico con la messa in scena di frammenti della tragedia greca.
Luoghi dunque ed esperienze che mettono in gioco quella che
ancora Edgard Morin chiama, parlando del paradigma della complessità, la “double pensée”, Logos e Pathos, le due ali dell’angelo della
conoscenza che prepara l’azione. Da una parte ciò che appartiene
all’ordine del calcolo, della misura del concetto che separa e distingue, la “raison raisonnante” e dall’altra ciò che appartiene ai sentimenti, alla ragione sensibile (Michel Maffesoli)60, alla ragione melodica (Maria Zambrano)61, a quel movimento dell’anima che unisce,
che trova corrispondenze. Scrive Maffesoli, “rompant avec l’idéal de
raison abstraite héritée du siècle des Lumières, par la proximité que
devrait avoir l’observateur avec les événements décrits: c’est justement la Raison sensible. L’Eloge de la Raison sensible est un véritable déchiffrement du monde contemporain qui, aux raisons de la
Raison raisonnante, oppose les intuitions et les fulgurances de la
Raison sensible. Une manière d’approcher le réel dans sa complexité
fluide, de dresser une topographie de l’aléa et de l’incertain, de suivre
les lignes de fusion et d’effervescence du social, et de percevoir la
rumeur assourdie des redistributions de la vie collective”.
A queste variazioni della Ragione, a queste diverse razionalità aggiungerei nel percorso, che queste “stazioni” extra moenia, offrono
quella immaginativa descritta da James Hillman62.
Credo che l’epistemologia fluttuante e meticcia dell’operatore sociale necessiti in lui la costante attenzione a quell’oscillare tra pensiero diurno e notturno, tra progetto e opera, tra le diverse forme
della ragione in una sorta di “prova d’orchestra”, in grado di cogliere
nell’individuo come nel collettivo la loro più autentica melodia.
Questo in sintesi lo sfondo epistemologico di queste esperienze
fuori campo, che insieme al lavoro modulare in aula costruiscono
per noi un vero e proprio dispositivo formativo63.
60
M. Maffesoli, Eloge de la raison sensible, Grasset, Paris, 1996.
61
M. Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli, 2003. Cfr. su questo
tema L. Mortari, Un metodo a-metodico, Liguori editore, Napoli, 2006.
62
J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 2009.
63
Sul concetto di dispositivo cfr. G. Agamben, Che cosa è un dispositivo?,
Nottetempo, Roma, 2006.
241
4.2 Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto
4.2.1 Il volto e la maschera64
Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi,
Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli
Programma
8.30
appuntamento al Museo
8.45
inizio della lezione, introduzione del Prof. Martignoni
9.15 - 10.30
incontro con la statua
10.30 - 11.00
presentazione da parte degli studenti
11.00 - 12.00
noterelle teoriche dei docenti
12.00
sintesi finale Prof. Martignoni
12.30
Fine della lezione
64
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità personale”, che si svolge nel corso del primo semestre. L’esplorazione si sviluppa
anche grazie alla collaborazione della Dr. Phil. Ornella Manzocchi e della collaboratrice scientifica dell’Osservatorio per le Medical Humanities SUPSI, Guenda
Bernegger.
242
4.2.2 Pedagogia del volto
Un’esperienza propedeutica di educazione alla
comprensione presso il Museo Vela
Claudio Mustacchi
Va bene. Ho capito. Anch’io so tacere. Ecco. Taccio.
Una roccia. Una sfinge.
Nemmeno tu a proposito hai un gran bell’aspetto
negli ultimi tempi;
io, però, sto perdendo completamente la ragione,
questo si, non è difficile da vedere.
David Grossman, Caduto fuori dal tempo
Nel suo testo pubblicato nell’ormai lontano 1999 sotto l’egida
della Nazioni Unite, il sociologo e filosofo Edgard Morin annoverava fra i sette saperi necessari all’educazione del futuro la “comprensione”65. Concordiamo con Morin che insegnare la comprensione è cosa ben diversa dall’insegnare la comunicazione: nessuna
tecnica di comunicazione apporta comprensione. La comprensione comporta una conoscenza da soggetto a soggetto, che non è implicita nella semplice vicinanza all’oggetto: “Se vedo un bambino
in lacrime, mi accingo a comprenderlo, non misurando il grado
di salinità delle sue lacrime, ma ritrovando in me i miei sconforti
infantili”66.
L’invito pedagogico lanciato al mondo da Morin, è da sempre
al cuore delle nostre preoccupazioni d’insegnanti delle professioni
sociali. Un impegno che affrontiamo con umiltà, asintoticamente,
senza illuderci di giungere a una soluzione ultima e compiuta.
Ci accompagna nell’esperienza proposta agli studenti la condivisione di saperi fenomenologici e psicodinamici che convergono
nel fenomeno esistenziale e psichico del volto, unità gestaltica antropologica che abbiamo eletto a tema portante della giornata.
Volto, inteso come manifestazione dell’esistenza altrui, irriducibile e, per certi versi, mai pienamente comprensibile. Scrive Sartre:
65
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, 97 e ss.
66
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 99.
243
“In primo luogo, l’apparizione di un altro nella mia esperienza si
manifesta con la presenza di forme organizzate quali la mimica e
l’espressione, gli atti ed i comportamenti. Queste forme organizzate rimandano ad una unità organizzatrice situata, per principio, al
di fuori della nostra esperienza”67. Esperienza oggettiva, concreta,
quotidiana, ma che attraverso lo sguardo dell’altro su di me mi
rivela che “altro è per principio ciò che non può essere oggetto”68.
Fra me e l’altro esiste una distanza di natura particolare che parla
del nostro essere nel mondo. Continua Sartre: “Altro mi guarda
non in quanto sta ‘in mezzo’ al mio mondo, ma in quanto viene
verso il mio mondo e verso di me con tutta la sua trascendenza”69.
In quanto volto, in quanto sguardo, l’altro non si presenta come
oggetto, “L’obiettivazione d’altri, come vedremo, è una difesa del
mio essere che mi libera proprio dal mio essere per altri”70. Passi
che sono entrati nella storia delle scienze umane e sociali, con conseguenze rivoluzionare nelle pratiche dell’educazione e della cura.
La distanza infinta fra me e l’altro raccontata da Sartre è fonte di profonde riflessioni etiche in Levinas, “Il volto si sottrae al
possesso, al mio potere [...] mi invita a una relazione che non ha
misura comune con un potere che si esercita, foss’anche di godimento o conoscenza”71. Dalla sua realtà, una realtà che “fa a pezzi
il sensibile” scaturisce l’imperativo “non uccidere”, è il volto ciò che
veramente viene ucciso. “Uccidere non è dominare, ma annientare
rinunziare assolutamente alla comprensione. L’omicidio esercita
un potere su ciò che sfugge al potere [...] Altro: la resistenza di ciò
che non ha resistenza - la resistenza etica”72.
Il volto ci parla anche del nostro desiderio di essere riconosciuti,
del nostro desiderio di essere oggetti di uno sguardo, del nostro desiderio di esistere nel desiderio altrui, che è costitutivo della nostra
67
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano, 1984, 290.
68
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 340.
69
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 341.
70
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla: Saggio di ontologia fenomenologica, 339.
71
E. Levinas, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano,
1977, 203.
72
E. Levinas, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, 204.
244
personalità. Sono i temi sviluppati dalla psicanalisi, e con particolare approfondimento da Lacan.
Il volto della madre, e più in generale lo sguardo del genitore,
è oggetto di intenso investimento amoroso da parte del bambino,
amore che ritorna su di sé consentendo l’unificazione delle sensazioni che da origine all’Io e che da luogo al narcisismo primario
indagato da Freud nel suo saggio Introduzione al Narcisismo, del
1914. Il bambino immagina l’immagine che la madre ha di fronte
- cioè se stesso - e ottiene così una forma totale “grazie a cui precorre come in un miraggio la maturazione della propria potenza”73,
forma immaginaria che darà forza strutturante all’Io, da cui si svilupperà l’identità personale. Famosa è la rilettura che Lacan fa, a
questo proposito, dello studio condotto da Wallon74 sul bambino
di fronte alla propria immagine allo specchio.
Il volto mostra la sua persistenza e appare nelle forme antropomorfe e totemiche. È il fenomeno che da luogo alla maschera, al
travestimento rituale, alla scultura e in fondo a tutta l’arte visiva,
anche a quella dove sembra non apparire nessun volto, ma dove il
volto è sempre cercato. È questo un aspetto del volto che certamente s’intreccia con gli altri, più sopra accennati, ma che amplia lo
sguardo coinvolgendo il legame che unisce fra loro gli essere umani
e li costituisce in società. “È un fatto che presso tutta l’umanità si
porti o si sia portata la maschera. Questo accessorio enigmatico
e privo di uno scopo utile è più diffuso della leva, dell’arpione,
dell’arco, dell’aratro [...]. Non vi è utensile, invenzione, credenza,
costume o istituzione in grado di unire l’umanità, o almeno di rendere così manifesta e compiuta tale unità”75. Questo, forse, perché
il volto rituale conserva l’eco delle generazioni che ci hanno precedute, evoca la domanda del nostro ruolo nel mondo e nell’infinita
catena del tempo, ci consegna all’enigma del reale e del sacro.
Sguardo, maschera, oggetto di etica, di desiderio, di rito, d’arte:
la fenomenologia del volto consente di avvicinare gli elementi pro73
J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, 89.
74
H. Wallon, L’origine del carattere nel bambino, Editori Riuniti, Roma,
1974, 210 e ss.
75
R. Callois, L’occhio di Medusa: L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello
Cortina, Milano, 1998, 108.
245
fondi implicati nella comprensione dell’altro e di sé, in un cammino propedeutico per le posture delle professioni che formiamo. La
giornata presso il Museo Vela vuole essere un’occasione didattica e
educativa in tale direzione.
4.2.3 Guardare in volto
Graziano Martignoni
Prima parte: “Il Volto e il mistero”
“Guardare in volto” vuole dire affacciarsi all’infinito. In un Volto posso naufragare come nell’esperienza degli innamorati, perdermi, smarrendo la mia identità; da esso posso essere incantato o
terribilmente impaurito, attraverso di lui posso però anche trovare
la via che mi conduce fuori da me stesso, verso il senso della mia
esistenza. Difficile dire che cosa sia veramente un Volto. Esso è
nello stesso tempo sguardo, “occhi che vedono e sono visti” nella
luminosità, in cui l’incontro con l’Altro possa prodursi, e parola
con le sua incapacità di dire pienamente ciò che vuole esprimere.
In esso qualcosa ci sembra dato, definito, confermato eppure qualcosa ci rinvia sempre ad altro, alla sua incompletezza. Possiamo
guardare il Volto alle persone più care e conosciute, troppo spesso
con il tempo ridotte a visi, che si ripetono sullo sfondo del quotidiano fattosi banale, e trovare sempre qualcosa che ci era sfuggito,
che ci viene incontro per la prima volta, che ci parla per la prima
volta. Il Volto dell’Altro è la misura delle infinite possibilità con cui
una umanità può essere donata. Viviamo in un epoca in cui tutti
si guardano, un cui il viso degli uomini ci appare in ogni attimo
della nostra giornata così da cancellare in una luminosità spesso
accecante ogni penombra, così da fare del nascosto un impossibile
piacere o un pericolo. Eppure sempre più abbiamo la percezione,
nel commercio idolatrico dei visi reali, pubblicitari o televisivi, che
qualcosa ci stia sfuggendo, spingendoci nella banalità e nella indifferenza. Ciò che ci è negato, ciò che è sempre più difficile guardare
è infatti il Volto dell’uomo. Scrive Antonin Artaud “da mille e
mille anni infatti/ da che il volto umano parla / e respira/ si ha
ancora come l’impressione /che non abbia ancora cominciato / a
dire ciò che è e ciò che fa…”. Il Volto ci apre all’identità di chi si fa
246
incontro e nello stesso tempo nasconde, cela un mistero irraggiungibile al confine tra visibile e invisibile. Il Volto con il suo sorriso
parla della felicità, con le sue rughe del tempo che passa, con il suo
sguardo del desiderio tra gli uomini, con le sue smorfie del dolore
e della sofferenza. Disegna una carta del mondo, come scrive Bruno Chenu, che è nello stesso tempo una “geografia dell’anima”.
Parla a volte del destino degli uomini, delle loro speranze e delle
loro delusioni, ci racconta la loro ricchezza interiore ma anche i
deserti che li abitano. Dice la verità di ognuno di noi ma anche la
nostra menzogna nella collezione di maschere che sa portare. Se
il viso ci rivela la nostra presenza materiale nel mondo, il Volto ci
chiama. Eppure tra ciò che mostra e ciò che nasconde, ci fa sentire
una tensione verso qualcosa che va al di là della nostra percezione
immediata. Apre al mistero della trascendenza che abita in ognuno
di noi. “Guardare in volto” è come esporsi all’esperienza misteriosa
e seducente del mistero che ogni altro uomo contiene; il mistero
della singolarità e della irriducibile differenza di ogni uomo. I visi
possono essere classificati, numerati, contati dalle scienze umane
(dalla sociologia, dalla psicologia, dalla medicina, che ci hanno
fatto conoscere la dimensione storica del viso), il Volto mai. Una
singolarità, che rinvia immediatamente alla nostra unicità, invitandoci ad arredare la nostra interiorità e ad abitare il mondo che
ci sta dinnanzi. “Come era bello il mondo - scrive il poeta francese
René Char - quando non aveva che la larghezza di un volto”. È
dunque ancora possibile, nella foresta invadente e ingombrante dei
visi senza ombra, “guardare in volto”?
Seconda parte : “Il Volto e l’ospitalità”
Il Volto ci pone dinnanzi al dono della ospitalità. Ma che cosa
ospitare dell’uomo in quell’umanissimo “guardarsi in volto” di
cui si dovrebbe nutrire la nostra quotidianità? Che cosa ospitare
dell’uomo se non la sua lacerante interrogazione. L’uomo di tutti
gli esseri che sono nel mondo è l’unico che pone domande sino alle
estreme frontiere della vita, sino al crepuscolo della mente. “Egli è
l’interrogante originario, che abbraccia col suo domandare non solo
l’essere di tutte le cose, ma anche il suo stesso essere, fin nelle radici
più profonde”. Ciò di cui è fatta la sua domanda è l’incompiutezza
della vita e del tempo. Senza esperienza continua del dolore e del
247
limite, senza la frustrazione dello scarto fra compimento e attesa,
verosimilmente l’uomo non si porrebbe domande. La malattia è il
sintomo di questo “essere gettato” dell’uomo nella esistenza della
vita, come una bottiglia sul bagnasciuga, che attende che qualcuno
ne sveli il messaggio che porta con sé. Noi tutti infatti apparteniamo al mondo, ma non siamo del tutto del mondo. Viviamo
una lacerazione, una differenza dal mondo, che chiamiamo a volte
sofferenza, altre dolore, altre malattia. È di questo comune destino,
che il Volto ci parla. “Fare giustizia dell’Altro - scrive Italo Mancini
- significa rapportarci all’intero volume della sua nudità non solo
quella del volto o del pudore, ma anche quella di nutrire il corpo,
risolvere la questione del freddo e del riposo, del cibo e della casa.
Fare giustizia al volto […] significa far passare la misura della accoglienza nella misura del dono”.
Un giorno, ero un giovane medico di un reparto psichiatrico,
gli infermieri mi chiamarono perché un giovane malato in presa
ad una gravissima agitazione brandiva minaccioso un oggetto acuminato. Bisognava fare qualcosa subito. L’unica cosa che mi venne
spontanea nella mia “innocenza” professionale fu quella di guardalo
in faccia e di offrirmi alla sua aggressività con la mia (la sua) paura.
Non per consapevolezza ma per chissà quale accadimento dentro di
me gli offersi il braccio in segno di vicinanza. Quel gesto inatteso
e paradossale modificò ad un tratto il movimento contro il mondo
che questo giovane stava vivendo per sentire di esistere e poi per esserne come sempre scacciato e rinviato alla sua non esistenza. Questo piccolo evento personale mi rinvia ad un libro di una infermiera
svizzera degli anni ’30, Gertrude Holler-Swing. Il libro si chiama
Un cammino verso l’anima dei malati mentali. In esso si racconta
che cosa significhi “guardare in volto” ai malati, leggere nel volto il
peso del mondo, cogliere la presenza dell’Altro nei dettagli semplici della quotidianità accolti come segni, tracce della sua esistenza,
frammenti da cui partire per dare senso alla esistenza stessa, anche
quella più disperata. Tante piccole storie, incontri, come quello in
cui è raccontato di una malata grave, a cui l’autrice si avvicina senza
fare nulla; non c’è nulla da fare a volte, basta solo aprirsi al mistero
che l’Altro vive, guardare silenziosamente. Poi senza fare pesare una
presenza che sarebbe stata intollerabile per la malata, le dice “posso
riassettarti i capelli?”. Una parola del tutto paradossale, inusueta,
248
inabituale di fronte all’agitazione di quella malata, un gesto inatteso, che parla al Volto e trasforma la presenza “faccia a faccia” in un
dono. La malata si abbandona in un pianto e si lascia prendere nelle
braccia dell’infermiera. Non è un miracolo, ma solo pratica di un
“guardarsi in volto”, che è apertura gratuita all’infinito dell’Altro.
Si realizza così un atto di riconoscimento della singolarità del Volto
che sottrae alla indifferenza di un viso che avrebbe consegnato la
malata solamente ad una malattia? “Guardare in volto” fonda così
un’etica della vicinanza all’Altro nella cura, nell’aiuto, ma anche
nell’amore, nella vita. Un’etica dell’essere-con. Ma che cosa vuol
dire star di fronte al Volto dell’Altro? Come fare della mia soggettività, una soggettività accogliente e ospitale, esposta all’incontro
in cui l’altro uomo si presenta come esigente, indigente e sempre
radicalmente altro da Sé? Come rispondere a questo triplice mistero, che parla del senso della vita e della morte per ognuno di noi,
che si appartiene e contemporaneamente è esiliato da se stesso, in
un continuo flusso di appartenenza e riconoscimento, di testimonianza di Sé e presenza all’Alterità, che il Volto di un altro uomo
induce. “Stare di fronte” significa allora assumere dentro la nostra
responsabilità quella comune “indigenza” fondamentale, che trasforma l’“accoglienza nella misura del dono”. Come fare perché il
“guardare in volto” come condizione della accoglienza non si fondi,
come scrive E. Levinas nel suo libro Dal Sacro al santo, nello spazio
indifferente del “caffè”, luogo del futile e della violenza ?
“Il caffé è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete. Il caffé non è
un luogo, ma un non-luogo, per una non-società, per una società
senza solidarietà”. Un non-luogo in cui si è per l’altro non “amici”
ma semplici passanti. Contro questi luoghi, contro la pratica indifferente del “caffé” nella vita quotidiana di ognuno di noi, deve
vigilare un’etica del Volto. “Guardare in volto” obbliga a trasformare in compassione la sin troppo facile commozione di un attimo.
Poniamoci un’ultima domanda: perché mai il Volto, di chi ci viene
incontro, deve riguardarci? La risposta è semplice. “Il Volto dell’Altro è prima di ogni cosa il mio compagno originari, cioè me stesso”.
249
4.2.4 Appunti e accenni sul trattenere e distogliere
lo sguardo
Lorenzo Pezzoli
Il volto è l’anima del corpo.
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, 1934/37
Preambolo
Dinnanzi ai volti delle statue del Vela, al viso fiero del vecchio
Garibaldi, al volto corrucciato di Spartaco, ai baffi e alle barbe
spioventi di quei profili dagli occhi incavati che trasportano il
compagno caduto sul lavoro, emergenti dal memoriale della galleria del San Gottardo, dinnanzi a questi volti come a quello del
Napoleone morente che ancora sprigiona quel guizzo di potenza
e fierezza dell’uomo che ha dominato un mondo, dinnanzi a questi volti siamo accompagnati a pensare ai volti, agli sguardi, agli
incontri del nostro quotidiano. Del quotidiano personale ma anche di quello professionale: quanto guardiamo il volto di chi incontriamo, quanto ci soffermiamo sullo sguardo, sugli occhi, sulle
sfumature mimiche di chi attraversa il nostro incedere. Il volto è
quella porzione di corpo nudo che ancora l’uomo del terzo millennio può vedere, più spesso guarda distrattamente, a volte attraversa
senza soffermarsi perché ciò che emotivamente ci chiede attenzione non sempre ci trova disponibili all’incontro. Bergman faceva
dire nel suo Il settimo sigillo che uno scheletro attira di più di una
donna nuda, lo faceva dire al pittore di danze macabre intento alla
sua opera. E il volto è scheletro e nudità al tempo stesso, attira e
inquieta, rappresenta il tempo che transita e scorre ma anche le
emozioni che lo scorrere del tempo ha lasciato nella loro ricorrenza
mimica sulla persona che quel volto porta. Un volto è più nudo
di un corpo senza vestiti, a volte più imbarazzante di quest’ultimo.
Come scriveva e così ricordava Gisèle Freund, la novantunenne fotografa tedesca scomparsa nel 2000, il viso è la sola parte del corpo,
la sola lo sottolineo, ad essere esposta tutta nuda al primo venuto.
Su questa linea dove l’incontrare lo sguardo nel volto dell’altro
è un po’ come fare l’esperienza del perturbante evocato da Freud
nell’omonimo testo del 1919 (Sigmund Freud, Il perturbante,
250
1919), in cui scriveva appunto che “Il perturbante è quella sorta
di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò
che ci è familiare”, ritengo che l’antico parallelismo tra anima e
volto o il suo elemento più significativo che sono gli occhi, sia da
rivalutare e riconsiderare magari senza arrivare alla considerazione
di Wittgenstein per il quale il volto è l’anima del corpo, che è un
modo un po’ diverso per definire lo speculum animae riferito al
volto evocato da Cicerone: non speculum ma proprio anima, un
bel salto.
Proprio partendo da questi aspetti vorrei soffermarmi sulla
funzione principe del volto che è quella del dirigere lo sguardo,
e quindi del vedere, ma anche del suo contrario, del non vedere,
del distoglierlo. Le mani sul volto sono segno di disperazione, di
chiusura a ciò che è troppo evidente per essere sopportato, un rafforzamento alla chiusura delle palpebre è qualcosa di più a livello
di comunicazione e messaggio. La mani sul volto rafforzano il non
vedere (il non voler/poter vedere) ma anche il non far vedere lo
stravolgimento del dolore che segna il volto, una sorta di pudica
cortina sull’incontenibile manifestazione delle emozioni. Il vedere
dunque come prima polarità e il non vedere o il non voler far
vedere o, ancora, non essere visti dall’altra. Sono queste due suggestioni che attraverso due immagini e due storie vorrei suggerire alla
riflessione. Da un lato la Prudenza di Tiziano con non uno ma tre
sguardi o, meglio, tre orientamenti dello sguardo e dall’altro il non
vedere e i danni del vedere nelle vicende travagliate di Orfeo che
come associa con ironia e al tempo stesso acuzia Maurizio Bettini
in un suo saggio, “…per un punto perse la cappa” come il proverbiale Martin. Il punto, nel caso dell’eroe del mito, è uno sguardo
o, se vogliamo, l’incapacità di trattenerlo.
La capacità di tenere lo sguardo
La prima immagine che mi piace ricordare come guida per il
tema del volto, è quella dipinta dall’oramai vecchio Tiziano che
raffigura tre teste in sequenza, due di profilo e una di fronte, accompagnate da tre animali e da una scritta. Tre volti che richiamano tre tempi dell’uomo, ma anche tre possibili sguardi sul mondo:
sul mondo dentro di sé, come pure sul mondo fuori da sé. Tiziano
251
ha rappresentato sé stesso nella parte del vecchio su un lato, con un
profilo e una pittura che si fa vaga, quasi sfumata ed evanescente,
come a volte lo è il passato, il ricordo, la memoria; in centro ha
posto il volto del figlio nella sua presente e leonina forza dell’uomo
maturo ed infine, al lato opposto del vecchio, il nipote: un profilo
di giovane, uno guardo nel senso opposto a dove si orienta l’anziano. Il volto, lo “sguardo” del volto, è verso altrovi spesso spaesanti:
guardare uno sguardo è guardare ad altrove che non sempre ci appartengono o che ci appartengono così tanto che ci inquietano e
da qui il citato perturbante freudiano. Il tema esplicito del dipinto
di Tiziano è la prudenza, con quel motto latino che si intravvede
sopra le teste, richiamato dai volti umani e, sotto ad essi, dai profili
degli animali: Ex praeterito praesens prudenter agit ni futura actione
deturpet che dovrebbe significare grosso modo: “Dalla [esperienza
del] passato, il presente agisce prudentemente per non compromettere l’azione futura”. Un monito, un invito, una raccomandazione, che tuttavia pur parlando di tempo esce dal tempo e si fa
attuale ad ogni età a prescindere da una collocazione temporale dei
volti e finendo per rappresentare i possibili sguardi del soggetto:
verso il prima, sull’ora e sul domani. Una extensio animae agostiniana capace di muoversi sui tre registri temporali. Una capacità
di movimento che testimonia salute e vigore. Il vecchio ha fame
di ricordi e di vita, come il lupo che lo richiama, o che richiama
questa disposizione psichica, l’uomo nel pieno della sua forza è
un leone che domina sul qui ed ora, mentre il giovane cerca la sua
strada come il segugio: guarda in avanti, è proteso nella ricerca e
nella scoperta. Da qui il cane da caccia. La suggestione che voglio
richiamare con l’evocazione di questo dipinto riguarda la capacità
di “tenere lo sguardo”, di mantenere la tensione su queste tre aree
temporali della psiche, di muoversi al loro interno, che cambiano
nel tempo a seconda dell’età del soggetto e mutano importanza a
seconda del suo animo. Ognuno acuisce uno dei tre sguardi legando questo sviluppo di potenzialità al momento, allo stato d’animo,
al vissuto, agli incontri e alle emozioni che lo attraversano. Ci sono
momenti in cui è lo sguardo del vecchio (anche se il soggetto è
giovane anagraficamente) che domina, quando la tensione verso il
futuro, verso la creatività e la progettazione vengono meno, quando la delusione verso il presente compromette anche lo slancio e la
252
ricerca di altrovi futuri ancora da scovare. È lo sguardo per ciò che
è stato che prevale. O per consolazione, o per una sorta di compensazione, o più semplicemente perché unico panorama possibile restato alla persona per potersi orientare. Forse è superfluo ricordare
gli stati depressivi, l’involvere del soggetto e la sua incapacità, impossibilità a proiettarsi anche solo nel presente. Altre volte ciò che
conta è il futuro, ciò che sarà, ciò che non ci appartiene ancora se
non come tensione verso, attesa, aspirazione. È lo sguardo del cane
da caccia, del segugio che cerca la preda per sfamarsi, è il volto che
ci attraversa perché non ci vede ma guarda verso un altrove dove
noi solo facciamo da membrana. La provocazione, chissà se voluta
ma mi piace intenderla così, di Tiziano che ottantenne dipinge la
Prudenza è che questi volti non si riferiscono a volti di tre persone,
da queste certo prendono spunto, ma rappresentano gli sguardi
possibili che ciascuno di noi può avere su di sé e sulla realtà. Sguardi dinamici, non necessariamente sempre uguali o predeterminati.
Segno che occorre saper porre lo sguardo nelle tre dimensioni che
sono primariamente luoghi dell’anima prima ancora che luoghi
fisici. Mi piace leggere il messaggio di Tiziano, che per altro era un
pittore, uno per cui la vista era un elemento importante, come un
invito e un incoraggiamento a vedere e a farlo in qualunque direzione. Il vedere ha la potenzialità di far esistere, di dare vita. Infatti
se lo sguardo interiore non si posasse sui ricordi del vissuto questi
non esisterebbero, come S. Agostino ben ricordava del tempo passato che c’è nel momento in cui viene pensato o, come suggerisce
Tiziano, visto. Perdere lo sguardo sul passato lo fa scomparire portando il soggetto ad una carenza che influirà sul suo presente e sul
suo futuro. Allo stesso modo la perdita dello sguardo su una delle
altre dimensioni la fa scomparire. Se non vista non c’è e se non c’è
il soggetto patisce la carenza esprimendo questo patimento, non
necessariamente cosciente, nei “volti” delle sofferenze dell’anima:
dalla citata depressione, alla poliedrica mania e via via nel catalogo
delle psicografie che le biografie spesso raccontano.
La capacità di levare lo sguardo o di trattenerlo dal posarsi
Tanta enfasi nella storia e nei pensieri degli uomini, anche in quelli che attraversano la pratica della cura dell’altro, sull’importanza
del guardare, del vedere, dell’osservare, del “posare lo sguardo”,
253
rischia forse di spostare troppo l’attenzione su questo atteggiamento, certo fondamentale e davvero importante, e di farci peccare
di unilateralità dimenticando che, ugualmente all’enfasi posta
sull’importanza del “posare lo sguardo”, vi è un monito antico su
cosa e come può prodursi da uno sguardo fisso; uno sguardo che
non è capace di distogliersi e di staccarsi dall’oggetto di interesse
e attenzione. Si pensi a quanta influenza, e che potente monito, è
stato nel tempo veicolato con l’immagine orrorifica della Gorgone:
uno sguardo fisso e, poiché fisso, immobilizzante e paralizzante.
Fisso e, per questo, capace di bloccare e fermare l’interlocutore.
Un vedere che annienta con la sua fissità e insistenza la cosa vista.
Ma più della Gorgone, a mio parere, c’è una storia, un mito, che
racconta dei pericoli dell’incapacità di distogliere lo sguardo, di
trattenerlo, di comprendere nel vedere anche il non vedere. La storia è quella di Orfeo ed Euridice, Orfeo il grande musico, colui che
con le sue note incanta, ammansisce, appassiona. Orfeo che perde
l’amata Euridice che, in fuga da un pretendente indesiderato, viene morsa da un serpente da lei calpestato; un serpente che col suo
veleno la uccide. Animale crudele ma forse anche pietoso, che impedisce l’oltraggio carnale, che ostacola la vergogna e l’offesa della
violenza facendo a suo modo rifugiare Euridice nella nera morte e
nell’oscuro regno di Ade. Già qui incontriamo il tema del “vedere/
non vedere”, del guardare ed essere sottratti allo sguardo, del vivere
come tempo e luogo della vista e il morire come tempo e luogo del
non essere visti, ma anche del non vedere più. Interpreto in questo
senso il portare le mani al volto che citavo nel mio incipit. Un
sottrarsi allo sguardo dell’altro perché inguardabili. Orfeo perde la
sua Euridice, il suo sguardo non la trova; ad Orfeo è rimasta solo
la sua arte, la tecnica musicale, e su questa capacità si gioca tutto.
Ci prova, entra anche lui nel luogo del non vedere o del non essere
visti. Qui Orfeo si fa visibile facendosi sentire, e con le melodie
che produce si apre la strada fino dal re dell’Aldilà, dell’altrove,
dell’oscurità. Ade e Persefone si commuovono, e alcune tradizioni
riferiscono che è Persefone a convincere Ade a restituire l’amata. Il
re dell’Oltretomba pone una condizione che è talmente banale e di
facile esecuzione che non può che sollevare interrogativi che forse
hanno qualche soluzione nel momento in cui tale “regola” viene
disattesa. Mentre accompagna Euridice al di fuori dal luogo dove
254
si perde lo sguardo, Orfeo non deve guardare l’amata, non deve
voltarsi. Questa la consegna, la “prova” da superare, per ottenere
ciò che si vuole. Per poter tornare a vedere bisogna accettare di non
vedere. Ecco l’imposizione di Ade. Un parallelismo abbastanza evidente lo si ritrova nella conversione di San Paolo che, colto sulla
via di Damasco cade e non vede più fino a quando, dopo congruo
tempo di cecità, può tornare a rivedere e il suo sguardo sarà diverso, cambiato, nuovo perché ha attraversato l’oscurità. Una evocazione densa di significato, che ci rimanda a molte piste di riflessione sia nelle dinamiche relazionali in senso ampio che in quelle di
aiuto in senso più puntuale e specifico. Tornando alla storia: quella
del non voltarsi (e quindi non vedere) è una consegna in sé semplice, troppo semplice per non essere rispettata. Il fatto che il mito
racconti una incapacità di ossequio a questa regola “facile” ci porta
a riflettere sul fatto che forse, la facilità, è solo apparente e riguarda altro: qualcosa di più profondo di quanto viene evocato nella
storia e di cui la storia, così, si fa tramite. Il fallimento di Orfeo è
sorprendente perché apparentemente banale il compito. Orfeo si
mostra incapace di trattenere lo sguardo, di attendere dal vedere,
di aspettare il momento giusto. Un po’ paradossale ma Euridice
scompare perché vista, guardata. È vista e guardata quando invece
necessitava solo di essere percepita e attesa. Lo sguardo di Orfeo,
rispetto allo sguardo che dà vita, che richiamavo parlando di Tiziano, è uno sguardo che annienta, uno sguardo non certo costruttivo
ma distruttivo come lo ha definito Marxiano Melotti. Una pista da
percorrere sarebbe quella della tempistica dello sguardo, togliendo
il peso dall’atto in sé (vedere/non vedere) sul momento in cui si
svolge l’atto (vedere al momento giusto/non vedere perché non è
il momento). Di percorsi riflessivi, anche nel campo relazionale
ce ne sarebbero parecchi e molti gli spunti come il fatto che porta
a considerare che “se Euridice è vista tra i morti significa che è
morta” come sempre suggerisce Melotti e così inserire un ulteriore
elemento: oltre il “momento giusto” anche il “luogo giusto” conta
affinché lo sguardo posato non sia uno sguardo che annienta. Sono
stimoli al lavoro nella relazione di aiuto dove il quando, il dove la
persona in difficoltà si vede conta, e conta anche molto dove si
rivolge lo sguardo quando si affianca una persona che deve uscire
dal suo Averno, se sulla persona nell’Averno o se verso l’uscita da
255
esso. Tanti stimoli dicevo e che voglio qui lasciare come tali ricordando che anche nei rapporti d’amore il troppo amore, il vedere
solo, il non togliersi gli occhi di dosso può portare alla distruzione
dell’oggetto amato come se non si sapesse tollerare e comprendere
l’importanza della separazione nella relazione.
Conclusione provvisoria: l’uomo invisibile
Porre lo sguardo togliere lo sguardo sono i due punti sui quali,
senza troppe pretese e con lo scopo di suggerire delle piste di riflessione e suggestioni da coltivare, ho voluto attirare l’attenzione
ricordando che, così come è importante riflettere sulla preziosità
dell’osservare, del vedere, del guardare nel senso più ampio, è utile
anche accostarsi alle tematiche del non vedere e della sospensione
dello sguardo. Ma per concludere, certo in modo provvisorio, vorrei permettermi un’ultima evocazione.
L’Uomo Invisibile è il titolo di un fortunato racconto di H. G.
Wells scritto nel 1881 e pubblicato quattro anni dopo nel 1885.
In italiano la traduzione arrivò negli anni trenta e poi la Mursia si
occupò di una sua nuova edizione nel 1966. Un’opera datata ma,
seppur nella sua brevità, attualissima, che ha il pregio della sinteticità e dell’essenzialità come pure dell’andamento narrativo con uno
stile vivace, da cronaca dei fatti, che lascia molto al lettore e alla
sua riflessione. Racconta di un uomo, Griffin, promettente fisico,
che tuttavia non riesce ad emergere nel suo ambiente, quello competitivo degli scienziati e dei ricercatori; un uomo il cui obiettivo
esistenziale diventa quello di dover fare una scoperta sensazionale
che gli dia fama e ricchezza; che gli permetta di ricevere rispetto
dai colleghi che per troppo tempo lo hanno ignorato e ricavare così
un posto nella società. È la storia di un uomo invisibile, invisibile
prima di diventarlo realmente (questa sarà la sua sensazionale scoperta), un soggetto non visto, ignorato e lasciato ai margini. Il non
essere visto coincide, a livello profondo, con il non esistere, è un
retaggio arcaico e complesso della nostra psiche che sa bene quanto sia pericoloso non essere considerati, quanta sofferenza porti
l’indifferenza. Il bambino non visto dalla madre è un bambino a
rischio. Ci sono diversi modi per essere ignorati, per essere fatti
scomparire. Si può non essere visti quando vengono elusi i bisogni
fondamentali da parte della figura di accudimento (trascuratezza e
256
disinteresse sono gli elementi principali di queste situazioni). Non
si è visti quando si viene osservati con gli occhiali del bisogno altrui, quando il bambino non è guardato per quello che è ma per
quello che si vorrebbe (o piacerebbe) che fosse. Allo stesso modo
l’individuo non è visto quando è guardato con la lente delle paure di chi se ne prende cura, paure che finiscono per bloccarne lo
slancio vitale e lo sviluppo. Questi sono bambini non visti, bambini che scompaiono e si scolorano progressivamente, adulti che si
porteranno dietro questo fardello che cercheranno di compensare
in vari modi. Ma non si è nemmeno visti quando si è guardati
troppo, gli estremi (e gli eccessi) in questo frangente si toccano;
non guardare o guardare troppo sono due tecniche per annullare
l’altro o l’oggetto di attenzione. Lo sanno bene i pubblicitari che
dosano con perizia i messaggi che trasmettono consapevoli del loro
decadimento a livello di incisività allorquando sono troppo presenti e quindi, percettivamente, scompaiono. Infine non si è visti
quando si è guardati solo per quello che si fa, per le cose prodotte,
per i risultati raggiunti o falliti e non per quello che si è. Laddove si
spinge troppo e con troppa enfasi (più o meno direttamente e spesso involontariamente) a identificarsi con il compito, il risultato o il
lavoro, prima o poi, nell’incontrare gli inevitabili fallimenti o difficoltà, ad andare in crisi è tutto il soggetto che finisce per sparire
o, a livello di sensazione soggettiva, di fallire. Non è più la singola
attività che va male ma è il soggetto intero che si sente crollare
perché l’impresa non riesce. Il protagonista del racconto, e con lui
molte persone, è proprio nella situazione nella quale ciò che fa (il
suo lavoro, i successi in esso) divengono una necessità irrinunciabile in quanto ha finito per farli coincidere con ciò che garantisce
la propria stessa sopravvivenza. Il lavoro e il compito non sono
più qualcosa che da piacere per sé, il risultato da raggiungere non
appare più come una possibilità conseguente che aggiunge valore
e soddisfazione a quanto si fa, ma diventa un’urgenza imprescindibile e necessaria senza la quale quanto si compie perde senso. Così,
nella vicenda, Griffin riesce a fare una grande scoperta, trova la
ricetta dell’invisibilità in un paradosso letterario che ci dice molto
di lui e concretizza il suo stato di “scomparso” e di “inguardabile”.
Il protagonista sperimenta su di sé questo composto chimico che
rende i tessuti organici invisibili. Griffin che teme di sparire di
257
fianco ai suoi colleghi scienziati riesce a emergere inventando la
formula dell’invisibilità. Da quel momento, per rendersi visibile,
dovrà mascherarsi e vestirsi. Altrimenti nessuno lo vede. Griffin
concretizza il destino di molti invisibili: per apparire devono mettere un abito che li renda riconoscibili, un abito visibile agli occhi
degli altri che guardano al successo, al ruolo, all’apparenza. Griffin
scompare per comparire: curioso ma illuminante escamotage.
Prima di recuperare il nostro protagonista e vedere la sua evoluzione nel romanzo di Wells dobbiamo considerare come oggi
lo sguardo dell’altro abbia assunto un’importanza decisiva, vitalizzante. Siamo nella società della comunicazione per immagini, una
società che ha valorizzato ed estremizzato il valore del comparire
come elemento valoriale condiviso. L’altro che “deve vedere” a livello infantile altrimenti non ci da vita o con la sua “distrazione”
ci riduce all’annientamento, diventa gli altri, gli altri che si affacciano sui davanzali degli schermi di televisioni e computer e che
enfatizzano la necessità di esserci e di farsi vedere, di emergere da
un anonimato che è sinonimo di annientamento. Il bisogno individuale può sposarsi e coniugarsi con gli attuali imperativi sociali.
Quando vediamo lo sguardo e l’espressione della modella di turno
che viene eletta reginetta del tal concorso, che ha lottato in tutti i
modi per arrivare lì, che ha sacrificato tante cose per raggiungere
quell’obiettivo, che si è sostenuta con sostanze per reggere i ritmi e
gestire le situazioni di stress, quando ne osserviamo il volto segnato
dalle lacrime e dal riso più che la gioia o il piacere, intravvediamo
la mimica del sollievo come di chi è scampato a un gran pericolo:
quello di scomparire inghiottita dall’anonimato e dal nulla come
le altre concorrenti che velocemente scompaiono con lo spegnersi
dei riflettori di scena. Torniamo al protagonista della nostra storia
… è peccato svelare l’epilogo di questa triste storia ma vale la pena
segnalare che l’unica cosa che di lui può essere vista sarà il sangue, quando verrà ferito, come se, in questi soggetti, a restituire
la loro identità che spesso è fatta di dolore ed emarginazione, è la
sofferenza che hanno dentro e che si manifesta in molti modi, che
chiama l’interlocutore su quanto il soggetto ha nel suo profondo,
che gli chiede più o meno direttamente attenzione per quello che
è, anche se non sempre bello e vincente: per quello che è, e non
258
per quello che fa o appare. Un richiamo a dare attenzione a queste
parti, a guardare l’altro per chi è e non per come lo vorremmo,
esclusivamente per quello che fa o per il ruolo che ricopre. Un
invito a svelarci per l’umanità che abbiamo e non solo per le parti
che la società ci impone di mostrare e ostentare altrimenti il rischio
è quello di scomparire, prima che agli occhi degli altri, ai nostri
come successe al povero Griffin.
Un bel viso è il più bello di tutti gli spettacoli.
Jean de La Bruyère, I caratteri
4.2.5 Estetica della relazione di aiuto e di cura:
la metafora del ritratto
Guenda Bernegger
Di fronte a un’opera d’arte, meravigliosa, gioiosa, o tragica, viviamo un’esperienza estetica: un senso di commozione, di gioia, o
viceversa di sconforto, di adesione o di repulsione, di fascinazione
o di paura. Qualcosa di analogo avviene attraverso la lettura di un
romanzo o la visione di un film o di una pièce teatrale: ne usciamo
- ammesso che si tratti di opere forti, giuste, che risuonano in noi in
quel momento della nostra vita - turbati, toccati, determinati forse a
cambiare qualcosa. È per l’appunto l’effetto dell’esperienza estetica.
Vorrei chinarmi qui sul rapporto tra l’estetica - in particolare,
l’arte del ritratto - e la pratica professionale dell’aiuto e della cura.
Qual è mai la relazione tra pratica dell’aiuto e della cura ed estetica
- dove con estetica si intende quanto attiene all’ambito della bellezza e dell’arte, ma anche ciò che è legato alla percezione sensibile (il
termine «estetica» derivando da aisthetis, che significa sensazione)?
Se i mestieri dell’aiuto e della cura possono trarre vantaggio dal
dialogo con l’arte, è perché anch’essi sono in una certa misura delle
arti, fanno leva su elementi di ordine estetico. In particolare, come
nelle arti, i contenuti, le verità, il cosa, non sono indifferenti alla
forma, al come. Forma che condiziona fortemente il modo in cui i
contenuti, le verità, sono non solo costruiti e trasmessi ma, soprattutto, ricevuti.
A tutti i livelli, la forma «informa», cioè definisce la cornice
259
dell’esperienza, i diversi quadri, o ambienti, che evocano, suggeriscono, favoriscono, aprono determinate esperienze della realtà
(e non altre): per esempio, che invitano a specifiche modalità di
relazione con l’utente; che fanno risaltare - come un liquido di
contrasto - la patologia del paziente o, viceversa, le sue risorse di
guarigione; o ancora, che dispiegano o al contrario atrofizzano
il «poter-essere» del soggetto malato (per usare un’espressione di
Viktor von Weizsäcker76).
La cura educativa e l’arte del ritratto
Se la cura educativa è anche un’arte, può essere fecondo provare a leggere la relazione operatore-utente attraverso l’analogia tra
l’operatore e l’artista e, in particolare, il ritrattista. Un’analogia che
può portare alla luce alcuni aspetti, certo ben conosciuti, ma che
talvolta si trovano messi nell’ombra, poiché i riflettori sono puntati su altro.
Che cosa ci suggerisce questo parallelismo? In primo luogo,
che, analogamente all’artista, anche l’operatore dell’aiuto e della
cura, attraverso le varie fasi della relazione educativa e terapeutica, opera una messa in forma, una (co-)costruzione dell’immagine
dell’utente e della sua storia, non limitandosi mai a descriverlo in
termini oggettivi, che lo rispecchiano semplicemente, bensì dando
attivamente forma ai contenuti dell’esperienza della persona, in
un’operazione analoga per certi versi alla creazione artistica.
Quando la sofferenza, la malattia (psichiatrica o somatica) irrompono nella vita degli individui, fratturando il quadro familiare di senso, la domanda di cura si accompagna spesso con una
domanda di (ri)costruzione della propria storia - come nel titolo
dell’articolo di Howard Brody «La mia storia è rotta, può aiutarmi
a metterla a posto?»77. Con, cioè, la richiesta da parte del malato
di essere aiutato a dare una nuova forma coerente alla sua vita: una
forma che sia cioè capace di unire, di tenere assieme gli elementi
sparsi della sua esistenza - ciò che la sofferenza ha reso frammen76
Cfr. Warum wird man krank?, Suhrkamp, Frankfurt a/M, 2008.
77
«My Story Is Broken; Can You Help Me Fix It?», Literature and Medicine,
vol. 13, n. 1, 1994.
260
tario, confuso, privo di senso -, garantendo un quadro unitario in
cui leggerli. In ultima istanza, è la domanda di un ritratto che offra
una forma riconoscibile alla sua identità spezzata.
Nel contesto della relazione di aiuto e di cura, questa messa
in forma si offre (anche se non solo) attraverso l’articolazione del
passato, del presente e del futuro del paziente o utente in forma di
storia di vita, di anamnesi, di diagnosi, di prospettiva di guarigione
o evoluzione o cambiamento, di progetto terapeutico o educativo.
Così, anche tra l’educatore e il suo utente, come tra un artista e il
suo modello, viene realizzato un ritratto dell’individuo - sempre,
in buona parte, negoziato e co-costruito.
Tale processo si realizza per eccellenza attraverso la narrazione.
(«La narrazione è una forma in cui l’esperienza viene rappresentata
e raccontata, in cui le attività e gli eventi sono presentati in un
ordine significativo e coerente», secondo la definizione che ne dà
Byron J. Good in Narrare la malattia78). Narrazione che - dal racconto di sé dell’utente, nel primo incontro, alle riformulazioni che
gli operatori ne fanno nella loro «cartella», ai racconti co-costruiti
nel corso della relazione educativa o sanitaria - ha precisamente il
potere, come ci insegna Paul Ricoeur, di operare una sintesi degli elementi discordanti dell’esistenza (la sintesi dell’eterogeneo), in
un’operazione di configurazione che tende a trasformare il contingente in necessario, il caso in destino, e a conferire un’unità e un
senso alla storia e al suo protagonista79.
Il racconto del sé - il racconto che l’individuo fa di sé, sempre
di fronte all’altro, per l’altro, con l’altro ineludibile - non si limita mai a descrivere gli eventi, a rappresentare il soggetto, ma ha
sempre invece anche un ruolo costruttivo e creativo: dando forma
alla propria storia, organizzando gli eventi della propria vita in un
tutto che ha senso, la narrazione dà forma all’identità del soggetto,
che in questo racconto si riconosce. Ora, le qualità di un racconto - coerenza, unità, bellezza o, viceversa, discordanza … - sono
delle qualità estetiche, che hanno un impatto estetico sul soggetto,
contribuendo alla ricostruzione, costruzione, trasformazione della
sua identità. Questo risulta in modo ancora più marcato quando
78
Edizioni di Comunità, Torino, 1994.
79
Cfr. Temps et récit, Seuil, Paris, 1983-85.
261
il racconto di sé è mediato dall’altro: artista, ritrattista, educatore
o curante.
Sappiamo bene infatti che anche nelle relazioni di aiuto e di
cura, come nell’arte, la realtà viene sempre rappresentata (e costruita) attraverso processi di composizione e scomposizione, distorsione, riduzione, completamento, strutturazione, organizzazione...
Riprendo, non a caso, queste categorie da Vedere e costruire il mondo80 del filosofo americano Nelson Goodman (autore che ha fortemente riabilitato la funzione dell’arte), il quale le riferisce ai modi
in cui costruiamo il mondo. O meglio, ai modi in cui rappresentiamo il mondo (e, con esso, il soggetto!) e, rappresentandolo, lo
costruiamo.
Una messa in forma dei fatti dell’esistenza è in realtà sempre, al
contempo, una costruzione del soggetto, un ritratto dell’utente o
paziente. Ma è sempre anche una messa in forma in mezzo ad altre
possibili; un ritratto che non dice la verità, bensì una verità sulla
storia, sul soggetto; un ritratto inevitabilmente diverso dal modello; una narrazione irriducibilmente altra rispetto alla storia vissuta,
che non risponde tanto (o non solo) al criterio del «vero», quanto
a quello del «verosimile».
Un esempio toccante a questo proposito è dato dalla richiesta
formulata da Elisabeth M. Merrill in una lettera ad Auguste Rodin: «Tengo soprattutto a che quello che farete di me non assomigli a come sono ora. Non desidero che i miei figli conservino di me
il ricordo di ciò che sono diventata attraverso la devastazione del
dolore e del tempo»81.
Ma la prospettiva estetica non si limita a ricordarci il carattere costruito e dunque almeno in parte arbitrario e fragile di ogni
rappresentazione. In realtà, ci suggerisce che è proprio in virtù della differenza tra il ritratto (artistico) e una riproduzione 1:1 della
realtà, come in uno specchio, proprio grazie alla differenza tra una
narrazione e una mera descrizione, che la nuova Gestalt (in funzione della sua qualità, del come e non solo del cosa è rappresentato)
80
Laterza, Roma-Bari, [1978] 1988.
81
Così si può leggere accanto a una scultura del 1908-10 che la ritrae,
conservata presso il Musée Rodin di Parigi; la traduzione è mia.
262
può esercitare (nel bene o nel male) il suo impatto estetico su chi
la riceve (il modello o l’utente stesso, primi spettatori del ritratto).
Un impatto estetico che potrà essere caratterizzato da attrazione o
rifiuto, identificazione, accettazione, adesione, repulsione, sorpresa, curiosità, perplessità, fascinazione, entusiasmo, paura, catarsis,
soddisfazione, scoperta, rivelazione...
È infatti proprio grazie a questa impossibilità del mero rispecchiamento, che si gioca nell’arte - e nell’arte della cura - l’opportunità (accompagnata dai relativi rischi) di fare leva (anche) su
un altro tipo di verità e di rappresentazione: un tipo di verità che
siamo abituati a relegare nell’ambito dell’arte, ma che pure, di fatto, attraversa le discipline sociali (così come quelle sanitarie). Mi
riferisco a un’idea di verità per l’appunto artistica, narrativa, metaforica, analogica, evocativa, produttiva, che deve essere portata a
dialogare con la verità che si vuole descrittiva, oggettiva, riproduttiva, propria delle scienze e delle discipline più «dure».
È precisamente in virtù della capacità propria della rappresentazione artistica (e del racconto letterario) di disvelare possibilità pretracciate nel reale, ma non ancora attuali, che il ritratto (il
racconto) (anche quello che l’operatore, analogamente all’artista,
offre all’utente) rivela - apre, dischiude, o viceversa chiude - possibilità d’essere del soggetto, suggerisce e invita a possibili evoluzioni, possibili trasformazioni.
Ciò è testimoniato in modo paradigmatico da Paola Carola,
confrontata alla scultura, opera di Alberto Giacometti, che la ritrae: «[…] a casa mi accade di essere sorpresa dalla presenza del
mio busto e di meravigliarmi di come mi appare. Perché ciò in
cui mi riconosco è il mio corpo più che la mia testa. Sono il collo,
la rotondità delle spalle, la curva del dorso, il portamento, tutto
ciò di cui [Giacometti] non parlava mai. La testa, il volto, li vedo
come se incontrassi un’estranea. Ma non sempre. A volte quando
dai miei balconi guardo il mare al tramonto e mi sento davanti
all’ignoto, penso allo sguardo lontano della scultura e mi ci riconosco»82.
82
P. Carola, Monsieur Giacometti, vorrei ordinarle il mio busto, Abscondita, Milano, 2011, p. 39.
263
L’operatore dell’aiuto e della cura versus l’artista
Il confronto tra operatore dell’aiuto e della cura e artista può dunque essere istruttivo, al di là delle differenze. O forse proprio anche
in ragione delle differenze. Mi limito a evocarne una, centrale per il
nostro discorso: la diversa attenzione portata al come. L’artista non
cessa infatti di dover mettere in gioco il proprio linguaggio (espressivo, artistico) e le forme che usa; viceversa, il professionista del sociale
e del sanitario acquisisce una tale familiarità con il proprio linguaggio settoriale - con le forme e le immagini che «conferiscono una
certa coerenza agli eventi», secondo un «genere» e uno stile narrativo
ed estetico condiviso a livello della sua comunità disciplinare - al
punto da essere portato a dimenticare che si tratta di costruzioni, di
configurazioni dal potenziale impatto estetico.
Se egli riconfigura infatti i dati portati dall’utente o dal paziente
secondo il proprio codice della ritrattistica, secondo le «narrazioni-tipo della sofferenza» dominanti nella sua disciplina (ad esempio,
in termini diagnostici, secondo la vulgata dominante), tali messe in
forma diventano per lui così scontate - a causa dell’assidua frequentazione - da diventare inerti, da perdere cioè, ai suoi occhi, la loro
forza estetica. Tuttavia la stessa forma, la stessa narrazione che per il
professionista è esteticamente «inerte», per la persona che soffre spesso è
esteticamente «attiva», efficace (in un modo o nell’altro).
Propongo dunque di considerare più da vicino, più nei dettagli
come le qualità estetiche del «ritratto», del racconto (siano esse volute o meno), possono favorire o inficiare (accanto, beninteso, ad
altri elementi) l’adesione al progetto educativo e, in ultima istanza,
il suo successo.
Come la prospettiva estetica e la metafora del ritratto invitano a interpretare possibili difficoltà nell’adesione al progetto educativo?
Seguendo la prospettiva narrativa ed estetica, si possono interpretare le resistenze rispetto alla compliance, all’adesione al progetto di cura (educativa o sanitaria), nei termini della difficoltà che
l’utente avrebbe nell’aderire al ritratto, alla narrazione su se stesso
(sul proprio presente e sul proprio futuro) che gli viene proposta.
Dietro alla mancata o limitata adesione al progetto educativo o
terapeutico (ad esempio, al rifiuto di assumere farmaci) ci sarebbe
dunque il rifiuto della storia che il professionista racconta su di lui.
264
O meglio: il rifiuto del modo in cui (del come) la propria storia di
disagio, di sofferenza e di possibile evoluzione è narrata. (Mi preme insistere sul fatto che non si tratta necessariamente, o non solo,
del rifiuto della situazione in se stessa, dei fatti, bensì del modo in
cui - del come - i fatti sono narrati, messi in forma nella storia, dello
stile del ritratto).
a) Un ritratto troppo poco attrattivo
Più precisamente, una limitata adesione alla proposta educativa
o terapeutica può essere, in primo luogo, interpretata nei termini
della limitata attrattività del ritratto, della storia di sofferenza e di
guarigione, della proposta di trasformazione, restituita dal professionista all’utente.
L’attrattività, che è un concetto estetico per eccellenza, gioca
infatti un ruolo fondamentale: è una delle condizioni dell’adesione
al - e dunque del successo del - progetto educativo o terapeutico.
Talvolta, tuttavia, la «“storia della guarigione” possibile» - per usare
un’espressione di Lucia Zannini83, - o la «storia di cambiamento, di
trasformazione possibile» può, come detto, mancare nella sua attrattività, non riuscire a presentarsi con persuasività all’utente, non
avere presa emozionale, non generare una motivazione sufficiente
e non essere in grado, in ultima istanza, di generare l’auspicata
adesione al progetto educativo o terapeutico. Ciò può avere per
causa lo scarto tra lo stile narrativo dell’utente e quello dell’operatore, l’estraneità dei loro rispettivi «giochi di linguaggio» (per
dirla con Wittgenstein), cioè la distanza tra i loro diversi mondi di
riferimento, non sufficientemente condivisi.
Scrive a questo proposito Cheryl Mattingly84: «Gli operatori e
i pazienti devono arrivare a condividere una storia sul processo
terapeutico, devono arrivare a vedere se stessi “nella stessa storia”.
Questa è una sorta di storia del futuro, una storia di ciò che non
è ancora accaduto, o che è solo parzialmente accaduto, una storia
da costruire. […] Condividere questa idea [un’idea sul perché ha
senso fare determinate cose] richiede sia al terapeuta, che al paziente, la capacità di vedere come tali cose siano in grado di portare il
83
Cfr. Medical humanities e medicina narrativa, Cortina, Milano, 2008.
84
Healing Dramas and Clinical Plots: The Narrative Structure of Experience, Cambridge University Press, Cambridge, 1998.
265
paziente a una situazione futura desiderabile. Questa idea non è
riconducibile a una prognosi, o a una visione condivisa del piano
terapeutico».
Dietro alla mancata attrattività della storia si può riconoscere
l’estraneità tra le rispettive estetiche dell’esistenza: ad esempio, non
è attribuito lo stesso valore, da parte dell’operatore e dell’utente,
agli elementi che determinano la bellezza e il senso dell’esistenza, a
ciò che rende la vita «una vita bella» e non solo «una vita buona»,
nel senso etico del termine.
b) Un ritratto troppo poco individualizzato, troppo poco somigliante
Le qualità estetiche della narrazione, del ritratto, non sono però
sempre sufficienti a generare l’adesione al progetto educativo, alla
«storia di cambiamento possibile»: anche una «buona/bella storia»,
una storia attrattiva, può mancare lo scopo di generare l’adesione
dell’utente. Infatti, un altro requisito è necessario per ottenere tale
adesione: è anche indispensabile che l’utente possa riconoscersi in
questo ritratto, in questa narrazione proposta dal professionista;
che riesca cioè a riferire questa «storia di cambiamento possibile»
a se stesso. In che senso? Nel senso che occorre che tale storia non
sia solo bella in senso generico, bensì appropriata, adeguata a lui,
aderente a lui, individualizzata, in sintonia, per l’appunto, con il
suo mondo di riferimento, con la sua estetica dell’esistenza.
In merito è illuminante l’analogia utilizzata da Paolo Cattorini:
«[...] Le cose vanno come se dovessimo scrivere il nuovo capitolo
di un libro, o aggiungere un’altra pennellata al quadro che abbiamo abbozzato, o inventare un finale convincente per un film che
manchi ancora di coesione. [...] L’azione morale doverosa [e questo vale più che mai per le scelte educative], quella cioè che si ha
il dovere di porre nel contesto di una vicenda umana, assomiglia
al capitolo giusto per quel libro e non per un altro, all’intervento
ideoneo per quel quadro o per quel film»85.
Sandro Spinsanti invita a passare da un’«etica prêt-à-porter»
(un’«etica a taglia unica») a un’«etica sartoriale» (su misura): lo stesso può valere per l’estetica. Questo vuol dire ad esempio che se
la storia è mal cucita, se il ritratto è solo abbozzato (ad esempio,
85
266
Bioetica e cinema, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 15.
perché basato su un’anamnesi sommaria), se si tiene un discorso
impersonale, un discorso generico (come quello che si tende a formulare attorno ai farmaci), che non si riferisce alla persona che si
ha di fronte tenendo conto della sua singolarità, questa farà fatica
a riconoscersi - a riconoscere se stessa - come referente del discorso.
E senza tale effetto di identificazione, e dunque senza la relativa
adesione nei confronti di quell’immagine, l’effetto di quella rappresentazione sul soggetto sarà dunque debole. Viceversa, l’effetto
di attrattività della proposta educativa, così come della terapia farmacologica, e l’adesione nei suoi confronti è più forte se la persona
può riconoscersi nel taglio, nello stile del vestito: anche questo è
messo bene in luce dalla prospettiva narrativista.
Possiamo evocare a tale proposito la commozione di Ulisse
quando, in incognito presso la corte dei Feaci, ode la propria storia narrata da un poeta cieco e, sentendosi narrare, piange, per la
prima volta. «De te fabula narratur» (Orazio): la storia parla di te,
ti riguarda, ne va di te. Riconoscersi come il soggetto della narrazione, del ritratto, ha un impatto importante sul soggetto. Non
va dunque dimenticato come tale riconoscimento sia necessario
affinché la relazione di aiuto e di cura possa suscitare emozione e
adesione e aprire le porte alla trasformazione.
c) Un ritratto troppo realistico
Così, il racconto, il ritratto che viene restituito ha sempre un
effetto potenzialmente trasformativo. Al contempo, infatti, riproduce e produce; al contempo è vero e verosimile - «vero» essendo
un criterio scientifico, «verosimile» essendo un criterio estetico.
Tuttavia, la ricerca estetica dimostra che per favorire l’identificazione e aprire le porte alla trasformazione non basta che il ritratto
sia somigliante. Anzi, un eccesso di realismo può ostacolare l’adesione. «Tutti i fotografi, anche eccellenti - scriveva Baudelaire alla
madre nel 1865 - hanno delle manie ridicole: considerano una
buona immagine un’immagine in cui tutte le verruche, tutte le
rughe, tutti i difetti, tutte le imperfezioni del viso sono resi ben
visibili, ben marcati; più l’immagine è dura, più sono contenti».
Per favorire l’adesione e invitare alla trasformazione, un ritratto,
un racconto deve allora essere più verosimile che vero: infatti, paradossalmente, è più difficile riconoscere se stessi in una verità nuda
267
e cruda (ad esempio, nella «verità» di una definizione diagnostica),
che in una rappresentazione verosimile, possibile, di sé, in un ritratto più o meno somigliante, capace di rivelare le potenzialità del
soggetto ritratto, di rivelargli non solo chi è ma anche chi potrebbe
essere.
Alcune considerazioni conclusive
In conclusione, vorrei sottolineare alcune delle ragioni per cui
ritengo che il dialogo con la prospettiva estetica sia indispensabile
per portare avanti una cura educativa che sia davvero cura humanis, «cura dell’uomo» - e mi limiterò qui ad alcune ragioni di ordine epistemologico e quindi etico. Dico «quindi», perché scegliere
di considerare la relazione di cura educativa da una prospettiva
estetica (piuttosto che da un’altra) rappresenta in ultima istanza
- come ogni presa di posizione epistemologica - anche una presa
di posizione etica. Questo perché, nello scegliere tale prospettiva,
scegliamo di mettere in primo piano alcuni valori, alcuni aspetti
(piuttosto che altri). Quali? Vediamoli.
Dire che nella relazione di cura educativa si gioca qualcosa che
assomiglia di più alla costruzione di un ritratto che a un neutro
rispecchiamento enfatizza infatti la centralità del soggetto e la necessità di portare un’attenzione incessantemente rinnovata per il
valore della singolarità, della sua unicità e della sua irriducibile e
inesauribile essenza umana. Infatti, se è vero che, come afferma
Jean-Luc Nancy, «Lo specchio mostra un oggetto […]. Il quadro
mostra un soggetto», il ritratto ci obbliga allora a confrontarci con
il problema dell’individuo «nella sua essenza autenticamente umana»86. E, potremmo aggiungere, acuisce la nostra consapevolezza
dell’impossibilità di ridurre il volto (del modello, dell’utente) al
ritratto, il soggetto alla sua (o alle sue) rappresentazione/i, rendendoci in tal modo più resistenti contro le tentazioni del riduzionismo:
non bastano infatti infiniti ritratti per estinguere l’essenza autenticamente umana del soggetto.
Ricordandoci questa umanità inesauribile, il volto (del modello,
dell’utente, del paziente), non manca altresì di richiamarci (purché
lo si guardi) all’inaggirabile responsabilità che abbiamo nei suoi
86
268
Le Regard du portrait, Galilée, Paris, 2000; la traduzione è mia.
confronti - secondo l’insegnamento di Emmanuel Levinas.
Ed è proprio la responsabilità l’ultimo elemento che la prospettiva adottata ci porta a mettere in primo piano, fornendoci strumenti originali per farvi fronte: la responsabilità del professionista della
cura educativa nel favorire, o meno, il rivelarsi e il dispiegarsi delle
possibilità d’essere dell’utente, il quale, a causa della sua condizione
di sofferenza, non riesce più a vederle come aperte.
In questo senso, l’operatore è chiamato a svolgere il ruolo - potremmo dire - di «testimone» del fatto che il ritratto di sé in cui
l’altro si identifica, il racconto sulla propria esistenza che l’utente
presenta, è solo uno tra i molti ritratti e racconti possibili. Questo
vuol dire, che la sua identità non si limita mai a tale ritratto, a tale
racconto. Se la sofferenza, la malattia (e la malattia mentale più che
mai) colpiscono, riducono, il «poter-essere» della persona - come
ci insegna l’antropologia fenomenologica - allora l’operatore è in
un certo senso chiamato a testimoniare che, in ogni momento, un
altro ritratto è possibile, un altro racconto è possibile, poiché ogni ritratto, ogni racconto, è sempre contingente. L’«identità narrativa»,
che si dà nel racconto di sé (e, per analogia, nella rappresentazione)
può cioè sempre trasformarsi, prendere altre forme, poiché dietro
a ogni identità narrata c’è sempre anche - come ci insegna Adriana
Cavarero87 - un’«identità narrabile», sempre eccedente rispetto al
racconto, in cui sono pretracciate altre narrazioni possibili, altri
possibili ritratti del soggetto.
Se la relazione di cura educativa mira a restaurare proprio quel
«poter-essere» del soggetto che la sofferenza tende a inibire, non
deve dunque sorprendere più di tanto che l’arte ci possa essere di
aiuto: l’arte (e l’arte del ritratto ancora di più), grazie precisamente
alla sua capacità di rivelare ciò che il soggetto rappresentato può
essere, le sue possibilità più proprie. O meglio: di rivelare ciò che
egli già è (potenzialmente, in forma latente), ma che non diventerebbe davvero visibile, riconoscibile e attuale, senza l’abile lavoro
di messa in forma e di rivelazione da parte dell’artista. E, rispettivamente, da parte dell’operatore di una cura educativa, che sappia
aiutare a far emergere queste possibilità nascoste ma già presenti
nel soggetto.
87
Cfr. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione,
Feltrinelli, Milano, 1997.
269
Concludo con l’aneddoto che al meglio mette in scena la portata
trasformativa della rappresentazione artistica. Riguarda il ritratto
di Gertrude Stein realizzato da Picasso (nel 1905-1906). Quando
qualcuno criticò a Picasso che la Stein non assomigliava alla donna
ritratta sulla tela, Picasso rispose: «Non importa, le assomiglierà».
270
4.3 Al Castello Sasso Corbaro a Bellinzona
Quando la notte si fa alba88…
Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini,
Lorenzo Pezzoli e Ornella Manzocchi
4.3.1 Programma
4.45
Gli studenti si ritrovano con l’assistente ai piedi del Castello
Sasso Corbaro. Nel silenzio, attraverso il bosco i docenti li accompagnano lungo la salita, mentre dagli spalti del castello si diffonde
una musica emessa da un flauto e una chitarra.
5.10
Lettura di Io la Notte, accompagnamento degli studenti all’interno del cortile e quindi nelle sale del castello. Ascolto di La regina
della notte dal Flauto Magico di Mozart. Gli studenti, sempre accompagnati, si collocano nella sala del gruppo d’attività alla quale
sono stati assegnati. Inizio del lavoro.
5.30
Attività in gruppi separati
Gruppo 1: Biancaneve
Gruppo 2: Autobiografia
7.15
Colazione in comune preparata dagli studenti, annunciata dal
suono del flauto e della chitarra
7.45
Ritrovo e ascolto del brano dal Flauto Magico Schnelle Füsse.
Intervento breve dei docenti sul tema della caduta e del cadere.
Consegna per il lavoro individuale e per la composizione del fram88
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità personale”, che si svolge nel corso del primo semestre.
271
mento scritto da portare al gruppo al momento del ritrovo.
Viene risuonato il brano del Flauto Magico e si congedano gli
studenti al lavoro individuale.
9.00
Si suona per il castello l’ultimo brano mozartiano: Papageno e
Papagena.
Gli studenti sono invitati a esprimere quanto hanno scritto e
appuntato: la frase o la parola.
Relazione conclusiva.
I musicisti ripropongono in sequenza tutti e tre i brani preparati.
9.45
Suono del motivo del carillon magico e saluto.
Piccoli annunci
CHIUNQUE sappia dove sia finita
la compassione (immaginazione del cuore)
- si faccia avanti! Si faccia avanti!
Lo canti a voce spiegata
e danzi come un folle
gioendo sotto l’esile betulla,
sempre pronta al pianto.
INSEGNO il silenzio
in tutte le lingue
mediante l’osservazione
del cielo stellato,
delle mandibole del Sinanthropus,
del salto della cavalletta,
delle unghie del neonato,
del plancton,
d’un fiocco di neve.
RIPRISTINO l’amore.
Attenzione! Offerta speciale!
Siete distesi sull’erba
del giugno scorso immersi nel sole
mentre il vento danza
(quello che in giugno
guidava il ballo dei vostri capelli).
Scrivere a: Sogno.
SI CERCA persona qualificata
per piangere
i vecchi che muoiono
negli ospizi. Si prega
di candidarsi senza certificati
e offerte scritte.
I documenti saranno stracciati
senza darne ricevuta.
272
DELLE PROMESSE del mio sposo,
che vi ha ingannato con i colori
del mondo popoloso, il suo brusio,
il canto alla finestra, il cane fuori:
che mai resterete soli
nel buio e nel silenzio
tutt’intorno
- non posso rispondere io.
La Notte, vedova del Giorno.
Wislawa Szymborska
4.3.2 Una notte al castello, raccontare il cammino,
percorrere le storie
Lorenzo Pezzoli
L’occhio vede le cose in maniera più chiara nei
sogni di quanto non riesca a vederle nella veglia.
Leonardo da Vinci
Affrontare il tema delle cadute, dimensione inscindibile del
viaggio dell’uomo alle prese con inciampi e capitomboli esistenziali, ma anche con la fatica e la difficoltà di riprendere il cammino
dopo essersi rialzato, è un nodo importante del processo formativo per le persone che andranno ad occuparsi della sofferenza, di
quella fisica come di quella psichica nel senso più ampio. Cadere
e inciampare sono intimamente legate alla biografia, e cadute e
inciampi diventano spesso i punti di incontro tra “curante” e “curato” nella relazione di aiuto: quei temi che, in senso generale,
accomunano chi aiuta e chi è aiutato nella umanità terenziana evocata dal “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
Da San Paolo a Icaro, da Fetonte a Lucifero si fa memoria di
come il cadere appartenga all’uomo (e non solo) e possa evolvere in
catastrofe o diventare opportunità rappresentando l’occasione, un
modo nuovo, di vedere il mondo e anche di viverlo. Inquadrando
i significati psicologici del cadere (non solo quello fisico per intenderci) si incontra la grande immagine caravaggesca della conversione di Saulo, una conversione descritta per ben tre volte negli
Atti degli apostoli e in ciascuna delle volte senza la presenza del
cavallo che invece domina immaginario, modi di dire ed espressioni artistiche sul tema. Paolo nella realtà non cade da cavallo ma
273
viene definita e rappresentata così questa conversione o, meglio, si
utilizza il tema del cadere per approcciare il cambiamento e la trasformazione. La caduta costringe dunque a una posizione diversa
dalla quale si cambia la prospettiva di visione delle cosa, da sopra il
cavallo al terreno non fa che accentuare lo iato che separa l’uomo
che precede la caduta dall’uomo che la segue. Il secondo elemento,
a partire sempre dal quadro caravaggesco, è la cecità susseguente la
caduta e il periodo di riposo e cure che segue l’evento. Un momento di buio, di notte, dove il soggetto pian piano recupera la vista
con una nuova visione del mondo.
Dunque inserire nel percorso didattico queste tematiche significa accompagnare chi è intento alla costruzione della propria identità professionale ad occuparsi di un registro formativo che non è
quello performativo legato alle tecniche (di intervento, di ascolto,
di comunicazione), né tanto meno a quello di una pedagogia conformativa orientata alla promozione di modelli di comportamento
uniformi, quanto piuttosto significa consentire l’apertura di uno
spazio a quella che ha preso il nome di terza formazione e cioè una
proposta formativa che si rivolge alla capacità dei soggetti di guardarsi dentro89. L’aiuto e l’accompagnamento a guardarsi dentro diventa un elemento che permette, a chi si accinge a questo percorso
e a questa proposta formativa, di restituire un’anima alle tecniche
apprese e a valorizzarne il valore e l’efficacia.
Per l’accompagnamento all’incontro con il tema della caduta
si sono individuati due filoni: quello temporale e quello spaziale.
Da un lato la notte per il registro temporale: immagine evocativa
del cadere e delle cadute, luogo antropologicamente caricato di significati in sintonia con lo scuro; dall’altro, per il registro spaziale,
si è lavorato sul tema del cammino, come è spesso rappresentata
la vita, unitamente al tema del raggiungimento di un luogo che
protegge e contiene, come può essere un castello arroccato su un
dosso. Questo, concretamente, si è concretizzato nel Castello Sasso
Corbaro, a Bellinzona, chiamato, neanche a dirlo, Castello di cima.
Ciò che accompagna la riflessione e la tematizzazione è un’attività
fisica e di animazione che completa, proprio a partire dall’esperienza fisica ed emozionale, quanto è stato tematizzato e verrà svi89
G. P. Quaglino, La scuola della vita. Manifesto della terza formazione,
Raffaello Cortina, Milano, 2011.
274
luppato a parole e nell’incontro all’interno della rocca: l’esperienza
si concreta quindi con il salire e rappresentare l’ascesa faticosa al
luogo di protezione e accoglienza nel tempo della notte, con le
sue evocazioni e vibrazioni, in attesa dell’alba. Nella dimensione
temporale, la meta da raggiungere (e in questo caso da attendere) è
il sorgere del sole, nella dimensione spaziale la dimensione “meta”
è rappresentata invece dalla rocca e dalle sale accoglienti che, con
musicisti e animatori, accolgono a partire dal portone di ingresso
chi con fatica raggiunge la sommità. Questo percorso viene calato
in un contesto narrativo dove si è presa l’immagine della “caduta
della notte”, nei suoi diversi aspetti da quelli astronomici, diciamo
così, a quelli antropologici e simbolici passando da quelli letterari
e poetici, e si è sviluppata accompagnando i partecipanti all’incontro con il tema del cadere nelle sue declinazioni relative al lavoro
sociale e alle relazioni di aiuto. Il percorso si articola all’interno
della narrazione come strumento di didattica e insegnamento, ma
anche come strumento di scoperta dell’identità e di racconto delle
emozioni.
Il programma didattico prevede dunque una partenza prima
dell’alba, alle 4.45 del mattino, d’inverno. Con i docenti e gli assistenti si è costruito un contesto “teatrale” con richiami sonori dalle
mura e dagli spalti del castello attraverso strumenti musicali, unitamente all’esecuzione di brani del Flauto Magico di Mozart, vero
tema guida di tutta l’attività per le dimensioni che l’opera contiene
sintoniche con quanto si voleva sviluppare. Il cammino del gruppo
di studenti si dipana nel bosco addormentato di un dicembre ticinese raggiungendo le mura fino all’ingresso al castello. Anche in
questo caso il tempo dell’inverno diventa un tempo dell’anima, uno
stato psichico che anche lui, come la notte, richiama alle tematiche
sviluppate. Da qui, dopo la partecipazione a brani evocativi recitati
dai docenti, ascolto di frammenti musicali, dopo la messa in scena
di gestualità dal forte richiamo come l’accompagnamento degli studenti, ad uno ad uno, fino all’ingresso della murata, si penetra nel
cuore della fortificazione con il contemporaneo ascolto eseguito da
musicisti professionisti del brano della Regina della notte. Una volta
all’interno del castello comincia l’attività di ascolto nei gruppi di
lavoro centrati su corporeità, narrazione ed emozioni che si intrecciano sulle tematiche della caduta e, naturalmente del rialzarsi.
275
4.3.3 Le notti e le aurore delle navigazioni identitarie
Graziano Martignoni
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la
terra era informe e deserta e le tenebre ricopriva
no l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle
acque. Dio disse “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio
vide che la luce era cosa buona e separò la luce
dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre
notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno
Genesi 1, 1-5
Il giorno è la luce di Dio che ci copre
Platone
Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce
è come quella di una nicchia in cui si trova una
lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo
è come un astro brillante; il suo combustibile
viene da un albero benedetto, un olivo né
orientale né occidentale, il cui olio sembra
illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco.
Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi
vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente
Corano 24:35
Io Mentre il tordo canta, notte e giorno, Sono
con la mia bella sotto i fiori, fino a quando la
nostra sentinella dalla
torre grida: “Amanti, alzatevi! ché io vedo
chiaramente l’alba e il giorno”
Trovatore anonimo
Voi, collinette e spiagge, Caduto lo splendor che
all’occidente Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo Non resterete; che
dall’altra parte. Tosto vedrete il cielo Imbiancar
novamente, e sorger l’alba: Alla qual poscia
seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue
fiamme possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con
voi gli eterei campi.
Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna
Nel suo docile manto e nell’aureola, Dal seno,
fuggitiva, Deridendo, e pare inviti, Un fiore di
pallida brace Si toglie e getta, la nubile notte.
È l’ora che disgiunge il primo chiaro Dall’ultimo
tremore.
Del cielo all’orlo, il gorgo lividi apre.
Con dita smeraldine Ambigui moti tessono Un
lino.
E d’oro le ombre, tacitando alacri Inconsapevoli
sospiri, I solchi mutano in labili rivi.
Giuseppe Ungaretti, La nascita d’aurora
276
Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora,
poiché, dopo avermi a lungo fuggito, la speranza
consente
a ritornare a me che la chiamo e l’imploro,
poiché questa felicità consente ad esser mia,
facciamola finita coi pensieri funesti, basta con i
cattivi sogni, ah! soprattutto
basta con l’ironia e le labbra strette
e parole in cui uno spirito senz’anima trionfava.
E basta con quei pugni serrati e la collera
per i malvagi e gli sciocchi che s’incontrano;
basta con l’abominevole rancore! basta
con l’oblìo ricercato in esecrate bevande!
Perché io voglio, ora che un Essere di luce
nella mia notte fonda ha portato il chiarore
di un amore immortale che è anche il primo
per la grazia, il sorriso e la bontà,
io voglio, da voi guidato, begli occhi dalle dolci
fiamme,
da voi condotto, o mano nella quale tremerà la
mia,
camminare diritto, sia per sentieri di muschio
sia che ciottoli e pietre ingombrino il cammino;
sì, voglio incedere dritto e calmo nella Vita
verso la meta a cui mi spingerà il destino,
senza violenza, né rimorsi, né invidia:
sarà questo il felice dovere in gaie lotte.
E poiché, per cullare le lentezze della via,
canterò arie ingenue, io mi dico
che lei certo mi ascolterà senza fastidio;
e non chiedo, davvero, altro Paradiso.
Poichè l’alba si accende…
Paul Verlaine, Poiché l’alba si accende
Quando l’alba si avvicina…
L’identità individuale e collettiva non è “terra ferma”, visibile e
misurabile, come fosse una geografia da ricopiare su di una mappa, ma è soprattutto una sorta di arcipelago fatto da isole, alcune
vicine, altre più lontane, alcune parlanti lingue comprensibili, altre
straniere e barbare, attraverso cui navigare e a volte sostare. L’identità e l’esistenza hanno questo in comune, la navigazione. La
navigazione diviene viaggio (homo viator) per tornare alla propria
Itaca sotto la spinta della nostalgia come l’Odisseo omerico, per
conoscere come l’Ulisse dantesco, che cerca il nuovo e l’ignoto
277
senza alcun desiderio di ritorno, ma anche per confondersi tra la
pulsione ad andare e quella dell’immobilità come l’Ulisse novecentesco raccontato da Joyce, che “comprende tanto il viaggatore che
non trova una propria stabilità quanto l’eroe del ritorno”90. Alla
navigazione di Ulisse si contrappone però, a fondamento dell’Occidente, un’altro viaggio, quello di Abramo. “La contrapposizione tra Ulisse e Abramo per Lévinas a quella tra una filosofia del
ritorno a sé e del Medesimo ed una filosofia della ‘fuoriuscita’ e
della precedenza dell’Altro sul Medesimo”91. “Al mito di Ulisse che
ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo
che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e
che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto
di partenza”92. Navigare tra le isole identitarie significa incontrare
queste figure fondanti, in ognuno di noi vi è infatti sempre un po’
dell’Ulisse omerico, un altro poco di quello dantesco e così via.
Il viaggio della vita è fatto di albe e tramonti, di luce e di buio,
di incontri con albe e tramonti, con le luci del mattino e le oscurità
della notte, con le cadute, le ricadute e le rinascite. Per questo il
mestiere dell’operatore della cura e dell’aiuto può divenire, a partire proprio dalla sua personale chiamata, dalla sua vocazione-che
deve precedere ogni pro-fessione, nello stesso tempo un compagno e
un fratello delle notti dell’esistenza e un guardiano, un protettore
delle luci dell’alba.
Tra le guglie e il cortile del Castello Corbaro, che ci ospita in
questo primo giovedì di dicembre e che ci ha visti giungere silenziosi nella notte per sentirne il respiro del tempo, sorge ora l’alba.
Buona luce a tutti!
L’alba e la notte dunque come metafore delle tante isole identitarie, delle loro spiagge solatie e ospitali, ma anche delle loro
misteriose foreste, che ospitano il buio. Spiagge ove attraccare e
foreste ove smarrirsi. È ora il momento della luce, della rinascita
90
P. Boitani, 2000.
91
C. Resta, “Atlantici o mediterranei?”, in Mesogea, 0, 2002, 53-63.
92
E. Levinas, “La traccia dell’altro”, in Scoprire l’esistenza con Husserl e
Heidegger, Raffaello Cortina, Milano 1998, 219.
278
della luce. Il giorno ci viene incontro con la sua nuova Aurora,
dopo le tenebre della notte. Tenebre che ognuno di noi ha dovuto
attraversare quotidianamente dentro e fuori di sé, di fronte alla
precarietà e alla fragilità dell’esistenza. Aurora che ora invita la luce
a farsi strada nel mondo e a volte anche nell’ anima. La luce che
sembrava sospesa, a volte interrotta, altre persino ferita definitivamente, può rinascere alla vita. L’aurora, scrive Maria Zambrano in
uno splendido libro dedicato proprio a quel momento nascente
della luce, “avanza ad ogni apparire delle sue luci molteplici, si
riversa e piange, si raccoglie e torna - vuole tornare - a se stessa,
a quel “se stessa”, che non possiede … rinasce e si fa cenere; se si
spegne, torna ad accendersi”93. Si chiede all’Aurora di annunciare e
di accogliere la luce. In essa la vita che sembrava assopita o lontana,
perduta in altri sognanti mondi, e a volte nei mondi più cupi della
malattia o della perdita della speranza, torna. “Si chiede all’Aurora, anche senza saperlo, questo seguitare a nascere”. È il miracolo
della luce, a cui ognuno di noi, solo aprisse gli occhi, può assistere.
È l’annuncio, che la rinascita dopo la caduta è possibile, che la
“casa” che pensavamo di aver smarrito è sempre là ad attenderci,
che qualcuna ci viene incontro sul nostro sdrucciolevole cammino.
Una “casa” che qui si riveste dei colori del mondo e si rianima delle
voci degli uomini, che fanno da involucro sonoro all’esistenza e
indicano il battito vitale della vita. Ci accolgono, appena poniamo
l’orecchio e lo sguardo lieve e innocente su di loro, al ritorno dal
nostro esilio, dal dolore di una malattia, dalla disperazione di un
esistenza sbagliata e messa fuori strada, dall’angoscia e dall’incertezza di un mondo a cui non si riusciva più a dare senso. Ad ogni
risveglio è come se fosse una nostra personale e laica pasqua, la luce
è tornata! Che si creda o no al suo significato religioso, è il giorno,
che fa parlare il cuore pulsante e segreto dell’esistenza, sospesa, per
l’uomo, tra destino e libertà; un cuore che contiene il luogo più
misterioso dell’umanità stessa dell’uomo, in cui l’inevitabilità della
morte e la possibilità della rinascita, si ricongiungono giorno dopo
giorno sin dall’inizio dei tempi.
Nella luce, la speranza…
93
M. Zambrano, Dell’Aurora, 1986.
279
Nella luce che torna abita la rivelazione della speranza. Ma che
cosa è allora la speranza, che la luce dell’Aurora annuncia? La speranza non è l’illusione ingannatrice dei tanti miraggi della realtà, non è un dolcificante artificiale della vita amara da richiamare
quando passivamente aspettiamo, che altri risolvano per noi gli
intrighi e gli ingorghi dolorosi della vita. La speranza è prima di
tutto un evento, un incontro, uno sguardo, un suono, un colore,
una voce, qualcosa che accade nella nostra vita quotidiana e di cui
dobbiamo divenire ospitali. La speranza è attesa e nello stesso tempo progetto di vita. Ma questo non basta. La speranza, che la luce
aurorale della nostra quotidiana “pasqua” ridona all’uomo mendicante su questa “terra desolata”, come cantata dal poema di T.S.
Eliot (1922), ha bisogno di un atto di fede, di credere che la realtà
non è sempre solo ciò che è, ma al contrario, a volte persino contro
la realtà stessa, è qualcosa che potrebbe essere e che è già e non ancora.
Apre così alla dimensione delle possibilità. La speranza è irrequieta
abitatrice del presente, della nostra stessa quotidianità e non, come
a prima vista potrebbe sembrare, una questione solo del futuro.
La quotidianità è il suo orizzonte. La speranza non è allora solo
un balsamo necessario per vivere, ma è costantemente esposta alla
delusione, all’incredulità e all’incertezza, così come alla fatica per
mantenere in vita quella luce, che tramonta sempre, per poi tornare nella sua nuova aurora. Solo l’uomo può sperare e disperare, solo
l’uomo può cogliere la meraviglia dell’Aurora, che la luce annuncia. Solo l’uomo infatti è capace di questo atto di fede. Questo è un
dono che si deve conquistare ogni giorno, perché a volte veramente inospitale è il mondo che ci circonda e altre veramente desertico
o crudele è il nostro mondo interno che chiuso su di sé è divenuto
incapace di ogni possibile incontro, e non crede più alla possibilità
che quell’incontro possa far nascere “ciò che non è ancora”. Dolci
sono i suoni e i colori dell’Aurora, ma sempre incerto è il loro apparire. L’uomo, che li incontra là dove è capace di attenderli, in quel
“già e nel non ancora”, è chiamato a coniugare l’esperienza della
ragione e della responsabilità, della gioia e del dolore a quell’aura
di miracolo, “un miracolo con piena responsabilità”, senza cui il
mondo e lui stesso non potrebbero mai divenire diverso da ciò che
è. È infatti l’esperienza della spoliazione del mondo e di se stessi,
che i nostri tanti venerdì contengono con la loro dose di dolorosa
280
oscurità e di buio, quando la vita quotidiana sembra abbandonata
ad un deserto di senso e di desolazione e gli dei sembrano ritirarsi
lontano, che apre alla luminosità dell’Aurora. Tuttavia “solo la luce
- scrive ancora la Zambrano - che sopraggiunge, prima di estendersi, quando ancora non accenna a diffondersi, in questo istante
puro del suo avvento, quando ferisce, fa sentire l’impenetrabilità
di qualcosa che non può dirsi semplicemente oscurità”. Quel suo
avvento è il luogo della meraviglia e dello stupore, che da luce ai
nostri occhi spesso stanchi dall’oscurità e che fa nascere i pensieri.
“Nessuna tenebra, infatti, per quanto fitta, fa disperare che una
qualche luce, o qualcosa della luce, possa penetrare in essa”. Qui
sta il paradosso della Speranza che nasce sempre dalla disperazione, per farsi annuncio. Buona luce! Noi siamo modestamente coloro chiamati a pronunciare, certo balbettando, questo annuncio.
Il fremito quotidiano dell’alba, la visione aurorale della luce, che
la nostra pasqua annuncia e che, come ci dice il grande filosofo
persiano del XII secolo Sohravardî, fa apparire il nostro Oriente,
non è un luogo della geografia, del calendario, non è rinchiusa in
un protocollo o in un formulario statistico, ma un’esperienza spirituale, una cognitio matutina, attraverso cui è possibile ogni giorno
rinascere. Buona luce a tutti!
4.3.4 La ricaduta, una “abitatrice degli incroci”,
tra percorso tossicomanico e viaggio terapeutico94
Graziano Martignoni
È difficile rendere conto in breve della complessità e della varietà dei contributi del Colloquio, che l’Associazione e l’Antenna
Alice hanno dedicato al tema della “ricaduta”. È stata un’occasione
di riflessione e di confronto privilegiata tra esperienze diverse per
approccio, scelte strategiche, provenienza geografica. Una riflessione su di un tema urgente e necessario per capire il senso dell’esperienza tossicomanica dal di dentro e nello stesso tempo per interrogare le scelte di aiuto e di cura delle strutture e degli operatori
94
G. Martignoni, “La ricaduta, una ‘abitatrice degli incroci’ tra percorso
tossicomanico e viaggio terapeutico”, in L. Romeo (ed.), La ricaduta, Edizioni
Alice, Comano/Lugano, 1995.
281
chiamati ad “accompagnare”, a volte in modo trasformativo, altre
solo protettivo o palliativo (penso alle esigenze igienico-sanitarie e
sociali in merito alla qualità della vita e alla “minimizzazione dei
rischi”), le oscillazioni irregolari e burrascose, gli sbandamenti e le
schiavitù di una esistenza dentro la droga. Accompagnare come
presenza viva e come continua risorsa, accettando di elaborare dentro di sé il senso di rabbia, di delusione e di aggressività che ogni
nuova ricaduta può suscitare e nello stesso tempo evitando che il
sentimento di fallimento e di colpa che il tossicodipendente può
vivere divenga la conferma di un destino ineluttabile. Un lavoro
sulla ricaduta che diviene così, al di là del significato e delle cause
psicologiche, biologiche e sociali individuali spesso introvabili, un
paradigma fondamentale per leggere come la stessa relazione terapeutica e le stesse attitudini dei curanti partecipino direttamente
alle rotture, alle interruzioni, a quei “ritorni” all’indietro, ma anche
alle possibilità di “rinascita” e di ripresa del viaggio trasformativo.
Ecco allora tra le relazioni del colloquio la coraggiosa messa in discussione di alcuni modelli comunitari, la disamina delle reazioni
contro-attitudinali delle équipe curanti e delle loro ambivalenze,
così come il riconoscimento della “necessità” della ricaduta, del
suo aspetto spesso di “messaggio nella bottiglia”, che arriva a volte
confuso e contraddittorio ma anche del suo significato paradossale
di “rigenerazione” alla rovescia, solitaria e per parafrasare una categoria usata dall’antropologo medico Ilario Rossi, fuori da ogni
“reciprocità relazionale”.
Su questo orizzonte la ricaduta assume un carattere di conoscenza e di guida alla cura forte, che fa di lei una sorta di “abitatrice degli incroci” tra scena tossicomanica e scena terapeutica. Essa
sta infatti tra viaggio terapeutico e percorso tossicodipendente, ne
ritma i tempi, le pause e le rotture, modula la qualità della nostra
presenza e della nostra ospitalità e della stessa presenza a sé e al
mondo del tossicodipendente. Ma altre sono pure le sue funzioni.
1. La ricaduta ci immerge nella clinica dei fluidi, delle turbolenze, dell’imprevedibile che è la clinica della tossicodipendenza. Essa
non è solo un cattivo esito di una terapia, o l’effetto di una malasorte ma appartiene al nucleo fondamentale della esperienza tossicomanica e ai suoi assi costitutivi. È essenzialmente la conseguenza
282
di una perturbazione nei vettori di vita di cui il tossicodipendente
è più vulnerabile, che sono dell’ordine della intensità degli affetti,
della velocità del correre del tempo, della atmosfera relazionale con
i suoi lutti e le sue separazioni, della delusione e anche del caso.
Una sorta di quadro sintomatico dunque che oscilla tra libertà,
caso e necessità, là dove l’azione terapeutica tenta di piegare il caso
e la necessità, dentro la spesso dolorosa dimensione della libertà e
della responsabilità.
2. La ricaduta appartiene alla temporalità dell’esistenza umana. È
come se rappresentasse una sorta di lato oscuro di un viaggio dentro la vita, che si vuole illusoriamente senza arresti. Il suo percorso
invece non è mai una via diretta, ma è fatto di pause, di intervalli,
di ritorni, come se la vita dell’uomo fosse un continuo rispecchiarsi
nella sua origine, in quel “puit de mon enfance” di cui parla il poeta
Edmond Jabès, individuale o collettiva. In questo l’esperienza tossicomanica non è che la metafora estrema di una condizione di esilio,
che è dell’uomo stesso. La ricaduta, il ritorno, la nostalgia dell’origine segnano la via tra passato e futuro di quella condizione estrema
di intollerabile esilio. Un esilio che l’esperienza della droga nella sua
funzione auto-terapeutica combatte e nello stesso momento riproduce e mette in scena, come se il confronto fosse incessantemente tra
destino e suo (im-)possibile oltre-passamento.
3. La ricaduta mantiene un suo legame antico con il male, l’errore, il peccato. Come rappresentano questa “pesantezza” antropologica e semantica i frastagliati percorsi di vita del tossicodipendente? Che cosa significa infatti ricadere? Ricaduta e ripetizione
di un trauma antico, ricaduta e coazione a ripetere, ricaduta come
bisogno di ritrovare un godimento perduto, ricaduta come necessità di un corpo che parla oramai da solo come una macchina folle?
Come dunque liberare la ricaduta dalla sua pesantezza catastrofica
e darle l’esperienza il senso di un evento pur rischioso dentro l’esperienza della vita, capace di produrre un “nuovo inizio”, nuove
possibilità di senso? E ancora, che cosa conduce alla ricaduta? Tratti di personalità, la scoperta di nuove sostanze, una concezione
ristretta della guarigione, la mancata percezione di segnali premonitori o banali accadimenti di vita? Una ricaduta non è né segno
283
di sconfitta, né prova di debolezza, può non cancellare la crescita
che si era realizzata nella relazione terapeutica tra tossicodipendente e terapeuta, spesso però la mette alla prova. Può divenire
così “occasione” e non semplicemente e drammaticamente cieca
ripetizione. Come prevenirla dunque, come accompagnarla, come
darle questo carattere di “occasione”. Questa la sfida che ci viene
rivolta quotidianamente.
4. La ricaduta è figura della crisi e appare spesso come un paradossale tentativo anti-catastrofe. È spesso qualcosa della stessa sopravvivenza che è in gioco. Un tentativo che può divenire, è bene
ricordarlo, evento o disastro. Quali le condizioni di questo difficile
equilibrio tra terapia e tentazione del ritorno. Come proteggere il
tossicodipendente che ha interrotto l’uso di droga di fronte alla
nudità di una esperienza interiore, come la chiamava Bataille, che
gli viene da un ascolto più ravvicinato (senza la protezione della
droga) delle sue emozioni quotidiane e dei suoi pensieri sull’amore
e sulla morte, di cui non è pronto ad assumere la complessità la
bellezza ma anche il dolore?
“Un non più giovane tossicodipendente in sostituzione metadonica da molti anni mi disse un giorno che doveva ogni tanto bucarsi per ritrovare il centro e da li potersi ri-sentire…”. La ricaduta
è segno qui di una necessità di ristabilire un “centro” di sé e non
immediatamente quello di una frammentazione psichica o sociale
che poi inesorabilmente segue. Un centro da cui emana non più
un senso o una ragione della vita, ma una sensazione e un brivido
della vita. Necessità di ristabilire a proprio modo una funzione
comunicativa con la propria cripta tossica che deve essere paradossalmente nutrita, una funzione di autoregolazione psico-corporea
verso il mondo degli affetti disperanti ma anche troppo eccitanti
e positivi, verso il senso di colpa o di vergogna, verso le angosce
di morte e infine una funzione ortopedica verso la realizzazione di
bisogni di appartenenza o di intimità … là dove l’equilibrio psicosociale si trova in stato di turbamento. È di queste cose dunque
che bisogna farsi carico perché la ricaduta divenga un’occasione e
non un ulteriore inganno.
5. La ricaduta è dunque una strategia anti-dolore per chi vive la
284
sofferenza del soggetto disintossicato, come la chiama Olivenstein
(“è solo il tossicodipendente guarito che si suicida”, scrive provocatoriamente l’autore francese). Il soggetto senza buco vive un corpo
scorticato, esposto, vulnerabile, e un mondo psichico disarmato di
fronte alle angosce di morte che hanno spesso il sapore e la forza
della sua antichità e che divengono in lui immediatezza totalizzante sino alla ricerca di una “overdose”. La ricaduta è così il segno di
una vulnerabilità e della sua riposta regressiva, come della funzione
degli “eventi di vita” (life-events) e della debolezza di assunzione e
di elaborazione (coping) dello stress psicosomatico e psicosociale.
6. La ricaduta è interrogazione sulla cura, sulla onnipotenza dei
terapeuti, sulla loro pazienza, sulla qualità della loro accoglienza.
Essa è chiasma critico del processo terapeutico e nello stesso tempo fa parte della esperienza tossicomanica iscritta nella figura del
ritorno (attraverso il buco del corpo).
La ricaduta è dunque divaricazione, rottura o “new beginning”
di quell’intersecarsi del viaggio terapeutico e del percorso esistenziale tossicomanico di cui è fatto il lavoro quotidiano. È incrocio
che fa oscillare trasformazione, apertura verso il mondo e ripetizione, rinvio al medesimo, auto-consumazione di sé.
7. La ricaduta è un modo per ritmare il tempo altrimenti, per
sospenderlo provvisoriamente, per ricominciare il tempo. Ecco
perché ricaduta e disintossicazione somatica rappresentano una soglia necessaria e gemellare della esperienza tossicomanica e dunque
momento fondamentale ad ogni entrata nel viaggio terapeutico.
Sono tempi terapeutici e di vita privilegiati nella percezione di coesistenza tra mondo, psiche e corpo, una percezione instabile, precaria e dolorosa, là dove alla ricerca di una totalità mai raggiunta
ma intravvista il tossicodipendente rischia la sua definitiva disarticolazione, come il gioco di un mosaico che ogni volta ricominciato
si trova a dover fare i conti con i pezzi smarriti…
Finalmente la ricaduta è un modo per ricominciare un gioco
tragico ma anche eccitante attorno alla propria identità. Come
allora esserci come curanti in questa ricomposizione-decomposizione di un mosaico della vita e della esistenza quotidiana in esilio
285
di se stessi e del mondo, ammagliata dai profumi della antichità,
ogni volta che il mosaico ri-incontra il caos? Come fare che una
ricaduta sia solamente un “reculer pour mieux sauter”, una esperienza di senso e di rinascita e non un agito disperante? Come fare
della ospitalità continuamente un “crocevia di cammini” anche di
fronte al fallimento, alla protesta, alla rottura, alla disperazione?
Queste alcune della questioni al centro di quel colloquio ma inesorabilmente al centro del nostro ascolto e della nostra presenza
quotidiana nel loro “cammino”.
4.3.5 La caduta e l’inciampo
Lorenzo Pellandini
La caduta, desidero parlarvi, anche, di ciò che precede la caduta,
ossia l’inciampo. La caduta del podista oppure quella del maratoneta; questa potrebbe essere la metafora.
Il podista, si sa, e il maratoneta sono in cammino, sono in marcia, verso un obiettivo, loro però preferiscono parlare di traguardo,
il traguardo rappresentato dallo striscione con scritto arrivo, che
già lascia intravvedere quello prossimo con scritto partenza.
La paura della caduta
Preceduta dall’inciampo
La paura del dopo
Accompagnata dalla paura dello sguardo
Si può inciampare su un sasso, su un gradino troppo alto, su
un gradino troppo “altro”, oppure perché distratti dal volo, in un
battito d’ali, di una farfalla colorata, oppure perché incapaci di
ascoltare l’affanno del nostro respiro e di quanto il corpo vuole
comunicare alla mente, oppure la mente incapace di fermare il
corpo nel renderlo attento sulla possibile e necessaria sosta, oppure
si può inciampare perché il passo si è fatto pesante, passo diventato
insostenibile, troppo pesante per essere trasportato, troppo pesante
per condurre il nostro corpo, oppure…
Inciampare; può significare, incespicare urtare col piede un
ostacolo, incappare imbattersi trovarsi di fronte a una persona indesiderata o un imprevisto e ancora, incespicare procedere a stento
286
nel parlare o nello scrivere. In questa notte di racconti95 io mi sono
dovuto misurare con la mia paura dell’inciampo e della successiva
ipotetica caduta, ho fatto le prove, quelle teatrali per intenderci, ho
ripetuto la mia parte. Allo specchio più volte fino a credere di essere pronto per sostenere il vostro ascolto, il vostro sguardo. E ora
che sono qui con voi, temo di incespicare in una virgola inopportuna, di balbettare su un punto sospeso, perdermi in un contenuto
oscuro alla ricerca del predicato e del soggetto.
Ho paura di perdere il tempo, quello coniugato per intenderci.
Quello che protegge il senso di quanto si vuol comunicare.
Ho paura di essere troppo “altro”, può sembrare un paradosso,
ossia impegnato nella ricerca di un’improbabile presenza perfetta,
tentativo esasperato di proporre una narrazione senza inciampo.
Allora ecco che all’orizzonte si profilano i contorni di un altro me,
privo del suo vero singolare, infatti il nostro singolare non può che
essere abitato anche dalle nostre imperfezioni, dalle nostre ombre,
ma la forza delle nostre ombre risiede nella possibilità di apparire
solo, e solo se, in presenza di luce.
Ho paura di inciampare perché ho paura del vostro giudizio, come
il maratoneta o il podista che quando inciampano a prescindere
dalla successiva caduta, perché sappiamo che non necessariamente
ad un inciampo segue la caduta, ebbene ancora in piedi, eretti sui
loro arti, o sdraiati mentre ancora si rialzano, si guardano attorno
alla ricerca di un possibile sguardo, di un possibile giudizio.
L’inciampo, la caduta, l’accaduto; chi frequenta il mio seminario sa che navigo in un oceano che, non è quello atlantico e nemmeno quello pacifico; navigo nelle acque a volte burrascose di un
mare che è stato chiamato follia96. Un giorno alla settimana97 mi
reco verso il mio approdo a far cambusa, direbbe Graziano Martignoni, mi incammino verso scuola, verso di voi.
Negli altri giorni navigo, sotto costa o in mare aperto e mi capi95
Attività di narrazione realizzata durante il seminario “La caduta della notte” proposta nell’ambito del modulo “Identità personale” del DSAS della
SUPSI a.a. 2012-2013.
96
L’autore lavora presso l’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC).
97
Un giorno alla settimana l’autore lavora presso il DSAS della SUPSI.
287
ta con una certa regolarità d’incontrare velieri e altri marinai confrontati con uragani, marinai che si misurano con i loro naufragi,
le loro cadute e ancora cadute, cadute e altre ripetute cadute.
Tant’è che in questo oceano si parla di ri-cadute, e in tutta onestà mi pare che con questo termine ci distanziamo, ci allontaniamo dall’accaduto, quasi a proteggerci, nell’intento di disegnare un
confine tra noi, me, e altro, l’interlocutore ac-caduto. Come se le
ripetute cadute non abbiamo nulla da raccontare, non ci sia più
nulla da comprendere, è caduto e basta e chi se ne frega dell’inciampo, cosa ci importa della possibile storia. È storia già ascoltata
non vi è nulla di nuovo, non è più sorpresa è solo disincanto, non
ci può essere amore, è solo noia, tristemente noia che congela la
nostra, le loro esistenze.
Invece no a noi, non è data la “noia”. Quella descritta saggiamente da Eugenio Borgna, quella che annulla le storie personali e
le metamorfosi, quella che ci pietrifica nell’anonimato impossibilitati nel dare senso alla vita.
“La noia è un’espressione emozionale, una Stimmung, che sta
ai confini della tristezza: anche se non si identifica con questa in
ordine alla diversa costituzione temporale (…) dell’una e dell’altra.
Nella noia si vive nell’orizzonte infinito e immobile del presente
che non ha passato, e non ha futuro: congelato, e rappreso, in
questa sua sola dimensione temporale. In ogni esperienza di noia
(noia psicologica e noia psicopatologica ma anche noia esistenziale
e noia metafisica: noia pasca liana nella sua ardente dissolvenza di
ogni speranza e di ogni interesse, di ogni illusione mondana e di
ogni affannosa ricerca di un senso) si sprofonda, così, in un tempo
indifferenziato e in una infinitudine di esperienze anonime.
La noia come stato d’animo senza più storia personale: senza
più metamorfosi”98.
D’altro canto la noia è parte dell’argilla con la quale noi costruiamo le nostre opere educative, infatti i marinai che incontriamo, si confrontano, con sfumature diverse, con la loro percezione
98
288
E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001, 21.
d’impossibilità di metamorfosi, con il loro sentimento di anonimato nel vortice del non senso.
Ebbene, allora, proprio incontrando le loro storie, proprio ripartendo dalle loro narrazioni, mi piace pensare che nessuna meta
sia irraggiungibile, e qui non si tratta di generare illusioni mondane, anzi si tratta concretamente di dare e ridare senso alle storie,
perché queste possano essere il presente capace di riconoscere il
passato, perché queste possano avere un futuro.
“Futuro e passato non esistono, e che impropriamente si dice:
‘Tre sono i tempi: il passato, il presente e il futuro’.
Più esatto sarebbe dire ‘Tre sono i tempi: il presente del passato,
il presente del presente, il presente del futuro’. Queste ultime tre
forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente
del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione
diretta, il presente del futuro è l’attesa”99.
Non perdiamo l’occasione che ci è donata dalla caduta, e qui mi
permetto ancora di citare Eugenio Borgna, di incontrare
“I linguaggi dell’anima, i linguaggi del corpo, la inquietudine,
la memoria, gli stati d’animo, le parabole agoniche del dolore, le
ragioni del cuore nelle lacerazioni, e nelle distorsioni, a cui vanno
incontro nella follia”100.
Non perdiamo l’occasione, quindi, di scoprire il senso delle storie, la meraviglia dell’accaduto.
Impegnarci nell’essere esploratori di narrazioni che non temono
nuove scoperte, che non temono lo stupore, quello dato dall’incontro, quello che ti porta a pensare “e ora cosa accade?”, questione che genera e rigenera la voglia di nuove scoperte, che alimenta
la nostra capacità d’incuriosirci.
“Pour en revenir à l’étonnement, c’est une façon d’être prêt à
la rencontre sans s’y préparer, sans s’y croire préparé par ce qu’on
99
Sant’agostino, (capitolo XX, libro undicesimo), cit. in: D. Demetrio
D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, 1999, 210.
100
E. Borgna, Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano, 2012, 17.
289
a lu, appris. Bien sûr, il vaut mieux avoir travaillé, avoir sa boîte
à outils, comme les tailleurs de pierre, mais il faut marcher, et ne
pas se raconter qu’on écoute. On devrait faire subir aux psychiatres
l’épreuve des gangsters, celle du regard périphérique. Un postulant
doit marcher dans une rue bordée de bijouteries en regardant droit
devant lui et, à l’arrivée, décrire en détail”101.
Curiosi alla vita, curiosi nella vita per dare rilievo ai dettagli, a
quelle sfumature che disegnano le differenze.
Per comprendere il cosa accade ora, bisogna sapere esplorare
anche che cosa è accaduto, bisogna saper assumersi la fatica di incontrare anche gli eventi drammatici, dolorosi, di sofferenza che
l’altro porta con sé.
E poi cosa accadrà? Questa domanda ci progetta nel futuro, nelle sue incertezze, ma dal momento che la formuliamo rende il dubbio meno dubbio, il cosa accadrà non è più solo futuro ma inaugura un presente condiviso, presente capace di vivere con equilibrio
pure nell’incertezza…
Infine.
Ricercare il senso, significa predisporsi all’ascolto, significa dare
senso anche all’inciampo, significa porre attenzione ai piccoli dettagli, a quel sasso non visto, quel pensiero non espresso, al volo
della farfalla, al corpo in affanno e il suo soffio vitale, alla mente
distratta, significa trovare oggetti e emozioni, porre ordine nel disordine, riporre disordine nell’ordine.
Significa essere audaci.
Ricercare il senso vuol dire autorizzarsi alla sosta, sostare nell’accadimento, banalmente poi potremo anche scoprire che non ci è
data sosta se non c’è percorso, e non ci è data caduta se non c’è
cammino.
E ancora.
Senso.
Vuol dire potere essere nella storia del maratoneta, essere presenti e non lontani, essere vicini e non distanti, vicini nel cammino, spalla a spalla nel sentiero, nelle salite e nelle discese. Vuol
101
J. Oury - M. Depusse, À quelle heure passe le train … Conversations sur
la folie, Calmann-Lévy, Paris, 2003, 43.
290
dire ritrovare insieme il traguardo che già lascia immaginare una
possibile nuova partenza.
Perché il possibile possa ancora accadere e stupirci, perché il maratoneta possa avere ancora passi leggeri, ritrovare i suoi passi di seta.
4.3.6 Sulla retta via non ci va nessuno.
Riflessioni su arte, normalità, disabilità102
Claudio Mustacchi
L’attenzione verso le problematiche della disabilità, focalizzata
inizialmente sul piano etico, con le azioni caritatevoli, e su quello
scientifico, si è rivolta, in una fase più recente, in direzione dell’estetica. In tale senso, si è orientata verso il riconoscimento del diritto di cittadinanza artistica e culturale alla disabilità sostenuto da
logiche di azione sociale che favoriscono l’emancipazione e l’autonomia.
In che modo i cambiamenti nel mondo dell’arte nel corso
dell’ultimo secolo sono rivelatori di questa trasformazione? In che
forma vi hanno contribuito?
Per quale motivo l’espressione artistica trova una vasta applicazione
nel contesto del lavoro con l’handicap?
A questa domanda si potrebbe controbattere: «Per quale motivo l’arte non dovrebbe trovare vasta applicazione nel lavoro con
l’handicap?». Accanto alla scienza e all’etica, l’arte è una delle più
profonde manifestazioni dello spirito umano. Laddove gli essere
umani desiderano coltivare le loro migliori qualità incontriamo
la ricerca della conoscenza, della giustizia e, inevitabilmente, l’arte, nelle sue infinite manifestazioni. Senza alcun dubbio quando
pensiamo al mondo dell’handicap - ai soggetti, alle famiglie, agli
operatori che lo compongono - pensiamo a un mondo che si sforza
di coltivare le proprie e altrui qualità.
Bisogna comunque riconoscere che la diffusione di pratiche artistiche nei contesti del lavoro con l’handicap - come in molti altri
luoghi del lavoro sociale e di cura - è un fenomeno attuale con
102
Questo articolo è già apparso nella rivista per le Medical Humanities,
rMH 20 Ottobre-Dicembre 2011.
291
elementi evidenti di novità.
È - a mio parere - l’espressione della maturità raggiunta dal settore. I primi interventi organizzati e strutturati nei confronti del
mondo dell’handicap sono stati mossi dall’etica, dalle sensibilità
filantropiche e caritatevoli; si è poi aggiunto il contributo della
scienza che ha consentito straordinari progressi sia metodologici
che culturali. L’apparire dell’arte è il segno di un’ulteriore evoluzione attualmente in corso. Alle esistenze che si confrontano con
l’handicap viene sempre più riconosciuto pieno diritto di cittadinanza culturale, che è qualcosa di più del semplice diritto di
esistenza: vuol dire accedere a tutte le manifestazioni del pensiero
umano. Sto però parlando di un processo in atto, che come abbiamo detto rappresenta una novità, tanto che - legittimamente
- ci interroghiamo a questo proposito. Ciò significa che c’è ancora
parecchio lavoro da fare.
In termini molto generali, per comprendere i motivi per cui
esperienze di teatro, atelier di pittura, attività musicali, laboratori
di narrazione e tutta una vasta serie di iniziative artistiche e culturali stanno sempre più caratterizzando il lavoro con l’handicap,
dobbiamo prendere atto quantomeno dei cambiamenti che sono
avvenuti - e stanno continuamente avvenendo - nel lavoro socioeducativo e nel mondo artistico.
Per quanto riguarda i cambiamenti nel lavoro socioeducativo
non ritengo necessario entrare troppo nel merito in questa sede.
Tali mutamenti possono essere riassunti in un concetto: l’operatore sociale è oggi colui che è in grado di guardare alle possibilità dei
soggetti che a lui si rivolgono, laddove le altre persone - e a volte i
soggetti stessi - vedono solo problemi. Da una logica prevalentemente assistenziale siamo passati a una visione pedagogica, attenta
a favorire l’autonomia e l’emancipazione. L’intervento sociale oggi
si costruisce insieme ai soggetti, all’interno di una complessa rete
di relazioni sociali e istituzionali che sostiene e valorizza le persone. L’utente che un tempo veniva inteso come un portatore di
un bisogno è oggi considerato come portatore di dignità sociale
e di possibilità educative a cui vanno offerte tutte le risorse che
società e cultura possono mettere a disposizione. In questo quadro
il lavoro sociale diventa sempre più complesso; l’operatore sociale
non è più un mero esecutore di provvedimenti o di procedure d’in292
tervento, ma deve continuamente alimentare la propria creatività
e quella dei soggetti e delle famiglie con cui opera per costruire
nuove strategie e soluzioni.
Sono certo però che questi temi non siano nuovi per i lettori.
Meno conosciuti possono invece essere quei cambiamenti avvenuti
nel mondo dell’arte, che fanno sì che molte pratiche artistiche si
diffondano nei contesti del lavoro sociale e di cura.
Per cercare di capire cosa è accaduto all’arte del secolo precedente io spesso mostro ai miei studenti due disegni uno accanto
all’altro. Il primo proviene da un atelier di pittura di un centro psichiatrico ed è stato realizzato da un paziente affetto da una grave
psicosi, il secondo è un disegno espressionista di un noto pittore
del Novecento. Chi non ha una discreta conoscenza estetica, non
riesce a dire con certezza quale lavoro sia da attribuire all’uno e
quale all’altro autore. Se riflettiamo bene è un fatto disarmante.
Nessuno avrebbe dubbi, in una situazione similare, nell’attribuire
un quadro del rinascimento o dell’impressionismo, ma l’arte del
Novecento rende possibile questa ambiguità. Di fronte a questo
fatto potremmo essere tentati di dare ragione a chi nella Germania
nazista organizzò la mostra dell’Arte Degenerata e mostrò opere
provenienti dai manicomi accanto a opere degli espressionisti e di
altri movimenti contemporanei, per dimostrare che artisti come
Klee e Kandinsky erano dei pazzi, perversi e degenerati. Per fortuna il nazismo è tramontato e le opere di quei geni sono presenti nei
più importanti musei del mondo. La mostra dell’Arte Degenerata
aveva però colto un elemento reale: il legame fra le opere degli
artisti contemporanei e i luoghi della sofferenza o dell’emarginazione. In effetti pittori del calibro di Klee, Mirò, Picasso e molti
altri - sempre più critici verso l’arte imitativa e celebrativa e in cerca di ispirazioni per inventare nuovi modi di espressione e nuovi
linguaggi, hanno rivolto le loro attenzioni alle immagini prodotte
al di fuori dei luoghi tradizionali dell’arte; osservavano i disegni dei
«debili mentali», come si diceva allora, ma anche degli auto-didatti - pensiamo al Doganiere Rousseau - dei bambini, degli uomini
primitivi, delle culture non industrializzate.
Questi artisti si ponevano all’ascolto dei linguaggi dei più deboli
e degli emarginati, nello stesso periodo in cui altri uomini, teorizzando la purezza del sangue e della razza, praticavano lo sterminio
293
che è partito proprio dall’eliminazione di malati e disabili.
Stanco di un’arte che aveva perso il contatto con la realtà, questo
gruppo di artisti cercava di inventare un’arte che fosse un vero nutrimento per tutti gli uomini. La cultura intesa come lusso o svago
non era di loro interesse. Antonin Artaud - poeta e rinnovatore
del teatro - diceva di cercare un’arte che fosse un vero nutrimento per l’uomo, che avesse «la forza della fame». Gli artisti si sono
avvicinati alla sofferenza, all’infanzia, all’emarginazione e ai loro
linguaggi, perché in quei contesti esistono bisogni di comunicazione, necessità vitali di espressione, che hanno appunto la forza della
fame. I nuovi linguaggi dell’arte inventati dagli espressionisti o dai
surrealisti e dai loro discendenti non hanno più lo scopo di imitare
la visione della natura o di celebrare il potente di turno, ma offrono infinite nuove possibilità di comunicazione, fra cui non ultime
quelle di esprimere le profondità dell’animo umano, le sue emozioni, le sue inquietudini. I linguaggi dell’arte contemporanea - lo
stesso vale per il teatro e ogni altra forma d’arte - possono diventare
ciò che il filosofo francese Foucault chiamava «tecnologie del sé»,
strumenti attraverso i quali è possibile rappresentare e comunicare
se stessi e dare vita a processi di formazione e trasformazione individuale e sociale.
Se oggi - come abbiamo detto - l’operatore sociale vuole mostrare che ognuno, oltre alla storia delle proprie difficoltà, porta con
sé una storia ricca di vita e di potenzialità, capiamo che i linguaggi
dell’arte possono giocare un ruolo prezioso. Il dialogo fra strumenti dell’intervento sociale e strumenti dell’arte è ormai aperto e si
sta diffondendo in Ticino come in tutta Europa; presso la SUPSI
ci stiamo attrezzando per sostenere adeguatamente le azioni formative in questa direzione con un corso rivolto alla creatività nel
lavoro sociale.
Come si può interpretare nell’ambito dell’handicap la frase di Joseph Beuys: «Ogni uomo è un artista»?
Beuys è uno degli artisti più originali e interessanti del Novecento. Si dice che non abbia voluto creare nessun metodo ma
abbia dedicato l’intera sua arte e la sua vita per migliorare tutti
i metodi dell’uomo. Per lui l’origine dell’arte risiede nell’energia
vitale di cui ogni uomo - in qualsiasi condizione di esistenza - è
portatore. Beuys si esprime proprio in termini energetici termodi294
namici e insiste sulle relazioni che ogni essere instaura con gli altri
esseri dell’universo. Ogni forma vivente che appare su questa terra
provoca un’alterazione dell’universo, anche se microscopica, quanto meno un piccolo cambiamento di temperatura. L’uomo è una
delle forme di vita più evolute che è in grado di prendere coscienza
dell’alterazione provocata dalla sua nascita e può indirizzare le sue
energie in senso positivo per il miglioramento di tutti gli esseri.
L’arte è intesa in senso letterale di «artificio», lavoro umano che
trasforma le cose. In questo senso: ogni lavoro umano è un’arte,
ogni uomo è un artista, ognuno può contribuire al miglioramento
del mondo.
L’arte di Beuys muove dal rispetto delle diverse forme di vita
sulla terra (un paradiso se paragonato con gli altri pianeti), dal
riconoscimento delle reciproche relazioni, e ci invita a coltivare le
potenzialità presenti in ogni essere. Da questo punto di vista non
ci sono gerarchie, non c’è chi ha più capacità e chi meno: ogni filo
d’erba, ogni fiume, ogni insetto, e così ogni persona, possiede una
propria energia vitale, che si intreccia con gli altri nelle relazioni
che instaura con i vari esseri. I limiti non appartengono alle persone ma alle relazioni. Ci sono alcuni esseri viventi - gli umani - che
possono prendere maggiormente coscienza dello stato delle cose
del mondo e possono contribuire al miglioramento. Quelli che ci
appaiono come i limiti altrui sono in realtà i nostri limiti, perché
appartengono alle nostre relazioni. Poiché ne abbiamo consapevolezza, abbiamo anche più responsabilità e possiamo indirizzare al
meglio la nostra energia per il miglioramento degli esseri viventi.
Se non facciamo niente, una trasformazione avviene lo stesso, in
maniera caotica, quasi mai positiva. L’arte visionaria di Beuys ci invita ad accogliere ogni persona al di là delle diversità e a valorizzare
le relazioni che legano tutti gli esseri dell’universo; un’immagine
affascinante. Possiamo in questo modo aiutare ogni essere umano
a essere un artista, cioè a utilizzare al meglio la propria energia
vitale, che Beuys chiama anche «creatività».
Beuys è annoverato fra gli scultori, perché operava con gli oggetti, ma ha sempre sostenuto di essere uno scultore della materia sociale. Le sue opere sono spesso sorprendenti. In una famosa
azione creativa, piantò con i suoi studenti migliaia di querce nella
città tedesca di Kassel. Piantare una quercia... L’artista non vedrà
295
il risultato del suo lavoro, è un messaggio straordinario lanciato
verso il futuro. In un altro intervento, visse in una stanza per alcuni giorni con un coyote, per mostrare le profonde relazioni che
esistono fra l’animale e l’uomo. La sua ricerca estetica si rivolge a
tutti i sensi, non solo alla vista e all’udito.
L’idea di Arte Totale perseguita da questo artista mette in discussione il concetto di opera d’arte. Egli ci invita a guardare alle opere,
anche a quelle dei grandi geni, come a «relitti»: sono ciò che ci resta della grande energia creativa di quegli uomini, ed è quell’energia che dobbiamo rievocare quando godiamo di quei capolavori.
Chi lavora con l’handicap sa quanta emozione può scaturire da
una stretta di mano, da uno sguardo, dalla vicinanza di un corpo,
da un segno sulla carta, un piccolo oggetto, una parola... Per chi
le prova, queste percezioni sono commoventi come opere d’arte.
Lasciamo ai critici il difficile compito di stabilire cosa attualmente
valga la pena di essere comprato dai collezionisti d’arte - non è una
preoccupazione che ci riguarda. Grazie a Beuys e a molti altri artisti, sappiamo che in un piccolo gesto quotidiano sono racchiusi i
grandi temi e i grandi enigmi della vita: coglierli è un’arte che vale
la pena di essere coltivata.
Che legame c’è tra norma e arte? E come interviene il concetto di
normalità?
Una premessa sul concetto di norma. Di fronte all’annosa questione se la normalità esista oppure no, mi piace fare appello alla
metafora della barca a vela. Per dirigere la barca, il navigatore
traccia una linea retta che indica il tragitto dal punto di partenza
all’approdo: la rotta. Il navigatore sa bene che la linea è immaginaria, non si metterà mai a scrutare il mare cercando quella riga,
non imporrà nemmeno alla sua barca di seguirla; questa, mossa dal
vento e dalle onde, oscilla e scivola senza sosta. A cosa serve quella linea? Serve a orientarsi in una realtà in continuo movimento.
Ogni tanto il navigatore farà «il punto» per misurare quanto la barca è prossima o lontana dalla rotta. In caso di grandi spostamenti,
causati da forti venti, correnti o imprevisti di mare, sarà opportuno
tracciare una nuova rotta.
La normalità è un concetto molto simile. Una costruzione immaginaria che non esiste nella realtà, ma che serve per orientarci,
per non perderci nei continui mutamenti. In breve: uno strumen296
to di orientamento. Sulla «retta via» non può stare nessuno; tutti
zigzaghiamo spostati dagli eventi, dalle emozioni, dalle difficoltà,
dai bisogni. L’espressione «persona normale» non ha nessun significato concreto, nessuno è costitutivamente normale. Quell’espressione indica soltanto che tale persona non è troppo lontana dalla
linea immaginaria che abbiamo tracciato.
Il tracciato della «normalità» è una costruzione sociale. Ogni
cultura traccia la rotta che deve essere seguita dalla propria comunità. Inevitabilmente ogni tanto la società deve cambiare rotta,
con grandi resistenze di quelli che erano attenti a non allontanarsi
troppo dal tracciato - magari facilitati da barche solide o semplici
da manovrare. La società è aiutata nel cambiamento da quei navigatori coraggiosi che si sono spinti a esplorare nuove vie. Fra questi
navigatori ci sono certo anche gli artisti, che con le loro opere e
le loro vite contribuiscono alla riflessione della società su se stessa,
sui propri codici, linguaggi, comportamenti, desideri, e spostano
la linea della norma.
In una recente comunicazione, ho parlato di due artisti, un pittore e un musicista, che hanno contribuito al rinnovamento delle
loro arti, ma anche allo sguardo della società verso se stessa.
Ho parlato di due disabili: Paul Klee e Woody Guthrie, due straordinari personaggi accomunati dal destino di essere stati colpiti
nel finire della loro vita da una patologia debilitante. Dire di Klee
che era un disabile sembra un’espressione molto forte, perché invidiamo le sue doti, il sue estro, le sue «abilità». Ma è la realtà.
Egli fu colpito dalla sclerodermia, una malattia cronica e evolutiva
che provoca l’indurimento della cute e rende doloroso e difficile il
movimento (per maggiori informazioni: www.sclerodermia.net).
Guthrie era invece affetto dalla Corea di Huntington, una patologia ereditaria caratterizzata da disturbi del movimento e dell’umore (per maggiori informazioni: www.aichmilano.it).
L’imbarazzo che proviamo di fronte alla definizione di Klee o
Guthrie come «disabili» è legato al fatto che noi usiamo quel termine per attribuire un’identità alla persona, e non riusciamo a comprendere che un essere umano è qualcosa di molto ricco e complesso
che non può essere ridotto a una definizione o a un evento.
Con questa riflessione ho voluto sottolineare che il tema
dell’handicap attraversa la vita delle persone, è qualcosa che ci ap297
partiene, un tratto costitutivo della società, non qualcosa di estraneo. Noi viviamo sempre con un senso di onnipotenza e facilmente scordiamo che per una buona parte della nostra vita abbiamo
bisogno di cure: nell’infanzia, nella malattia, nella vecchiaia. Solo
per un periodo della nostra vita noi siamo «normali». Se la società
comprende questo concetto, semplice e complesso al tempo stesso,
nel tracciare le rotte della sua norma tiene conto delle diverse parti
che la costituiscono, con grande beneficio per tutti. Un esempio
banale: un quartiere dove può muoversi tranquillamente una sedia
a rotelle è un luogo anche per le mamme con il passeggino, le persone con i carrelli della spesa, i giovani con i pattini, il movimento dell’anziano; e magari porta giovamento anche all’impiegata e
all’impiegato frettolosi e sotto stress.
Lo sguardo dell’arte ci può aiutare a riconciliarci con la realtà,
che è composta da molteplici elementi; ci offre nuovi sguardi per
avvicinarci a ciò che viviamo come estraneo e lontano e invece ci
appartiene.
Questo uno dei compiti che Klee affidava all’arte. Egli si riteneva uno scienziato che indaga e costruisce relazioni fra le cose a
partire dalla propria sensibilità. L’arte, diceva Klee, «rende visibile l’invisibile». Le sue opere ci mostrano quanto ci sia di magico
e di misterioso nel mondo. Una spiritualità cosmica traspare dai
suoi lavori che creano e sviluppano continuamente nuove forme:
alberi, oggetti, ritmi, silenzi, nascita, morte, comicità, dolore, continuamente si intrecciano fra loro, frammenti di un unico universo. Attratto dai disegni infantili, Klee ne sviluppa il linguaggio.
Si avvicina all’arte infantile per mostrare la forza pulsionale del
simbolo, di cui non abbiamo più coscienza, ma che continua ad
agire dentro di noi. Non disegna come un bambino, ma rivela che
i segni primordiali, anticonformisti, fantasiosi dell’infanzia attingono alla fonte creativa della vita; là dove hanno origine l’uomo e
il bambino, la sofferenza e la gioia, la linea retta e quella deforme,
il sogno e la realtà.
Grazie al nuovo linguaggio pittorico capace di entrare in sintonia con ciò che si muove nell’anima, nell’ultima fase della sua vita
continuerà a disegnare, con grande fervore e con risultati straordinari, nonostante le difficoltà.
Woody Guthrie è il menestrello dei diseredati, il cantore degli
298
esclusi. Offre la propria arte agli ultimi, ai poveri della Grande
Depressione americana. Scrive canzoni che parlano della vita della gente, dei lavoratori, delle loro lotte, degli scioperi, della fatica
quotidiana per la sopravvivenza. Canta le cose che vede, le cose che
ha visto e le cose che spera di vedere. Parla alla gente direttamente,
racconta delle gioie e delle scalogne, tocca le emozioni di tutti,
mostra con orgoglio la nobiltà di chi soffre e fatica nelle contraddizioni della società. Con lui nasce la canzone impegnata d’autore;
senza di lui non ci sarebbero stati i Bob Dylan, le Joan Baez, i
Bruce Springsteen, i Fabrizio De André, per citare solo alcuni dei
musicisti che riconoscono il debito verso il maestro.
Nell’avvicinarsi al mondo dell’infanzia e al mondo dell’emarginazione, Klee e Guthrie non sono mossi da un semplice spirito
caritatevole, ma da uno spirito culturale che vuole andare oltre le
barriere che la società ha creato fra adulti e bambini, fra ricchi e
poveri. Klee e Guthrie ci ricordano che, nonostante le apparenze,
noi siamo tutti parte dello stesso mondo e condividiamo la stessa
essenza, adulti e bambini, privilegiati e emarginati.
Essi sono «disabili» anche nel senso che non sono capaci di accettare le regole correnti della società, e con il loro sguardo colto le
mettono in discussione.
Attraverso i linguaggi dell’arte hanno comunicato la loro insoddisfazione verso lo stato del mondo, e ci hanno offerto nuovi
alfabeti, nuovi linguaggi, nuovi occhi.
Uno sguardo che anche gli operatori sociali e sanitari sono tenuti sempre più ad assumere. Per questo sempre più si occupano
di teatro, di pittura, di musica; per comunicare che - come canta
Woody Guthrie - «nessuno su questa terra è nato per perdere, perché questa terra è stata creata per te e per me».
299
4.3.7 Una notte nel castello, la notte - il momento
della partenza
Lorenzo Pezzoli
Si parte quando è ancora notte, nelle escursioni impegnative
così come negli inciampi della vita, si cade ed è di notte, in quel
tempo della psiche ancora segnato da un orizzonte determinato
dalla caduta, che ci si deve rialzare. Rialzarsi è determinato dalla
speranza dell’arrivo della luce perché la luce non c’è ancora, rialzarsi è facilitato da qualcuno che da la speranza che la luce arriverà e
da in piedi la si può vedere prima e meglio. Si parte di notte perché
la notte richiama l’immagine della psiche che si concentra su sé
stessa per elaborare la caduta e il buio che avvolge la salita richiama
la perdita di visibilità di ciò che sta fuori per concentrarsi su ciò
che sta dentro. La notte è da sempre il luogo reale e simbolico del
mistero, forse perché abbandonato dalla luce del sole che permette
all’uomo, essere diurno, di orientarsi e difendersi, forse perché luogo del sonno che, come nella tradizione greca, è fratello della morte ed entrambi sono figli della notte. Thanatos e Hypnos sono i
figli suoi ed è difficile distinguere e separare questi due esseri tanto
che da sempre la morte è rappresentata come un sonno e il sonno
è immagine e segno dell’abbandono della/nella morte. Fino all’illustre William Shakespeare il quale faceva ben porre la questione
ad Amleto se “essere o non essere” evocando “i colpi di balestra” di
una fortuna oltraggiosa e chiedendosi se “morire o dormire” e nel
sonno “por fine ad ogni affanno”. Morire, dormire, Sonno e Morte
come abitatori della notte, come figli suoi così bene evocati nel
mito antico. Il pittore ottocentesco William-Adolphe Bouguereau
la dipinge con animali notturni che le svolazzano attorno e un
drappo nero che in parte l’avvolge e la copre. La notte rappresenta
dunque un punto di partenza dove dal buio che richiama l’indistinto possono nascere molte cose, il buio della notte, o la sua luce
particolare è un buio e una luce primigenia di travaglio e sviluppo.
Partire di notte è immagine e richiamo al travaglio delle partenze
è, come i luoghi di imprevisto e incontro tali sono il bosco, il mare,
i deserti, una terra di mezzo che va attraversata per raggiungere e
godere della luce del giorno. La notte chiede di essere attraversata
fino in fondo, fino al crepuscolo perché i suoi doni siano schiusi
300
come i labirinti medievali che vanno percorsi fino al loro termine. La notte, dei labirinti, contiene il loro duplice senso di dedali
e, appunto, labirinti. Perché se è vero che nel labirinto non ci si
perde in quanto il tragitto è dato e l’abilità, la bravura se si preferisce, sta nel percorrerlo tutto come a Chartres, nel dedalo invece
il perdersi è uno dei rischi maggiori come a Cnosso, e solo un filo
donato da una pietosa Arianna consentirebbe non tanto di uscire
ma di ritornare da dove si è partiti, questo sì. La notte è dedalo e
labirinto, può scoraggiare l’attraversarla per intero come pure ci si
può perdere. Come evoca Anna Luisa Zazzo nel suo ispirato testo
“Io la Notte” dove impersona e fa raccontare in prima persona
alla Notte la sua straordinaria vicenda esistenziale, Nyx è il grande
uccello dalle ali nere che nel Caos primordiale amò il vento e da
loro nacque Eros. Dalla notte o, meglio, dalla Notte origina la vita.
Partire di notte è immagine del rischio che ogni partenza ha
con sé: è di notte che si parte nel lavoro e nella relazione d’aiuto,
è nella notte dell’altro che si inizia a camminare con lui, al suo
fianco. Come nel salire con fatica e con poca luce al castello lasciando alle spalle la città che dorme, indifferente forse a questo
salire, come spesso indifferenza e incuranza segnano i percorsi di
disagio ed esclusione di molte persone che sentono, sperimentano
e patiscono la solitudine dell’abbandono. L’abbandono da parte
di chi dorme nel momento della prova dell’altro come nell’orto
evangelico dove l’Uomo patisce l’attesa e il travaglio mentre i suoi
si addormentano.
Chi attraversa la notte diventa capace di accompagnare nella
notte. Si parte e si sale con pile e luci, in silenzio, perché la notte va
rispettata e non profanata. Si dà agli studenti un approccio diverso, davvero trasgressivo alla notte. La notte fa paura ed è per quello
che di notte molti fanno chiasso. Si sale in silenzio ascoltando il
proprio respiro che diventa via via affannoso perché la salita, ogni
salita, ci fa sentire il fiato corto. E il fiato corto va ascoltato. Il camminare è un po’ una piccola metafora della vita: si cammina come
si vive e si vive come si cammina. Quando di notte e con il fiatone
si arriva alla porta che sale per un passaggio tra le mura sbucando
nel mezzo del cortile del castello sui primi spalti, quando si entra
nel cuore della fortezza ci si sente accolti, compresi, protetti. Si è
pronti per ascoltare.
301
Dagli spalti del castello, all’interno delle mura che proteggono,
si ode il grido della notte. Ci sono dei musicisti che lo eseguono e
questa musica accompagna le parole della scrittrice Zazzo, che dà
voce alla Notte stessa, si comincia a riflettere sul tema del cadere
ma in nuce c’è anche il rialzarsi, il sorgere…
“Il giorno sorge, nasce, inizia. La Notte, di consueto, cade. Mi sono chiesta
spesso perché gli esseri umani mi esprimano come una caduta: come la caduta, la fine del giorno. Quasi io, la Notte, non fossi una realtà autonoma,
una presenza, ma soltanto un’assenza, la temporanea assenza del giorno.
Perché non dire allora che il giorno è assenza della Notte?
Io amo i paradossi, è vero, perché nelle mie tenebre i paradossi si incastonano come stelle folgoranti; e non vi è dubbio che il giorno finisca nella
Notte. Il sole tramonta, e lentamente il giorno muore - cade - nelle braccia
della Notte. Ma è dunque il giorno a cadere. E non sono forse le braccia
della Notte, le mie braccia, a ridargli ogni volta la vita? E il mondo della
Notte, la vita che anima la Notte (e vi è vita, vi è in me una vita ricchissima
e molteplice), non sono forse riflesso del mondo e della vita del giorno? Riflesso oscuro, magico, a volte tenebroso? Forse. E tuttavia, riflesso lucente,
illuminato dalla materna luce della Luna.
Io e la Luna siamo espressione di una stessa realtà: realtà segreta, profondamente materna. E msteriosamente rivelatrice. Le stelle, la Luna, il magico
intrico delle costellazioni, le nebulose, gli astri roteanti: nessuno potrebbe
scorgerne la realtà se non nel grembo accogliente della Notte.
E come tante realtà del cielo, degli astri, dei pianeti si rivelano soltanto
alla luce oscura della Notte, così nella Notte, nel silenzio che avvolge lo
spirito degli abitanti della terra quando giacciono nel suo grembo, possono
rivelarsi, come in una folgorazione, verità inattese. Forse per questo non
sempre sono stata amata; e il sentimento che ispiro all’umanità è più spesso
un senso di timore, di arcano spavento. Gli esseri umani temono i pericoli,
le sorprese che nelle mie tenebre possono trovare rifugio; ma forse temono
ancora di più la discesa in loro stessi a cui invitano, a cui a volte costringono, quelle tenebre e quel silenzio.
(…) Ora sarò io a parlare, a ricordare quello che di me è stato detto e a
cercarne una spiegazione. Sarò io a parlare, a dire di me quasi mi rivolgessi
a uno sconosciuto interlocutore; o a narrare antiche storie e convinzioni e
leggende come venivano narrate le fiabe, nel momento in cui il sole lasciava
il più lontano orizzonte, e, come dicono gli uomini, cadeva la Notte.”
Anna Luisa Zazo, Io, la Notte - incontri e situazioni, Tascabili Bompiani,
2006.
È a questo brano, di mirabile lucidità e di forte lirismo che si
affianca l’ascolto del brano forse più famoso de Il Flauto Magico
di Mozart: Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, abbreviata
comunemente Der Hölle Rache spesso chiamata l’aria della Regina
302
della Notte103. Si ascolta il grande grido della notte contro il Sole
(Sarastro) così come presentato nell’opera mozartiana, il tentativo
titanico di dominare con le tenebre la luce. Un’impresa che fallisce
grazie all’impegno di Tamino e Papageno, ma che comunque lascia
un pensiero non solo sul trionfo del sole quanto anche su, come
scrive bene Pietro Citati, “la luce della notte”. Ed è questo esercizio
di riflessione e di disposizione all’ampliamento della visione univoca che consente la scoperta anche nella dimensione apparentemente e univocamente negativa della notte di scoprire quella luce
che mai si sopisce. La notte cade come d’altro canto cadono molte
altre regine della notte. Ed è proprio su una di queste regine che
incespicano e, grazie a questo cadere, lasciano spazio ed aprono
ad una possibilità di successione, si sviluppa parte dell’attività di
riflessione passando attraverso la fiaba di Biancaneve dei fratelli
Grimm. Qui, come nel Flauto magico, troviamo una Regina della
notte impersonata dalla Matrigna, anche qui c’è caduta, tenebre
che raggiungono il loro culmine con la discesa di Biancaneve nel
sonno mortale a causa della mela avvelenata, ma qui saranno gli
studenti che con le loro associazioni lavoreranno in gruppo e col
gruppo liberamente sulle tematiche e sulle evocazioni. La fiaba di
Biancaneve porta con sé filoni molto interessanti sul tema della
crescita, sul confronto male e bene, sul tema dell’accettazione di sé
e sull’annullamento di sé, sulla caduta, che poi è il filone argomentativo principale. Ma anche, ed è qui il punto importante sia per la
dimensione personale che per quella professionale, della rinascita,
del riprendersi dopo la caduta, del riuscire ad alzarsi o, meglio,
della possibilità di vedere, da dove si è caduti, il mondo da una
prospettiva differente che arricchisce il soggetto e lo rilancia nel
mondo. La fine di Biancaneve, il suo cadere nel sonno della morte,
il suo cessare come “serva” dei nani, come “elemento di competizione” per la matrigna, come oggetto di confronto (matrigna)
e uso (i nani che se ne servono per attendere alle faccende della
loro casa, ma si sa, i nani sono mezzi uomini e quindi soggetti che
interpretano lo stare con una donna come una relazione d’uso), il
103
La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore,/morte e disperazione
ardono in me!/Se tramite te Sarastro non troverà la morte/Non sarai mai più mia
figlia. Disconosciuta, per sempre,/Abbandonata per sempre,/Distrutti siano per
sempre/ Tutti i legami della Natura/Se tu non farai diventare pallido Sarastro!/
Ascoltate, dei della Vendetta, /ascoltate il giuramento di una madre!
303
suo divenire notte aprirà alla possibilità, come accade per la Notte,
di cadere (come descrive nel primo capitolo di “Io la Notte” la
scrittrice Zazzo) per lasciar spazio al giorno, o, meglio, ad un esserci differente. L’immagine è quella di Frank Bernard Dicksee titolata The Mirror. Questo autore, cresciuto in una famiglia di artisti
(padre e fratello entrambi pittori) è conosciuto per i filoni mitologico-storico frequentati nelle sue opere. Viene spesso considerato
parte della Confraternita dei Preraffaelliti pur non facendone parte. Il titolo e il soggetto (nonché il protagonista) di quest’opera è
lo specchio, protagonista anche della fiaba di Biancaneve e oggetto
utilizzato nel corso dell’esperienza del gruppo per un “gioco” di
rispecchiamento dove lo studente sarà invitato a esprimersi guardandosi allo specchio. Tema importante (e punto cruciale della
“caduta” della matrigna) sarà proprio lo specchio.
Dunque la Notte, la Regina della notte del Flauto magico, l’attività di risonanza delle tematiche evocate dalla fiaba di Biancaneve.
Il sole, a questo punto, è sorto, la sala del torrione che con le sue
finestre aperte sulla piana è invasa oramai dalla luce del sole. Ci
si concede un momento conviviale di colazione. A questo punto
la colazione, non prima, sentendo magari il vuoto dello stomaco
delle prime ore del mattino, un vuoto che aumenta la presenza e la
trepidazione dell’attesa del giorno, delle tematiche della caduta e
della notte, dell’assenza e del vuoto. Gli studenti hanno preparato
caffè, thermos, dolci. Una pausa al sorgere del sole (e al cadere della
Notte) che riprende con la condivisione delle suggestioni di quanto vissuto e condiviso.
304
4.4 Al Cimitero di Lugano
Graziano Martignoni, Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini,
Lorenzo Pezzoli, Ornella Manzocchi
con la collaborazione del prof. Adriano Martignoni, storico,
iconologo104
4.4.1 Programma
Raccolta delle informazioni
8.30
Ritrovo entrata principale del Cimitero di Lugano
8.30-9.30
Visita individuale al cimitero e raccolta di informazioni
9.40-10.00
Rientro in aula
Laboratorio
10.00-11.00
Introduzione storica e dimensione antropologica
11.00-12.30
Analisi e discussione plenaria dei dati raccolti
Analisi delle pre-conoscenze
Messa in comune dei risultati raccolti
104
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Individuo e Identità personale”, che si svolge nel corso del primo semestre.
305
Il giorno dopo - senza di noi
La mattinata si preannuncia fredda e nebbiosa.
In arrivo da ovest
nuvole cariche di pioggia.
Prevista scarsa visibilità.
Fondo stradale scivoloso.
Gradualmente, durante la giornata,
per effetto di un carico d’alta pressione da nord
sono possibili schiarite locali.
Tuttavia con vento forte e d’intensità variabile
potranno verificarsi temporali.
Nel corso della notte
rasserenamento su quasi tutto il paese,
solo a sud-est
non sono escluse precipitazioni.
Temperatura in notevole diminuzione,
pressione atmosferica in aumento.
La giornata seguente
si preannuncia soleggiata,
anche se a quelli che sono ancora vivi
continuerà a essere utile l’ombrello.
Wislawa Szymborska
4.4.2 Una violetta al camposanto105
Graziano Martignoni
Come sovente mi accade sono andato a far visita ai miei morti. A visitare nello stesso tempo tutti i morti, perché in quell’oltremondo misterioso, di cui il camposanto o il cimitero è solo la
soglia, credo che la parola miei o tuoi prenda un altro significato.
Una visita che faccio ovviamente dove sono sepolti i miei cari, ma
a cui non rinuncio nelle città che incontro, anche perché si viene
spesso a sapere su quella stessa città e sulla sua gente più cose, passeggiando in quel luogo, che non attraverso le parole e le immagini
di una guida turistica. Mi è sempre sembrato troppo formale e
persino a volte inautentica quella sosta obbligata nella prima settimana di novembre a cui ci hanno da sempre abituati, come se i
nostri morti potessero vivere solo quei giorni. Ho sempre guardato
con una certa perplessità i cosiddetti giorni della memoria, come
se così si avesse una sorta di autorizzazione a non ricordare per
105
306
Giornale del Popolo, rubrica “Educando” del 26.9.2011.
il resto dell’anno. Visito i defunti non tanto per tenerli in vita, a
questo pensano certamente già loro, non solo per nutrire l’interesse culturale e professionale, di chi accoglie ogni giorno donne e
uomini, che soffrono proprio della vita, che si sentono così spesso
soffocati, feriti, abbandonati dalla vita - mi ricordo di quella giovane donna che un giorno mi disse “non è vero che soffro della
malattia che lei mi ha evocato, non è la malattia ma la vita stessa
che mi sta uccidendo piano piano” - li visito per fare in modo che
la vita, la mia vita non mi faccia troppo male e mi permetta sempre
di respirare. È quasi scontato ricordare come uno degli indicatori
di civiltà stia proprio nella cura dei morti. Da tempo immemorabile l’uomo ha cura dei propri morti. È forse questa la caratteristica
che più di altre testimonia della sua umanità. L’uomo che cura i
propri morti ha cura della vita. La voce dei nostri morti fa respirare
il presente e forse ci rende meno soli. La loro presenza può rendere
alla vita la vita stessa. Ma come sentire e ascoltare la voce chi non
c’è più? I versi del poeta senegalese Birago Diop (1906-1989) mi
accompagnano. Scrive in una sua intesa composizione Souffles del
1947: “Ascolta più spesso le cose
più che le persone/ La voce del
fuoco si intende;
ascolta la voce dell’acqua.
Ascolta nel vento
il cespuglio in singhiozzi:
È il respiro degli Antenati”. Nella vorace e
spesso feroce condizione della nostra esistenza quotidiana quanto
è difficile soffermarsi all’ascolto di quelle voci, a guardare cose,
che apparentemente non servono a nulla, nemmeno ad accrescere
le nostre conoscenze, se non a nutrire la nostra anima così spesso
affamata e assetata da manifestarsi in malattia. Ascoltare le cose
minute e accorgersi, come mi è capitato qualche giorno fa, della
presenza di una gracile violetta, che si è fatta strada con tutta la forza della vita tra il marmo e la ghiaia della tomba dei miei genitori,
come se volessero attraverso di lei mandarmi un saluto, è sovente
aprire il cuore del mondo. Quella violetta è per un attimo tutto il
mondo. Un’esperienza certo minuscola, che sarà capitata a molti,
e che può passare inosservata, ma che può anche divenire racconto. Ed è proprio in quel suo divenire racconto per se stessi e per
gli altri, che riesce a volte a redimere e a salvarci dalla vita “per la
vita”. Perché, come ancora scrive il poeta, loro forse non sono mai
andati via. “Quelli che sono morti non sono mai andati via. Essi
sono qui nell’ombra che si dirada
e nell’ombra che si ispessisce. I
307
morti non sono sottoterra, essi sono nell’albero che stormisce,
nel
bosco che geme, essi sono nell’acqua che scorre,
sono nell’acqua
che dorme”. Potersi concentrare per un attimo su quella violetta, coraggiosa come un fiore invernale, che ha la forza misteriosa
di farti ritrovare un centro, dimenticando tutto l’inautentico e la
chiacchiera che ci attraversa e di cui noi stessi siamo attore e vittima, ha il sapore della meraviglia. “Quelli che sono morti non sono
andati via,
essi sono nel cuore della donna,
essi sono nel bambino
che vagisce
e nel tizzone che brucia. I morti non sono sottoterra:
essi sono nel fuoco che muore,
essi sono nelle rocce che gemono,
essi sono nelle foreste, sono nella casa,
i morti non sono morti”.
Ecco di che cosa mi ha parlato a voce bassa quell’esile violetta in
quel pomeriggio di settembre assolato, come se l’estate non volesse
abbandonarsi al suo tramonto.
4.4.3 Non esistere più106
Graziano Martignoni
Un giorno un amico che aveva visto la morte da vicino mi ha
detto, “io non temo il morire e tantomeno la morte”, che è come
un orizzonte, un misterioso territorio, verso cui veleggerò con l’ultima mia nave in partenza per quelle terre, ma “temo il non esistere
più”. Ma allora, mi sono chiesto, vi è differenza tra la Morte e il
non esistere più? Infatti l’uomo di ogni luogo ha da sempre eretto
in nome di quel continuare ad esistere quella che chiamiamo genericamente cultura e tutte le sue meraviglie. Chi toglie o limita
le possibilità, anche economiche, al generarsi e rigenerarsi della
cultura è come un cieco che si avventura senza bastone lungo le
affollate vie dell’autostrada. Oggi ci accontentiamo di illuderci di
rinviare il termine che ci è stato assegnato in quanto viaggiatori della vita e scordiamo così sovente drammaticamente di curare
quelle memorie, che non possono essere che tracce simboliche del
nostro passaggio insieme individuale e collettivo nella vita. Memorie divenute così sovente suppellettili, ornamenti, giorni di mera
retorica della memoria, tempi e oggetti spesso senz’anima. Ma che
106
308
Giornale del Popolo, rubrica “Educando” del 25.5.2013.
cosa vuol dire allora non esistere più? Forse vuol dire semplicemente temere di sparire nel cuore e dal cuore di chi ci ha amato e di
chi abbiamo amato a volte con gioia altre con disperazione; forse
vuol dire veder sparire nelle nebbie del tempo finale i nostri stessi
gesti, sparire dai nostri pensieri, dalle nostre emozioni, come se
abbandonassimo un abito familiare e a cui ci eravamo affezionati;
forse vuol dire vivere la cancellazione della nostra presenza dai luoghi, che hanno visto manifestarsi l’aura della nostra umanità; forse
ancora vuol dire dimenticare ed essere dimenticati dai corpi che
abbiamo accarezzato e toccato, corpi che hanno generato incontri,
scontri, violente passioni o tristi abbandoni, dimenticare il corpo
di chi abbiamo amato o quello dei nostri figli, che accompagnavamo nel loro andare a volte con passo leggero, altre con timore
o dolore nella vita. Di tutto ciò la Morte non sa nulla, nella sua
infinità sapienza dell’Oltre, nulla sa della vita. Le è sottratta l’esperienza dolorosa ma anche esaltante della vita. Non esistere più è
come abbandonare una camera dove si è da sempre e scivolare via
come polvere dal palmo della mano che non può più racchiuderci.
È il destino dei nostri antenati che la dimenticanza, generazione
dopo generazione, offusca sino a cancellarne le tracce sulla linea di
un orizzonte sempre più invisibile. L’esistere è marcato sin dall’inizio dalla sua fine. Questo è il tremendo che, quando si mostra,
ci atterrisce. Un tremendo dell’uomo in cui l’invisibilità e l’abisso profondissimo si riflette dentro le solitudini dello sparire dalla
vita. È il tempo in cui la fame di amore, di solidarietà, di presenza
e di testimonianza da parte dell’altro uomo diviene segno della
vita, traccia di una memoria che non si spegne disumanamente nel
nulla. È possibile dunque pensare la vita a partire dalla vertigine
di quel “non esistere più”? Se la morte non è pensabile né prima,
né dopo, né durante, la vita che si spegne è il grande libro di tutta un’esistenza. L’occasione deve essere colta, come nelle parole di
Padre Turoldo quando scrive “posso rinunciare a tutto, all’incanto
dell’alba e alle luci del tramonto, ma non alla coscienza…” e ancora “se Dio acconsentirà al perdurare della coscienza e della memoria”, allora il poeta può esclamare, “l’accordo è fatto … venga
pure la morte…”. Pensare la vita allora per ospitare e rappresentare
la morte, con le sue figure, il suo passare e ripassare come l’onda
sull’orlo del mare. È qui che si ingaggia inesorabilmente la sfida
309
ultima sul significato di un’esistenza. Una esistenza allora senza
testimoni, senza quel racconto che potrebbe dare senso all’insensato morire e riscattare la morte all’umano, evitando che invece
divenga sgomento, insopportabile punto di orrore. Per questo è la
vita, in questo declinante movimento che fa della morte un mero
morire, a perdere progressivamente il suo senso più alto, a essere
incapace di preparare il suo memento mori, che ha bisogno invece
di narrazioni, di rappresentazioni e di riti collettivi. Nel vagabondare inquieto, nell’errare a volte disperato dentro questa povertà di
immagini simboliche, nella seduzione effimera dei molti idoli del
moderno, l’uomo di questo crepuscolo della modernità, l’uomo
della “sopravvivenza” cerca un modo di (s-)fuggire da un futuro
che lo cancellerà senza testimoni. Forse allora nel “non esistere
più” sta l’angoscia di perdere per sempre la possibilità di appartenere ad una storia comune e di testimoniare anche nei gesti più
semplici e quotidiani il mistero stesso della vita, incapaci, come
siamo divenuti, di raccontare il mistero dell’al di là. 4.4.4 Perdere la morte, stanza con vista
Graziano Martignoni
Il tema della memoria è naturalmente centrale nel travaglio del
lutto a breve e anche a lunga distanza. Una memoria cancellata
produce non nostalgia, dolce anche se triste ricordo di chi è morto,
ma rancore, aggressività, senso di colpa, sentimento di un “vuoto”
nel proprio “albero genealogico” e nella propria trasmissione generazionale … Chi non può iscriversi in quella trasmissione rimane
un uomo destinato ad una identità bucata o ad una sorta di fantasia di autogenerazione senza passato e spesso senza futuro … un attualismo e una sorta di privilegio del presente che la nostra società
fa propria in modo esemplare in molti suoi fenomeni. Si pensi alla
“solarizzazione” della morte (la sensazione televisiva di poter essere
presente contemporaneamente alle scene della morte in ogni parte
del mondo), alla morte “in diretta”, che fa illusoriamente sentire
partecipe e informati, mentre nello stesso tempo produce estrema
passività e impotenza; si viene così a creare una sorta di intimità con la morte, che è solamente però una intimità senza contat310
to, senza dolore (la commozione è subito cancellata dal prossimo
“spot” pubblicitario), una intimità irreale. Da qui il bisogno di una
sorta di illusione di indistruttibilità e di eternità della vita, di falsità
della morte, garantita dal fatto che tutto è oramai riproducibile,
artificiale e dunque in fondo non mai veramente e definitivamente avvenuto … Anche la morte allora, estremo e radicale destino
dell’uomo, può divenire immagine tra le immagini duplicabile,
trasformabile, al fine inesistente o almeno controllabile nella frenesia del telecomando. Come è oramai rappresentata la morte nel
gran “teatro del mondo”, privo di magia e di meraviglia? Domande
essenziali e certo non solo di ricorrenza. Vi è nell’attraversamento
disuguale del novecento un melanconico e allo stesso tempo tragico
senso di smarrimento, di sottrazione progressiva della percezione
collettiva della morte in quella, che potremo chiamare con Robert
Lifton, una vera e propria “perdita della morte”. Le figure della
morte infatti, addomesticate in apparenza dentro il mondo della
“tecnica” e i processi di “secolarizzazione” e di “disincanto”, che ha
impoverito i “cieli” e ha reso apparentemente inutile la dimensione
sacrale della vita, sono come sottratte alla comunità. Una comunità affascinata e sedotta in varie forme da un suo crescente fantasma
di eternità, di invulnerabilità e di immortalità (basti pensare alla
domanda sociale verso la medicina e la sua tecnologia) e spaventata contemporaneamente dalla precarietà e dalla insicurezza, che
lo stesso tempo della tecnica ha paradossalmente alimentato, per
consegnare l’uomo al terrore della sua solitudine di fronte soprattutto alla morte … Una solitudine di dolore e di disperazione che
l’uomo della modernità al declino sembra patire nell’incertezza di
un morire “verso qualcosa” che lo trascende e a cui non crede più
e di uno sparire nel “nulla”. Ma allora come comprendere ancora
in questo processo silenzioso di impoverimento, la funzione del
rito funebre, che fu sino dall’antichità luogo privilegiato di dialogo con la morte e di “messa in scena” simbolica e collettiva del
rapporto tra chi muore e chi sopravvive, tra la terra e il cielo, tra le
immagini e le parole della memoria, tra la colpa e l’espiazione nel
processo doloroso del lutto? Luogo per eccellenza di una narrazione e di una tradizione, su cui costruire il futuro, come nelle chiese
romane, edificate sulle reliquie di un santo. Al contrario la morte
senza rappresentazione e senza rito simbolico non può che divenire
311
tragico e abbandonato morire dentro quei luoghi della morte, che
sono le moderne “fabbriche” ospedaliere. Una invisibilità dunque,
che si nutre e si accompagna paradossalmente con le forme a volte
estreme della sua spettacolarizzazione massmediale, con le negazioni e le anestesie che essa produce oppure con la sua riduzione
medicalizzata dentro il reale di un corpo che finisce di funzionare…? Il rito senza la sua anima “religiosa” (nel senso del suo legame e vincolo con qualcosa che ci oltrepassa), spossessato dai suoi
significati, ridotto a consuetudine, ad abitudine formale come può
evitare di divenire simulacro, impostura di se stesso? Come può
ancora svolgere sul piano individuale quella antica funzione di preparazione al lavoro del lutto, di elaborazione collettiva della colpa
per chi è sopravvissuto, di travaglio attorno al seno di una perdita,
e infine di narrazione di una vita trascorsa? Rimangono gli affetti
individuali, la loro angoscia, il loro dolore, il sentimento di una
disperazione a volte senza ristoro, rimane tutto ciò, nel rito ridotto
a forma sterile, nella solitudine di un uomo e della sua famiglia,
rimasti soli di fronte al mistero del nulla … uomo di una comunità
distratta, assente e spaventata. Come fare rinascere la forza di un
rito necessario? Questa la questione collettiva disattesa, forse parafrasando Blanchot, nella ricostituzione di una presenza verso chi si
allontana nella morte, attraverso cui prendere su di sé la morte di
un altro, come la sola morte che ci concerne.
La cerimonia funebre, come ci viene raccontato dalla tradizione o dalle esperienze delle società lontane, contiene alcuni importanti fenomeni oggi perlopiù dispersi. Senza rito, senza credibilità
simbolica, il dolore, la disperazione e la colpa rimangono vaganti,
senza più contenitori collettivi, divenendo così spesso catastrofe
individuale o indifferenza sociale… 312
4.5 Al Teatro Sociale di Arogno
Passioni e follia
Una mise en scène: Fabula docet
Una giornata attorno ai testi della tragedia greca
Graziano Martignoni, Ornella Manzocchi107
4.5.1 Programma
Quale miglior modo per concludere un Modulo incentrato sulle
sofferenze psichiche, se non quello di evocarle attraverso la potenza
e la profondità della tragedia greca? Leggere e mettere in scena la
tragedia ci permette di comprendere una dimensione della follia
che non può essere appresa soltanto attraverso lo studio di teorie e
di testi scientifici. La follia, che sta al cuore non solo della malattia,
ma soprattutto dell’esistenza umana, ci offre una chiave di lettura
dell’umano che abita ogni uomo, come un fondale oscuro, un fiume carsico dall’antichità ad oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tradimento, il cannibalismo, il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte
ecc. richiedevano allora come oggi un “luogo” e una “parola” entro
i quali essere avvicinati e vissuti in una “giusta distanza”, che permettesse di vivere in prima persona la tragedia umana, senza per
questo esserne travolti. Questa era ed è la funzione catartica della
tragedia, già individuata da Aristotele e che ancora ai nostri giorni
ci cattura e ci seduce.
8.30-9.00
Prologo: A cosa serve leggere la tragedia? G. Martignoni
9.10-9.40
Rappresentazione gruppo I
107
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Sofferenze psichiche”, che
si svolge nel corso del secondo semestre.
313
9.50-10.20
Rappresentazione gruppo II
10.30-11.00
Rappresentazione gruppo III
11.10-11.40
Rappresentazione gruppo IV
11.50-12.20
Rappresentazione gruppo V
12.30-14.00
Epilogo: G. Martignoni, O. Manzocchi, Aperitivo di chiusura
4.5.2 Fabula docet
Una giornata attorno ai testi della tragedia greca
Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni
1. PREMESSA
Introduzione
L’esperienza formativa che qui andiamo presentando trae la sua
originalità dal fatto di far vivere in prima persona agli studenti del
corso “Sofferenze psichiche” un rapporto con le parole, i gesti e i
vissuti della follia; questo attraverso una messa in scena teatrale
di alcune tragedie dell’antica Grecia, nella quale confluiscono e si
manifestano gli assi portanti del modulo, che andremo precisando
nel testo.
Questa nostra esperienza di messa in scena non è un laboratorio
teatrale in senso stretto, né un setting di giochi di ruolo, ma una
pratica e una condivisione narrativa che vede attorno a un testo
antico, sorgere parole, gesti, affetti e comprensione nei confronti
della alienità-follia, che rimangono di grande attualità.
Questo tipo di esperienza permette agli studenti di poter avvicinare la dimensione umana e creativa della alienità-follia, prima
ancora che quella della positivizzazione patologica, sviluppando
così una capacità di comprensione empatica, fondamentale nella
loro futura professione di operatore sociale.
La denominazione del Modulo “Sofferenze psichiche”, ci invita
a tener presente che quando si ha a che fare con la follia, che è
alienità radicale, le parole pesano come pietre e non devono essere
314
usate in modo ordinario108.
Definire questo Modulo con il nome “Sofferenze psichiche” e
non disagio psichico, o malattia psichica o più tradizionalmente
psicopatologia, non è affatto la stessa cosa. Significa, infatti, porre
al vertice del percorso di studio non tanto la categoria della malattia psichica, di cui tradizionalmente la psicopatologia parla, e nemmeno quella del disagio, di cui ci informa lo sguardo sociologico.
Con il termine “Sofferenze psichiche” si pone al vertice della
riflessione formativa la dimensione del vissuto109, l’Erlebnis, sia di
chi vive in prima persona le contraddizioni della propria alienità
e ne è drammaticamente abitato, sia di chi vi si avvicina, come
operatore sociale e psico-sociale, nel quotidiano gesto di aiuto e
di cura.
Il vertice epistemico a partire dal quale noi trattiamo la sofferenza psichica, fa riferimento al paradigma narrativo110, declinato in momenti formativi a volte di ricezione passiva del Discorso
sull’alienità-follia (quelli che chiamiamo momenti “grammaticali”
e “sintattici” del percorso) a volte di partecipazione attiva attorno a
ciò che significa incontrare il discorso dell’altro attraverso la lettura
di testi letterari, centrati sull’asse malattia-anima sofferente-cura, e
quella della tragedia greca, nonché attraverso la sua mise en scène
di alcuni suoi frammenti. Abbiamo, infatti, scelto di usare sostanzialmente questi due strumenti, poiché i nostri studenti del primo
anno di formazione non hanno ancora fatto pratica clinica.
Sebbene il vertice di questa nostra esperienza formativa sia la
mise en scène, desideriamo molto sottolineare che questa si inserisce in un’architettura formativa dalla quale non possiamo esimerci
dal fare riferimento. Ecco perché il testo che segue, pur mantenendo il vertice sulla mise en scène, conterrà anche molti altri importanti informazioni e riflessioni di contesto. Questo perché la
rappresentazione da sola non avrebbe molto senso. Non era nostra
108
Si fa riferimento qui al tema della “razionalità narrativa” proposta dai
lavori di Fisher De Walter R. (1984,1989) ripresa da Brown (1987) e da Bruner
(1987, 1991) da distinguere da una “ razionalità paradigmatica ” .
109
Lungo il testo i concetti guida saranno segnalati in grassetto
110
A questo proposito cfr. Fisher Walter R. “Récit en tant que paradigme
humain de communication: le cas de l’argument moral public”, in Monographies
51 De Communication, 1984.
315
intenzione fare un atelier teatrale, non di nostra competenza, ma
realizzare un momento rappresentativo come parte di un percorso di apprendimento attraverso la narrazione. Il teatro è dunque
stato uno dei momenti di esperienza narrativa che ha coinvolto gli
studenti.
Questa nostra scelta di campo invita, accanto all’insegnamento
disciplinare, a pensare a esperienze di apprendimento più centrate
su quella che con Maffesoli111 possiamo chiamare ragione sensibile.
È in questa luce che da alcui anni accademici (2010/2011,
2011/2012, 2012/2013 e 2013/2014), all’interno del Modulo
“Sofferenze psichiche”, di cui daremo l’articolazione nel capitolo
Descrizione del lavoro, proponiamo un’esperienza di mise en scène di
frammenti della tragedia greca nel ricordo delle Grandi Dionisie,
che come ben si sa, radunavano a primavera in una competizione
pubblica, i tragediografi dell’Atene periclea. Così è nata l’esperienza dal nome “Passione e follia”, che qui documentiamo.
Con questo progetto è nostra ferma intenzione guidare gli studenti verso un sentire e un concepire la fragilità e la tragicità umana sempre soprattutto in una dimensione di comprensione, accoglimento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei di
sé sia la dimensione destinale che quella di cura.
Il nostro progetto vuol dunque essere un percorso formativo che
permetta agli studenti:
1. di avere chiara consapevolezza di tre distinti e fondamentali
momenti dell’agire dell’operatore sociale: il sentire, il pensiero e
l’azione (pathos-logos-axio);
2. di incontrare la follia con uno sguardo orientato alla cura
psico-educativa;
3. di evitare che la trasmissione di questo sapere cada in una
sterile positivizzazione delle aporie dell’umano.
Nella parola passione, dal greco pathos che dice del provare, soffrire, subire, risentire, sopportare, è contenuta, come scrive Henri
Maldiney , l’épreuve de l’existence e nello stesso tempo il poter-essere
dell’uomo.
Mettendo al centro della riflessione sulla sofferenza psichica il
111
316
Maffesoli M., Eloge de la raison sensible, La table Ronde, Paris , 2005
tema della paticità, si vuole sottolineare il doppio orizzonte della
stessa, da una parte la destinalità ineluttabile, la dimensione del patire, e dall’altra quella della passione che è apertura alla costruzione
delle tante possibilità dell’uomo, che è dimensione del creare.
Fra questi due vertici si muovono il sentire, il pensiero e l’azione
(pathos-logos-axio) dell’operare nel campo sociale a confronto con
la sofferenza psichica.
Nell’esperienza attraverso la mise en scène che convoglia sulla
scena emozioni, parole, gesti, corpi, trova sottolineatura, sul piano
epistemologico, proprio la differenza tra sentire e percepire, tra
patico e gnosico.
Se la percezione offre all’esperienza di chi la vive degli oggetti
di conoscenza, la sensazione (aisthesis), l’ordine del sentire112, è di
fatto in-oggettiva, non ci fa conoscere nulla sul piano cognitivo,
ma ci fa sperimentare frammenti, tracce di esistenza, del nostro
stesso esistere, del rapporto dell’uomo con il mondo.
È proprio questa sensazione di esistenza, lo strumento fondamentale e quotidiano dell’operatore sociale a contatto con la sofferenza
propria e altrui. Operatore sociale che non è specificamente un professionista dei mondi interni o della realtà sociale, ma soprattutto,
come lo definiamo noi, uno specialista della quotidianità113.
Di questo diverso approccio nei confronti dell’oggetto del sapere e del soggetto dell’azione, gli studenti, pur nella brevità
dell’esperienza, sembrano aver raggiunto, come testimoniano la
loro partecipazione all’esperienza, i loro scritti e le loro parole,
una chiara consapevolezza di questa particolare declinazione del
loro ruolo. La mise en scène teatrale di alcune tragedie dell’antica Grecia ha certamente, anche se modestamente, favorito questo
percorso formativo, che non si ferma a questo Modulo, come testimonia il documento programmatico del nostro gruppo di lavoro, dal titolo “Percorso psico-antropologico, In cammino” che viene
consegnato agli studenti dal responsabile del Modulo all’inizio del
primo semestre.
112
De Monticelli R., L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti,
Milano, 2003
113
Martignoni G., Dalla vocazione al ruolo. Itinerari attorno all’identità,
DSAS, Manno, 2012/2013
317
2. DESCRIZIONE DEL LAVORO, OSSIA:
ACCOMPAGNARE GLI STUDENTI NEL REGNO DELLE OMBRE
Contestualizzazione del progetto all’interno del percorso formativo
Il primo semestre del Corso di laurea in Lavoro sociale ha visto,
tra le proposte formative, un Modulo sull’”Identità”, orientato al
rapporto tra l’identità personale, nelle sue dimensioni biologiche,
sociali, psico-antropologiche e ontologiche, e l’alterità che la abita.
Il Secondo semestre si confronta, sempre sotto la guida dello
stesso docente responsabile del Modulo sull’”Identità”, con il tema
dell’alienità, attraverso un Modulo chiamato “Sofferenze psichiche”.
Il primo anno di formazione si caratterizza così senza soluzione
di continuità, in una modalità trans-modulare, come una proposta
formativa lungo l’asse identità-alterità/identità-alienità, attraverso
un percorso che solo formalmente è diviso fra due semestri e due
Moduli: “Identità” e “Sofferenze psichiche”.
Scelte di fondo relative al percorso
A. Il Modulo “Sofferenze psichiche” che fa da cornice al nostro
progetto di mise en scène si radica in una duplice scelta di fondo che
permette da un lato di avvicinare e comprendere la psico-pato-logia
secondo tre vertici:
1. come discorso sulla sofferenza e sulle passioni dell’uomo, che
è evento storico-culturale, biologico, clinico-relazionale;
2. come scienza culturale, che necessita di modelli epistemici ed
ermeneutici;
3. come l’ascolto di voci che vengono da quelle regioni dell’uomo, che chiamiamo mondi interni.
4. Il nostro oggetto di esperienza, studio, approfondimento,
non è dunque mera psicologia patologica ma soprattutto psicologia
del patologico114 nella quale l’uomo esprime e soffre la sua mondanità e la sua trascendenza.
B. La seconda scelta di fondo che caratterizza il nostro progetto,
riguarda direttamente il percorso di preparazione e di messa in
scena della tragedia durante il quale gli studenti si sono confrontati
con più dimensioni:
1. quella del gruppo;
114
Minkowski E. (1966), Traité de psychopatologie, Les empêcheurs de
penser en rond, Le Pleissis-Roninson, 1999
318
2. del mandato da realizzare;
3. del corpo;
4. del pubblico;
5. della scena, del confronto con la tragedia.
C. La terza scelta di fondo che caratterizza il nostro progetto, si
avvicina alle tecniche di apprendimento tramite la simulazione,
pur differenziandosi dai giochi di ruolo e da altre tecniche di simulazione normalmente praticati nella formazione in quanto:
1. il teatro offre un’immedesimazione mediata attraverso la cultura;
2. la mise en scène ha ed ha avuto largo riconoscimento all’interno del mondo socio-sanitario che si occupa di psichiatria.
L’“architettonia”115 del Modulo “Sofferenze psichiche” è articolata in sei momenti:
1. Momento che chiameremo “sintattico” di cui si occupa in
modo particolare la lezione frontale che ha come scopo la presentazione e la costruzione delle relazioni tra le parti costituenti il discorso generale sulla follia-alienità: storico, semiologico, biologico,
psicologico, antropologico e sociale; dal quale dipartono le varie
epistemologie ed ermeneutiche in gioco;
2. Momento che chiameremo “grammaticale” che consiste in
tre seminari dedicati alla clinica grazie ai quali vengono affrontate
le dimensioni semiologiche e strutturali delle tre grandi famiglie
psicopatologiche: la famiglia nevrotica, quella limite e quella psicotica. In questo momento è posta grande attenzione agli aspetti
diagnostici (con una particolare sottolineatura alla diagnosi dell’operatore sociale che si distingue da quella medica o psicologica),
terapeutici e sociali;
3. Momento che chiameremo “scritturale” in cui lo studente
115
L’uso della parola “architettonia” o “dimensione architettonica”, non è
casuale perché vuole distinguersi da un approccio più ingegneristico del percorso
formativo. È un approccio attento nel processo formativo più che alla misurazione e all’organizzazione temporo-spaziale dei contenuti (obiettivi e contenuti) alle
Gestaltungen tra i contenuti della formazione, l’esperienza personale, l’attivazione
della razionalità sensibile e i tempi e modi della rappresentazione. “Il paradigma
narrativo, scrive Storti nel suo “Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo
della conoscenza sociale” (1994), “produce temi o collezioni piuttosto che categorie o
concetti. L’insieme e gli elementi si determinano reciprocamente. Ciò significa che la
narrazione richiede una gestalt, cosa che il pensiero formale non richiede.”
319
presenta un lavoro individuale sulla tragedia del proprio gruppo;
4. Momento che chiameremo “scenico-drammaturgico” che
porta alla rappresentazione delle tragedie greche;
5. Momento che chiameremo di “lettura e approfondimento
individuale”, che avviene grazie ad una vasta bibliografia che spazia da testi classici alla letteratura contemporanea, tutti organizzati
secondo un paradigma narrativo avente come vertice la malattia,
la cura, la sofferenza dell’anima ecc.116 (ogni studente ha un testo
diverso, vedasi allegato);
6. Momento che chiameremo di “studio” in preparazione alla
certificazione finale del Modulo, che avviene attraverso un esame
scritto117.
La psicologia del patologico, nella concezione minkowskiana, è psicologia che si rapporta al fatto psicopatologico attraverso tre passaggi metodologico-conoscitivi di base:
1. l’approfondimento “[della] natura e [delle] modalità di esistenza che esso [il fatto psicopatologico] ci rivela”;
2. il prolungamento di queste [modalità di esistenza] “non tanto
verso il “normale” quanto verso la vita”, verso l’esistenza;
3. lo svelamento dei principali loci di vulnerabilità o dispositivi patogenetici che rendono l’Uomo “strutturalmente sospeso tra
salute e malattia”.
A questa sua variegata determinazione e apertura appartengono
le questioni che legano simultaneamente mondo interno e mondo
esterno, cervello e mente, corpo e psiche, individuo e società.
L’evento psico-pato-logico non è dunque pensabile al di fuori del
suo ineludibile rapporto con il processo di civilizzazione e le procedure di disciplinamento della soggettività a cui anche il lavoro
116
Vedasi in allegato la bibliografia del Modulo “Sofferenze psichiche” in
Programma del Modulo
117
In preparazione dell’esame scritto sono state distribuite, un mese prima dell’esame, trenta tesi su cui gli studenti dovevano prepararsi. Le domande
d’esame corrispondevano ad alcune di queste tesi. Questo ha favorito un importante lavoro individuale e soprattutto gruppale, autonomo, di approfondimento
e di sintesi finale dei contenuti del percorso del Modulo. Tra le domande d’esame
inoltre era posta anche una domanda inerente al testo narrativo scelto per la lettura
320
sociale arrischia di appartenere.
L’evento psico-pato-logico non è nemmeno pensabile al di fuori
della sua intrinseca condizione di relazionalità e di intersoggettività a partire da cui il mondo interno del soggetto si forma e si
fonda118.
L’evento psico-pato-logico non è neppure pensabile al di fuori
dalla dimensione clinica, dove abita la Cura.
L’evento psico-pato-logico non è infine pensabile al di fuori dei
luoghi del suo apparire sociale e del suo frame eco-sistemico.
La follia, che sta al cuore dell’uomo, non solo come malattia,
ma soprattutto come cifra dell’esistenza umana stessa, ci offre una
chiave di lettura privilegiata di ciò che è umano nell’uomo. Essa
è come un fondale oscuro, un fiume carsico che ci interroga sin
dall’antichità. Mette in scena con il suo corteo di sintomi l’appartenenza ad altri mondi, che abitano tragicamente l’esistenza
dell’uomo. Mondi che parlano della loro radicale alterità, dell’abisso di immobilità e di dismisura, che da sempre hanno evocato
il divino e il demoniaco, come forma del destino ma anche come
possibilità di rigenerazione.
I folli, e per chiamarli così bisogna amarli, hanno accesso, nella
nudità con cui si espongono al mondo-della-vita, a una sorta di
passaporto delle ombre. Negare e cancellare le loro voci, le parole di
questi altri mondi, senza potervi dialogare e comprendere la prodigiosa riserva di senso che contengono, come scrive Foucault119,
è condannare il malato a una doppia solitudine e a una doppia
alienazione. Una condizione, quella del folle, che interroga costantemente il senso dell’esistenza stessa mostrando i suoi smarrimenti,
le sue ferite, le sue angosce, ma anche le sue sfide. Un dialogo che
ha bisogno di luoghi, di gesti, di parole e di una sensibilità insieme
forte e tenera, capace di coglierne nell’ordine del cuore120 il ritmo, le
atmosfere, i paesaggi e i frammenti di una parola interrotta, estra118
Vedi Moduli “Cicli di vita”, “Adolescenza” e “Infanzia” tenuti dai professori Paolo Lavizzari e Ornella Manzocchi
119
Foucault M., La folie, l’absence d’œuvre, in La table ronde, no. 196,
Paris, 1964
120
De Monticelli R., op. cit.
321
nea, spesso irruente, violenta e bizzarra121.
L’uomo folle abita uno spazio nel mondo psichico e nel mondo
sociale determinato storicamente. Questo suo abitare determina la
fenomenologia del suo disagio psichico ed esistenziale e le strategie
relazionali e di cura che si sono di volta in volta costruite attorno
a lui e alla sua follia.
L’uomo folle abita nello stesso modo una sempre diversa temporalità che dall’acuto, attraverso il periodico e il parossistico giunge
sino alla cronicità. Le nominazioni del suo esistere come malato
sono mutate nel percorso storico per ridargli una cittadinanza perduta ma nello stesso tempo a volte per cancellare la verità che la
sua follia contiene.
Tutto ciò riverbera nel quadro legislativo che determina gli assi
portanti di questa costruzione e rappresentazione sociale.
Tuttavia, la tragedia greca, ci mostra come al di là delle trasformazioni storico-sociali, e persino al di là dei loro effetti sulle costellazioni psicologiche, esiste una continuità che riguarda proprio
la tragicità dell’esistenza umana.
È in questa condizione di frontiera che vengono a determinarsi
le diverse strategie relazionali. Incontrare la follia con uno sguardo
orientato alla cura psico-educativa122 vuol dire incontrare da una
parte la singolarità di ogni condizione esistenziale soggettiva e psicopatologica insieme (mai del tutto omologabile ai codici di classificazione), ma anche fare i conti con il territorio che ne determina
il quadro concreto e le sue scelte legislative e organizzative.
Tuttavia vi è anche qualche cosa in più.
Permettere ai nostri studenti di accedere in prima persona, anche se breviter, a questa dimensione, è, crediamo, compito dell’insegnamento, per evitare che questo cada in una sterile positivizzazione delle aporie dell’umano.
121
A questo proposito cfr. il DVD I Graffiti della mente, 2002 ; allegato al
catalogo intitolato, Nannetti, Infolio, collection de l’art brut, Lausanne, 2011
122
Sul tema della cura educativa si segnalano i seguenti testi che fungono
da guida anche durante il Modulo: Iori V., Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini Studio, Milano, 2006; Mortari L., Aver cura si sè, Mondadori,
Milano, 2009; Mortari L., Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Milano, 2002; Palmieri C., La cura educativa, Franco Angeli, Milano, 2000; Catello
Parmentola, Prendersi cura, Giuffrè editore, Milano, 2003; Borgna E., Le emozioni ferite, Feltrinelli, Milano, 2009
322
Fasi/Tappe principali del percorso: dalla consegna alla mise en scène
Le tappe del percorso che portano alla mise en scène si articolano
in questo modo:
1. la presentazione del progetto all’interno del Modulo;
2. la scelta da parte dei gruppi, che erano per altro già attivi durante il primo semestre, di un capo-gruppo;
3. la consegna della tragedia su cui lavorare;
4. gli incontri regolari dei docenti con i capi-gruppo;
5. il lavoro dei singoli gruppi per la preparazione della mise en
scène123;
6. la preparazione di un breve scritto individuale, a partire dalla
tragedia, che ogni studente consegna a fine Modulo in cui si
chiede di sviluppare una riflessione che contempli i seguenti
punti:
a. Qual è il nucleo di “follia”contenuto nella tragedia?
b. In che modo la tragedia che ha letto, può contenere degli
indicatori esistenziali della nostra vita quotidiana?
c. In che modo l’eroe greco risolve la tragedia?
d. Quali dilemmi etici contiene il testo?
e. In che modo il confronto con la tragedia può contribuire
alla crescita della sua identità professionale?
7. le prove svolte sia in spazi concessi dal nostro Dipartimento
SUPSI che direttamente in teatro;
8. la partecipazione all’organizzazione del setting teatrale in cui
sarebbe poi avvenuta la rappresentazione;124
9. la rappresentazione con la votazione da parte di tutti i partecipanti (studenti e docenti) per la scelta del gruppo vincitore;
10. la premiazione con corona di alloro per il capo-gruppo e un
piccolo dono per tutti i membri del gruppo;
11. il banchetto degli addii, interamente preparato dagli studenti;
12. il riordino del setting teatrale.
123
Lettura della tragedia da parte dei singoli studenti; discussione in
gruppo sulla tragedia letta; scelta dei passi da narrare e di quelli da rappresentare,
scelta dei ruoli e degli interpreti; preparazione dei costumi, dello scenario, delle
musiche, prove della messa in scena, ecc.
124
Il Teatro Sociale di Arogno
323
L’apprendimento, o meglio, il percorso formativo, deve per
noi essere sempre relazionale. Una relazione che non è banalmente interazione, connessione, comunicazione, ma è soprattutto incontro. Senza l’esperienza psichica e corporea dell’incontro con l’Altro, capace di suscitare stupore, meraviglia,
curiosità, ma anche angoscia, nessuna azione di cura e aiuto
salverà la singolarità del proprio paziente-utente, dalle forze
dell’omologazione e della riduzione seriale. Ricordiamoci l’antico monito agostiniano Si duo faciunt non est unum. Facciamo dunque riferimento a un lungo percorso di riflessione che
si snoda da Aristotele passando per Sant’Agostino, e giungere
ai nostri tempi a Martin Buber125 e allo psicoanalista Wilfred
Bion126, per affermare la centralità dell’identità relazionale di
cui si è lungamente parlato proprio durante il Modulo “Identità” del primo semestre, che come già scritto, ha avuto la funzione di approccio preliminare e preparatorio alla tematica di cui
qui diamo testimonianza.
Abbiamo così deciso di far sperimentare ai nostri studenti, a
fianco delle lezioni frontali, dei lavori seminariali, delle letture
e delle scritture individuali, anche una particolare e inabituale
dimensione di lavoro in gruppo.
La lezione bioniana mostra come il gruppo non sia la somma
degli individui che lo compongono, bensì un fenomeno a sé,
funzionale, una sorta di organismo vivente finalizzato alla sua
conservazione, mosso da due tendenze opposte e conflittuali: la
realizzazione di un compito comune e l’opposizione a questo
scopo attraverso la regressione127.
Questa tensione gli studenti l’hanno potuta verificare fattivamente sulla loro persona, nel percorso della mise en scène,
la cui preparazione che si è svolta al di fuori dei tempi regolamentari del Modulo, sotto la guida di uno studente avente la
funzione di capo-gruppo, e che aveva diretta relazione con i docenti del Modulo. Questo percorso è durato l’intero semestre,
125
Buber M., Io e tu (1923), in Il principio dialogico, Comunità, Milano, 1958
126
Bion W., Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 1988
127
Bion W. Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 1971
324
culminando nella giornata “festiva” di rappresentazione del 30
maggio 2012 presso il Teatro Sociale di Arogno128.
I nostri studenti hanno così vissuto lungo l’arco dell’intero semestre momenti di difficoltà, di rifiuto, di conflittualità, ecc.
fino a giungere alle loro testimonianze finali che parlano della
riuscita di questo obiettivo e quasi stupiti della loro piena soddisfazione personale.
Hanno inoltre vissuto in prima persona una dimensione
dell’esistere che il poeta Joan Keats definisce attesa129 e che contraddistingue così puntualmente il lento e paziente procedere
del lavoro della cura e dell’aiuto nel campo del sociale e in
particolare in ambito psico-pato-logico, un procedere che con
128
La scelta di questo luogo per la nostra mise en scène non è casuale. Questo luogo, infatti, racchiude in sé una forte valenza simbolica in quanto possibilità
d’incontro per la comunità non solo comunale ma anche regionale. È, infatti, il
teatro della comunità, dai piccoli agli anziani, dai locali ai foresti, luogo di esercizio e apprendimento per coloro che si cimentano con gli strumenti musicali,
ma nel contempo luogo di svago, riflessione, trasmissione della tradizione e della
cultura. Inoltre la sua storia e architettura ci trasmettono quel pathos che solo i
luoghi dove la comunità si esprime nella sua dimensione comunitaria ed esistenziale, possiedono. Possiamo affermare di aver scelto Il Teatro Sociale di Arogno
poiché luogo di espressione dell’anima, e, infatti, la prima cosa che colpisce colui
che vi giunge, è la semplicità della facciata e il perfetto inserimento architettonico
dell’immobile nel nucleo del paese. Ma non appena varcata la porta d’entrata
lo stupore si impadronisce dell’ospite che si trova catapultato dentro un piccolo
gioiello: un esemplare di teatro all’italiana, con due loggioni laterali e un palco
“reale”. Un teatro unico in tutta la regione e sicuramente uno dei pochi esistenti
in tutto il Cantone Ticino. In origine fu abitazione della famiglia Colomba, come
indicano alcuni affreschi con stemma di famiglia. Successivamente appartenne a
un arognese, Giacomo Cometta, che divenuto benestante al rientro dall’Argentina trasformò la costruzione in Teatro. Le prime tracce del Teatro si trovano in un
manoscritto di Massimo Cometta, forse l’ultimo dei Maestri comacini, nel quale
egli scrive che nel 1835 fu formata una compagnia teatrale per recitare in un salone del paese. Nel 1899 la proprietà fu trapassata alla Società del Teatro ed oggi
appartiene alla Società Filarmonica del villaggio. A tutt’oggi è un luogo come già
scritto, di vita, la comunità vi si riunisce in occasione di varie festività, di eventi
culturali ecc.
129
Fusini N. (a cura di ), John Keats lettere sulla poesia, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 75: “Non ebbi con Dilke una disputa, ma una discussione su diversi
argomenti: molte cose mi si agitavano nella mente e ad un punto fui colpito dall’idea
di quale dovesse essere, soprattutto in Letteratura, la qualità essenziale dell’Uomo
dell’Effettività, qualità che Shakespeare possedeva in modo così eminente. Mi riferisco
alla Capacità Negativa, cioè quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare
nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata
ricerca di fatti e ragioni”.
325
lo psicoanalista Wilfred Bion definiamo capacità negativa130,
sollecitata dall’incontro con il nuovo, lo sconosciuto, il diverso.
Dimensioni queste che obbligano a sospendere ogni giudizio e a
darsi il tempo di comprendere prima di giudicare, decidere e fare.
Ricordiamo che questa esperienza primaverile era già stata preceduta nel corso del primo semestre, quando gli stessi gruppi di
studenti avevano preparato una rappresentazione multimediale
come esito dei seminari esperienziali interni al Modulo sull’”Identità” (scrittura delle emozioni, auto-biografia, corpo e teatro, fiabe,
appartenenza culturale)131.
Nel gruppo gli studenti hanno sperimentato e resi “osservabili” fenomeni mentali, squisitamente affettivi, quali la dipendenza,
l’oppositività, l’attacco, la fuga, la negazione, l’idealizzazione, ecc.
in una commistione continua fra interno ed esterno, sé e non-sé,
mentale e corporeo, proprio e altrui. Un continuo va e vieni fra
interiorità ed esteriorità, individualità e gruppalità. Concetti ed
esperienze che raccontano in modo preciso la specificità dell’operatore sociale nella dimensione del lavoro d’équipe e della vita in
équipe di aiuto e cura.
Nel percorso di preparazione e di messa in scena gli studenti
si sono confrontati con più dimensioni, ossia: quella del gruppo,
del mandato da realizzare, del corpo, del pubblico, della scena, del
confronto con la tragedia. Ognuno di questi elementi contiene
sostanza teorica e sostanza patica132.
130
Uno dei temi chiave del lavoro bioniano è la capacità negativa (negative capability), ossia il potere di tollerare l’attesa, che si intreccia profondamente
con il tema del dolore della conoscenza. Bion ha modo di far suo questo tema
grazie all’amore per la lettura di poeti quali Milton, Virgilio, Shakespeare, Shelly e
John Keats, che per primo definì questa caratteristica della vita: capacità negativa.
131
Questo Modulo è stato tenuto dai professori: Graziano Martignoni
(responsabile) , Claudio Mustacchi, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli e dall’assistente Michela Nussio.
132
Nel primo semestre hanno messo in scena la loro personale e individuale esperienza maturata nei seminari esperienziali, mentre in questo caso hanno dovuto mettere in
scena le emozioni che ogni uomo sente facendo i conti con un testo fra il proprio e l’altrui.
Proprio come avviene in ogni dimensione di cura e di aiuto in cui ci si deve confrontare ma
non confondere con la storia personale del paziente-utente, la quale entra facilmente in risonanza (partecipazione, collusione, confusione, costruzione, empatia, ecc.) con la propria
storia personale. In questo senso noi consideriamo il lavoro sociale, in particolare quello
con la sofferenza psichica, come una condivisa pratica narrativa inter-testuale (cfr. Fisher
De Walter R.); a questo proposito cfr. A. Smorti, Il pensiero narrativo. Costruzione di storie
e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze, 1994.
326
Pensando agli assopimenti dei sensi, ai tumulti delle anime,
all’ansia provocata dall’universo ignoto rappresentato in quest’occasione dal compito di mettere in scena una rappresentazione teatrale, e domani suscitato dal mandato professionale di occuparsi
del male di vivere dell’altro, abbiamo scelto nel ricco materiale
della tragedia greca le seguenti rappresentazioni:
1. Prometeo incatenato, Eschilo, 460 a.C. - per la rappresentazione del dolore, della condizione umana tra libertà e destino,
dell’ascensione attraverso la sofferenza;
2. Aiace, Sofocle, 445 a.C. - per la rappresentazione del riconoscimento e del furore;
3. Edipo Re, Sofocle, 430 a.C., - per la rappresentazione della
colpa, dell’incesto e del destino voluto dagli dei, dell’inconsapevolezza dell’uomo;
4. Medea, Euripide, 431 a.C. - per la rappresentazione del tradimento, della perdita, del furore, dell’infanticidio;
5. Le Baccanti, Euripide, 403 a.C. - per la rappresentazione della conoscenza attraverso la trasgressione, dell’illusione, del rapporto tra conoscenza e potere.
Presentazione di alcune attività significative del percorso: perché il
teatro e la tragedia greca?
1. Perché scegliere la rappresentazione teatrale all’interno di un
Modulo di formazione?
Poiché la rappresentazione teatrale offre la possibilità di mettere
in scena, dunque in una dimensione di “giusta distanza”, ciò che è
alieno nell’Altro e in noi stessi.
2. Perché prediligere il teatro dell’antica Grecia?
Poiché senza ombra di dubbio ancora oggi la tragedia dell’antica Grecia ci mette di fronte alle passioni più radicali dell’uomo,
esplorandone le manifestazioni estreme e inquietanti.
Per i Greci la follia fu un mezzo per esplorare i confini dell’anima133, ma la nozione di follia andava oltre la dimensione della
patologia.
Possiamo dunque affermare, come scrive Alberti, che nel mon133
Guidorizzi G., Ai confini dell’anima, I Greci e la follia, Raffaello Cortina, Milano, 2010
327
do greco la follia assumeva un duplice volto: da un lato malattia
della mente, dall’altro potenziamento della personalità.
In epoca encefaloiatrica, come dice Borgna134, la dimensione più
creativa della sofferenza psichica è andata viepiù oscurandosi. Le
attività di animazione che si sono sviluppate nelle pratiche di cura,
dal teatro al mimo, ai laboratori di scrittura, di arteterapia ecc.
tentano di salvare questa dimensione, impedendo che la sofferenza
psichica diventi solo disabilità, deficit, a-normalità, mental-desorder.
Mettere i nostri studenti di fronte ad una sperimentazione teatrale di questa natura ha altresì la forza di stimolare la loro curiosità
nei confronti di pratiche narrativo-animative, che hanno spesso
grandi valenze terapeutiche, da non confondere con pratiche di
intrattenimento o di esercitazioni adattative, che non solo ne impoverirebbero il senso, ma che anche accentuerebbero la mera dimensione funzionale.
“In veste più pratica, nel momento dell’allestimento della messa in
scena e della discussione, mi ha sicuramente portato altri esempi di
collaborazione e di lavoro d’équipe, di confronto, di apertura alle idee
altrui, di tempistica e di dettagli in quanto, lavorando in un gruppo,
emergono facilmente questi aspetti che si possono trovare ai giorni nostri. Inoltre la sofferenza di Aiace mi ha portato a fare delle riflessioni
su come tutto è mutabile: ciò che sei il giorno prima non è necessariamente ciò che sarai il giorno dopo. Ogni avvenimento ti porta a dei
mutamenti. Anche se a volte ci si sente onnipotenti, questa tragedia mi
ha messo di fronte anche al fatto che non sempre esistono delle soluzioni alle sofferenze, ma che bisogna riuscire a vivere con esse. Questa riflessione, traslata a un futuro lavorativo, mi porta a pensare che quella
che noi crediamo essere routine, in realtà non lo è, anche perché un solo
gesto può creare delle sofferenze o dei cambiamenti nella persona. Ogni
giorno è nuovo e quindi bisogna avere la stessa attenzione per la cura
della relazione e per la storia dell’utente, come il primo giorno.”135
Come già detto, la rappresentazione teatrale offre la possibilità
di mettere in scena, dunque in una dimensione di “giusta distan134
Borgna E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica,
Feltrinelli, Milano, 1995
135
Brano tratto dall’elaborato della studentessa Marta Ballardin, a partire
dalla tragedia Prometeo Incatenato
328
za”, ciò che è alieno nell’altro e in noi stessi.
Inoltre, come già scritto, possiamo senza ombra di dubbio sottolineare come ancora oggi la tragedia dell’antica Grecia ci mette
di fronte alle passioni più radicali dell’uomo, esplorandone le manifestazioni estreme e inquietanti.
Tutto ciò che di insondabile e oscuro si agita nell’anima di un
essere umano è, infatti, tra i temi centrali della tragedia greca, tra
cui i drammi di Eracle o di Medea che uccidono i figli pur amandoli, la violenza autodistruttiva di Aiace, i fantasmi di Oreste, di
Edipo e di altri personaggi, e così via136. Nella tragedia greca, in
modo diverso da Sofocle a Euripide a Eschilo, vi è rappresentato
il confronto fondamentale e a-temporale (e chi può evitare ancora
oggi di porsi queste domande?) tra destino e libertà. Vi sono testi
che raccontano l’inesorabile destino che per volere divino guida gli
uomini e vi sono testi che parlano della rassegnazione, ma vi sono
anche testi che parlano del desiderio dell’uomo greco, così come di
quello contemporaneo, (gli dei oggi si chiamano geni, neuro-trasmettitori, condizioni sociali ecc.) di lotta, resistenza, emancipazione. L’operatore che sta accanto a chi soffre non può dimenticare
né l’una né l’altra di queste due derive dell’esistenza, le quali gli
permettono a volte di contenere il desiderio di vincere un destino
crudele, altre la sua impotenza a farlo, altre ancora la saggezza di
chi è capace, come un acrobata, di stare alla frontiera, di stare sul
filo in cui anche di fronte alle cose peggiori, persino di fronte al
morire, tutto è ancora possibile. L’operatore dunque come attore
delle tante possibilizzazioni dell’uomo137.
Quale miglior modo avremmo potuto scegliere per concludere
questo Modulo incentrato sulle sofferenze psichiche, se non quello di fare ricorso alla forza, alla profondità e alla evocazione delle
Grandi Dionisie (che si svolgevano ad Atene tra il 9 e il 14 circa,
del mese di elafebolione del calendario attico, corrispondente ai
mesi di marzo e aprile del calendario giuliano), feste che la polis
dell’antica Grecia organizzava annualmente.
136
Rustin M. e Rustin M., Passioni in scena, Mondadori, Milano, 2005
137
Maldinay H., Penser l’homme et la folie, Millon, Grenoble, 1991
329
Queste feste e rituali avevano in sé l’obiettivo di educare catalizzando l’attenzione dei singoli cittadini sulle tragedie della vita,
sulle regole, sui limiti e sulle fragilità dell’esistenza.
La nostra piccola esperienza teatrale, volutamente senza nessuna particolare e specifica ambizione drammaturgica, poiché non
era assolutamente nostra intenzione riprodurre una pseudo scuola
di teatro, collega idealmente i momenti del Modulo a carattere
“gnosico” con una dimensione di “liberazione mediata” e con una
forte dimensione creativa. La dimensione creativa è generatrice di
piacere, sia in chi interpreta sia in chi fruisce dello spettacolo, il
che corrisponde anche alla dimensione di piacevolezza e svago che
potevano avere i cittadini di Atene quando all’arrivo della primavera affollavano i teatri della città e sceglievano i loro tragediografi
preferiti.
Si racconta che Pericle spendesse più soldi per il teatro e per le
arti che per la flotta. Vero o falso che sia, un’indicazione che ancora
oggi sarebbe utile ricordare!
Le tragedie messe in scena dai nostri studenti rappresentano tutto ciò. Come a significare che la cifra dell’umano è rimasta tale,
dall’antichità a oggi. L’adulterio, l’infanticidio, il tradimento, la
violenza, il suicidio, l’incesto, la nascita, la morte ecc. richiedevano
allora come oggi un “luogo” entro il quale essere avvicinati e vissuti
in una “giusta distanza” che permettesse di vivere in prima persona
la tragedia umana, le passioni più radicali, senza per questo esserne
distrutti. Questa era ed è la funzione catartica della tragedia, già
individuata da Aristotele e che ancora ai nostri giorni ci cattura e
seduce.
“La follia ci appartiene, o meglio ci è donata: nel pacchetto del
tradimento del proprio compagno, insieme alle lacrime, alla rabbia,
ci è consegnata anche la follia, che ci spinge a gesti insensati; o meglio,
essa è lì annidata in un angolo oscuro di noi stessi, al quale voltiamo
sempre le spalle della nostra ragione e che cerchiamo di evitare, ma in
alcuni momenti la sua voce è troppo forte per essere ignorata.”138
Questa esperienza permette di dare corpo al concetto minkowskiano di psicologia del patologico, accennato sia nella premessa che nelle scelte di fondo del percorso, che fa della patologia,
138
Brano tratto dall’elaborato della studentessa Laura Pizzino Piffaretti, a
partire dalla tragedia Medea
330
non solo un difetto, un’a-nomalia, un’a-normalità, ma un diverso
modo di vivere, un diverso modo di abitare il mondo, in cui noi
operatori, più che “gendarmi” della normalità, dobbiamo imparare a divenire degli “ospiti” o dei possibili compagni di strada dei
nostri pazienti-utenti.
Mettere in scena il male oscuro, come Giuseppe Berto era solito
definire il dolore dell’esistere139, ha inoltre avuto largo riconoscimento all’interno del mondo socio-sanitario che si occupa di psichiatria. Pensiamo a Moreno con il suo sociodramma attraverso
il quale la spontaneità creativa, soffocata dal ruolo sociale, veniva
recuperata per mezzo della drammatizzazione scenica; pensiamo a
Didier Anzieu e a Serge Lébovici che hanno dato origine allo psicodramma e ultimo ma non da meno, pensiamo a tutta l’attività
della psicoterapia istituzionale con riferimento a Jean Oury140.
A questo punto una domanda cruciale si impone: che cosa distingue la nostra attività dai giochi di ruolo normalmente praticati
nella formazione? La differenza con giochi di ruolo e simulazione
di caso si situa attraverso due aperture che la mise en scène permette:
1. il teatro è narrazione che implica parola e corpo, non è finzione, non è “come se”, ma per un attimo tu-interprete sei immerso
nell’alienità e nella passione;
2. con la mise en scène gli studenti non sono estrapolati dalla
cultura in termini quasi naturalistici, diversamente dai giochi di
ruolo e di simulazione. Nella tragedia messa in scena lo studente
interpreta duemila anni di storia.
Dunque la nostra iniziativa si differenzia dai giochi di ruolo e
da altre tecniche di simulazione poiché il teatro offre un’immedesimazione mediata attraverso la cultura. Da Sofocle in poi il teatro
ha, infatti, messo in scena con puntualità e forza le problematiche
interne inconsce della famiglia, dei rapporti di genere, dei rapporti
fra generazioni, dei rapporti inconsci del singolo con se stesso e
con le sue più profonde e radicali passioni.
“La prima cosa che appare dalla tragedia è la dimostrazione di ciò
139
Berto G., Il male oscuro, Mondadori, Milano, 1964
140
Che trova uno specifico momento di studio nel curriculum studiorum
dei nostri studenti, in un diverso Modulo del secondo e quarto semestre (Graziano Martignoni e Lorenzo Pellandini)
331
che può provare l’uomo dinanzi alla negazione di un riconoscimento.
Non parlo di un riconoscimento materiale, bensì del riconoscimento
come essere umano, con una storia personale che lasci un’impronta nel
mondo, una traccia della propria esistenza. Questo punto mi ha colpito molto. Ritengo sia un aspetto importante sul quale lavorare anche
come operatore sociale. Troppo spesso ho visto che la persona che abita
in istituto è riconosciuta non con la sua storia, ma con il suo gruppo
target. L’uomo è quindi riconosciuto come “ Pinco Pallo epilettico e
con una spasticità grave che lo porta a una totale dipendenza, attività
occupazionale pittura” non come “ Pinco Pallo di Ascona figlio di ...
ottimo giardiniere, amante della bici e tifoso della Roma”.141
3. BILANCIO E RIFLESSIONI SULL’ESPERIENZA
Molte osservazioni riguardanti l’esperienza svolta sono già state
espresse in precedenza, ma riprendendo le osservazioni sugli obiettivi e sulle scelte di fondo di questo progetto, riassuntivamente
possiamo qui ricordare il percorso che ha portato gli studenti a
maturare una nuova consapevolezza e una migliore capacità riflessiva per quanto riguarda:
1. i tre distinti e fondamentali momenti dell’agire dell’operatore
sociale: il sentire, il pensiero e l’azione (pathos-logos-axio);
2. l’incontro con l’alienità-follia attraverso uno sguardo orientato alla cura psico-educativa;
3. l’evitamento di un sapere sterile e positivizzato delle aporie
dell’umano;
4. il significato della scelta drammaturgica;
5. l’opzione sul teatro greco;
6. l’opzione gruppalità;
7. la dimensione creativa;
8. il sentire e il concepire la fragilità e la tragicità umana, sempre soprattutto in una dimensione di comprensione, accoglimento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei
di sé sia la dimensione destinale che quella di cura.
A questi aspetti di crescita identitario-professionale vanno aggiunte le due dimensioni di trasferibilità che questo progetto per141
Brano tratto dall’elaborato della studentessa Nicole Maniero, a partire
dalla tragedia Aiace
332
mette, ha permesso e permetterà:
1. la trasferibilità di una simile breve esperienza nell’ambito delle pratiche educative e psico-educative che i nostri studenti esperimenteranno negli stages nella dimensione animativa e narrativa,
che è in questo contesto il nostro vertice;
2. la trasferibilità di una simile breve esperienza nell’ambito delle pratiche educative e psico-educative che i nostri studenti esperimenteranno nelle pratiche professionali future.
Riassuntivamente possiamo dire che il confronto e la mise en
scène con le tragedie e i miti dell’antica Grecia, hanno permesso
agli studenti di fare esperienza della sofferenza umana come cifra
dell’esistere, prima ancora che di confrontarsi con la sua dimensione patologia.
Gli studenti hanno dunque potuto dare corpo e vissuto, ai racconti, alle parole, alle narrazioni e alle teorie presentate durante
le lezioni e i seminari (bisogna ricordare che la maggioranza degli
studenti non ha mai incontrato professionalmente la sofferenza
psichica).
La narrazione tragica e la sua messa in scena offrono una sorta
di sfondo simbolico sul quale si staglia l’uomo nella sua tragicità.
Le narrazioni delle opere tragiche dell’antica Grecia offrono uno
spaccato delle storie cliniche delle anime ferite, divenute alienità
rispetto al gruppo sociale di appartenenza e rispetto a se stesse,
offrendoci una lettura in chiave creativa, ossia simbolica, della psicosi, della melanconia, della depressione, della paranoia, dell’angoscia e degli attacchi di panico, dell’anoressia, delle forme ossessive e
fobiche, di quelle istericoformi e via di seguito, in un susseguirsi di
racconti che ci fanno vivere e ri-vivere in seconda o terza persona
la tragicità umana, rimasta tale da allora a oggi142.
“Il mio sguardo verso la follia è cambiato: leggendo la tragedia mi
è stato impossibile non provare una profonda empatia nei confronti
della protagonista; alla fine della lettura una forza divina sembrava
avermi posseduta, proprio come la donna sembra sentirsi, invincibile.
Medea è dentro di noi, inutile negarlo, siamo tutti follemente posseduti, soltanto non abbiamo l’occasione di sguinzagliarla, lasciarla
andare a parlare per noi. La sofferenza di Medea stillata in piccole
142
2012
Manciocchi M., Antigone e le trame della psiche, Edizioni Magi, Roma,
333
gocce ha fatto parte di me e fortunatamente ho saputo gestirla, ma una
sofferenza come quella provata dall’eroina, così devastante, è ingestibile; è un attimo perdere il controllo di sé e la sofferenza e l’ira sono
sorelle della follia”143.
La narrazione e la messa in scena teatrale dell’orizzonte tragico
quale cifra dell’esistenza umana, hanno in sé la dimensione creativa che conduce a esperire l’incontro con il destino impietoso
in una forma resa comunque vitale dalla dimensione creativa che
permea di sé la narrazione e la sua messa in scena.
“Penso che ascoltare l’altro sia fondamentale, a prescindere da chi
si ha davanti. Leggendo la tragedia ho avuto l’impressione che -Io
soffriva di una gran solitudine, ripudiata, allontanata da tutti, era
completamente sola. Le sue disgrazie e le sue angosce non erano mai
state condivise. Lasciar che una persona si narri le consente di “buttare
fuori”, di realizzare, di sfogarsi, e magari di portare quell’enorme macigno con qualcun altro. Penso che l’ascolto crei la possibilità di sentirsi
capito, di sentirsi parte di qualcosa.”144
Una dimensione vitale che l’approccio meramente teorico e
clinico rischia di impoverire e occultare, con il rischio di sviluppare negli studenti una visione parziale e menzognera in cui questa dimensione umana intrisa di impossibilità, povertà, alienità,
mortificazione, viene sentita e compresa unicamente nel suo essere
annichilente e mortificante. Questa visione e comprensione della
psico-pato-logia porterebbe alla formazione di futuri operatori sociali svuotati nella loro dimensione creativa e vitale del prendersi
cura dell’Altro, operatori sociali che nella follia altro non leggono se non l’aspetto di perdita e alienità, scordando la lezione di
brentaniana memoria che sottolinea come la follia sia la sorella
sfortunata della poesia145. È nostra ferma intenzione guidare gli
studenti verso un sentire e un concepire la fragilità e la tragicità
umana sempre soprattutto in una dimensione di comprensione,
143
Brano tratto dall’elaborato della studentessa Laura Pizzino Piffaretti, a
partire dalla tragedia Medea
144
Brano tratto dall’elaborato dello studente Fabrizio Sirica, a partire dalla
tragedia Prometeo Incatenato
145
334
Borgna E., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007
accoglimento, empatia, dove il senso di vitalità e possibilità permei
di sé sia la dimensione destinale che quella di cura146.
“Personalmente trovo anche molto importante il tema del destino
che emerge fortemente in questa tragedia nelle sue varie forme. Edipo, infatti, dopo aver ascoltato la profezia, cerca di sottrarsi al suo
destino, allontanandosi da quelli che crede essere i suoi genitori. Per
questo stesso motivo i suoi genitori naturali, Laio e Giocasta, l’avevano abbandonato. Edipo poi inconsapevolmente si trova intrappolato
in una serie di eventi che determinano la sua vita; sono stati altri ad
agire per lui. Dapprima i suoi genitori abbandonandolo, poi il servo
risparmiandogli la vita, in seguito Polibo adottandolo,... In tutto ciò
però è come se il suo tremendo destino rimanesse comunque segnato.
Nella mia breve esperienza in campo sociale mi è capitato di incontrare operatori fortemente ingabbiati in logiche di questo genere. (…) Io
penso però che la nostra professione non avrebbe senso di esistere se tutti
pensassero che le persone non possono cambiare la loro condizione e le
cose non possono migliorare in qualche modo. Nell’incontro con l’utente dobbiamo sempre lasciarci sorprendere da quello che può succedere
senza fare profezie su quella che sarà la sua sorte”.147
La creatività è per noi una dimensione fondante per riconoscere, accogliere, compartecipare e se possibile trasformare il dolore
psichico. La messa in scena dell’opera teatrale dell’antica Grecia
stimola la creatività degli studenti148.
La curiosità è per noi una forma di amore nei confronti della
sofferenza psichica, che tentiamo di animare nei nostri studenti
chiedendo loro di leggere una tragedia dell’antica Grecia, metterla
in scena, e inoltre stendere un breve scritto, personale e individuale, nel quale emergano le proprie riflessioni riguardanti la psico-pato-logia, la vita contemporanea e la tragedia letta.
Possiamo infine riassumere in tre semplici parole i valori fondamentali che gli studenti e i docenti hanno potuto apprendere da
146
Winnicott D., Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 1974
147
Brano tratto dall’elaborato dalla studentessa Serena Papa, a partire
dalla tragedia Edipo Re
148
Non possiamo a questo punto esimerci dal fare riferimento a Bruno
Munari, che della fantasia e della creatività ha fatto il suo cavallo di battaglia per
la comprensione del mondo, rinviando al suo testo intitolato Arte come mestiere,
Laterza, Bari-Roma, 2006
335
questa esperienza:
1. passione per l’altro nella partecipazione alla sua sofferenza;
2. curiosità come amore per l’altro, nei confronti di se stessi e
dell’altro con i suoi misteri;
3. creatività come esperienza del sorgere del nuovo che apre ai
tanti possibili della vita, nella costante lotta, nell’Atene del V secolo come nel mondo della nostra contemporaneità, tra l’ineludibile
del destino e la forza del cambiamento che ci è data dalla nostra
libertà.
Durante quest’anno di formazione Bachelor che ha visto in
due Moduli interrogare l’asse identità-alterità e l’asse identità-alienità, si è andata disegnando una sorte di mappa per la navigazione dell’operatore sociale, che è figura professionale “meticcia”,
“errante” tra le discipline, “debole” per quanto riguarda le sue tecniche ma “forte” per quanto riguarda la sua capacità di incontrare,
accompagnare, riconoscere, trasformare l’umano imbrigliato nei
suoi vincoli, liberandolo verso sempre nuovi orizzonti.
4. CONCLUSIONE
Concludendo questo nostro breve rapporto sull’esperienza
2010/2011 e 2011/2012149 potremmo riflettere sul termine Attore. Scrive infatti Serena Guariento che “Il teatro non è dunque solo
un testo in quanto si propone preventivamente in forma scritta, ma
è tale perché “presenta l’azione” e “possiede un intreccio”. Sulla scia
di queste sollecitazioni, ricordo qui che il termine Attore, presente in
quasi tutte le lingue europee, ha la radice etimologica nel verbo latino
ago, che solo in linea derivata significa “agire”: il primo significato è
infatti “condurre”. L’attore perciò è qui fabulam agit: colui che porta
avanti la storia. Questo agire, diversamente dal testo letterario, comporta un’azione fisica, ma il punto centrale è sempre la fabula”.150
L’attore con il suo agire attraverso la fabula è una metafora
dell’operatore sociale che, nella sua pratica di relazione quotidiana,
dà voce ai gesti e dà contenuto e senso alle parole dell’Altro.
149
Gli allegati e i testi di riferimento sono quelli attestanti l’esperienza
2011/2012
150
Guariento S., Il teatro come pratica narrativa per l’orientamento formativo:
una ricerca sul campo, Tesi di dottorato, Università degli Studi, Padova, 2009, p. 40,
336
Dunqne l’esperienza della mise en scène si è sviluppata attorno
ad alcuni vertici che, per le loro caratteristiche e importanza, si
riverberano facilmente nella pratica quotidiana dell’operatore sociale:
1. il gruppo;
2. la gratuità;
3. l’alterità e il rendersi conto dell’altro151: com-prensione,
com-mozione, com-passione, distanza-vicinanza critica;
4. la condivisione e il piacere di fare assieme;
5. l’apprendimento attraverso l’ordine del cuore152, per via creativa;
6. la trasferibilità.
1. Il gruppo
Sollecitato a costruire una rappresentazione che avesse una sua
coerenza, ogni gruppo è stato invitato a scegliere le modalità e le
forme della propria rappresentazione: decidere se presentare tutta
la tragedia o solo le parti che reputavano più significative, decidere
se mettere in scena il testo originale o se adattarlo ai nostri giorni,
e via di seguito.
Una componente fondamentale appartenente alla dimensione
del lavoro di gruppo è quella della responsabilità individuale. Ogni
singolo componente del gruppo è stato chiamato ad assumere una
responsabilità senza la quale la rappresentazione collettiva non
avrebbe potuto aver luogo. Una responsabilità che si articola su
quattro livelli, da non intendere in termini sequenziali ma nella
forma di un vero e proprio emboîtement, in cui avviene un continuo rimando da un livello all’altro:
1. la responsabilità del singolo nei confronti del gruppo - come
esercizio del rispetto, dell’ascolto e della cooperazione, come esercizio per la relazione, per l’esserci nell’équipe;
2. la responsabilità individuale e collettiva nei confronti della
tragedia e del suo testo - come esercizio di attenzione verso la tradizione nella sua dimensione storica e narrativa;
151
Stein E., Zum Problem der Einfuhlung, Halle 1917; trd. Italiana, Il
problema dell’empatia, a cura di E. Costantini, ed. Studium, Roma 1985
152
De Monticelli R., op. cit.
337
3. la responsabilità verso il dolore dell’Altro evocato dalle tragedie - come esercizio dell’esser-ci con l’Altro, con l’utente, con il
paziente, ecc. Non dimentichiamo che quando si ha a che fare con
la sofferenza psichica si è spesso chiamati ad assumersi la “responsabilità della responsabilità dell’altro” (Lévinas).
4. La responsabilità di sé, delle proprie emozioni, dei propri
gesti; stiamo parlando della cura di sé, elemento fondamentale per
la crescita dell’identià professionale.
2. La gratuità
Un altro vertice è certamente stato quello della gratuità. La messa in scena non influenza il voto finale del Modulo, non è come si
usa dire oggi banalmente “immediatamente spendibile”. Se all’inizio alcuni studenti si erano lamentati di questo aspetto, l’incontro
con la tragedia, le prove per la sua messa in scena e soprattutto l’emozionante momento della rappresentazione finale, hanno
cancellato questa iniziale reticenza. Potrebbe sembrare strano, ma
alcuni studenti che non si sono presentati all’esame finale per la
certificazione del Modulo, si sono però assunti la responsabilità
del lavoro di gruppo, partecipando attivamente fino alla messa in
scena finale.
Questo esercizio di gratuità deve essere qui inteso come l’esperienza dell’asse generosità-disponibilità verso una meta ideale che
soprattutto nelle prime fasi del lavoro rimaneva incerta ma che
aveva la capacità, e gli studenti lo hanno poi testimoniato, di muovere il desiderio, in altri termini di mettere in gioco la dimensione
della passione.
Tutte queste parole che possono appartenere a registri concettuali anche diversi, tendono secondo noi, a costruire una vera e
propria mappa concettuale e affettiva, dell’agire sociale, e a essere
premessa perché il lavoro sociale rimanga capace, al di là degli esiti
più immediati e concreti, di essere generatore di vita, soprattutto
nei confronti di persone che la vita l’hanno perduta, dispersa, lacerata, o fuggita in altri oscuri territori della mente.
3. L’alterità e il rendersi conto dell’altro: com-prensione, com-mozione, com-passione, distanza-vicinanza critica
Un ulteriore punto è stato quello di rendersi conto del raccon338
to dell’Altro, senza per questo diventare l’Altro. L’attore-interprete dunque come metafora di chi, come l’operatore della relazione
d’aiuto, può vivere pienamente la storia dell’altro, sapendo allontanarsene e sottrarsi appena la scena si chiude. Un allontanamento
che però non è fredda distanza, ma nutrimento per una crescita
interiore necessaria ai diversi tempi dell’incontro e della relazione
con chi chiede aiuto e cura.
4. La condivisione e il piacere del “fare assieme”
La giornata teatrale si è conclusa con un festivo banchetto di
saluto, di amichevole commiato, totalmente organizzato dagli
studenti. Questo, non solo ha modestamente imitato ciò che già
avveniva nell’antichità proprio a seguito delle Grandi Dionisie di
cui abbiamo parlato, ma ha anche mostrato come sia sempre necessario nell’apprendimento, l’incontro tra rigore e passione, tra
impegno e piacere. Una mistura per noi essenziale, in quella idea
di comunità educativa e formativa, che molto corrisponde allo stile formativo proposto all’interno del nostro Dipartimento.
La condivisione nella fatica dello studio, nel rigore scientifico
necessario, nell’attenzione al valore della tradizione, deve potersi
incontrare sempre e comunque con la dimensione creativa, con il
piacere di stare insieme per fare delle cose insieme.
5. L’apprendimento attraverso l’ordine del cuore, per via creativa
Un ulteriore vertice della nostra esperienza, proiettata nel futuro, è certamente quella di un legame stretto, nel processo formativo, tra momenti teoretici e momenti creativi.
Apprendere dunque attraverso l’esperienza creativa, che non è solo
divertimento, gioco, e non è neppure simulazione, ma vera esperienza di vita.
Non chiediamo ai nostri studenti di avere solo la distanza della
ragione, ma chiediamo loro di praticare una vera immersione attraverso lo strumento della tragedia. Un’immersione che poi loro
sperimenteranno dal vivo quando, dopo il primo anno, si affacceranno agli stages di pratica professionale.
Questa convinzione ci spinge a porre, a tutto il nostro corso
di laurea, la riflessione su come poter ampliare proprio questa via
creativa, che è la forza fluida e flessibile della ragione sensibile, che
339
in tutta questa esperienza abbiamo voluto al centro del nostro paradigma formativo.
6. La trasferibilità
Nell’ordine della trasferibilità del progetto, come già scritto, va
ricordato che la mise en scène ha ed ha avuto largo riconoscimento
all’interno del mondo socio-sanitario che si occupa di psichiatria.
Questo naturalmente potrà facilitare i nostri studenti sia durante
i loro stages che nel corso della loro vera e propria futura pratica
professionale.
Inoltre la trasferibilità di questa esperienza è da leggere anche in
termini indiretti. L’operatore sociale vive nella scena della vita, che
è teatro della vita. Siamo profondamente convinti che “È proprio
nel teatro e attraverso il teatro che può farsi trasparente il mondo delle
passioni che emerge dalla sfera della prassi come esperienza opaca, se
operano modelli di rappresentazione capaci di dare senso e ordine alle
complesse vicissitudini dell’umano, muovendo da un coinvolgimento
altamente partecipato per giungere a quella concretezza della forma
capace di accogliere le tensioni dell’esistere e di rendere la vita trasparente a se stessa.”153
Ribadiamo come la nostra scelta progettuale si fondi sulla convinzione che la tragedia greca, al di là delle trasformazioni storico-sociali
e dei loro effetti sulle costellazioni psicologiche, permette di cogliere
la continuità che riguarda la tragicità dell’esistenza umana.
La tragedia classica da Sofocle a Beckett ha proprio la capacità di
rappresentare la scena della vita nei suoi aspetti più fondamentali.
Il confronto che i nostri studenti hanno fatto con questi testi (si
è scelto per coerenza quest’anno solo la tragedia greca) può assumere, per usare una metafora generativa, la funzione di “ostetrico”
nei confronti della passione comprensiva, accogliente e se possibile
trasformativa, nei confronti dell’alienità-follia e soprattutto di chi
vi è abitato.
Come non condividere a questo punto le parole di Serena Guariento quando scrive: “Il teatro dunque può rimettere in questione
153
Dalla Palma S., Momenti e modelli della transizione teatrale, in A.
Cascetta, L. Peja, Elementi di drammaturgia, ISU Università Cattolica, Milano
2002, p. 373
340
la propria ragion d’essere e recuperare la sua vocazione originaria di:
“azione ‘come se’, agita da un corpo in carne e ossa di fronte ad un’altra
corporeità”.
Il come se che definisce il teatro richiama la necessità di un patto
comunicativo tra emittente e destinatario, nella consapevolezza che
l’attore agisce ‘come se’ facesse sul serio, operando in una sfera non quotidiana, ma inscritta nella dimensione dell’immaginario, dove tutto
è possibile.
Attore e spettatore sono l’uno in relazione all’altro, in un incontro
vivo e reale. Teatro dunque prima di tutto come luogo di relazione.
Una ‘Relazione’ intesa in prospettiva fenomenologica come dimensione
costitutiva dell’uomo, legata ai concetti di ‘Persona’ (Ricoeur), ‘Volto’ (Levinas), ‘Alterità’ (Buber): se il proprium dell’uomo è l’apertura
all’altro (‘essere-con’), questa ‘relazione’ implica partecipazione affettiva e reciprocità di presenza.
Relazione a teatro è quindi dialettica, “comunicazione calda ed autentica che si celebra nell’incontro personale tra le coscienze e che risiede nelle origini gestuali, tribali della comunicazione nell’ambito della
comunità di villaggio”.154
154
Guariento S., Il teatro come pratica narrativa per l’orientamento formativo:
una ricerca sul campo, Tesi di dottorato, Università degli Studi, Padova, 2009, p. 26
341
4.6 Ai musei di Torino di antropologia criminale
e di anatomia umana
Tra forma e sostanza dal corpo all’anima
Graziano Martignoni, Lorenzo Pellandini, Lorenzo Pezzoli
e Ornella Manzocchi155
4.6.1 Programma
9.50 Ritrovo in Via Pietro Giuria all’ingresso del
Museo Lombroso
10.00 - 11.00 Visita guidata al Museo Lombroso
11.00 - 12.00 Trasferimento al Museo di anatomia umana L.
Rolando
12.00 - 12.30 Breve breafing
12.30 - 14.00 Pausa pranzo
14.00 Ritrovo nell’aula magna degli istituti anatomici
14.00 - 16.00 Introduzione con letture tratte dagli scritti di
Lombroso e di letteratura
4.6.2 Sguardi sull’umano e le sue metamorfosi
Dalla follia alla corporeità
Lorenzo Pezzoli
Sono passati più di centoquarant’anni dall’indagine sul cervello
del povero Vilella: quel cranio, col suo contenuto e le sue forme,
155
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Spazi di cura e gesti di
ospitalità”, che si svolge nel corso del secondo e quarto semestre.
342
che il 4 gennaio del 1871 capitò nel piccolo laboratorio di Pavia
e dove Lombroso vi notò un’anomalia morfologica, la famosa fossetta occipitale mediana rispetto alla quale costruì l’ipotesi dell’atavismo in quanto questa fossetta riavvicinava l’uomo ai primati.
Villella, un uomo di quasi settant’anni definito da Lombroso “tristissimo” e, continua l’autore: “...condannato tre volte per furto e
in ultimo per incendio di un mulino; ipocrita, astuto, taciturno,
ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, il
Villella camminava sghembo, e aveva il torcicollo non so bene se
a destra o a sinistra.”. Sono passati anni ma, ancora, quel ‘contenuto’ indagato in modo rudimentale dal Lombroso ha molte cose
da raccontarci che, a suo modo e con molti limiti, forse Lombroso
aveva intuito. Come scrisse nel suo discorso funebre Guglielmo
Ferrero (In memoria di Cesare Lombroso, 1910), forse é arrivato il momento di rileggere Lombroso: “Tra cinquant’anni, tra un
secolo, la riscoperta e la consacrazione definitiva della grandezza
dell’opera e della vita del Maestro sarà matura nella coscienza addormentata del mondo (...).”.
Occuparsi della storia delle persone come il “tristissimo Villella”
che siano delinquenti, folli, scellerati, vittime o semplicemente e
genericamente persone sofferenti, è un punto importante perché
quella storia, che comunemente si definisce biografia, rappresenta
l’universo della soggettività così come si è declinata nel corso di
un’esistenza. Il soggetto con biografia non è più solo la psicopatologia che evoca, e che con i suoi sintomi rappresenta mettendola in scena nel teatro del mondo, ma qualcosa che la significa
e la arricchisce rendendola unica. Lo ricordava von Gebsattel in
Imago Hominis del 1964 quando scriveva che “la malattia non si
identifica con il patologico. Ciò che non interessa alle scienze della
natura è l’uomo nella modalità esistenziale del suo essere malato.
Ma è proprio questo che costituisce per il malato la dimensione
autentica della sua malattia.”156. L’incredibile collezione di resti di
umanità sofferente, disagiata, segnata da povertà e limiti, impulsi
irrefrenabili e passioni malate di cui si è attorniato Cesare Lombroso è nata, come ricorda la figlia Gina dal fatto che il padre fosse
un “raccoglitore nato”157, un uomo mosso dall’esigenza di catalo156
V. E. von Gebsattel, Imago hominis, 1964, p. 62.
157
Gina Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso, p. 335
343
gare, misurare, ordinare. Non a caso era chiamato il medico della
stadera. E lo faceva “mentre camminava, mentre parlava, mentre
discorreva; in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva.”158 In
questo vedere quello che nessuno vedeva Lombroso credo si sia
preso degli abbagli ma anche abbia precorso e colto delle questioni
importanti e delicate si pensi ad esempio il tributo dato a Lombroso da Enrico Morselli quando fece riferimento all’intuizione
del regresso e del ritorno all’arcaico, al primitivo. Delia Frigessi159
in un capitolo del libro dedicato a “Lombroso cento anni dopo”,
ricorda come sia Freud che Jung si siano interessati ad alcuni aspetti dell’opera lombrosiana ed in particolare all’ipotesi atavistica e
al fatto che nell’uomo alberga ancora il primitivo e il selvaggio;
“l’inconscio dell’uomo civilizzato descritto da Freud non differisce
dall’uomo primitivo di Lombroso, dal suo “delinquente atavico”.
Anche l’idea della creazione geniale, di una creatività in cui predomina l’incosciente, ha suscitato una lettura prefreudiana dell’opera
lombrosiana.”160
Non si può che osservare come l’attenzione, direi a volte ostinata ed esasperata, per recuperare le soggettività delle persone che
studiava, rappresenta con Lombroso un punto interessante e prezioso. Un cranio, un tatuaggio, un graffito sul muro di uno dei
tanti istituti carcerari da lui considerati, diventava frammento di
una soggettività che si dispiegava nel tempo e componeva una biografia che, notoriamente, non può che essere complementare (e
da integrare) alla biologia. Percorrere l’itinerario bio-logico senza tenere in conto di quello bio-grafico è come tornare al 1845
e leggere il Lehrbuch der Pathologie und Therapie der psychischen
Krankheiten e ripercorrere con il suo autore, Wilhelm Griesinger, il
postulato che vorrebbe che ogni malattia mentale sia una malattia
del cervello. In fondo, in Italia, con la chiamata di Moleschot alla
Regia Università di Torino alla cattedra di fisiologia sperimentale
si percorreva la stessa strada. Quel Moleschot che scriveva che il
158
Ibidem
159
Friessi Delia in Montaldo S., Tappero P., Cesare Lombroso cento anni
dopo, Torino, Utet, 2009
160
344
Ibidem, pag.14
pensiero sta al cervello così come l’orina sta ai reni e che fu salutato
da Lombroso con entusiastica soddisfazione. L’intelletto umano
come prodotto della natura diviene così, se vogliamo forzare un
po’ lo scenario culturale voluto da De Sanctis in Italia nel nuovo
regno d’Italia161, il concetto di riferimento per la cultura medica
del tempo come ben scriveva Salvatore Tommasi ne “Le dottrine
mediche e la clinica”: “siamo condannati ad essere materialisti, in
quanto siam medici. Noi rispettiamo il cielo della filosofia; anche
noi serbiam fede al progresso delle scienze morali; ma in quanto
siam medici, negheremo noi stessi se non fossimo materialisti.”162
Sollevare Cesare Lombroso da questo contesto significa snaturarne
il pensiero e il percorso.
Rileggere oggi Lombroso, pur con le inevitabili resistenze che
può suscitare e le inevitabili perplessità, lo ritengo un’operazione
importante anche per comprendere come si è sviluppato il pensiero scientifico e la ricerca sull’umano che ha occupato psichiatria e
psicologia con particolare dinamismo proprio negli anni di lavoro
e impegno del fondatore dell’Antropologia criminale italiana. E le
riletture sono sempre dense di quello che è trascorso nel frattempo e che riorienta gli sguardi. Credo che il valore di alcune delle
considerazioni di Lombroso nella pubblicazione del 1856 su “L’influenza della civiltà sulla pazzia e della pazzia sulla civiltà” uscito
sulla Gazzetta medica lombarda, siano ancora da tenere in conto,
in particolare quando scrive di come la pazzia si modelli sull’immagine della civiltà nella quale si esprime e manifesta (“in mezzo
alla quale imperversa”)163. Il contesto sociale, culturale, l’ambiente
in cui il patire prende forma e si esprime, ha una sua importanza
nel dispiegarsi dello stesso e nelle modalità con le quali, attraverso
il sintomo, si rende visibile e leggibile.
Dunque la visita al Museo Lombroso, che ha trovato collocazione nello stabile più idoneo e cioè nell’edificio degli istituti anatomici di Torino in via Pietro Giuria, è l’occasione di un percorso
161
Proprio De Sanctis aveva brigato per la chiamata di Molescott in Italia.
162
Salvatore Tommasi, Le dottrine mediche e la clinica, prolusione (1865),
in ID., Il naturalismo moderno, a cura di Antonino Anile, Laterza, Bari 1913,
pp.89.90.
163
Lombroso C., Influenza della civiltà sulla pazzia e della pazzia sulla
civiltà, Giornale di scienza mediche, Milano 1956.
345
storico nella ricerca e nelle vicissitudini di chi, Lombroso appunto,
lo ha con pazienza e costanza composto. Ma è anche un tragitto
attraverso lo sviluppo della psicologia, dell’antropologia e psichiatria italiane, come pure un approccio all’universo dei marginali
dell’Ottocento, un avvicinamento alle malattie della povertà a partire dalla Pellagra con le sue tre “D”, dermatosi, diarrea e demenza
a cui si aggiunge nei paesi di lingua inglese una quarta “D” che
sta per death, morte. Un percorso tra la follia e la sua rappresentazione e le sue manifestazioni, il delitto e i suoi esecutori ma anche
il tentativo della società di rispondere a queste realtà in un’Italia
appena nata come nazione ma ancora eterogenea e frammentaria
nel tessuto sociale, culturale e politico. Si entra, entrando nelle sale
che accolgono i reperti umani, anatomici e antropologici in una
che definirei la naturale prosecuzione in chiave positivista della
Wunderkammer, la camera delle meraviglie, che recentemente a
Milano è stata oggetto di una bella retrospettiva al Museo Poldi
Pezzoli164. L’unione di scienza, natura ed arte nelle Wunderkammer cerca di riunire questi vertici del pensiero rinascimentale. La
collezione di cose meravigliose che accomunò i Farnese, piuttosto
che imperatori e re (da Rodolfo II d’Asburgo a Praga a di Cristiano
IV di Danimarca o a Ferdinando II, nel Tirolo) ha il suo punto di
particolare implementazione nel Cinquecento per svilupparsi nei
secoli a venire. Il Museo Lombroso pare la derivazione ottocentesca
impregnata dalla cultura di quel “materialismo inquieto”165 che ha
segnato la cultura medica e non solo nell’età del positivismo. Vi è
dunque un sottile filo rosso che passa dal Museo di Ferrante Imperato a Napoli (1599), dal Theatrum Anatomicum di Leida (1610)
fino ai diorami e alle composizioni del medico Fredrik Ruysch di
Amsterdam nel primo Settecento, celebre per i progressi compiuti
nella conservazione dei cadaveri che volentieri veniva rappresentato alle prese con la dissezione di corpi alla presenza degli allievi, da
pittori come Adriaen Baker o Jan van Neck.
164
Wunderkammer. Arte, natura, meraviglia ieri e oggi. Museo Poldi Pezzoli. Curatori:Lavinia Galli, Martina Mazzotta. 15 Novembre 2013 al 02 Marzo
2014.
165
Faccio riferimento a un concetto espresso da Girolamo de Liguori nel
suo libro Materialismo inquieto edito da Laterza, Roma-Bari, 1988.
346
Cesare Lombroso è partito occupandosi della corporeità, misurandola, osservandola, comparandola, cercandone le bizzarrie e le
deformità e rapportandole alle deformità e alle bizzarrie psichiche
piuttosto che alle degenerazioni. L’accostamento del Museo Lombroso al Museo di Anatomia umana L. Rolando nello stesso complesso degli Istituti Anatomici ci riconduce al comune denominatore della corporeità dei soggetti e alla necessità di non dimenticare
né trascurare questa corporeità nell’incontro.
I due musei rappresentano la tensione tutta ottocentesca tra le
malattie del corpo nelle due sfaccettature dell’organico e dello psichico. Due musei che accompagnano attraverso la visione della
malattia della psiche, la follia e la malattia del corpo, esposizioni
adiacenti che si parlano e che portano l’attenzione sulla dimensione della follia da un lato ma anche delle modificazioni anatomiche
che la malattia produce e genera e che hanno certo impatto sulla
psiche. Due esposizioni che costringono ad uno sguardo all’interno: della psiche da un lato, e del corpo dall’altro, poli legati
dal tentativo di trovare nel secondo, il corpo, la spiegazione delle
modifiche della prima e cioè la psiche. Un tentativo che animerà
molta della cultura ottocentesca che lo stesso Freud incontrerà e
interpreterà nel suo Progetto di una psicologia (1892-1899). Ma
entrambi i musei ampliano la loro stimolazione sulla tematica del
guardare dentro: che sia il corpo o che sia la psiche, come attitudine esplorativa dell’altro e dell’altrui.
Guardare dentro è un atteggiamento che appartiene all’universo
dell’inconsueto, guardare dentro costringe all’inevitabilità di vedere
in modo diverso ciò che sta fuori all’interno esplorato. In questo senso credo che l’immagine costodita nel Museo di Anatomia
umana « Luigi Rolando » di Torino, tra l’altro vicino a quello di
antropologia criminale di Cesare Lombroso, con il quale i richiami
non sono pochi, luogo citato come esempio di museo scientifico
di fine Ottocento, ha un che di sconvolgente. Racchiude il tentativo di dare grazia al corpo aperto, letteralmente spalancato, della
giovane ragazza, accentuando in questo modo il contrasto tra l’eviscerazione didattica e la grazia del volto e dello sguardo. Elementi
che possono aiutare a riflettere su ogni « viaggio all’interno » e su
ogni ingresso nel profondo, in qualunque interiorità, in questo
347
caso corporea, incontro che colpisce e a volte sconvolge, dando
a chi vede elementi differenti nell’osservazione e nella considerazione dell’esterno. Non si può dimenticare come, in questo senso,
il poeta Iginio Ugo Tarchetti, nella sua poesia Memento andava
in questa direzione. Quando bacio il tuo labbro profumato, / cara
fanciulla, non posso obbliare / che un bianco teschio vi è sotto celato.
/ Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, / obbliar non poss’io, cara
fanciulla, / che vi è sotto uno scheletro nascoso. / E nell’orrenda visione
assorto, / dovunque o tocchi, o baci, o la man posi, / sento sporger le
fredde ossa di un morto. Tarchetti é stato uno dei rappresentanti
della Scapigliatura milanese lettore di Poe e Hoffman che, forse,
hanno aiutato il suo orientamento e gusto per universi macabri,
patologici o segnati da abnormità. Nella poesia citata si sente, a
mio avviso, lo straniamento di una alterità percepita e immaginata,
un’alterità che finisce per influire sul soggetto riorientando il suo
sguardo verso l’oggetto d’amore e d’attrazione.
Che sia il corpo anatomico dipinto dal seicentesco Rembrandt
che porterà i medici aspiranti, raffigurati nella tela, a guardare le
sinuosità corporee, da quel momento in poi, come superficie di
complessi grovigli interni, o che sia l’“anatomia psicoanalitica” di
Sigmund Freud che proporrà uno sguardo su sogni, lapsus, atti
mancati e, più in generale, sull’universo del tangibile e cosciente,
come manifestazione di profondità complesse e articolate, profondità che mettono in scacco l’Io che da sempre è stato creduto illusoriamente il padrone di casa.
Infine anche la ricerca scientifica che scandaglia con sempre
maggiore dovizia e capacità le profondità della materia, e che ci restituisce una visione della superficie non più uguale a quella che si
aveva prima, ogni sguardo dell’interno, del profondo, di ciò che sta
dentro e non si vede, consente non solo una comprensione nuova
di quanto si vede esteriormente ma cambia, a partire dallo sguardo,
anche colui che osserva. Non è più solo l’oggetto a essere diverso:
l’averne conosciute le interiorità o le profondità, come pure i meccanismi e le componenti interne, trasforma la percezione certo, ma
anche chi percepisce si sente differente.
Casa Lombroso era nota all’epoca del grande antropologo criminale; molti poveracci ricevevano cure gratuite dal proprietario che così
348
aveva occasione di scoprire e misurare “nuovi” tipi umani appartenenti
alla cerchia dei marginali, luogo conosciuto tanto che su un numero
de L’illustrazione italiana del 1906, a pochi anni dalla morte, lo stesso
Lombroso scriveva: “Ripasso qui in rivista [...] quei poveri trofei raccolti [...] prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle
padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio
nella via Po di Torino.”.
Lombroso ebbe vari meriti, e anche molti demeriti. Su questo non
ci sono dubbi. Due questioni lo rendono particolarmente interessante.
La prima è legata al campo dei suoi interessi e dal fatto di orientare la
ricerca, l’attenzione scientifica, il dibattito culturale, su segmenti della
società e della popolazione che non suscitavano né interesse né simpatia, e che erano considerati solo e semplicemente per i problemi che
suscitavano. I poveri, i folli, i marginali, gli anarchici, le prostitute e via
via in un campionario umano da “miserabili” alla Victor Hugo erano
il cuore della ricerca e dello studio lombrosiano ai quali, in linea con
l’epoca, egli applicava rigore e metodo scientifico. Il secondo fattore era
il fatto che egli, il Lombroso intendo, si sentiva ne più ne meno al pari
di chi studiava.
Democratico fino all’osso, socialista attivo politicamente in quella
Torino capitale del nuovo Regno d’Italia, decise di lasciare, post mortem, il suo corpo allo studio dei suoi seguaci alla stregua di quanto aveva
fatto coi corpi, i cervelli, le ossa e i manufatti dei disperati a cui si era
dedicato e per i quali si era prodigato. E il suo corpo, o quello che resta,
è ben ordinato nel museo a lui dedicato: appeso in una teca di vetro lo
scheletro, la pelle del viso sotto formalina o soluzione alcolica che sia, e
via via in una moderna scomposizione stile “vasi canopi” di egizia memoria.
Democratico perché si sentiva lui, come i suoi folli, criminali,
donne e ladre di malaffare e quant’altro, al pari come uomo e come
potenziale e/o reale oggetto di studio. Come ben scriveva Daniele Velo
Dalbrenta in “Tesi e malintesi de L’uomo delinquente”: “Lombroso
stesso ha voluto rendere testimonianza in prima persona e, se così si
può dire, da par suo. (...)egli donò, per disposizione testamentaria, il
proprio corpo alla scienza: ritenendo di poter rispondere così, post
mortem, alle critiche rivoltegli.”. Il referto dell’esame autoptico che fu
eseguito subito dopo il decesso dal prof. Tovo dimostrò una cosa che
sconcertò: “il cervello di Lombroso sembra sia risultato ricco di pieghe
di passaggio, ossia di una delle tipiche “stimate” delinquenziali...”.
349
4.7 Alle grotte della Valle Imagna
Attraverso il buio lasciar accadere la luce;
Del nascere e del rinascere
Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, e Lorenzo Pezzoli166
Con la partecipazione e collaborazione di Maria Grazia Canepa,
medico e presidente SUMSI (società ultrasonografica della Svizzera italiana), di Gianni Castagnola, medico ginecologo e membro
del soccorso alpino e speleologico del CAI, di Bruno Pizzi lettore
dantesco e di Pierangelo Cattaneo, Davide Franchini e Giovanni
Gritti, del Gruppo speleologico Valle Imagna.
Con un contributo di Graziella Corti, antropologa.
4.7.1 Programma
Giunti in Valle Imagna, la prima parte della nostra esperienza
prende avvio alle 16:00 e termina alle 22:00 entro le mura dell’albergo che ci offre ospitalità.
Gli incontri di riflessione, condivisione e approfondimento saranno intercalati dal momento conviviale della cena e si concluderanno con il riposo notturno.
Daranno vita a questa prima parte riflessiva:
La docente Ornella Manzocchi - L’origine la nascita: da teorie,
a gesti emozioni, pensieri
Il docente Lorenzo Pezzoli - La terra e le sue aperture
La dottoressa Mariagrazia Canepa - Eco … in grotta
Il medico Dr. Gianni Castagnola, ginecologo e membro del
soccorso alpino e speleologico del CAI, l’impatto con la luce e il
primo respiro, l’evento nascita dal punto di vista medico.
Il Prof. Graziano Martignoni - Esporsi al mondo
166
Questa esplorazione appartiene al Modulo “Prima infanzia e Nido”,
che si svolge nel corso del secondo semestre.
350
Dopo un momento conviviale dedicato alla cena ci si reca nel
bosco e si prende posto silenziosamente dentro la Caverna Buca
del Corno per l’ascolto della narrazione dalla Divina Commedia,
canto XXVI dell’Inferno, interpretato dal narratore Bruno Pizzi.
Rientro all’albergo e lettura personale di una poesia di Fernando
Pessoa per una notte serena e di riposo
Ode alla Notte
Vieni, Notte antichissima e identica,
Notte Regina nata detronizzata,
Notte internamente uguale al silenzio, Notte
con le stelle, lustrini rapidi
sul tuo vestito frangiato di Infinito.
Vieni vagamente,
vieni lievemente,
vieni sola, solenne, con le mani cadute
lungo i fianchi, vieni
e porta i lontani monti a ridosso degli alberi vicini,
fondi in un campo tuo tutti i campi che vedo,
fai della montagna un solo blocco del tuo corpo,
cancella in essa tutte le differenze che vedo da
lontano di giorno,
tutte le strade che la salgono,
tutti i vari alberi che la fanno verde scuro in
lontananza,
tutte le case bianche che fumano fra gli alberi
e lascia solo una luce, un’altra luce e un’altra ancora,
nella distanza imprecisa e vagamente perturbatrice,
nella distanza subitamente impossibile da percorrere.
Nostra Signora
delle cose impossibili che cerchiamo invano,
dei sogni che ci visitano al crepuscolo, alla finestra,
dei propositi che ci accarezzano
sulle ampie terrazze degli alberghi cosmopoliti
sul mare,
al suono europeo delle musiche e delle voci
lontane e vicine,
e che ci dolgono perché sappiamo che mai li
realizzeremo.
Vieni e cullaci,
vieni e consolaci,
baciaci silenziosamente sulla fronte,
cosi lievemente sulla fronte che non ci
accorgiamo d’essere baciati
se non per una differenza nell’anima
e un vago singulto che parte misericordiosamente
dall’antichissimo di noi
351
laddove hanno radici quegli alberi di meraviglia
i cui frutti sono i sogni che culliamo e amiamo,
perché li sappiamo senza relazione con ciò che ci può
essere nella vita.
Vieni solennissima,
solennissima e colma
di una nascosta voglia di singhiozzare,
forse perché grande è l’anima e piccola è la vita,
e non tutti i gesti possono uscire dal nostro corpo,
e arriviamo solo fin dove arriva il nostro braccio
e vediamo solo fin dove vede il nostro sguardo.
Vieni, dolorosa,
Mater Dolorosa delle Angosce dei Timidi,
Turris Eburnea delle Tristezze dei Disprezzati,
fresca mano sulla fronte-febbricitante degli Umili,
sapore d’acqua di fonte sulle labbra riarse degli
Stanchi.
Vieni, dal fondo
dell’orizzonte livido,
vieni e strappami
dal suolo dell’angustia in cui io vegeto,
dal suolo di inquietudine e vita-di-troppo e false
sensazioni
dal quale naturalmente sono spuntato.
Coglimi dal mio suolo, margherita trascurata,
e fra erbe alte margherita ombreggiata,
petalo per petalo leggi in me non so quale destino
e sfogliami per il tuo piacere,
per il tuo piacere silenzioso e fresco.
Un petalo di me lancialo verso il Nord,
dove sorgono le città di 0ggi il cui rumore ho
amato come un corpo.
Un altro petalo di me lancialo verso il Sud
dove sono i mari e le avventure che si sognano.
Un altro petalo verso Occidente,
dove brucia incandescente tutto ciò che forse è il
futuro,
e ci sono rumori di grandi macchine e grandi
deserti rocciosi
dove le anime inselvatichiscono e la morale non
arriva.
E l’altro, gli altri, tutti gli altri petali
- oh occulto rintocco di campane a martello
nella mia anima! affidali all’Oriente,
l’Oriente da cui viene tutto, il giorno e la fede,
l’Oriente pomposo e fanatico e caldo,
l’Oriente eccessivo che io non vedrò mai,
352
l’Oriente buddhista, bramanico, scintoista,
l’Oriente che è tutto quanto noi non abbiamo,
tutto quanto noi non siamo,
l’Oriente dove - chissà - forse ancor oggi vive
Cristo,
dove forse Dio esiste corporalmente imperando
su tutto..
Vieni sopra i mari,
sopra i mari maggiori,
sopra il mare dagli orizzonti incerti,
vieni e passa la mano sul suo dorso ferino,
e calmalo misteriosamente,
o domatrice ipnotica delle cose brulicanti!
Vieni, premurosa,
vieni, materna,
in punta di piedi, infermiera antichissima che ti
sedesti
al capezzale degli dei delle fedi ormai perdute,
e che vedesti nascere Geova e Giove,
e sorridesti perché per te tutto è falso, salvo la
tenebra e il silenzio,
e il grande Spazio Misterioso al di la di essi..
Vieni, Notte silenziosa ed estatica,
avvolgi nel tuo mantello leggero
il mio cuore... Serenamente, come una brezza
nella sera lenta,
tranquillamente, come un gesto materno che
rassicura,
con le stelle che brillano (o Travestita dell’Oltre!),
polvere di oro sui tuoi capelli neri,
e la luna calante, maschera misteriosa sul tuo volto.
Tutti i suoni suonano in un altro modo quando
tu giungi
Quando tu entri ogni voce si abbassa
Nessuno ti vede entrare
Nessuno si accorge di quando sei entrata,
se non all’improvviso, nel vedere che tutto si raccoglie,
che tutto perde i contorni e i colori,
e che nel cielo alto, ancora chiaramente azzurro e
bianco all’orizzonte,
già falce nitida, o circolo giallastro, o mero
diffuso biancore, la luna comincia il suo giorno.
La prima giornata è terminata, tra emozioni,
ascolti, silenzi, poesia e colori.
Ora è il momento del riposo, del fermare l’attività
per lasciare che la notte abbia il sopravvento e il
corpo riposi con la mente.
353
La seconda parte si svolge il giorno seguente fra boschi e grotte e
si compone di due momenti. Il primo mette in campo l’esperienza
esistenziale del passaggio da un fuori a un dentro e da dentro a
fuori (si sviluppa nella Grotta Europa).
Il secondo momento silvestre ci “getta” nell’esperienza esistenziale di “stare” alle soglie della vita (si svolge nel grande antro della
caverna del Buco del Corno).
Questi due momenti ci permettono di transitare dalle atmosfere
primordiali intrise di dimensioni naturali a quelle successive intrise
di culturalità.
Le atmosfere primordiali che incontriamo nel percorso attraverso il pertugio e il cunicolo verso la grotta Europa permettono allo
studente di regredire, ossia transitare dal noto all’ignoto, strisciando nel ventre della terra madre. Entrare in grotta, in particolare in
un cunicolo che porta ad una grande sala-ventre richiama i viaggi
nel profondo, la Nekyia cara a C. G. Jung, lo scendere nella terra
delle madri, l’accettare la cecità degli occhi per consentire la vista
dell’anima. Come scriveva C. G. Jung la Nekyia “è l’introversione
della mente cosciente negli strati più profondi della psiche incosciente”. Per Jung “La Nekyia non è una caduta nell’abisso distruttiva e priva di scopo, ma una significativa Catabasi, il cui obiettivo
è il ripristino dell’intero uomo”. Così si scende nel profondo per
dare senso alla superficie, per ritornare, come i tanti viaggiatori del
profondo, da Odisseo ad Enea, da Orfeo a Giulio Verne con il suo
apparentemente banale e infantile Viaggio al centro della Terra; le
catabasi mitiche e letterarie sono tante e tutte tese a raccontare l’incontro con il profondo che è incontro con quella parte misteriosa
di sé che, se accolta, dà vita a un nuovo sguardo sul mondo.
In secondo luogo l’entrare in grotta permette allo studente di
giungere nell’involucro-grotta e transitare dalla fatica del passaggio
dal noto all’ignoto alla dimensione che porta dal sentirsi al sentire,
dal percepirsi al percepire, dal guardarsi al guardare, dall’ascoltarsi
all’ascoltare in un susseguirsi di momenti esperienziali così organizzati:
ascoltare l’intimità: auscultare i propri battiti cardiaci;
sentire l’intimità con l’universo attraverso l’ascolto della musica/suoni;
354
perdere la luce e trovare il sentire, l’ascolto, l’emozione: stare al
buio;
le parole che parlano della vita intra-uterina;
le parole che parlano della trasformazione da pre a post-natale;
ritrovare un senso: le parole che narrano la cosmogonia della
terra madre;
In un terzo momento lo studente lascia l’involucro e ritrova la
luce, affrontando la fatica del cambiamento.
Infine lo studente vive in prima persona l’esperienza del venire alla luce accolti dalla musica e da chi ci accompagna silenziosamente all’incontro con la matericità della natura della vita: nel
silenzio ognuno si dirige verso la caverna Buco del Corno dove
darà vita a concretizzazioni materiche che parlano dell’esperienza vissuta immaginando-entrando-stando-uscendo-ricordando
quanto vissuto nella grotta Europa, metafora del nascere. Sempre
in silenzio quando tutte le concretizzazioni hanno trovato vita e
sono deposte qua e là negli anfratti della caverna Buco del Corno, ognuno si incammina nel bosco meditando, per poi tornare al
Buco del Corno al richiamo sonoro del flauto.
Le atmosfere culturali che ci attendono sono le seguenti:
Pranzo e riposo;
condivisione delle concretizzazioni deposte nella caverna Buco
del Corno;
ascolto esecuzione brani musicali per flauto traverso eseguiti
dall’operatrice sociale Sara Petrocchi-Cavenago;
scrittura versi o narrazioni passeggiando mentalmente e fisicamente fra nascita e nuovi confini;
condivisione delle scritture;
la nascita e il sacro, la sacralità dei momenti di passaggio;
discorso di chiusura tenuto dal prof. Martignoni;
saluto con concerto di chiusura;
percorso verso le grotte dei santuari mariani;
ritorno all’inizio del cammino: saluti, foto, abbracci, rientro.
355
Omissis
Grotta
Sulle pareti nulla
e solo l’umidità cola.
Qui è buio e fa freddo.
Ma è buio e fa freddo
dopo un fuoco spento.
Nulla - ma un nulla dopo un bisonte
dipinto con l’ocra.
Nulla - ma un nulla avanzato
dopo una lunga resistenza
d’una testa d’animale chinata.
E dunque un Nulla Bello.
Degno della maiuscola.
Un’eresia di fronte al comune niente
non convertita e fiera della differenza.
Nulla - ma dopo di noi,
che qui
siamo stati
e i nostri cuori abbiamo mangiato
e il nostro sangue abbiamo bevuto.
Nulla, ossia la nostra danza
incompiuta.
Le tue prime cosce, mani, nuche, facce
accanto al fuoco.
I miei primi sacri ventri
con minuscoli pascal.
Silenzio - ma dopo voci.
Non del genere dei silenzi pigri.
Un silenzio che un tempo aveva le sue gole,
pifferi e tamburelli.
Lo innestava qui come un albero selvatico
il mugolio, il riso.
Silenzio, ma nelle tenebre
esaltate dalle palpebre.
Tenebre - ma nel freddo
nella pelle e le ossa.
Freddo - ma della morte.
Sulla terra che è forse una
nel cielo? Che è forse il settimo?
Sei emerso con la testa dal vuoto
e vuoi tanto sapere.
Wislawa Szymborska
356
4.7.2 Fra psiche e soma, l’esperienza della “cesura”
Ornella Manzocchi
Nessuna cosa nasce né perisce,
ma da cose esistenti ogni cosa si compone e si
separa. Anassagora, Frammenti, V sec. a.C.
Le nostre giornate alle grotte, dedicate all’origine e al nascere,
prendono spunto anche dal saggio Caesura (1975) e dai seminari
clinici pubblicati nel 1987, nei quali Wilfred Ruprech Bion riformula l’affermazione di Freud che si trova nel saggio del 1926
Inibizione, sintomo e angoscia, secondo cui “tra la vita intrauterina e
la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci
credere l’impressionante cesura dell’atto della nascita”. Bion scrive:
“Non so se sto interpretando male questa citazione, ma penso che
non sia inappropriato che Freud dica ‘non ci lasci credere l’impressionante cesura’, come se fosse la cesura che governa i nostri
pensieri. Il diaframma, la cesura, è la cosa importante; è la fonte
del pensare. Picasso dipinse un quadro su un pezzo di vetro in
maniera che potesse essere visto da entrambi i lati. Suggerisco che
si possa dire la stessa cosa della cesura: dipende dalla direzione da
cui la si guarda, dalla direzione in cui si sta viaggiando. Disordini
psicosomatici, o somapsicotici - scegliete voi: il quadro dovrebbe
essere riconoscibilmente lo stesso, che lo si guardi dalla posizione
psicosomatica o da quella somapsicotica”.
La nostra intenzione, desiderio, progetto, obiettivo riguardano
dunque la possibilità di offrire ai nostri studenti del modulo Prima
infanzia e Nido, l’opportunità di rivivere in prima persona l’esperienza della cesura, così centrale, fondamentale, onnipresente nella
vita sia intra-psichica che inter-soggettiva di ognuno di noi.
L’esperienza dell’origine e del nascere alle grotte si sviluppa lungo due dimensioni che sono quella esperienziale e quella riflessiva
grazie alla possibilità di vivere in prima persona:
1. un’esperienza fisico-psichica in una tensione continua fra corpo e mente nella duplice dimensione - dal fuori al dentro e dal
dentro al fuori;
2. un’esperienza riflessiva squisitamente mentale-relazionale che
permette di rendere questo vissuto più consapevole, più condivisibile, più pensato e più pensabile.
357
L’esperienza delle grotte ci permetterà dunque di rivivere e prenderci cura del decisivo passaggio fra ciò che accade nella mente di
una persona quando è sola con sé stessa e ciò che avviene quando la
stessa persona entra in relazione con gli altri.
Il pertugio ed il lungo cunicolo che collega il bosco alla grotta
Europa ci permettono la preziosa e unica esperienza dell’immaginare, dell’entrare, dello stare, dell’uscire, e infine dell’essere accolti da
qualcuno che ci attende, come metafora della relazione intra-psichica che si affaccia al mondo delle relazioni inter-soggettive.
Il bosco, con la sua luce, la sua vita micro e macro-cosmica, la
grande caverna Il Buco del Corno ci permettono di fare esperienza
del passaggio lento e complesso da una dimensione intra-psichica
ad una inter-soggettiva. Il bosco e la grande grotta divengono così
metafora del mondo nel quale siamo chiamati a nascere e a vivere. Un mondo significativamente ordinato da un telos che parla di
condivisione, di compartecipazione, di necessità, di desideri, di fragilità, di limiti, di frustrazioni e di gratificazioni; in una parola della
possibilità di sentirci e di essere persone libere, ossia creative. Nel
bosco e nel grande antro della caverna Il Buco del Corno prenderà
avvio l’esperienza della condivisione delle sensazioni, delle emozioni
e dei pensieri vissuti nel cunicolo che ci separava dall’Altro e che ci
rimandava inesorabilmente all’Altro dentro di noi. Venuti alla luce
del bosco, grazie all’accoglienza, alla comprensione, alla gratuità del
gesto di ospitalità e cura, daremo avvio alla condivisione della scrittura, della costruzione di immagini, della meditazione, della lettura.
I passaggi, le cesure, il crinale sono le esperienze che più ci interrogano, come Bion ricordava non è al dentro o al fuori che dobbiamo
porre la nostra attenzione, ma a ciò che avviene sulla barriera di contatto, sul confine, nella zona di passaggio, la dove cura e ospitalità
prendono forma concreta.
Sono dunque le trasformazioni che avvengono sui crinali quelle
che maggiormente ci interessano e ci permettono di mettere in campo trasformazioni sia sul piano del pensiero che su quello dell’azione.
Un racconto iniziato
Alla nascita d’un bimbo
il mondo non è mai pronto.
Le nostre navi ancora non son tornate dalla
Vinlandia.
Ci attende ancora il valico del Gottardo.
358
Dobbiamo eludere le guardie nel deserto di Thor,
aprirci la strada per le fogne fino al centro di
Varsavia,
trovare il modo di arrivare al re Harald Cote,
e aspettare che cada il ministro Fouché.
Solo ad Acapulco
ricominceremo tutto da capo.
Si è esaurita la nostra scorta di bende,
fiammiferi, argomenti, amigdale e acqua.
Non abbiamo camion, né il sostegno dei Ming.
Con questo ronzino non corromperemo lo sceriffo.
Niente nuove su quelli fatti schiavi dai Turchi.
Ci manca una caverna più calda per i grandi freddi
e qualcuno che conosca la lingua harari.
Non sappiamo di chi fidarci a Ninive,
quali condizioni porrà il principe-cardinale,
quali nomi siano ancora nei cassetti di Berija.
Dicono che Carlo Martello attaccherà all’alba.
In questa situazione rabboniamo Cheope,
presentiamoci spontaneamente,
cambiamo religione,
fingiamo di essere amici del doge
e di non avere a che fare con la tribù Kwabe.
Si approssima il tempo di accendere i fuochi.
Telegrafiamo alla nonna che venga dal paese.
Sciogliamo i nodi sulle corregge della yurta.
Purché il parto sia lieve
e il bimbo cresca sano.
Possa essere talvolta felice
e scavalcare gli abissi.
Che abbia un cuore capace di resistere,
e l’intelletto vigile e lungimirante.
Ma non così lungimirante
da vedere il futuro.
Risparmiategli questo dono,
o potenze celesti.
Wislawa Szymborska
4.7.3 Nascimento ama nascondersi
Lorenzo Pezzoli
Quando si pensa al seme nella terra, al bambino nel ventre materno, all’embrione celato nel melmoso insieme delle uova anfibie,
all’ovisacco che chiude e protegge nascondendo le uova dei piccoli
aracnidi, si percorre il tema della sottrazione dello sguardo, del
nascondimento, della mancanza di visibilità (o della mancata visi359
bilità) che ogni nascita presuppone e fa sperimentare: che fa sperimentare a chi nasce e a chi attende quella nascita, che sia nascita
fisica o attesa del cambiamento e nascita ad una vita diversa. Non
è sottratto agli sguardi il tossicodipendente che viene collocato in
una comunità, o il vecchio depositato nelle moderne e attrezzate,
ma celanti, case per anziani?
Un mistero, quello del processo del nascere, che amplifica la
dimensione immaginativa, che stimola l’interpretazione, che sollecita la trepidazione e l’attesa, ma a volte anche lo scoraggiamento e lo sconforto perché come nella gestazione, il momento della
sottrazione allo sguardo è in bilico tra la vita e la morte, allo stesso
modo ogni momento che consentirà poi la venuta alla luce è capace di involvere e riportare il nascituro allo stato del non essere. La
delicatezza dei momenti di passaggio e gestazione della nascita e
dei cambiamenti nella vita è confermata dai naufragi frequenti che
ci possono essere in questo periodo, avvenimenti possibili quando
il soggetto è in questa fase dove la fragilità si accentua e con essa
la vulnerabilità. Periodi come l’adolescenza ma anche il passaggio
della mezza età o l’attraversamento del confine della vecchiaia rappresentano tutti momenti di particolare attenzione. Come nella
gravidanza, quelli citati, sono periodi delicati, un po’ sospesi, pur
avendo anch’essi una loro consistenza e strutturazione.
Le nascite, tutte, presuppongono un periodo preparatorio che
corrisponde generalmente ad una invisibilità e ad un nascondimento. Fino a che il soggetto non ha una preparazione sufficiente per venire alla luce, e il concetto stesso di “venire alla luce” è
un’immagine bella e vera, del processo di disvelamento dopo la
nascita, finché il soggetto non ha una preparazione adeguata “alla
luce”, non nasce. Questo tempo è in relazione alla storia della specie a cui appartiene il nascituro: un lasso che si è strutturato nel
tempo in funzione del contesto, delle capacità genitoriali, delle
risorse dell’individuo. Un venire alla luce che mi piace affiancare
a un’immagine usata per descrivere l’adolescenza, come tempo dei
molti debutti, dalle molte nascite.
Vorrei iniziare questo excursus sul tema della nascita declinato
attraverso le immagini delle grotte, del sottosuolo, della terra e del
profondo, partendo dalla massima eraclitea tradotta in modo a
360
mio avviso mirabile da Giorgio Colli167 con “nascimento ama nascondersi”168. Una traduzione che interpreta il greco, generalmente
tradotto con “natura”. Colli lo rende con la parola piuttosto arcaica
di “nascimento”, orientandolo in questo modo ad esprimere bene
la condizione della gestazione: quel tempo sottratto agli sguardi,
tempo di “maturazione a sufficienza”, dell’embrione nell’attesa che
si formino le risorse minime affinché l’organismo possa affrontare
il fuori, possa venire alla luce e incontrare la luce.
Certo che oggi, con le tecniche di visione attraverso i tessuti
organici, con una accentuata necessità clinica, voyeuristica, di controllo e previsione, ma anche necessità economica, assicurativa,
ansiolitica: vedere diventa un fattore rassicurante, anche se poi la
rassicurazione è in rapporto a ciò che si attende e a ciò che si vede
oppure che ci viene detto essere visto; una necessità, quella di vedere e di visibilità, che caratterizza il nostro tempo e che non sempre
è motivata da logiche propriamente stringenti. La discrezione pudica che lo sviluppo al suo cominciare pretende, che l’origine delle
cose chiede, l’intimità celata del nascere della vita che la natura ha
disposto sottratta agli sguardi, conosce oggi un’esposizione agli occhi (non sempre discreti) che può diventare intrusiva, violatrice di
un tempo che richiede affidamento all’invisibile, fiducia e attesa:
un tempo attinente al buio, allo scuro, al mistero. Proprio l’erosione della capacità di attesa ci fa tutti più voyeur, guardoni in ricerca
di rassicurazione, conferma, controllo, si diventa tutti insofferenti
perché, ostinati, pensiamo che il vedere è controllare e che il controllo garantisce il risultato.
Ciò che nasce, dice il filosofo di Efeso, ama nascondersi: ama
non farsi vedere, celarsi, sottrarsi agli occhi altrui. Nascere è un’opera d’arte, a qualunque età avvenga, perché non si nasce solo
dopo la propria generazione organica, e ogni nascimento ha un suo
tempo embrionale dove ci si sottrae allo sguardo altrui come a radunare i pensieri, a sistemare le percezioni, a ridefinirsi per arrivare
167
Giorgio Colli (1917-1979) studioso, filologo, pensatore, attivo a Pisa
alla cattedra di filosofia antica, ha scritto numerosi testi e saggi.
168
Eraclito, frammento 123 DK. Traduzione proposta da Kirk e M. Marcovich: la reale costituzione di ciascuna cosa ha l’abitudine di nascondersi. Traduzione proposta da G. Giannantoni: la natura delle cose ama celarsi. Traduzione
proposta da G. Colli: nascimento ama nascondersi.
361
(o tornare) alla luce e alle relazioni, una volta pronti. Un processo
che richiama la nigredo degli alchimisti: quella fase di oscurità dove
la materia si dissolve putrefacendosi che consente successivamente
di passare alla seconda fase alchemica che è rappresentata dall’albedo dove la sostanza si purifica e può infine accedere alla rubedo. Punto di partenza per la trasformazione è quindi il passaggio
nella nigredo, nel nero, nel buio come quello del sepolcro, dove si
cala il corpo del defunto, grembo simbolico di una nuova nascita,
nella terra che lo copre sottraendolo alla vista; anche qui si tratta
di un’uscita dallo sguardo dell’altro, come per la gravidanza, una
perdita di visibilità che prelude (e spera) ad un’ulteriore e misteriosa nascita. Se è vero con Eraclito che nascimento ama nascondersi,
anche nel processo della deposizione del defunto nel grembo della
terra si allude in qualche modo ad una nascita che ciascuno può
interpretare come preferisce, ma che certo richiama la gestazione
uterina del venire alla luce attraversando lo scuro della gravidanza.
Vi è ancora una lettura della citazione del filosofo efesino, quella
data dal francese Conche che aggiunge, a mio parere, un elemento
di riflessione sul tema del nascere e dell’occultamento, specificando che la natura eraclitea è “una natura artista” e come l’artista la
natura mostra la sua produzione celando le leggi della sua produzione, “c’est-à-dire la nature même en tant que naturante”169. La
“natura” non è l’essenza ma “un processo essenzializzante, la cui
dinamica resta nascosta, e che si manifesta solo negli effetti”170.
Per cogliere le dimensioni del nascere dunque, per accostarsi
con maggiore consapevolezza e comprensione a questi territori
complessi e delicati, forse è di aiuto accingersi ad incontrare le
dimensioni del profondo tellurico, quel luogo da dove, fin dall’antichità originano tutte le cose.
169
M. Conche, Heraclite. Fragments, Paris, 1986.
170
V. Ando, La physis ama nascondersi : la natura arendtiana di Eraclito.
362
4.7.4 Vivere sotto terra
Graziano Martignoni
Sfondare la parete nera
Rompere in alba la sera
È il sogno del morituro?
Il voto del nascituro?
Giorgio Caproni
“Vivere sotto terra” potrebbe semplicisticamente richiamare il desiderio di un ritorno verso la terra-madre delle origini o una risposta
fantascientifica alla catastrofe imminente, tuttavia è forse necessario andare al di là di tutto ciò per comprendere ciò che ci attrae e ci spaventa
nell’idea di buco, caverna, grotta. L’uomo è uno strano acrobata tra il
cielo e la terra, abbagliato dalla luce che lo ha chiamato alla vita e angosciosamente sedotto dal buio che lo ha generato, esposto a quella che
l’antropologo Ernesto de Martino ha chiamato l’“angoscia territoriale”,
ovvero alla vertigine, all’angoscia di chi è continuamente sottratto al
proprio stare. Uno stare sempre in bilico, scivoloso e sospeso. La nostra
identità, abita così, soprattutto nei momenti di passaggio, nei momenti
delle nostre innumerevoli “nascite”, tra la spinta al volo e la necessità
di una sorta di miniaturizzazioine della realtà da poter facilmente controllare senza i rischi di esposizione all’inconsueto, una sorta di mondo
ridotto alle misure di un piccolo spazio delimitato, come nelle Schneekügel, capace di racchiudere tutto il mondo. Come per Hölderlin la
sola vera casa è il paese natale, non tanto la terra del padre, che è tempo
del viaggio, ma quella della madre, di cui si vuole ricordare il tepore
accogliente, quell’“heimliches Dunkel” che ricorda la tana dell’animale,
evocato dal poeta e che ha il potere di curare tutti gli affanni del mondo
e dell’esilio.
Non è forse da scordare qui, ad esempio, quella che venne chiamata
la “malattia degli svizzeri” che lo studioso basilese Johannes Hofer nel
1678 descrisse parlando dei disturbi che affliggevano i soldati mercenari svizzeri mandati a combattere lontano dal paese. Una malattia che
venne poi chiamata Heimweh, nostalgia. Una malattia dell’idea di spazio, di confine, di territorio oltre al quale diviene difficile mantenere a
lungo un’identità, che è forte nella caverna-villaggio-patria, ma debole,
sempre più debole nel vasto mondo, a meno di riprodurre nell’altrove
tante piccole “case miniaturizzate”, che cancellano la lontananza, come
nei villaggi vacanza, illusorie caverne del tempo libero, conchiglie pro363
tettive verso la incertezza e la ricchezza del mondo.
La figura della caverna è antica quanto il mondo. È difficile dare
conto delle sue molte significazioni, che attraversano tutta la storia di
Occidente. Dalla grotta di Demetra, di Dioniso o di Mitra, luoghi dei
culti segreti, delle pratiche iniziatiche, a quelle di preghiera eremitica,
sino a quelle più vicine a noi raccontate dal Cervantes, da Hugo o da
Virginia Wolf o ancora sino ai bunker antiatomici delle nostre case, la
caverna è luogo di rifugio, di riposo tranquillo e nello stesso tempo di mistero, di stupore e di fascinazione. La caverna da sempre attrae e allo stesso
tempo impaurisce. È luogo della reclusione, del segreto, della chiusura
dal mondo da cui potere guardare senza essere guardati e contemporaneamente pertugio verso un altro mondo. Come molti luoghi sin
dalla antichità appartiene all’aura del sacro anche se la banalizzazione
a cui è oggi sottoposta la riduce spesso a figura del kitsch. Eppure essa
appartiene al destino dello stare dell’uomo nel mondo. Quando si dice che
l’uomo abita il mondo oscillando tra il sentimento di proprietà e nello
stesso tempo di esilio, si racconta in poche e quasi sin troppo ovvie parole il destino di noi tutti dalla “primitività” sino alla “modernità”. Un
destino di estraneità, di non appartenenza, che obbliga l’uomo da sempre alla conquista e alla difesa rispetto a ciò che lo circonda e che segna
una rottura radicale, che la metafora della “cacciata” dal Paradiso Terrestre della Genesi o di molti altri simili racconti, narra. L’evocazione
della caverna si coniugava allora a quella del deserto, fondanti sul piano
individuale e collettivo una sorta di geografia immaginaria dell’anima,
che perdura in varie forme lungo tutta la storia di occidente e abita il
mondo psichico dell’uomo ieri come oggi. Una geografia capace di
segnalare quella lacerazione iniziale, quella necessità ineludibile di trovare “casa”, un “chez-soi” in cui, come scrive Michel Harr, “demeurer
veut dire aussi durer”. Non per nulla nei momenti in cui sembra che il
durare di un individuo o di un popolo sia messo a rischio, il richiamo
della caverna, del ridotto, della chiusura che costruisce confini, norme
di inclusione-esclusione, forme di eterofobia torna forte sulla scena politica e sociale. Vi sono allora tempi della storia e forse società più aperte
alla luce e alla immensità perturbante del deserto, che è anche luogo di
incontri, di contaminazioni e di mescolamenti e al contrario società
più preoccupate del rifugio, del luogo segreto ove conservare la propria
fragile ricchezza, la propria paura di fronte al mondo con la separatezza
e la illusione della incontaminazione. Che ne è in questo nostro tempo
364
di migrazioni e di nomadismo dell’idea di “casa”?
L’immaginario collettivo, ad esempio, che sino a poco tempo fa nutriva l’identità nazionale non era fatto solo dalla seduzione del segreto,
forma estrema della privatezza, o dalla paura ma pure da quel sentimento di superiorità, che animava e proteggeva lo svizzero di fronte
al mondo nell’illusione di essere un ammirato “Sonderfall”. I “sogni”
di una nazione, non dimentichiamolo, sono racchiusi spesso nella sua
mitologia quotidiana e tra questa certo un posto particolare occupa
la figura della caverna-rifugio. Ma non solo. La Svizzera immaginaria
è anche la ricerca quasi maniacale della pulizia (il verde più verde dei
prati) e dell’ordine, la puntualità (la patria degli orologi) o ancora della miniatura. Sintomi di un rapporto difficile tra la nostra “casa” e il
mondo, in cui si nasconde e si coltiva il “sogno” di un paese che vuole
rimanere nello stesso tempo il “centro del mondo” e così mantenere l’illusione dell’assoluta controllabilità della vita e in ultima analisi
dell’estrema controllabilità della morte. E se la Svizzera attraverso il suo
immaginario che perdura oltre la realtà fosse proprio un tentativo di
“tenere a bada” la morte e le tante caverne, bunker, caveau del nostro
paesaggio quotidiano l’ultimo rifugio? 4.7.5 Grotte e acque dormienti come metafore
del vivere e del morire
Graziella Corti
Acqua silenziosa, acqua oscura, acqua dormiente,
acqua insondabile
altrettanti esempi materiali per una meditazione
sulla morte.
G. Bachelard
Riflettendo sull’incontro fra immaginario e materia, Bachelard ci
parla dell’acqua171 che occupa un posto centrale nelle nostre preoccupazioni e con la quale, come esseri umani, intratteniamo una relazione inscindibile. In ogni orizzonte culturale il contatto con l’acqua
è di tipo reale e quotidiano, ma anche immaginario; creiamo dei
simboli e dei significati attorno all’acqua, pensati nella loro relazione
171
G. Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita,
Red, Como, 1992.
365
con la vita e la morte, con i bisogni dell’anima e con i riti di passaggio che accompagnano la nostra esistenza.
Il modo di nominare e di rappresentare l’acqua rispecchia una
molteplicità di preoccupazioni e di credenze. Si tratta di un immaginario complesso perché l’acqua ci appare sotto aspetti multiformi
(corrente, dormiente, dirompente, purificante, nascosta) e il suo
carattere liquido costituisce un segno di ambivalenza, di metafora
fragile: può raffigurare il movimento o la staticità, il gioco e lo specchio, la purezza e l’oscurità, la vita e la catastrofe.
L’acqua è forse un simbolo di totalità nella frammentarietà del
mondo odierno?
L’acqua degli stagni, delle paludi o delle grotte suggerisce l’idea
dell’oscurità, di fondo melmoso, dove si nascondono piante o animali in putrefazione. È luogo inesplorato, maleodorante, talvolta
profondo, insidioso, dominio del mondo naturale e del mistero.
Queste acque, sulle quali galleggiano le foglie cadute dagli alberi,
sono dette “acque morte” e suggeriscono un senso di malinconia.
Sono rappresentate come acque sterili, in contrapposizione a quelle
vive dei fiumi e delle correnti.
Sul fondo di un’acqua tranquilla s’intravedono, però, segni di
vita: un pullulare di insetti, pesci, piante acquatiche e talvolta fiori
e radici. Queste acque richiamano allora anche l’idea della densità
e della fecondità. Le conoscenze attuali della paleontologia permettono, infatti, di pensare l’apparizione della vita, alcuni miliardi di
anni fa, nel fondo degli oceani e questi primi esseri viventi vegetali
occuparono in seguito le terre emerse. L’origine della vita è quindi
da pensare nel suo legame con la presenza dell’acqua sulla terra. Le
nostre vite singole iniziano pure nell’acqua; durante la gestazione
navighiamo verso la nascita immersi per nove mesi nel liquido amniotico, che ci protegge e ci nutre. L’acqua ci riconduce alla figura
della madre che accoglie la vita, ma anche a quella del padre nella sua
forza creatrice. Nell’immaginario dell’acqua dormiente si intreccia
un legame tra la vita e la morte fortemente marcato anche in altri
periodi storici e in altri spazi culturali.
Confronteremo rappresentazioni di epoche lontane - osservando
le immagini dei riti preistorici delle grotte di Lascaux - o di altri
ambienti sociali - come quello dell’etnia Bamanan (Africa centro settentrionale) dove si tingono i tessuti bògòlan con la terra delle acque
366
degli stagni e l’immagine delle figure degli antenati.
Scopriremo come attraverso l’immaginario legato all’acqua e alla
profondità delle grotte, si possa ricostruire la metafora della nascita,
della morte, dei legami con la società e con gli antenati.
Questo testo evoca con il linguaggio della poesia aspetti che incontreremo parlando delle metafore dell’acqua.
L’acqua
Sulla mano mi è caduta una goccia di pioggia,
attinta dal Gange e dal Nilo,
dalla brina ascesa in cielo sui baffi d’una foca,
dalle brocche rotte nelle città di Ys e Tiro.
Sul mio dito indice
il mar Caspio è un mare aperto,
e il Pacifico affluisce docile nella Rudawa,
la stessa che svolazzava come nuvoletta su Parigi
nell’anno settecentosessantaquattro
il sette maggio alle tre del mattino.
Non bastano le bocche per pronunciare
tutti i tuoi fuggevoli nomi, acqua.
Dovrei darti un nome in tutte le lingue
pronunciando tutte le vocali insieme
e al tempo stesso tacere - per il lago
che non è riuscito ad avere un nome
e non esiste in terra - come in cielo
non esiste la stella che si rifletta in esso.
Qualcuno annegava, qualcuno ti invocava morendo.
È accaduto tanto tempo fa, ed è accaduto ieri.
Spegnevi case in fiamme, trascinavi via case
come alberi, foreste come città.
Eri in battisteri e in vasche di cortigiane.
Nei baci, nei sudari.
A scavar pietre, a nutrire arcobaleni.
Nel sudore e nella rugiada di piramidi e lillà.
Quanto è leggero tutto questo in una goccia
di pioggia.
Con che delicatezza il mondo mi tocca.
Qualunque cosa ogniqualvolta ovunque sia accaduta,
è scritta sull’acqua di babele.
Wislawa Szymborska
367
4.7.6 La Terra e le sue aperture
Lorenzo Pezzoli
La grotta è la maggior parte delle volte la
realizzazione di un paesaggio, il ricovero più
misterioso verso cui conducono le foreste
e le montagne.
Ludwig Tieek
Ci sono realtà che hanno una loro forza naturale, scenari che
si impongono all’indifferenza dello sguardo poiché guardano a
loro volta interpellando l’osservatore. Forse perché l’occhio vede il
mondo in quanto ne percepisce la minaccia172, o perché il vedere
stesso diventa una minaccia poiché fa conoscere e la conoscenza è
emblema del processo mentale della chiarificazione”173. Dal giardino dell’Eden il peccato provoca una visione, quella della nudità,
ma anche la percezione di uno sguardo, quello divino, “aprendo gli
occhi l’uomo vede uno Sguardo che lo guarda”174. Questi luoghi,
fascinatori dell’uomo arcaico così come dell’uomo moderno, diventano punti di incontro e spazi di ascolto affinché l’anima abbia
ancora voce e orecchio. Molte cose parlano alla testa, altre interloquiscono con frammenti della persona con suoi aspetti parziali,
poche cose catturano interamente l’interlocutore come le cavità
della terra che in un bosco si aprono improvvise realizzando, come
scrive il romantico Tieck, un paesaggio. Bachelard immaginava la
caverna fissare il sognatore “con il proprio occhio nero”: Loti, nei
Vers Ispahan è ugualmente evocativo, “…a mano mano che ci allontaniamo i buchi neri degli ipogei sembrano perseguitarci come
sguardi di morti”.
Succede dai racconti più antichi della storia: lo sprofondamento
fa mutare sguardo, un’operazione che si perpetua anche nei racconti più recenti, come il citato Viaggio al centro della terra, ma
anche presente in uno dei libri de Le cronache di Narnia. Nella
sedia d’argento infatti i due ragazzi protagonisti per la prima volta
172
J. Clair, Medusa, Abscondita, Milano 2013.
173
Ibidem, p. 27.
174
Ibidem, p. 26.
368
non compaiono più i fratelli Pevensie, devono liberare il principe
Rilian rapito da una strega che lo ha ammaliato e, neanche a dirlo,
con lei sprofondato nel sottosuolo. È qui che i due ragazzi scenderanno a liberarlo, scoprendo un universo popolato da varie creature. Sottoterra si scende anche nella saga tolkiana, più volte a partire
da lo Hobbit, dove il sottosuolo è luogo di Orchi e tana di Gollum
ma anche, sotto la Montagna solitaria, di draghi e tesori; scavando
nella terra si trovano ricchezze e meraviglie ma ugualmente si possono scatenare demoni antichi e pericolosi, risvegliandoli dal loro
riposo. Nel Signore degli anelli se ne avranno esempi significativi.
Avvicinarsi all’universo ipogeo può dunque essere fonte di ricchezza e riflessione ma anche motivo di cura e attenzione; il sottosuolo è scrigno di tesori ma anche di demoni che un visitatore
incauto potrebbe risvegliare ma che solo un accompagnatore esperto, o una preparazione adeguata, sarebbe poi in grado di domare.
Contenute le difficoltà e ammansiti i demoni si apre uno scrigno
di sorprese che solo il sottosuolo (fisico e psicologico) garantisce al
visitatore che, al ritorno dal suo viaggio, non può che fare questa
constatazione: “…gli incerti della (…) spedizione ci avevano condotto a una delle più belle contrade del globo”175!
Scendere sottoterra e guardare dentro
επι γαν μελαιναν (sulla nera terra)
Saffo, Ad Afrodite
“Lo spirito delle profondità è imperituro: lo si
chiama la Femmina misteriosa…”
Tao-Te-Ching, IV
La curiosità infantile di guardare cosa sta dentro le cose, a volte
arrivando a smontare oggetti o a romperli nella tipica maldestrìa
dei bambini, l’interesse nel cercare di vedere quali meccanismi li
muovono, è immagine e segno di continuità con quello spirito di
ricerca e curiosità che anima successivamente l’uomo che si rivolge
alla realtà ma, ancora di più, dell’uomo che si orienta con curiosità
a ciò che gli sta dentro, alla sua interiorità. Per Gaston Bachelard
175
J. Verne, Viaggio al centro della terra, radici Bur, 2008.
369
la volontà di guardare dentro le cose rende la vista acuta176 perché
acuta la vista deve diventare quando la luce si affievolisce, quando
incontra scenari sconosciuti, e deve familiarizzare con ciò che è
nuovo e diverso da quanto percepito come familiare e consueto.177
Guardare dentro è dunque un atteggiamento che appartiene all’universo dell’inconsueto, guardare dentro costringe all’inevitabilità
di vedere in modo diverso ciò che sta fuori all’interno esplorato178.
La speleologia, l’andare sottoterra attraverso le cavità che si
aprono sulla superficie, contribuisce a questo incontro e a questa
esperienza con l’interno della terra che, in qualche modo, riorienta
lo sguardo dei panorami geografici della superficie, sguardi oramai
contaminati con l’esperienza del “di sotto”. Un’esperienza che certo non svela tutto ma fa intuire e ridefinisce dimensioni, percezioni di spazi, forme altrimenti familiari e consuete. Si capisce forse
meglio la considerazione di G. Bachelard per il quale “la volontà
di guardare dentro le cose rende la vista acuta e penetrante”, ma
Bachelard aggiungeva anche che questa volontà di guardare “fa
della visione una violenza, scopre la fenditura, la crepa attraverso
la quale si può violare il segreto delle cose nascoste”179. Ci sono
richiami continui quindi tra il procedere introspettivo dell’uomo e
la discesa nelle “viscere” della terra, un isomorfismo tra lo scendere
e il sapere che si arricchirà di elementi e suggestioni se si considerano anche le attribuzioni femminili richiamate dalla “madre terra”:
176
G. Bachelard, La terra e il riposo, ed. Red.
177
Platone, nel Simposio, fa dire a Socrate, rivolgendosi ad Alcibiade:
“Certo la vista della mente comincia a vedere piú acutamente quando quella degli
occhi tende a declinare” Platone, Simposio, 215a-222b in Opere, vol. I, Laterza,
Bari, 1967, pagg. 712-720.
178
Credo che l’immagine costodita nel Museo di Anatomia umana “ Luigi
Rolando ” di Torino, tra l’altro vicino a quello di antropologia criminale di Cesare
Lombroso con il quale i richiami non sono pochi, museo citato come esempio
di museo scientifico di fine Ottocento, ha un che di sconvolgente. Racchiude il
tentativo di dare grazia al corpo aperto, letteralmente spalancato, della giovane
ragazza, accentuando in questo modo il contrasto tra l’eviscerazione didattica e la
grazia del volto e dello sguardo. Elementi che possono aiutare a riflettere su ogni “
viaggio all’interno ” e su ogni ingresso nel profondo, in qualunque interiorità, in
questo caso corporea, incontro che colpisce e a volte sconvolge, dando a chi vede
elementi differenti nell’osservazione e nella considerazione dell’esterno.
179
370
G. Bachelard, La terra e il riposo, Red, Como, 1994.
madre da cui originerebbe ogni cosa secondo molte teogonie. Risalire alla luce diventerebbe così un tornare alla vita, o venire alla
vita, portando con sé l’esperienza delle profondità, come ricorda
con chiarezza e sintesi J. Brun: “…l’alpinismo e la speleologia costituiscono molto più che semplici sport, infatti l’ascensione di una
montagna o l’esplorazione di un baratro rappresentano altrettanti
viaggi iniziatici nel corso dei quali si lancia una sfida alla morte per
sollevarsi fino a un panorama del mondo e per sprofondarsi nelle
viscere della terra dove germogliano tutti i semi”180. Costruire una
didattica ipogea rappresenta la possibilità di richiamare questi isomorfismi tra i significati della terra e delle sue aperture (scendere,
nascere, generare, morire, penetrare, perdersi, ma anche custodire
e proteggere), e l’atto del riflettere, dell’andare in profondità con
il pensiero, dell’accettare il buio disorientante che la ricerca e la
riflessione fanno incontrare prima della luce dell’intuizione. Un
incontro con il mistero che poi accomuna il percorso ipogeo, in un
ulteriore richiamo isomorfico, al nascere, rimando che lo unirebbe
appunto al ventre materno, così come alla tomba e alla cavità. Se la
Terra è madre, il fuoriuscire dalla terra è immagine del venire alla
luce: “…sprofondarsi nelle viscere della terra dove germogliano
tutti i semi”, poiché ciò che precede la nascita e che accomuna la
morte, è una dimensione di invisibilità e di cecità.
“Sprofondarsi nelle viscere della terra dove germogliano tutti i semi”181
Dimorare nella grotta significa cominciare una
meditazione terrestre, significa partecipare alla
vita della terra nel senso stesso della terra materna.
Gaston Bachelard
Il suolo, il sottosuolo, lo scendere e l’emergere, sono binomi
che richiamano tematiche antiche e frequentate sia nei miti che
nelle ritualità (anche in quelle di passaggio), come pure nelle fiabe
e nelle evocazioni popolari che guardano alla terra, al suolo e al
sottosuolo con un occhio particolare, attribuendo a queste dimensioni valenze complesse sia nel vettore dello scendere che in quello
180
J. Brun, in Il vertice e l’abisso, quaderni di Eranos, la simbologia dell’ascesa e della discesa, Red, Como, 1994.
181
J. Brun, ibidem.
371
dell’emergere. Va anticipato da subito che la densità della terra è
ben diversa da quella del mare, dell’acqua in genere e difatti si tratta di due forme differenti di materia la cui costituzione ha portato
anche a modificare il concetto stesso di discesa e salita (o emersione). Se nell’acqua si puo’ facilmente sprofondare, anche nell’acqua
apparentemente familiare della fonte o del laghetto silvestre come
è capitato a Narciso, la terra porta ad un concetto differente. Una
dimensione in cui è la terra ad aprirsi all’accoglienza, a disporre
la penetrazione. Nell’acqua si può sempre scendere (meno scontato salire o riemergere), nella terra occorre trovare i passaggi di
accesso (caverne, spelonche, crepe e gole), o forzare l’apertura con
buche, scavi, che antropizzano il sottosuolo almeno in parte. In
tempi remoti, lo ricorda bene Gilbert Durand nel suo saggio sulle
strutture antropologiche dell’immaginario, “la terra come l’acqua
è la primordiale materia del mistero, quella che si penetra, si scava
e si differenzia semplicemente per una resistenza più grande alla
penetrazione”182.
Nelle due vie del sapere evocate da Platone viene distinta una
dialettica ascendente e una discendente, un vertice e un abisso
come descritto nei quaderni di Eranos e vertice e abisso sono estremità che sia la terra che l’acqua conoscono. Penetrare nella terra
attraverso le sue fenditure porta a incontri dell’altro mondo, ovvero di quel mondo sommerso e misterioso che trova collocazione
“al di sotto” in opposizione “al di sopra” che conduce invece alla
rarefazione dell’aria. La terra non è rarefatta come l’aria, non è
scivolosa come l’acqua che non è abbastanza densa per sorreggere;
la terra sostiene, certo, ma è anche pesante, porta giù, seppellisce.
L’acqua restituisce, rende, riporta a galla, non trattiene il corpo;
l’anima forse sì. La terra no, rende il corpo in un’altra forma, non
più riconoscibile e decifrabile. Ciò che la terra inghiotte, che vi
è seppellito, viene assorbito: la terra lo (ri)tramuta in sé stessa (si
torna terra), lo fa proprio corpo, lo scompone e lo ridistribuisce,
così lo rimette in ciclo. Da qui la necessità degli antichi, ben rappresentata nell’Eneide proprio nella contingenza del viaggio infero
del protagonista, del seppellire il corpo nella terra. La turba misera e insepolta, cioè non restituita alla madre terra dopo la mor182
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari,
1996, p. 231.
372
te, descritta da Virgilio nel canto VI, rappresenta coloro che non
possono essere traghettati dal nocchiero Caronte e che dovranno
attendere fino a quando “le loro ossa avranno riposo nei sepolcri”183. Fra questi Palinuro, nocchiero di Enea, che ricorda bene la
differente sepoltura che offre l’acqua rispetto alla terra, acqua che
non è in grado di dare pace. Palinuro viene ucciso mentre naufrago
cerca di approdare attaccato a uno scoglio. Abbandonato al mare
dice che “ora mi tiene l’onda e mi rivoltano i venti sul lido” e per
questo, visto che la “sepoltura” dell’acqua non dà pace ma continuo rivolgimento e strazio, chiede a Enea la sepoltura: “ricoprimi
di terra” è l’inevitabile invocazione di Palinuro184. L’acqua dunque
evoca dimensioni differenti di quelle della terra che offre al defunto la pace garantendone il ritorno in un ciclo naturale. Una restitutio che permette anche all’anima di poter compiere il percorso
nel profondo della terra, fino là dove risiedono i morti. Il ritorno
all’indistinto, al ciclo cosmico, è stato oggetto di attenzione e riflessione nell’abito psicoanalitico da parte dello stesso Freud, che
svilupperà in età avanzata questo aspetto concettualizzando negli
anni ‘20 l’Istinto di morte.
L’istinto di morte risiederebbe nel desiderio che ha ogni vivente
di ritornare all’inorganico, all’indifferenziato185 e quindi alla terra.
Senza enfatizzare con Freud i due principi libidici fondamentali
(Eros e Thanatos)186, vale la pena conservare l’unità ambigua della libido così come proposto da Marie Bonaparte187 e ripresa da
Marcel Durant: un’ambiguità data dal mutevole dispiegarsi dalla
dimensione erotica a quella sadica o masochistica. E Marie Bonapate, ricorda proprio in questo testo come le ultime sedute con
Freud portarono alla discussione sul tema dell’ambivalenza dell’amore. Un’ambiguità che contraddistingue anche la terra che non
183Virgilio, Eneide, canto IV - traduzione di G. Bonghi
http://www.classicitaliani.it/dante1/eneide6_trad.htm
184
Ibidem.
185
M. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, p. 196.
186
S. Freud, Al di là del principio del piacere, Bollati Boringhieri, 1920.
187
M. Bonaparte, L’amore la morte il tempo - Saggi psicoanalitici su Eros,
Thanatos, Chronos, Guaraldi, 1973.
373
è solo il luogo della nascita, della Madre terra, ma anche il luogo
della depositio, della morte e del ritorno all’indistinto; luogo dell’Eros ma anche del Thanatos. Non si può che evocare, ancora una
volta e non per l’ultima, Gaston Bachelard il quale scriveva proprio che “la grotta è una dimora, questa è l’immagine più chiara,
tuttavia proprio grazie all’invito a sogni terrestri, questa dimora è
allo stesso tempo la prima e l’ultima, essa diviene l’immagine della
maternità e della morte.”188.
La terra è il luogo del riposo189 e mi piace pensare al riposo
come legato al tema del “nero”, dell’oscurità, il buio che placa l’animo; quando cala l’oscuro si può accendere la luce interiore e,
accettando il buio della terra, si accoglie la luce interna. Sempre
Bachelard riferiva che al loro ingresso, sulla loro soglia, tutte le
grotte attivano l’immaginazione delle voci profonde e sotterranee,
“tutte le grotte parlano” dal loro interno, capaci di suggestionare
coi loro suoni dall’interno della terra, siano gorgoglii di acque che
attraversano le rocce ed emergono alla superficie, sia il vento che
produce vibrazioni sonore e correnti: sia lo stillicidio interno che
intermittente evoca universi temporali irregolari, o lo smuoversi
di sedimenti che rammentano la dimensione non statica della terra. Questa “dimora senza porta” come la chiama Masson Oursel,
discepolo di É. Durkheim e L. Lévy-Bruhl, attende il visitatore e
lo confronta con il misterioso mondo dell’altrove sotterraneo, che
è spesso vissuto come un altrove psichico, descritto in molteplici
modi nei viaggi nell’oltretomba dove i protagonisti si introducono
attraverso questi anfratti e pertugi nel “mondo di sotto” che è, appunto, un mondo altro in senso geografico ma anche psicologico.
La catabasi agli inferi di Enea, descritta da Virgilio nell’Eneide,
parte per un viaggio che, oltre che fisico, è psicologico. Un itinerario in un luogo altro che è pure un tempo altro dove si incontra
ciò che è stato e si annuncia o si prefigura in qualche modo ciò che
sarà, il futuro, con una curiosa sospensione del presente. L’ingresso, neanche a dirlo, è da una grotta: “C’era una grotta profonda e
mostruosamente slabbrata / sulla roccia, difesa da un lago nero e dal
188
G. Bachelard, La terra e il riposo, Red.
189
Ibidem.
374
buio dei boschi…”190. Che il viaggio nel mondo dei morti sia un
passaggio chiave del poema virgiliano lo si capisce sia per il contenuto che per la posizione centrale nell’economia dell’opera, posizione che marca un punto di contatto tra una prima parte, legata
alle vicende dell’arrivo in Italia, e una seconda inerente all’arrivo
dei troiani superstiti nel Lazio, con le relative vicissitudini. Il peregrinare sotterraneo di Enea lo porta prima di tutto a incontrare
il Lutto, gli Affanni, le “pallide Malattie” e con esse la “triste Vecchiaia”. Quindi la Paura e la Fame con la Miseria, la Morte e il
Dolore in un catalogo evangelico del male che sta dentro piuttosto
che fuori: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori
dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. “Dal di dentro
infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive:
fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste
cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.
(Marco 7.1-8.14-15.21-23). È l’incontro con il proprio interno
che evoca la discesa dell’oscurità tellurica, ed è in questo “interno” che abitano i mali che possono minacciare l’uomo. Come le
personificazioni Virgiliane della catabasi di Enea, gli interlocutori
del profondo dell’animo umano non lasciano indifferenti e sono
da incontrare per attraversare e poter acquisire una conoscenza più
consapevole del proprio mondo interno. Che sull’esempio di Orfeo si scenda agli inferi, personali prima che collettivi e teologici,
per ritrovare la compagna rapita dalla morte o che si affronti la
Nekia per assolvere all’ultima delle prove come nel caso di Eracle
che deve catturare Cerbero, il cane a tre teste guardiano del mondo
infero, oppure che si sprofondi agli inferi perché solo lì si potrà
consultare il futuro attraverso l’indovino Tiresia e quindi avere
un’indicazione per ritornare a casa come farà Odisseo, o ancora
che si proceda nella catabasi per avere ancora una volta un contatto
con il proprio genitore che la morte ha allontanato, qualunque sia
il motivo del viaggio la via d’accesso è sempre la terra e il percorso
si snoda nel sottosuolo.
In questa collocazione tellurica dei morti, li sentiamo come
190
Virgilio, Eneide, Libro IV.
375
riaccolti in un grembo materno che le rappresentazioni dell’oltretomba del mondo classico rievocano con tratti di continuità
e richiamo. Quasi a evocare la parentela tra la morte e il sonno,
anticamente creduti fratelli, figli della nera Notte191 (nera come
la terra di Saffo e generatrice anch’essa). Così come il luogo della
morte sono gli inferi tellurici, anche il sonno viene collocato in
una grotta, al di sotto della terra. Le relazioni tra la morte e il sonno sono molte, non solo perché il sonno è immagine e richiamo
della morte e, in parte, sua memoria continua nell’abbandono del
soggetto ad esso, ma nel sonno si entra, così come negli ingressi
ipogei ricordati dai viaggi classici nell’oltretomba, in un al di là
che può essere anch’esso contatto con i trapassati. Nel sonno vi è
come un accesso possibile (e quindi un contatto) con il mondo dei
defunti. In esso, come dai viaggi nell’oltretomba, ci si può svegliare profondamente turbati e mutati. Il sonno abita, come rievoca
Ovidio al libro undicesimo nelle Metamorfosi192, in una “spelonca
dai profondi recessi”, sotto una montagna. Una caverna “nasconde
il Sonno pigro”, luogo impenetrabile dal sole e dalla luce, luogo
silenzioso dove “muta quiete domina”. Il richiamo al silenzio come
premessa per l’atto creativo viene ugualmente evocato dal riferimento classico del dipinto di Dosso Dossi193 dove si assiste a Giove
che è intento a dipingere delle farfalle, essere leggero e di breve
vita, che richiama fragilità e volatilità, un po’ come i pensieri. Un
atto creativo che prende tutto il protagonista che è accompagnato
191
Hypnos, dio greco del sonno, e suo fratello, Thanatos, dio della morte, in un dipinto di John William Waterhouse (1849-1917)
192
Ovidio, Metamorfosi, XI, 592 - 649: Nei confini dei cimmeri vi è in un
cavo monte una scura grotta, casa e santuario del pigro dio sonno. Qui il sole non
può mai entrare con i suoi raggi, nè gli uomini con alcun percorso giungono in
quei luoghi; le nubi mescolate alla nebbia sono esalate dalla terra e incerti (sono)
i crepuscoli della luce. Qui gli uccelli crestati non cantano, nè i cani agitati o le
oche rompono con la voce i silenzi: non vi sono greggi, nè ovini con buoi e maiali.
Non i rami mossi dal vento, non le grida della lingua umana invitano al sonno.
Molta tranquillità abita sempre i luoghi. Tuttavia dalla roccia in campagna scorre
un corso di acqua, il Lete, le cui onde invitano al sonno con il mormorio. Da
ogni parte floridi papaveri e numerosi fiori e erbe verdeggiano. Nelle case non vi è
alcuna porta, nessun custode sulla soglia. Ma nel mezzo della grotta vi è un grande
letto con toro eburneo, ricoperto di piume e da una coperta bruna: qui riposa il
dio sonno, vicino al grande Giove. Senza distinzione giacciono i vani sonni.
193
Dosso Dossi, Giove pittore di farfalle - Kunsthistorisches Museum
Vienna.
376
nel quadro da altre due divinità. Il personaggio che arriva trafelato viene solitamente identificato come Iride194, anch’essa a suo
modo una messaggera come il Mercurio centrale, in questo caso
una messaggera loquace, al servizio di Giunone, divinità dell’eloquenza che viene zittita da Mercurio con un gesto esplicito e
chiaro. Oltre all’interpretazione alchemica del dipinto, ambito di
interesse alla corte ferrarese degli Este all’epoca dell’esecuzione del
quadro che raffigurerebbe il volto, in Giove, del duca Alfonso d’Este. Mercurio si appoggia sul cadduceo dorato con il quale poteva
addormentare e ridestare i viventi, potere ben in relazione con il
silenzio. Mercurio, intermediario per antonomasia, è qui tramite
e collegamento, tramite e mediatore tra il personaggio di destra,
l’Eloquenza e il silenzio che prelude la creazione di sinistra.
Dunque il silenzio, come se l’atto creativo che da vita accomuna, con un rimando continuo e costante, al tacere del lutto. Momento che accoglie un ulteriore mistero di attesa e rimpianto, ma
anche di speranza di una nascita nuova e differente. Dove abita il
Sonno si sente solo il rumore provocato dallo scorrere dell’acqua
del rivolo del Lete, “la cui acqua scivola via mormorando tra un
fruscio di sassolini e concilia il sonno”. Ovidio non vuole lasciare
dubbi sulla dimora del sonno e colloca all’ingresso dell’antro “un
manto di rigogliosi papaveri e innumerevoli erbe da cui la Notte
(ecco il richiamo alla comune madre di Sonno e Morte), spreme il sopore per spargerlo, umida, sulle terre immerse nel buio.”. Il Sonno
dorme in mezzo alla grotta su un alto letto d’ebano ed intorno a
lui giacciono i “Sogni vani”.
Ogni personaggio del mito che ha attraversato e visitato il mondo infero è tornato alla superficie con uno sguardo nuovo sulla
vita, il proprio destino, sul passato ma anche il futuro che hanno
risuonato diversamente perché lo sguardo dell’osservatore si è bagnato gli occhi con le acque della morte. Ritornare alla superficie
è un rinascere o meglio, un tornare alla vita con il bagaglio della
consapevolezza della morte. Come da certi sogni che marcano il
passaggio ad una consapevolezza nuova, mutata dall’incontro con
il proprio profondo e le intimità recondite del proprio animo. Il
mondo dell’oltretomba è posto dove vengono deposti i corpi dei
194
L’attribuzione a Iride del personaggio femminile in arrivo alla destra
del dipinto è di Giorgia Biasini che, a sua volta, intera ipotesi precedenti di Berenson (1907: 211) e di Chastel (1984:152-153).
377
defunti, nella terra, sotto la terra, ed è lì che si deve andare per incontrarli ancora. Tuttavia, è anche vero che i propri cari li si incontra nel proprio profondo, nell’intimità del mondo interno. Interno
come le viscere della terra. Nella terra si depongono i morti ma si
spargono anche le sementi affinché possano nascere e germogliare.
Il mondo di Ade è quello anche di Persefone, il luogo dell’ombra
ma anche del sonno, come il sonno del seme che attende di germogliare a cui il mito di Persefone allude e richiama con il suo
permanere nel sottosuolo per tre mesi e per i restanti affiorare in
superficie. Una duplicità di esistenza risolta a livello mitico con lo
sdoppiamento della divinità. Da un lato Persefone (Proserpina),
immagine del grano come semente e dall’altro Demetra (Cerere),
madre di Persefone, immagine del grano maturo195. Come per altri miti, da Iside e Osiride ad Afrodite e Adone anche nel mito
di Persefone il cliché è il medesimo: “una dea piange la morte di
un essere amato che simboleggia la vegetazione, particolarmente
il grano il quale muore in inverno per rinascere in primavera”196.
Quando si scende nella nera terra avviene una sottrazione allo
sguardo altrui, si entra nella dimensione dell’intimità. Il seme che
se ne sta sottoterra, nella nera terra appunto perché sottratta alla
luce: non deve essere visto, non può essere visto altrimenti non germoglierà. Una sottrazione agli sguardi che presuppone il germogliare e che genera trepidazione, fiducia e attesa. Come nel mito
di Euridice che, finita nell’oltretomba per un morso di serpente,
vi rimane proprio perché vista nel luogo sbagliato e nel momento
sbagliato da Orfeo, che contravviene la consegna di non voltarsi
fino al di fuori dell’Averno, fino al ritorno in superficie. Fuori dalla
nera terra. La capacità di attendere, attendere l’altro, rispettarlo
nel momento della sua “germinazione”, quando ancora sta nella
“nera terra” trepidando per la sua resurrezione, dando fiducia che
questa ci sarà, è un esercizio difficile, delicato, denso. Saper aspettare senza disperare, forse questa è la più grande sfida che attende
i professionisti delle relazioni d’aiuto o, più semplicemente, che ci
attende come uomini. Allora il seme che se ne è stato per tutto l’in195
2006.
J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Grandi tascabili economici Newton, Roma
196
Ibidem, p. 448.
378
verno nel nero della terra incontra la primavera e germoglia, come
i Non ti scordar di me che in primavera cominciano a occhieggiare
nei prati. Piccoli fiori che nel loro nome raccontano la stessa storia
di Euridice: “non ti scordare di me” anche quando non mi vedi,
perché non essere visti non coincide con il non esserci. Forse non è
propriamente vero che il seme muoia per dar vita alla pianta ma si
trasforma per diventare pianta facendo cessare (e dunque morire)
una forma di esistenza per darne vita ad un’altra.
La terra e la vita: venire alla luce
O dei che avete il dominio sulle anime, ombre
silenziose e Caos e Flegetonte, vasti luoghi
silenziosi nella notte, concedetemi di raccontare
quel che udii e col vostro consenso rivelare le cose
sepolte nella terra profonda e nell’oscurità.
Eneide, vv. 264 - 267
La cavità per la psicoanalisi è innanzitutto l’organo femminile197, ma la psicoanalisi ritrova nel mondo onirico quello che la
storia ha sedimentato, ritrova una corrispondenza antica tra le
aperture, gli ingressi e la femminilità.
Una corrispondenza, quella tra cavità, porta, fessura e organo
femminile, che è ben evocata nell’istallazione di Duchamp dove si
gioca tra l’apertura del muro, lo scuro che c’è in primo piano e la
luce della lampada da un lato, l’acqua e il chiaro roseo della pelle
della donna distesa dall’altro. Un’opera su cui l’artista aveva lavorato in segreto, negli ultimi vent’anni di vita, e che aveva colpito
una volta scoperta, ma che alla luce del pensiero dell’autore, non
sorprende visto che aveva dichiarato che a lui interessavano le idee
e non solo i prodotti visivi. E di idee l’opera ne ispira, soprattutto
nella relazione tra l’apertura del muro e l’“apertura” femminile198.
Un percorso di corrispondenza che Jung ha tentato a livello etimologico cominciando dalle lingue indoeuropee il significato parte
197
1972.
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari
198
Proprio dall’istallazione di Duchamp, e non a caso, si apre il saggio di
Jean Clair su Medusa evocando gli aspetti perturbanti della mortale tra le Gorgonidi, perturbanti come quello che i latini chiamavano turpia visa su cui Duchamp
lavorava: J. Clair, Medusa, Ascondita, 2013.
379
dalla cavità profonda e arriva fino alla coppa toccando tematiche
femminili. In greco Kurathos significa cavità, il grembo, mentre
Keuthos indicherebbe il seno della terra; l’armeno Kust ed il vedico
Kostha hanno come traduzione bassoventre. A questa radice si uniscono Kutos, la volta, la cantina, Kutis il cofanetto e infine Kuathos
il bicchiere, il calice. Jung, non si limita al percorso etimologico
abbozzato, quanto tenta un passaggio più ardito che è quello di
interpretare il termine Kurios, cioè il signore, nel senso di tesoro
strappato all’antro. Si intenda bene, non solo l’apertura richiama il
femminile quanto la fessura, l’apertura che introduce in uno spazio circolare contenitivo, circolare per lo più con un riferimento
alla prima forma sacra quale è il cerchio, “un’immagine archetipica di rotondità senza spigoli, senza angoli, simile a quella che
il bambino potrebbe percepire quando si trova ancora nell’utero
materno, e simile a quella rotondità che si osserva dall’esterno,
quando si vede il grembo nudo di una donna in stato di avanzata
gravidanza”199. E spazio contenitivo le grotte lo sono: grotte che,
per le loro caratteristiche e per gli elementi riscontati risalenti alla
preistoria, sono state considerate da uno studioso di religioni della
preistoria e di arte paleolitica del calibro di André Leroi-Gourhan,
una rappresentazione del corpo femminile. O meglio, ci terrei ad
aggiungere, dell’interno del corpo femminile facendo risultare poi la
terra come il corpo esterno della Tellus Mater.
Un’altra suggestione che richiama il femminile e l’apertura vaginale, la si trova in un luogo inaspettato e a suo modo sorprendente,
ma con isomorfismi che richiamano le aperture nella terra come fa
la stessa opera di Duchamp. Mi riferisco alla Sheela na Gig: nome
che viene usato per indicare un filone specifico di sculture femminili che mostrano, a volte tenendo aperta, una vagina ingrossata.
Opere di fattura medievale poste sopra alle aperture e agli ingressi di chiese, a volte castelli, note e diffuse nell’area dell’Irlanda e
dei paesi nordici più in genere. Presenze che segnavano, nella loro
controversa determinazione, protezione dal male o dalla morte.
Isomorfe anch’esse con le aperture che proteggevano e che introducevano all’interno di ambiti sacri. Segnando in questo modo, o
rimarcando, il concetto di passaggio: ma non un passaggio neutro,
199
T. Giani Gallino, La ferita e il re, gli archetipi femminili della cultura
maschile, Raffaello Cortina Editore, 1986, pp. 134-135.
380
quanto piuttosto un passaggio che riconduce ad un interno, ad un
chiuso, che ha valenze uterine, di protezione e generatività.
La caverna, la spelonca, la grotta, sono fenditure nella terra,
aperture che dall’antichità hanno richiamato al tema del femminile, del materno in particolare, sottolineando e rafforzando il concetto di madre terra, di terra come archetipo dell’utero materno e,
dunque, con un’identificazione della grotta con il femminile. Vi è
un rafforzamento non di secondo piano di questa associazione ed
è il fatto che le grotte e le caverne sono spesso scaturigini di sorgenti, torrenti sotterranei che vedono la luce, fiumi o stillicidi che
ancora richiamano, da un lato, l’universo materno e, dall’altro, si
associano a figure femminili come Anguane, Fade, Strie o Donne
beate come ricorda Enrico Gleria200 nella sua incursione nelle figure e personaggi che popolano gli ambiti cavernicoli, ma che senza
difficoltà evocano anche sacerdotesse e sibille piuttosto che maghe
o veggenti dell’antichità classica. È come se queste aperture fossero
un punto di contatto, di manifestazione, di incontro non sempre
pacifico e sereno con il femminile.
La terra è femmina prima che madre, come nell’opera di Duchamp, e la femminilità precede certo la maternità, con quelle funzioni insite nella fisiologia femminile dell’accogliere, fare spazio,
generare che marcano le dimensioni psicologiche rendendo possibile la maternità. Come ricorda Miricea Eliade201 nelle religioni
mediterranee la madre terra (Terra Mater) è Tellus Mater ed è lei
che genera e origina ogni essere: dà alla luce, ovvero fa fuoriuscire
dal suo seno che è nero, buio come il sottosuolo o come il ventre
materno della donna gravida. La terra è nera come ricordava Saffo
e che non potrà che essere rievocata per il tema della morte e del
riposo. Ma comunque il “nero” della terra, quando si arriva a maturazione, apre alla luce e si fuoriesce dalla madre incontrando un
universo nuovo. L’uomo è chiamato “nato dalla terra”, e la terra
diventerà alla sua fine il luogo del ritorno in una dimensione di
continuità e coincidenza tra il punto di origine e quello di arrivo.
Ancora Mircea Eliade insiste sulla credenza che le donne diventa200
E. Gleria, Tradizione popolare e grotte nel Veneto: tra realtà e leggenda, in
Orchi Anguane Fade in grotte e caverne, Curatorium Cimbricum Veronese 1992.
201
M. Eliade, Miti, sogni, misteri, Lindau 2007, Torino.
381
no gravide nell’avvicinarsi a determinati luoghi come rocce, caverne, alberi e fiumi in quanto le anime dei bambini penetrerebbero
nel loro ventre. Anime di antenati che ritornano alla luce da un
altrove buio, di attesa, sottratto alla vista, un altrove che custodisce
nel profondo e quindi rigenera. La grotta garantisce l’esperienza
tra un dentro e un fuori, tra un interno attraverso il quale si sviluppa qualcosa che poi, una volta pronto, potrà uscire ed affrontare
il fuori. È la pancia della mamma che contiene e che garantisce la
maturazione sufficiente affinché la persona possa uscire. La corrispondenza tra l’apertura nella terra e la vagina richiama questo
attraversamento tra il dentro e il fuori, e la terra è madre in quanto
permette la fuoriuscita all’esterno.
382
383
384
5. Excipit
385
386
5. Excipit
5.1 Alla scoperta della metafora dell’operatore sociale
Ornella Manzocchi
Nel corso del mio primo anno di attività di docenza presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali della SUPSI, che allora
era denominato Dipartimento di Lavoro Sociale, mi sono ritrovata
a riflettere con alcuni cari colleghi202 sul buon modo per dare avvio
ad un laboratorio di pratica professionale.
Quell’anno avevo anche ricevuto l’incarico della conduzione di un
modulo di approfondimento sull’infanzia.
Mi chiedevo da dove venisse il desiderio di occuparsi della cura
dell’Altro, come riconoscerlo e come valorizzarlo eleggendolo a
vettore trainante nella formazione prima e nella professione poi.
Durante quei mesi mi capitava sovente di riflettere attorno a questi
miei impegni di docenza, con amici e colleghi e durante una di
queste serate conviviali animate dal desiderio di arrivare al cuore della vocazione dell’operatore sociale, una collega mi segnalò il
testo Osservazione e gioco di Maria Maddalena Bisogni. È a questa autrice che sono debitrice dell’idea di avvicinare il tema della motivazione e della identità professionale attraverso l’uso della
metafora. Nel primo capitolo del suo testo afferma “In generale si
può affermare che la percezione del mondo esterno dipende dall’organizzazione del mondo interno e che l’Io maturo sa distinguere ciò che
è reale nel mondo esterno da ciò che è proiettato dall’interno. Per tale
motivo chi si accinge a svolgere una professione che lo mette a stretto
contatto con i problemi altrui, …, ha l’obbligo professionale, scientifico ed etico, di interrogarsi continuamente sul proprio modo di agire
202
Graziano Martignoni, Eleonora Gambardella e Luigi Romeo
387
nella relazione con l’utente.” 203
Al fine di affrontare questo tema Anna Maria Bisogni cita poi brani scritti da alcuni studenti, futuri operatori sociali, attraverso i
quali parlano delle loro fantasie sulla figura e sul ruolo dell’educatore professionale.
Così è nata in me l’idea di avvicinare non solo la dimensione razionale e ragionata, ma anche quella interiore, vissuta e non ragionata, della scelta professionale dei nostri studenti.
Quale strumento poteva venirmi in soccorso? La narrazione, ma
una narrazione breve, sintetica, portatrice di emozioni e idealizzazioni, mediata il meno possibile dalla ragione. Ecco allora prendere
forma la possibilità di usare la forma metaforica.
Con i colleghi abbiamo così deciso di aprire il laboratorio di pratica professionale invitando gli studenti a scrivere una metafora che
illustrasse l’operatore sociale e le sue peculiarità.
La stessa cosa la feci con gli studenti che seguivano un modulo di
specializzazione sull’infanzia, ma chiedendo loro di produrre una
metafora sull’infanzia e una sull’operatore sociale che lavora con
l’infanzia.
Due parole vanno ora dedicate all’approfondimento della metafora in sé, in modo tale da meglio comprendere la scelta formativa
che in questi anni non abbiamo più abbandonato, tanto si è dimostrata foriera di buone indicazioni nonché di apertura riflessiva
con gli studenti stessi.
Metafora etimologicamente deriva dal latino “metàphoram” e dal
greco “metaphorà”= mutamento - derivato da metapheérein = trasferire = portare/phérein oltre/metà.
Si tratta di una retorica grazie alla quale si esprime, sulla base di
una similitudine, una cosa diversa da quella nominata trasferendo
il concetto che questa esprime al di fuori del suo significato reale:
ad esempio “sei un fulmine”, che sta al posto di sei velocissimo
come un fulmine; o ancora “Achille è un leone”, ove leone sostituisce guerriero audace.
La metafora indica il trasferimento di un termine, al quale pro203
pag 21
388
Bisogni Maria Maddalena, Osservazione e gioco, Borla, Roma, 1999,
priamente si applica, ad un altro che con il primo condivide una
somiglianza. È imparentata con l’analogia, con l’esempio, con il
paragone, ma si distingue da essi.
Egli è forte come un leone, è una similitudine; egli è un leone, è
una metafora.
Ecco alcune differenziazioni fra figure linguistiche che ci aiutano
nella costruzione della conoscenza: la metafora è una sostituzione
di un termine proprio con uno figurato grazie ad una trasposizione
simbolica di immagini “le spighe ondeggiano” (si muovono come
se fossero il mare); la sineddoche invece è quella figura linguistica
per la quale una parte sta per il tutto, il contenuto sta per il contenitore, la materia sta per l’oggetto “bere un bicchiere”; la similitudine
si basa sulla somiglianza di forma o di pensiero, come …, così …
La metafora è definita, come afferma Ricoeur, in termini di movimento, di cambiamento di posizione, come indicano il prefisso
“meta “e il termine “fora”. In latino era detta anche traslatio, la
Retorica classica la considerò una “smilitudo brevior”, oggi diremmo una similitudine condensata o ellittica, in cui è sottaciuto l’elemento di comparazione.
L’uso della metafora è essenziale al linguaggio umano in quanto
consente di trasmettere pensieri e concetti altrimenti difficili da
comunicare.
Lo stato d’animo di un ospite depresso si visualizza in metafore
comuni quali: “sono giù”, “il mio morale è basso”, “mi sento a
terra”, ecc.
La metafora è nata, come elemento di studio, d’approfondimento e d’uso, all’interno della Retorica, l’arte antica del bel parlare
e della capacità di persuadere. Il suo uso, inizialmente poetico e
persuasivo, si è esteso nel tempo a tutte le discipline, da quelle
filosofiche a quelle politiche a quelle scientifiche, all’arte poetica,
alla Religione, all’arte dell’insegnamento ed all’uso più o meno sistematico nella cura dei disturbi psichiatrici.
Le metafore che resistono al tempo sono ad esempio le grandi metafore religiose, le metafore ontologiche che riguardano l’Essere,
e le metafore che rinviano agli archetipi. Nella Bibbia troviamo
un linguaggio spiccatamente metaforico. I concetti del Bene e del
Male sono posti secondo una narrazione metaforica. Dicasi altresì
389
dei grandi poemi epici, dell’Iliade e dell’Odissea, della Divina
Commedia, solo per citarne alcuni.
La forza della metafora si è via via amplificata e ad essa sono stati
riconosciuti nuovi attributi e nuove funzioni. Si è così convenuto
che essa non è solo un ornamento del discorso, ma un elemento
essenziale del linguaggio.
Le metafore aprono nuove possibilità alla conoscenza, esse non
solo aderiscono alla realtà - e pertanto non sono prive di senso
- ma ne dilatano gli orizzonti, permettendo di accedere a nuovi
significati.
Nella relazione di aiuto e di cura la metafora può essere utilizzata
come strumento, come mezzo di comunicazione fra l’operatore
sociale e l’ospite, nella misura in cui la sofferenza o la malattia o la
patologia dell’ospite lo permettono.
La metafora è fortemente legata all’apprendimento, già Aristotele
ci insegna che essa attira l’attenzione nel suo andare oltre l’uso
retorico, assumendo subitaneamente e con forza un valore fortemente didattico e cognitivo.
La metafora è dunque legata alla conoscenza e con il passar del
tempo viene vista sempre più come una caratteristica della cultura e del pensiero evoluto. Come a sottolineare che si tratta di
un modo necessario per comunicare e rappresentare la conoscenza
prima del sorgere di nuovi termini astratti.
L’uso della metafora ci permette di superare la contingenza dell’evento per arrivare ad una partecipazione intellettuale più estesa.
Essa funziona come una valida strategia conoscitiva che permette
di rappresentare, riflettere e ragionare sulla realtà. Potremmo dunque affermare che la metafora ha valore emblematico. Essa attiva
processi cognitivi e mentali, nonché emotivo-affettivi, grazie alle
trasgressioni e agli spostamenti semantici e stimola ad affrontare la
conoscenza come un processo di rielaborazione critica e di rielaborazione di vissuti.
È degno di nota il fatto che Piaget ritiene che la metafora non sia
una conquista culturale ed evolutiva bensì un atteggiamento conoscitivo e comunicativo originario del bambino.
Le trasgressioni lessicali della metafora favoriscono l’autonomia,
l’autostima e non da ultimo la competenza linguistica.
390
Grazie alla metafora sia il bambino che l’adulto percepiscono la
realtà linguistica come qualcosa di essenzialmente dinamico e rinegoziabile, in quanto essa ha il potere di cambiare i rapporti fra le
cose e modificare il rapporto con il sapere.
La metafora è un’alternativa personale, nuova, rispetto al modo
“giusto” e consolidato di dire le cose, è improntata alla creatività,
all’autonomia, alla responsabilità.
La metafora permette di parlare delle proprie concezioni del mondo, permette di affrontare i problemi connessi alla propria identità
personale.
Potremmo affermare che la metafora è un atteggiamento nei confronti della vita, della conoscenza, del nostro esistere.
Grazie alla metafora abbiamo esperienza di un allargamento, di
un’apertura di significato e di senso. Infatti la metafora permette
un margine di interpretazione e induce un atteggiamento critico.
In buona sostanza la metafora equivale ad un modo attivo di costruire e di accrescere la propria conoscenza.
5.1.1 La metafora e l’identità dell’operatore sociale
Ora andremo a condividere alcuni pensieri che definirei “pensieri
fragili” che meritano la nostra attenzione per essere coltivati raffinati, ripensati. Questi “pensieri fragili” sono riferiti all’esperienza
umana e specificatamente a quella professionale dell’operatore sociale e sono frutto di una rilettura delle lezioni passate, riguardanti la metodologia della umana presenza dell’operatore sociale. Ci
permettiamo di sottolineare “metodologia della umana presenza
dell’operatore sociale”204 volutamente scelto in luogo del modo di
dire assai più usato “metodologia dell’intervento dell’operatore sociale”. Come a voler sottolineare che l’operatore sociale che amiamo immaginare è chiamato primariamente ad esistere, a dar prova
a sé stesso e di seguito all’Altro, della qualità della propria presenza
e solo in seguito a dar prova della propria capacità di intervenire.
L’operatore sociale a cui ci riferiamo è dunque colui che sa coniu204
Questo lavoro si riferisce all’apertura del laboratorio di pratica professionale e a quella del modulo sull’infanzia, che ho avuto modo di condurre,
congiuntamente ad alcuni cari colleghi, presso la SUPSI, DSAS, a partire dal suo
anno di fondazione sino ad ora.
391
gare capacità riflessive, meditative e capacità di intervento fattivo.
Pensare all’identità significa chiedersi: cosa faccio, come faccio ciò
che faccio, in definitiva chi sono. Ciò porta ad interrogarci riguardo alla metodologia che ci sorregge quando affrontiamo l’esperienza che in questo caso è professionale, riguardante nello specifico la
relazione di aiuto e di cura.
La specificità della relazione di aiuto e di cura, altrimenti detto, la
specificità dell’esperienza professionale in ambito sociale, è quella di avvenire attraverso una “piegatura” che la sottopone a due
principi regolatori. Da un lato il principio della doxa, o altrimenti
detto della ovvietà. Lasciare che l’incontro con l’Altro sia un’esperienza attraversata dalla dimensione della doxa significa incontrare
l’esperienza nella sua ovvietà, nel suo senso comune, significa dunque esporsi “comprendendo e facendo” nell’ordine della familiarità. Ogni incontro di aiuto e cura avviene dunque primariamente
nell’ordine della vicinanza, della somiglianza. Il secondo principio
che guida l’incontro di aiuto e cura è quello dell’interpretazione o
altrimenti detto dell’ermeneutica. Ogni esperienza professionale
ci chiama alla responsabilità di offrire la nostra presenza, il nostro
sguardo, il nostro ascolto e di dire ciò che pensiamo. Il nostro
pensiero altro non è che una interpretazione, una costruzione che
avviene nella contaminazione fra la mia interiorità e la realtà circostante, mediate attraverso un modello teorico di sapere, foriero
di conoscenza.
L’operatore sociale è dunque chiamato ad interpretare il dato ovvio
dell’esperienza umana, il mondo sociale, e per far ciò ha a sua disposizione tre vie. La prima via di comprensione e interpretazione
è quella che ci offre la fenomenologia che ci permette di incontrare
l’Altro come mio simile. Si tratta di un modo di conoscere la realtà
che rende esplicita la relazione nell’ordine della familiarità con le
cose. Questa consapevolezza richiede vicinanza, partecipazione. La
seconda via è quella che ci offre la possibilità di costruire una comprensione attraverso la conoscenza oggettivistica. Questo strumento ci permette di incontrare l’Altro come diverso da me. Si tratta
di un modo di conoscere la realtà che rende esplicite le fratture,
392
le rotture dell’ovvietà delle cose. Questa consapevolezza richiede
la distanza. La terza via di costruzione di comprensione ci viene
offerta dalla modalità prassiologica. Questo strumento permette
di conoscere, modificare, trasformare se possibile, il mondo sociale
attraverso il fare. Un fare che non è mera appendice procedurale
ma appartiene intimamente alla costruzione del mondo sociale.
L’esperienza di aiuto e cura che abbiamo qui tratteggiato appartiene all’avventura del pensiero e del cuore e può essere riassunta nella
metafora del “viaggio partecipante”.
Alla luce di quanto detto proponiamo ora alcune metafore scritte
da nostri studenti al primo anno di formazione. Sono state scelte
andando alla ricerca delle accentuazioni soggettive che essi hanno
esplicitato quale chiaro segnale delle tracce del lavoro della mente e
del cuore, del lavorio che si sviluppa nella cesura fra mondo interno e mondo esterno, del contrabbando che dall’inconscio permette l’affiorare al conscio attraverso le maglie larghe del pre-conscio
delle fantasmatizzazioni e delle rappresentazioni personali riguardo al tema dell’identità professionale.
Scopriamo così che alcuni di questi studenti coltivano l’immagine di un viaggio assai partecipante durante il quale si “sporcano”
nell’incontro con l’esperienza, ne sono contaminati e in questa
contaminazione risiede la possibilità di mantenere in vita l’esperienza senza farsene travolgere e senza a propria volta soffocarla. Di
questa attitudine ci dà prova la seguente metafora:
Gli argini del fiume
L’operatore sociale è gli argini di un fiume, dove l’acqua scorre libera
nella sua esistenza, ma sempre accompagnata e sostenuta nel bisogno,
affinché non si smarrisca durante il viaggio che passo passo la porta
verso il mare.
A volte questi argini sono leggeri e ampi, così l’acqua può prendersi
tutto lo spazio che ritiene necessario, rallentare a volte fermarsi per un
po’ a riposare in una pozza.
Quando necessario però quegli stessi argini divengono imponenti e fermi, perché la sopravvivenza del fiume stesso e anche dell’ambiente che
393
lo circonda è necessario che le acque siano contenute nella loro foga.
L’argine del fiume si “sporca” diviene molle, poi duro, poi di nuovo molle, l’incontro con l’acqua, l’Altro, lo modifica, così come
lui modifica l’acqua sporcandola con il proprio fango, rendendola
cristallina con le proprie pietre ecc. siamo al cospetto di un viaggio
partecipante, acqua e argine formano un tutt’uno, tanto che non
è possibile parlare dell’uno se non in relazione all’altro. Sono distinti e separati ma intimamente connessi tanto che a tratti non si
distingue dove finisce l’uno e inizia l’altro, a fronte di altri tratti in
cui la demarcazione si fa chiara e netta.
Per altri studenti invece affiora alla mente l’immagine di un viaggio
durante il quale prevale la dimensione della distanza, della tecnica
messa al servizio di chi ne ha bisogno. Una distanza che pare garantire la sopravvivenza dell’esperienza stessa. Eccone un esempio:
L’ oceano
Il mare della vita, questo immenso oceano in cui veniamo gettati ancor prima di venire al mondo e di vederne l’intensa luce.
In questo oceano ci siamo noi: le barche, vi sono le nazioni: i traghetti,
gli animali, la natura, la società, tutti con le loro passioni, emozioni,
legami e relazioni. Tutte queste barche, navi, scogli e gocce d’acqua
racchiudono un unico elemento: la vita.
In questo oceano vi sono navi a motore perfettamente e completamente
autonome, nessuna tempesta può cappottarle, nessuno scoglio danneggiarle, se usate correttamente.
Esistono poi anche zattere, barche a vela e gommoni che sono più fragili, più vulnerabili: l’oceano può far loro tremendamente male.
Può esserci una soluzione a questi mali: l’ancora, chiamata anche operatore sociale, essa può trattenerci, stabilizzarci e ci consente di trovare
un maggior equilibrio per poi ridisegnare una rotta che dovrebbe essere
l’ideale per raggiungere, per es., le spiagge californiane dove cavalcare
dolcemente le onde.
L’ancora deve essere affidabile, sicura, rodata, in salute, deve sapere
dove agganciarsi per cercare di aiutare le barche in difficoltà.
Spero di diventare un’ancora sufficientemente buona e affidabile…
394
Qui siamo al cospetto di un viaggio poco partecipante, l’ancora è
dura, resta quel che è per tutta la durata del viaggio. È il barcaiolo,
l’Altro, che osserva, che pensa, che decide quale tipo di ancora usare a seconda del bisogno (per ogni tipo di fondale occorre usarne
un diverso tipo). L’ancora di per sé non partecipa, non si sporca.
Resta quel che è.
Soffermiamoci ora su di un ultimo esempio che ci sollecita riguardo alla messa in scena della capacità di essere intrisi di un pensiero
oscillatorio che imprime alla nostra mente ed al nostro cuore un
continuo va e vieni da distanza a vicinanza, da narcisismo e onnipotenza a limite e impotenza, dalla dimensione della doxa a quella
dell’’ermeneutica, dalla dimensione del pensare a quella del fare.
La capacità di vivere in una dimensione oscillatoria è certamente
una condizione indispensabile, una attitudine alla quale l’operatore sociale non può abdicare, ma della quale deve essere il più
possibile consapevole.
Il pesce e la sua arte
L’arte di saper ascoltare, l’arte di saper cogliere i cambiamenti insiti in
una persona bisognosa, l’arte di parlare e consigliare questa persona,
l’arte di sapere quando dare sostegno, l’arte di tentare di far ritrovare
la strada persa, … tutte queste arti sono bisogni che un educatore
sente di avere.
Esso è colui che si tuffa in un mare pieno di pesci, dove trova l’ossigeno
per respirare grazie ad essi, dove trova la luce che fa splendere il cuore
e il sentimento che sente in esso.
I pesci sono coloro che lo tengono in vita, grazie a loro la sua vita ha
un significato, grazie ad essi si sente utile e soddisfatto.
Se in un momento tutto si fa buio, la profondità del mare sprofonda
nell’oscurità … uno di quei pesci accorrerà in aiuto di quel pesce-educatore che, sentendosi ormai sconfitto, troverà di nuovo un senso di
vita ritornando a nuotare con esso e con tutti gli altri pesci.
Il termine “arte” può significare capacità inventiva, o abilità, destrezza, ma pure astuzia, accorgimento, artificio, e ancora sortilegio, incantesimo.
L’uso di questo termine richiama dunque alla mente la distanza, la
395
rottura, il diverso, chi possiede l’arte è Altro e non Simile. Questa
dimensione metaforica aiuta l’operatore sociale ed è indispensabile nel momento in cui egli oscilla dalla dimensione della ovvietà
a quella dell’interpretazione, del pensiero. Ma questo pensiero,
questa ermeneutica, ha valore conoscitivo solo nella misura in cui
nasce dentro l’alveo della ovvietà, della familiarità. E allora questa
“arte” si trasforma e potrebbe essere definita “capacità” che rimanda alla dimensione più umile ma pure meno collusiva e controversa di idoneità.
In questo esempio sono messi in evidenza pure i due poli dell’onnipotenza rappresentata dal narcisismo “I pesci sono coloro che lo
tengono in vita, grazie a loro la sua vita ha un significato, grazie ad
essi si sente utile e soddisfatto” e dell’impotenza posta in campo dal
limite “Se in un momento tutto si fa buio, la profondità del mare
sprofonda nell’oscurità … uno di quei pesci accorrerà in aiuto di quel
pesce-educatore che, sentendosi ormai sconfitto, troverà di nuovo un
senso di vita ritornando a nuotare con esso e con tutti gli altri pesci”.
In conclusione possiamo affermare che l’operatore sociale deve essere anche un buon trapezista, sapere oscillare sopra una rete di
protezione intessuta di buona identità professionale e di lavoro
d’équipe.
396
5.2 Per un’etica del quotidiano o dell’incontro tra
la Cura e la solidarietà205
Graziano Martignoni
Plus puissant et plus vieux que tout oui et que
tout non, que nous prononcons, l’inquiétant
nous plonge, dès le début, dans son milieu
P. Sloterdijk
Le quotidien, ce qu’il y a de plus difficile à
découvrir
M. Blanchot
Enigme du quotidien qui tient à son
auto-dissimulation
M. Haar
5.2.1 La perdita del quotidiano
Quotidiano, dal latino quotidie, parla del giorno, della vita resa
visibile dalla luce, di ciò che appare ordinario, di ciò che si oppone al
notturno e allo straordinario. Non è però riducibile ad una “regione
del mondo” o alle cose che ci circondano, essa è soprattutto una tonalità affettiva, un modo di rapportarsi al mondo caratterizzato dal banale, dell’ordinario, dal rassicurante206. Il quotidiano e la quotidianità
sono così, come suggerisce Merleau-Ponty, “la prosa del mondo”. “Le
quotidien, scrive Michel de Certeau207, est tout ce qui parle, bruit,
passe, effleure, rencontre”. Il quotidiano è là proprio per non farsi
205
Questo testo è apparso nella Rivista per le Medical Humanities, no. 9,
2008, Casagrande Editore, Bellinzona.
206
Su questi temi cfr. il lavoro di B. Bégout, La découverte du quotidien,
Allia, Paris, 2005 e inoltre M. Blanchot (1969) “La parola quotidiana” in L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino, 1977.
207
M. De Certeau, L’invention du quotidien, Union Générale d’Editions,
10/18, Paris, 1975.
397
notare, per auto-dissimularsi e come ci ricorda Michel Haar, “est
comme le motif dans le tapis de la nouvelle éponyme d’Henri James:
si manifeste partout qu’il en devient invisibile”208. Solo la sua fragilizazzione o la sua perdita ne mostrano la sua profondità, la sua ineludibile necessità. La malattia come malattia della presenza a se stessi, al
proprio corpo e al mondo è testimone di questo inabissamento. La
malattia è la messa in crisi o in catastrofe proprio di questa familiarità
con il quotidiano del nostro corpo, della nostra anima e del mondo.
La Cura è il viaggio accompagnato non tanto per guarire da questo
rischio esistenziale e ineludibile ma per ritrovare un dialogo con la
quotidianità ferita e dolorosa. In questo sta quel “fare anima “ che
appartiene alla Cura di cui parla Keats. Le Medical humanities sono
qui un modo per pensare e nello stesso tempo uno sguardo e un gesto
di quel “fare anima “ che deve abitare, al di là di ogni gesto tecnico,
l’incontro con la sofferenza dell’ uomo. “Contro la minaccia della
contingenza del mondo, il là, contro inverosimile e la dismisura, il
quotidiano costruisce un rifugio familiare, reconfortante con il valore
della necessità”. Le strategie di addomesticamento del mondo con i
suoi dispositivi e codici di comportamento cercano infatti di proteggerci contro le irruzioni dell’indeterminato, dell’incontrollato e dello
straordinario. Il processo di “quotidianizzazione” del mondo ha infatti come scopo quello di produrre un mondo sicuro e familiare e per
questo contiene in sé il confronto, come scrive Patocka209, tra domicilio e terra straniera, tra familiarità ed estraneità. Vi è come una
sorta di disequilibrio tra l’indeterminazione e l’incommensurabile del
mondo e la non stabilità dell’essere, da cui sorge l’inquietudine dell’esistere. Il quotidiano è la difesa nel suo apparire a prima vista abituale,
ovvio, ripetitivo, conosciuto proprio contro quel non potersi garantire una stabilità nell’apertura al mondo. “Le fait de n’être fixé à aucun
monde de l’a priori matériel, de n’être réglé sur aucun monde, de
n’avoir aucune déternimation prévue, donc d’être indéterminé, définit l’homme essentiellement”. Lo stare al mondo si caratterizza
dall’esitazione e dall’istabilità, che è la tonalità affettiva fondamentale
di quel “quasi e mai del tutto” della condizione umana. Quando que208
M. Haar, “L’énigme du quotidien” in Sein und Zeit de Heidegger, Sud,
pag. 214, 1989.
209
J. Patocka, Le Monde naturel comme problème philosophique, coll.
“Phaenomenologica”, 68, pag.76, Martinus Nijhoff, La Haye, 1976
398
sta esitazione diviene incontrollata allora l’uomo sente la prossimità
della catastrofe, che è sprofondamento del quotidiano come un terreno sismico, fissurato in cui cadere, come soglia al di là della quale
abita il nulla. Il quotidiano è una sorta di maschera che è insieme
difesa contro l’illimitato e l’inatteso e “prise sur le monde dans le monde”. La sua destrutturazione nella malattia del corpo e della mente fa
irrompere nella vita l’angoscia umana e sin troppo umana della fine.
Il quotidiano è l’esperienza dell’ovvio, del banale, del già vissuto, è la
casa familiare del nostro essere-nel-mondo eppure contiene qualcosa di
inquietante, che rinvia all’instabilità originaria e annuncia che qualcosa nella sua illusoria stabilità si può spezzare, sgretolarsi dislocarsi
verso l’ignoto trasformando il familiare in estraneità e a volte in alienità. La dove la “domesticazione” dei corpi, del Sé e del mondo fallisce e appare incontrollata la “selvaggità” delle pulsioni inconsce e il
vuoto che nessun senso può più colmare, l’uomo rischia di cadere nel
puro quotidiano, nel là, nell’inumano. La fenomenologia di questa
crisi e/o catastrofe di significato dell’esperienza della quotidianità può
manifestarsi come dissolvenza di significato, come congelamento,
come sospensione o come radicale perdita. In tutte queste forme l’uomo è rinviato alla condizione originaria di esitazione e di incertezza.
“Avant l’opération de quotidianisation, l’être n’etait qu’un peut-être,
une hésitation, une vacillation, una vague aspiration à la fermêté”. Il
mantenimento del confine di Sé permette, attraverso i processi di
soggettivazione e di socializzazione, di sottrarsi all’ illimitato, il lento
processo di formazione della quotidianità210. Ma il quotidiano potrebbe essere come il tempo agostiniano, so bene che cosa sia sino a
quando non ne chiedi una definizione! È il banale, l’ovvio, il normale, là dove sembra non accadere nulla. La malattia come la morte è
allora indicatore antropologico oltre che ontologico di questa condizione basale dell’uomo fatta di esitazione, dubbio, non fissità, indeterminatezza, apertura a ciò che non ci è proprio, di quel “può essere”
e dunque alla fragilità esistenziale della sua stessa conditio humana,
che è il rischio della follia. Noi siamo nel mondo ma il mondo non ci
è proprio. Ogni relazione d’aiuto infatti nasce da una lacerazione e da
210
Si veda a questo proposito A. Schütz e T. Luckmann “The structures
of the life-world” (1073) : “Par le monde de la vie quotidienne il faut comprendere
cette région de la réalité que l’adulte éveillé et normal prend simplement comme allant
de soi dans l’attitude du sens commun”
399
un abbandono. “Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me ?”,
evoca il Salmo biblico. “Eli, eli, lamà sabactani”! A che cosa mi hai
abbandonato, traduce Mechonnic211. L’essere abbandonato, che noi
viviamo nelle vicinanze della follia e del suo sfondamento nel regno
del pollakòs, nell’abbondanza e nell’eccesso dei possibili o nell’esaurimento dei possibili. Nell’esperienza estrema, là dove l’agitazione, la
violenza, l’incontrollabile, il pericolo si scatena, il soggetto perde la
capacità di dire “Io sono”, ma solo “é”. (es gibt, il y a), L’identità sprofonda e il suo normale tremore si cancella nell’agitazione, che è perdita di ogni intermediario, di ogni luogo di contenimento e di presa,
come nella esperienza tragica dell’uomo demente. Non vi è più presa
ma solo abisso, che non è il nulla ma l’abbandono ad un’altra legge.
La legge delle tenebre, di cui il re Lear di Shakespeare dice, con una
stupenda definizione della malattia mentale, “Questo palazzo di tenebre che è il mondo di qualcuno che sente il suo spirito perdersi, smarrirsi”,
e che nessuna classificazione semplicistica riesce a saturare. Il quotidiano richiede un’etica senza la quale è destinato ad inabissarsi nelle
tenebre. Etica rinvia a oikos, casa, dimora, abitudine, ed è intimamente legato alla quotidianità, al personale, al proprio (idios) ma anche alla polis, ad ogni relazione d’alterità. Vi è come una tensione tra
comunità e idios. L’etica è un appartenere e un appartenersi, è un
abitare in una prossimità e nello stesso tempo in una distanza da sé,
dal corpo, dal mondo. La perdita di questo ethos sprofonda l’uomo
nella condizione basale e tragica dell’esistenza. L’uomo è qui consegnato all’apeiron, all’illimitato, al senza forma. Impossibile è allora lo
“stare” nel mondo, la difesa contro il puro accadere. Questo è il quotidiano e il farsi esperienza nella nostra individuale quotidianità.
Smarrire il quotidiano e il sentimento oscillante della quotidianità è
entrare nella alienante esperienza della “perdita dell’evidenza naturale”, di cui scrive Blankenburg212 parlando della psicosi, o nel crepuscolo delle cose e dei nomi della demenza e nell’oscuramento del
“contatto vitale” con il mondo e i suoi oggetti (Minkowski), che da
ordine alle cose. Ma è anche nell’esperienza siderante in cui si rinuncia o ci si difende dal rischio di incertezza esistenziale, che il quotidia211
H. Meschonnic, Gloires, Desclée de Brouwer, Paris, 2002
212
W. Blankenburg, La perdita dell’evidenza naturale, Raffaello Cortina,
Milano, 1998.
400
no contiene, nella sua immobilizzazione ossessiva, nella sua “glaciazione”, di cui parla Resnik213, o nella troppa leggerezza divenuta
evanescenza214. Nei percorsi di soggettivazione e di socializzazione
dell’uomo appaiono processi di “quotidianizzazione” e di “de-quotidianizzazione”, che assomigliano a veri e propri seismi. La malattia è
qui la scena nel corpo, nella mente e nei rapporti con il mondo di
questo alternarsi a volte burrascoso, altre silenzioso tra momenti in
cui predomina la “domesticazione” pulsionale, il governo dei corpi, la
messa in ordine delle cose, che i dispositivi simbolici e socio-politici
permettono, e la loro catastrofe. Una catastrofe, una sorta di seisma,
che racconta una fenomenologia delle rovine. Un seisma del tempo
vissuto e del tempo vitale, in cui il prima e il dopo verranno catturati
dal mero adesso; un seisma del corpo nella dissociazione, nella perdita dei confini o nel sentirsi abitato dal Male; un seisma dello spazio,
in cui si andranno a confondere il qui e il là, il sotto e il sopra e infine
un seisma del mondo in cui si smarrirrà quella fiducia di base, che può
prendere, come scrive Zutt215, la dimensione dell’atrofia della fiducia
o di una vera e propria sua definitiva rottura.
5.2.2 Stare tra i tempi, “une paix armée”
“Il n’y a pas de synthèse, scrive Bruce Bégout, dans la vie quotidienne, il n’y a que des combines, des arrangements, des ajustements, qui ne
perviennent jamais à une concorde finale. La paix quotidienne est une
paix armée”216. Vi è un attimo d’incanto sul finire di una notte stellata, quando l’oscurità lentamente si incontra con i colori dell’alba
appena accennata, quando i neri della notte battagliano con i rosa e
i bianchi per il predominio del cielo. Nell’indeterminatezza di quel
combattimento, nella strana sensazione d’inquietudine e nello stesso
213
S. Resnik, Glaciazioni. Viaggio nel mondo della follia, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
214
A questo proposito cfr. il mio lavoro “Perdita di peso, mancanza di
peso : il paesaggio interno dell’inconsistenza” in Ponzio Pilato o del giusto giudice“
a cura di C. Bonvecchio e D. Coccopalmerio, Cedam, Padova, 1998.
215
J. Zutt, “Ueber verstechende Anthropologie. Versuch einer anthropologischen Grundlegung der psychiatrischer Erfahrung”, in H.W. Gruhle, R.
Jung, et alii, Psychiatrie der Gegenwart, vol. ½, Springer, Berlin, 1963.
216
B. Bégout, op. cit
401
tempo di felicità di quei momenti di attesa è come se stessimo “fra i
tempi”, a volte con gli occhi già attratti da ciò che avverrà, altre con
la nostalgia per le figure della notte oramai trascorsa e irripetibile,
altre ancora con l’anima desiderosa di sfuggire a quelle tenebre, ma
timorosa per la troppa luce che si sta annunciando. È il momento di
fragilità del quotidiano, quando all’alba gli uccelli si fanno muti immobili in attesa. “Noi stiamo tra i tempi”, scriveva negli anni Venti il
teologo tedesco Friedrich Gogarten, parlando del disagio epocale già
in atto. “Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi.
Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine.
Forse non apparterremo una volta al tempo che verrà? … Così ci
troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto … Noi ci troviamo fra i
tempi”. Una condizione che appartiene anche all’ esperienza interiore
di ogni uomo, errante tra i cicli della vita, il mutare delle stagioni, le
mutevolezze delle sue emozioni. Stare tra i tempi significa infatti vivere la quotidianità e nello stesso tempo il suo mutamento. Il nuovo e
il diverso, che accade dentro il quotidiano e turba il sentimento di familiarità con le cose, giunge nello spazio vuoto della nostra “dimora”
come un ospite inquietante, inatteso e spesso nemmeno invitato alla
nostra tavola, apparecchiata secondo le regole di sempre, si mostra
animato da giovanile irruenza, ma anche spesso del tutto indifferente nei confronti di ciò che viene a cambiare. Abbiamo almeno tre
modalità di “navigare tra queste incertezze”. Nella prima il “diverso” e l’individuo riescono a non incontrarsi, anzi si ignorano senza
apparentemente influenzarsi a vicenda. Ogni confronto è evitato o
posticipato a un “domani” infinito per impedire che il mutamento
avvenga. È il tempo di una inerte quotidianità-routine. Nella seconda
al contrario vi è contrasto e confronto, ma animato da paura, aggressività e inibizione: è il tempo di una quotidianità spezzata, ferita e
spesso sanguinante. Una terza possibilità è invece data da un incontro
generativo, dalla capacità di fare quella “rivoluzione creativa”, quella
rinascita psicologica, di stile di vita, di sensibilità, che ogni diversità
dona. Quale di queste tre possibilità sta attraversando il nostro tempo
e le nostre anime? Quando “si sta tra i tempi” è necessario assumere il
“principio di incertezza” come condizione dello stesso “atto creativo”.
La sfida della quotidianità creativa vive in una tensione radicale tra
fondamento e rinnovamento, tra obbedienza (che non è altro che il
“mettersi in ascolto”) e ribellione. La quotidianità ha un rapporto
402
stretto con l’idea di tradizione. Chi la vive come un porto certo e
sicuro, la ritroverà dopo un pò ripetitiva e polverosa e non ne capirà
la sua forza rigenerativa. Sono ancora gli antichi a raccontarci questa
sua forza dirompente. La tradizione, la “turat” è “come l’insistenza
infinita dell’onda sulla spiaggia”, il ritorno e la ripetizione della stessa
onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e
si arricchisce allargando il campo della nostra esperienza della vita. Il
rinnovamento, il “nuovo” abita così nella profondità della tradizione. Lo sforzo sta nel riuscire e non smarrirla nel rumore assordante
delle effimere pseudo-novità di cui è riempita oramai la nostra vita
quotidiana, nella paccottiglia retorica di una tradizione banalizzata
e trasformata in gaget turistico o peggio nel fanatismo di chi non sa
guardare alla “metamorfosi dell’onda” e crede più all’eternità della
pietra che alla leggerezza del soffio di vento. Rinnovare la tradizione
vuole dire ascoltare i segni del nuovo giorno con l’attitudine di quel
“giardiniere”, che ogni giorno sa di dovere separare nel suo giardino
le “buone piante” dalle erbacce. Qui la quotidianità, come esperienza
vissuta, sa navigare tra le onde e nelle burrasche, ma anche sa evitare
di incagliarsi nelle paludi della calma piatta. Rinnovare la tradizione
rinvia a ciò che ha scritto il teologo ortodosso Pavel Evdokimov, “tra
il brusio della piazza e gli incensi del tempio non ci deve essere un
portale sbarrato ma una soglia aperta perché vi scorra il respiro della
vita”. “Stare fra i tempi” nell’anima come nella vita vuole ascolto,
attenzione e accoglienza attiva di quel respiro, vuole dire sentire la
forza generativa e non solo protettiva della quotidianità. La quotidianità vive oramai nel tempo dell’inquietudine. Qualcosa nel sistema
della paura e dunque nelle strategie di difesa individuali e collettive,
che appartengono alla modernità sembra cambiare. Se il sistema della
paura (che è nella società e nello stesso tempo dentro il nostro più
intimo paesaggio interiore) aveva un suo oggetto più o meno delimitato in grado di permettere una frontiera tra il luogo del pericolo e
quello della sicurezza, quello dell’inquietudine, che oggi ci attraversa
come l’aria che respiriamo e a cui sembra dobbiamo abituarci come
fosse un fenomeno naturale, è pervasivo, contagioso, senza limiti o
frontiere. Assomiglia al tetro e sottile rumore di fondo dei passi delle
antiche Parche che mietevano le loro vittime senza ordine, senza possibilità di fuggire. È ovunque e da nessuna parte come quelle bombe
che sul normalissimo treno dei pendolari madrileni ha fatto centinaia
403
di morti. È qualcosa che si nutre della nostra stessa quotidianità, che
vi appartiene pronto al segnale di risveglio a travolgerla, a spietatamente sfigurarla, lasciandoci storditi nella sua apparente insensatezza.
Uno stordimento che oscilla tra frenesia mass-mediatica, che spesso
fa più buio dell’oscurità stessa, e l’indifferenza di qualcosa che sembra
appartenere già all’inevitabile. Se la paura esige nel mondo psichico
individuale così come nella comunità strategie difensive (a volte anche patologiche), l’inquietudine impregna silenziosamente la nostra
anima e la nostra vita indifesa e vuota di parole. Prima di sconfiggerci
definitivamente (nella fatica psichica o nel rischio di sfarinamento
del senso stesso della libertà) ci lascia psicologicamente e socialmente nudi e balbuzienti. Il tempo dell’inquietudine svela drammaticamente la vulnerabilità più profonda dell’uomo, la fragilità del suo
quotidiano, che spesso l’arroganza dei nostri tempi di benessere ci ha
fatto lungamente sottovalutare. Abbiamo pensato che la Ricchezza,
la Tecnologia e persino la Democrazia ci avrebbero oramai protetto
dall’inquietudine del Terrore senza Nome. Un Terrore che dissolve e
distrugge dal di dentro il nostro territorio sociale e che tanto assomiglia al terrore delle aggressioni virali, che distruggono le nostre difese
immunitarie dopo averle “sedotte”. La minaccia nel tempo dell’inquietudine infatti penetra, al di là della barriera costruita dall’ovvietà
del quotidiano, l’intimo, colpendo il corpo, la salute, l’alimentazione,
la sessualità, dissolve l’identità, aggredisce l’ambiente e le sue dimensioni più essenziali, come l’aria, l’acqua, la terra stessa, in una parola
vive e sfigura progressivamente la nostra stessa quotidianità. È capace
di usare la stessa familiare quotidanità per farla divenire straniera a
se stessa e ucciderla. Da qui prendono origine i seismi, di cui ogni
malattia individuale e sociale è testimone.
5.2.3 L’etica della quotidianità: per una quotidianità
solidale
Di fronte alle sfide della quotidianità, stretta tra il tempo dell’inquietudine e l’illusione di una felicità a basso costo, vi è una parola
che assume sempre più la forza di un indicatore di percorso. Questa
parola è solidarietà che lascia pensare ad una sorta di terapeutica della
vita. Molti equivoci però la attraversano. Solidarietà è oramai termine
tanto abusato da arrischiare di perdere progressivamente il suo significato. Ma bisogna essere “anime belle” per essere solidali? La scena
404
politica e sociale di questi anni con il ritorno del fenomeno della povertà su larga scala e con la espansione delle “regioni” della solitudine
e della sofferenza quotidiana di molti uomini, non fa che richiamarne
con forza la sua attualità. Ma di che cosa veramente parliamo quando
parliamo di solidarietà? La solidarietà è solamente disponibilità verso
l’Altro, cancellazione di Sé o è contemporaneamente segreta realizzazione di se stessi, a volte persino delle proprie mancanze? La solidarietà non è allora idealizzazione delle “anime belle”, ma soprattutto
riconoscimento della ambivalenza dell’uomo e delle sue parti anche
oscure. Le parti oscure capaci di creare luce, vera solidarietà? Un paradosso a cui è inquietante ma anche utile pensare. Qui sta la sua
ambivalenza che rinvia al paradosso di ogni atto di amore, che non si
abbeveri alla illusione balsamica dei “buoni sentimenti”. “Colui che
ama, scrive Nicole Jeammet217, non ama innanzitutto occupandosi
degli altri, ma realizzando l’opera per la quale si è sentito destinato
in una apparente indifferenza verso chi gli sta attorno”. Occuparsi
degli altri serve sovente a nascondere che non ci si ama abbastanza,
che una colpa irreparabile ci abita, a non riconoscere l’aggressività
che ci appartiene, invelenendo e manipolando il dono che si offre
con troppa disponibilità all’Altro. A volte si è solidali con l’Altro non
per amore dell’Altro, ma per debito, per colpa, persino per odio verso
se stessi. Una solidarietà autentica si fonderebbe così su una sorta di
“buon uso dell’egoismo”? Se ogni atto solidale si nutre di responsabilità, di libertà, di gratuità, di ospitalità, ad esso appartiene pure il
riconoscimento della propria aggressività e della funzione che svolge
chi è aiutato per acquietare le proprie mancanze. L’amore non è qui
solo un dolcificante sociale ma il costante “campo di battaglia” delle
ambivalenze, che non può espellere il suo Altro (poi da salvare, da
aiutare…). L’essenziale della solidarietà tra gli uomini non sta tanto infatti nella bontà dell’ aiutare, ma nel riconoscimento che anche
l’Altro, il bisognoso, colui che soffre, è nello stesso tempo colui che ci
aiuta in una reciproca interdipendenza. Senza questa interdipendenza, questo soccorrersi a vicenda, questo “amore mutuale” vissuto profondamente e realizzato negli atti non vi è solidarietà ma altruismo
“colonizzatore”. Qui sta il senso più profondo della gratuità, che da
valore ad ogni gesto quotidiano e soprattutto ad ogni gesto di cura.
217
N. Jeammet, La haine nécessaire, Puf, Paris, 1989.
405
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Per ricominciare
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408
Per ricominciare
Negli studi vengono sempre sviluppate le
facoltà discorsive e rappresentative, mai la facoltà
intuitiva. E tuttavia anche questa deve essere
sviluppata. La si sviluppa mediante la
contemplazione faccia a faccia dell’intelligibile ma dell’intelligibile che è al di sopra del
significato, non di quello che è al di sotto.
Simone Weil, Quaderni, III
Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende
Blaise Pascal, Pensieri
Questa pubblicazione collettanea esce in un momento di profonda
trasformazione del nostro dipartimento.
Coincide con la fusione dello stesso con il Dipartimento Sanità in
una nuova entità che prenderà il nome di Dipartimento di Economia Aziendale, Sanità e Sociale (DEASS).
Al di là del cambiamento di nome, l’unione delle tre parti del Dipartimento, quella economico-aziendale, quella sociale e quella
sanitaria, coniuga tre vertici fondamentali dell’esistenza umana,
quello dell’aiuto, quello della cura e quello della dimensione economico-istituzionale.
Per noi in modo particolare si situa nel momento della partenza
della nostra direttrice Wilma Minoggio, che ci ha guidato sino ad
ora.
Tutto ciò significa che la navigazione fin qui affrontata si confronterà con nuove avventure, perché non c’è vera esperienza, anche
didattica e formativa, sia per gli studenti che per i docenti, se non
vi è incontro con il nuovo, con qualcosa che abbia sempre a che
fare con la dimensione dello stupore.
Un buon progetto di navigazione, soprattutto quando vuole af409
frontare viaggi in terre ancora sconosciute, deve però dotarsi di
uno strumento di memoria di ciò che è stato sino a qui fatto.
Una sorta di diario di bordo che valorizzi le esperienze già vissute,
che ne mostri i punti di criticità e che sappia accogliere nella propria mappa di bordo, nuove idee e nuovi progetti.
Questo nostro libro vuole modestamente essere questo diario di
bordo e di memoria.
Questo libro non pone il progetto formativo in una forma chiusa,
non offre ricette didattiche, è soprattutto lontano da ogni “ingegneria” pedagogica, ma sosta nel piacere comune di vedere le vele
del nostro “vascello” prendere il vento e correre lungo l’orizzonte
del mare. Come non ricordare qui le parole di Saint Exupéry nel
suo racconto Cittadella del 1948 “Se vuoi costruire una nave, non
radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti,
ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”.
Ornella Manzocchi, Graziano Martignoni, Lorenzo Pezzoli
Comano, 28 luglio 2014
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Per una bibliografia possibile
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Per una bibliografia possibile
Mappe di navigazione
3.1 Individuo, identità e vita affettiva
Testi di base
PALMIERI C., La cura educativa: riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare. Milano, 2001.
Testi di riflessione sulle “isole” (distribuiti durante il corso)
Testi d’approfondimento
ANOLLI, L., Psicologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 2004.
BETTELHEIM, B., Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1993.
BOELLA, L., Sentire l’altro, Raffaello Cortina, Milano, 2006.
BORGNA, E., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001.
———, Le emozioni ferite, Feltrinelli, Milano, 2009.
DE MONTICELLI, R., L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2003.
———, La novità di ognuno, Garzanti, Milano, 2008.
DEMETRIO, D., Filosofia del camminare, Raffaello Cortina, Milano,
2005.
———, Raccontarsi, Raffaello Cortina, Milano, 1996.
DESTRO, A., Antropologia dello spazio. Luoghi e riti dei vivi e dei
morti. Pàtron editore, Bologna, 2002.
DOUGLAS, M., Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù. Il Mulino, Bologna, 1996.
FABIETTI, U., L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco. Roma, Carocci, 2005.
KAUFMANN, J.C., L’invention de soi. Une théorie de l’identité, Armand Colin, Paris, 2004.
LE BRETON, D., Antropologia del corpo e modernità. Milano, 2007.
415
———, La saveur du monde. Une anthropologie des sens, Métailié, Paris, 2006.
LEDOUX, J., Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare ciò
che siamo, Cortina, Milano, 2002.
LEVINAS, E., Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova,
1985.
MARTIGNONI, G., A chi parlerò oggi, Ritter Edizioni, Lugano,
2004.
———, (ed), L’odio, Passione e furore, Edizioni Alice, Lugano, 1997.
———, (ed.), Navigare l’incertezza, Edizioni Alice, Lugano, 1988.
PLATONE, “Simposio”, in Opere complete, vol. 3, Laterza, Bari,
1971.
SCHELER, M., Il valore della vita emotiva, Guerini e Associati, Milano, 1999 (con introduzione di BOELLA, L., Il paesaggio interiore e
le sue profondità).
SROUFE, A. L., Lo sviluppo delle emozioni, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
VAN GENNEP, A., I riti di passaggio. Bollati Boringhieri, 1996.
Inoltre:
La Bibbia, Genesi; il Vangelo di Luca (la parabola del samaritano).
ALIGHIERI, D., La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI.
ESIODO, le Opere e i Giorni, (il vaso di Pandora).
JOYCE, J., Ulysses, 1922.
PLATONE, X libro della Repubblica.
SANDARS, N. K. (ed.), L’Epopea di Gilgamesh, Adelphi, Milano,
1994.
416
3.3 Identità e alienità
Bibliografia obbligatoria:
Libri:
CAVIGLIA, G. - IULIANO, C. - PERRELLA, R., Il disturbo borderline di personalità, Carocci (Le Bussole), Roma, 2005.
FALABELLA, M., ABC della psicopatologia. Esplorazione, individuazione e cura dei disturbi mentali, Edizioni Maggi, Roma, 2011.
JASPERS, K., Scritti psicopatologici. Esplorazione, individuazione e
cura dei disturbi mentali, Alfredo Guida Editori, 2004.
PEWZNER, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi,
Torino, 2002.
Dossier:
MANZOCCHI, O. (ed.), Le nevrosi, SUPSI-DSAS, 2013/14.
MARTIGNONI, G. (ed.), Letture psicopatologiche, Epistemologia e
clinica, SUPSI - DSAS, 2013/14.
——— (ed.), Le psicosi, SUPSI-DSAS, 2013/14.
———, La parola, l’ascolto e la follia, SUPSI-DSAS, 2009.
MANZOCCHI, O. - MARTIGNONI G. - MILANI E., Il teatro
della follia, DSAS, 2014.
MILANI, E. (ed.), Le organizzazioni limite, SUPSI-DSAS, 2013/14.
Bibliografia generale:
Azoulay, C. - Chabert, C. - Gortais, J., et al., Processus de la schizophrénie, Dunod (Psycho Sup), 2005.
BERGERET, J., La personalità normale e patologica. Le strutture mentali, i caratteri, i sintomi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
Bleuler, E., Lehrbuch der Psychiatrie, Springer, 1983.
417
BORGNA, E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, 2002.
———, Noi siamo un colloquio. Gli orizzonti della conoscenza e della
cura in psichiatria. Feltrinelli, Milano, 2000.
———, Che cos’è la follia?, con CD Audio, Luca Sossella editore, 2008.
———, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 2002.
BOURDIN, D., Les jeux du normal et du pathologique. Paris: Armand
Colin, 2002.
Brusset, B. - Brelet-Foulard, F. - Chabert, C., Névroses et fonctionnements limites, Dunod (Psycho Sup), 2006.
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(Psycho Sup), 2010.
CIVITA, A., Introduzione alla storia e all’epistemologia della psichiatria.
Milano: Guerini, 1996.
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GOZZETTI, G. - CAPPELLARI, L. - BALLERINI, A., Psicopatologia
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neurologia e psichiatria), 2000.
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———, La parola, l’ascolto e la follia, DSAS, 2009.
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———, Traité de psychopathologie, Empecheurs Penser en Rond, 1999.
PEWZNER, E., Introduzione alla psicopatologia dell’adulto, Einaudi, Torino, 2002.
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Oyebobe, Raffaello Cortina, Milano, 2009.
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VACCARINO, G., Scrivere la follia. Matti, depressi e manicomi nella
letteratura del Novecento, EGA Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2007.
Testi narrativi:
AUSTER, P., Follie di Brooklyn, Einaudi, Torino, 2005.
Bauby, J.-D., Lo scafandro e la farfalla, Ponte alle Grazie, Milano, 1997.
BEN JELLOUN, T., Lo scrivano, Einaudi, Torino, 1992.
BERTO, G., Il male oscuro, Collana: La scala, Rizzoli, Milano, 1964.
BRULOTTE, G., Doppia esposizione, Il Sirente (Fuori), L’Aquila, 2008.
CAMUS, A., Lo straniero, Bompiani, Milano, 2002.
CARDINAL, M., Le parole per dirlo, Bompiani, Milano, 2001.
CARRÈRE, E., Vite che non sono la mia, Einaudi (Supercoralli), Torino, 2011.
CECHOV, A., Reparto n. 6., Einaudi, Torino, 1972.
CUNNINGHAM, M., Le ore, Bompiani, Milano, 2002.
DI STEFANO, P., Baci da non ripetere, Feltrinelli, Milano, 1998.
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2011.
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———, Il giocatore, Giunti, Roma, 2007.
———, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino, 2005.
FLAUBERT, G., Memorie di un pazzo, Passigli, Firenze, 2007.
FRISCH, M., Stiller, Mondadori, Milano, 2001.
GOETHE, J. W., I dolori del giovane Werther, Garzanti Libri, Torino,
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GUIBERT, H., Citomegalievirus. Diario d’ospedale, Bollati Boringhieri,
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HASLETT, A., I Il principio del dolore, Einaudi, Torino, 2003.
HESSE, H., Il lupo della steppa, Mondadori, Milano, 1993.
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———, Il processo, Giunti, Roma, 2006.
———, La metamorfosi, Einaudi, Torino, 2008.
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———, Le Braci, Adelphi, Milano, 1998.
MASSON, R., Anime alla deriva, Einaudi, Torino, 2005.
MASTRETTA, A., Strappami la vita, Giunti, Roma, 2008.
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McEwan, I., Espiazione, Einaudi, Torino, 2005.
———, Sabato, Einaudi, Tornio, 2005.
MCGRATH, P., Follia, Adelphi, Milano, 1998.
———, Spider, Bompiani, Milano, 2004.
———, Trauma, Bompiani, Milano, 2007.
MOLIÈRE, Il malato immaginario, Giunti, Roma, 2004.
MURAKAMI, H., A sud del confine, a ovest del sole, Feltrinelli, Milano, 2000.
MURGIA, M., Accabadora, Einaudi, Torino, 2009.
MUSIL, R., I turbamenti del giovane Törless, Mondadori, Milano,
1992.
NOTHOMB A., Biografia della fame, Voland, Roma, 2005.
———, Cosmetica del nemico, Voland, Roma, 2003.
———, Igiene dell’assassino, Voland, Roma, 2001.
———, Metafisica dei tubi, Voland, Roma, 2002.
PIRANDELLO, L., Il fu Mattia Pascal, Feltrinelli, Milano, 2007.
PLATH, S., La campana di vetro, Mondadori, Milano, 2005.
RAMONDINO, F., Passaggio a Trieste, Einaudi, Torino, 2000.
ROHDE, K., La ragazza porcospino, Corbaccio, Milano, 2001.
ROTH, J., La leggenda del santo bevitore, Adelphi, Milano, 1975.
SACKS, O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi,
Milano, 2001.
———, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano, 2005.
SARAMAGO, J., Cecità, Einaudi, Torino, 1996.
———, Tutti i nomi, Einaudi, Torino, 1996.
SARTRE, J.P, La nausea, Einaudi, Torino, 2005.
SCARPA, T., Stabat Mater, Einaudi, Torino, 2008.
SCHNITZLER, A., Fuga nelle tenebre, Adelphi, Milano, 1981.
SERRANO, M., Il tempo di Blanca, Feltrinelli, Milano, 2003.
SIMENON, G., La finestra dei Rouet, Adelphi, Milano, 2009.
———, Memorie intime, Adelphi (La collana dei casi, n° 54), Milano, 2003.
SVEVO, I., La coscienza di Zeno, La biblioteca di Repubblica, Milano, 2002.
SZABÓ, M., La ballata di Iza; Einaudi, Torino, 2006.
———, L’altra Eszter; Einaudi, Torino, 2009.
TOBINO M., Le libere donne di Magliano, 9 ed., Mondadori, Milano, 2001.
———, Per le antiche scale, Mondadori, Milano, 2001.
TOLSTOJ, L., La morte di Ivan Il’ic, Garzanti Libri, Torino, 2008.
420
WERNER, M., A presto, Casagrande, Bellinzona, 2006.
———, Di spalle, Casagrande, Bellinzona, 2003.
WILDE, O., Il ritratto di Dorian Gray, Garzanti Libri, Torino, 2007.
Winckler, M., La malattia di Sachs, Feltrinelli, Milano, 1999.
WOLF V., Gita al faro, Garzanti Libri, Tornio, 2007.
———, La signora Dalloway, Feltrinelli, Milano, 2005.
———, Le Onde, Einaudi, Torino, 2005.
ZORN, F., Marte - Il cavaliere, la morte e il diavolo, Capelli Editore,
Mendrisio, 2007.
Filmografia:
Psycho (Alfred Hitchcock, 1960)
Diario di una schizofrenica (Nelo Risi, 1968)
Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975)
Qualcosa è cambiato (James L. Brooks, 1997)
Rain Man (Barry Levinson, 1998)
Ragazze interrotte (James Mangold, 1999)
A beautiful mind (Ron Howard, 2001)
Spider (David Cronenberg, 2002)
Sybil (Joseph Sargent, 2007)
C’era una volta la città dei matti (Marco Turco, 2010)
Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010)
Inception (Christopher Nolan, 2010)
A dangerous method (David Cronenberg, 2011)
421
3.4 Fenomenologia del gesto di “cura
(psico)-educativa” nelle vicinanze della “follia”
DI MARCO G./NOSÉ F., La clinica istituzionale in Italia. Origine,
fondamento e sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2010.
PALMIERI C., La cura educativa, Franco Angeli, Milano, 2000.
MARTIGNONI, G., La parola, l’ascolto e la follia, DSAS, 2004.
——— (ed.), Spazi di cura del disagio psichico, letture, DSAS, 2009-10.
——— (ed.), Spazi di cura del disagio psichico, letture, prima e seconda parte, DSAS, 2008.
——— ( a cura ) Il mondo psicotico, Letture, DSAS, 2013.
CALLEA, G., Psicosi e pratica istituzionale, Franco Angeli, Milano,
2000.
ROULOT D., L’avec schizophrénique, Hermann, Paris , 2014.
PANKOW G., L’homme et sa psychose, Aubier-Montaigne, Paris, 1969.
PANKOW G., Structuration dynamique dans la psychose, Editions
Campagne Première, 2010.
PEZZOLI L., Le psicosi, Dossier, DSAS, 2014.
SEARLE H., Le Contre-transfert, Gallimard, Paris, 1979.
SCHOTTE J., Le contact, De Boeck-Wesmael, Bruxelles, 1990.
KIMURA B., L’entre. Une approche phénoménologique de la psychose,
Jérôme Million, Grenoble, 2000.
422
3.5 L’origine
Bibliografia obbligatoria per la frequenza al modulo
MARCELLI, D. - BRACONNIER, A., Psicopatologia del bambino,
Masson, Milano, 1999.
MANTOVANI S. - RESTUCCIA SAITTA, L. - BOVE, C., Attaccamento e inserimento, Franco Angeli, Milano 2000.
VEGETTI FINZI, S. - BATTISTIN, A.M., A piccoli passi, Mondadori, Milano, 1994.
GOLDSCHMIED, E. - JACKSON S., Persone da zero a tre anni,
edizioni junior, Parma, 1996.
BOSI, R., Pedagogia al nido, Carocci editore, Roma, 2002.
AMBROSIANO, L. - GABURRI, E., La spinta a esistere, Borla,
Roma, 2008.
———, Pensare con Freud, Raffaello Cortina editore, Milano, 2013.
L’infanzia e le sue problematiche
BERTO, F., I bambini vanno a scuola, Armando, 1997.
BERTO, F. - SCALARI, P., Bambini spaventati, Armando, 1997.
BION, R. W., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, 1967.
BISOGNI, M. M., Osservazione e gioco, Borla, 1999.
CANCIANI, D. - Sartori, P., Crescere con, crescere senza, Armando, 1998.
———, Dire, fare, giocare, Armando, 1997.
HOLDITCH, L., Comprendere il vostro bambino, da 5 a 6 anni. Le
nuove guide del centro Tavistock, Red, 1993.
LEBOVICI, S., La conoscenza del bambino e la psicoanalisi, Feltrinelli, 1972.
LUSH, D., Comprendere il vostro bambino, da 9 a 10 anni, Red, 1994.
MAHLER, M., La nascita psicologica del bambino, Bollati Bor., 1978.
MARCELLI, D., Il bambino sovrano, Cortina, 2004.
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———, Psicopatologia del bambino, Masson, 2000.
MARCOLI, A., Il bambino arrabbiato, Mondadori, 1996.
———, Il bambino nascosto, Mondadori, 1993.
———, Il bambino perduto e ritrovato, Mondadori, 1999.
MARCOLI, F., Brutto è il bello e bello il brutto, IRG, 2004.
———, Il pensiero affettivo, Red, 1997.
MARSICANO, S.(ed.), Elementi di psicopedagogia, Franco Angeli, 2005.
MILLER, L., Comprendere il vostro bambino, da 4 a 5 anni. Le nuove
guide del centro Tavistock, Red, 1993.
———, Comprendere il vostro bambino, da 8 a 9 anni. Le nuove guide
del centro Tavistock, Red, 1993.
———, Comprendere il vostro bambino, dalla nascita a 1 anno. Le
nuove guide del centro Tavistock, Red, 1993.
NEGRI, R., Il neonato in terapia intensiva, Cortina, 1994.
OSBORNE, E. L., Comprendere il vostro bambino, da 7 a 8 anni. Le
nuove guide del centro Tavistock, Red, 1993.
REID, S., Comprendere il vostro bambino, da 2 a 3 anni. Le nuove
guide del centro Tavistock, Red, 1993.
SCALARI, P., I sì e i no, Armando, 1997.
SPITZ, R., Il primo anno di vita del bambino, Giunti, 1962.
STEINER, D., Comprendere il vostro bambino, da 1 a 2 anni. Le nuove
guide del centro Tavistock, Red, 1993.
TROWELL, J., Comprendere il vostro bambino, da 3 a 4 anni. Le
nuove guide del centro Tavistock, Red, 1993.
VEGETTI FINZI, S., A piccoli passi, Mondadori, 1994.
———, I bambini sono cambiati, Mondadori, 1996.
———, Il bambino della notte, Mondadori, 1990.
WINNICOTT, D., Gioco e realtà, Roma, Armando editore, 1974.
———, Il bambino deprivato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1986.
———, La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Roma, Armando editore, 1999.
———, Sviluppo e ambiente, Roma, Armando editore, 1970.
Il triangolo identitario
ARGENTIERI, S., A qualcuno piace uguale, Torino, Einaudi, 2010.
BENINI, A., Che cosa sono io, Milano, Garzanti, 2009.
BERNSTEIN, G. S., Halaszyn J. A., Io, operatore sociale, Trento, Erickson, 1993.
424
BOELLA, L., Buttarelli A., Per amore di altro. L’empatia a partire da
Edith Stein, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.
BRUNORI, P., Peirone M., Poffa F., Ronda L., La professione di educatore, Roma, Carocci editore, 2001.
JOLLIEN, A., Eloge de la faiblesse, Paris, Les Editions du Cerf, 1999.
MARTIGNONI, G. (ed.), Navigare l’incertezza, Comano, Edizioni
Alice, 1988.
PONTALIS, J-B., Limbo - Un piccolo inferno più dolce, Milano, Raffaello Cortina editore, 2000.
VAN GENNEP, A., I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1981.
L’asse della temporalità
CAMPBELL, J., Il potere del mito, Milano, TEA, 1994.
ELIAS, N., Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986.
GALIMBERTI, U., Gli equivoci dell’anima, Milano, Feltrinelli, 2001.
GRAVES, R., I miti greci, Milano, Longanesi, 1983.
JABES, E., Il libro dell’ospitalità, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1991.
LUBAN PLOZZA, B. - MARTIGNONI, G., Inventare il presente,
Torino, Centro Scientifico Editore, 2000.
SEIWERT, L. J., Elogio della lentezza, Milano, Sperling & Kupfer
Editori, 2003.
VIORST, J., Distacchi, s.l., Edizioni Frassinelli, 1987.
Opere da consultare, utili al professionista della cura dell’Altro
A.A.V.V., Psiche, Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Firenze, Einaudi, 2007.
A.A.V.V., Tra femminile e materno: l’invenzione della madre, Franco
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A.A.V.V., Sognare a libro aperto, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
ABBOTT, E. A., Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni,
Adelphi, Milano, 1984.
ARENDT, H., L’umanità in tempi bui, Milano, Raffaello Cortina editore, 2006.
———, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987.
BERMAN, L., La fototerapia in psicologia clinica, Trento, Centro studi Ercikson, 1996.
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BERTOLONE, S. - CORREALE, A. - FADDA, P., “L’identificazione proiettiva nella revisione bioniana”, in NERI, C. et al. (ed.) Letture
bioniane, Borla, Roma, 1987.
BION, W. R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Roma,
Armando, 1970.
———, Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando, 1972.
———, Attenzione e interpretazione, Roma, Armando, 1973.
———, Esperienze nei gruppi, Roma, Armando, 1971.
———, Gli elementi della psicoanalisi, Roma, Armando, 1979.
———, La lunga attesa. Autobiografia 1897-1919, Roma, Astrolabio, 1986.
———, Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita,
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BISOGNI, M. M., Osservazione e gioco, Roma, Borla, 1999.
BLANDINO, G., Psicologia come funzione della mente, Utet, 2009.
BODEI, R., Le forme del bello, Il Mulino, 1995.
BOELLA, L. - BUTTARELLI A., Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.
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440
4.7 Alle grotte della Valle Imagna
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441
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Utilità
443
444
Utilità
Ornella Manzocchi - psicoterapeuta, insegna alla Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) presso il
Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS) e presso la
Fondazione Istituto Ricerche di Gruppo (IRG) di Lugano per la
formazione in Arteterapia, formazione di cui è co-responsabile.
Studia Filosofia con indirizzo scienze dell’educazione e teorie della
personalità, si specializza in Psicoterapia, attività che tutt’ora svolge, è membro dell’Associazione Svizzera di Psicoterapia (ASP); è
membro dell’Accademia di psicoterapia psicoanalitca della Svizzera Italiana (APPSI); è membro fondatore dell’Associazione di Psicologia Generativa (APGSI) della Svizzera Italiana.
Graziano Martignoni - medico, specialista in psichiatria e
psicoterapia FMH, psicoanalista, professore al Dipartimento di
Scienze aziendali e sociali (DSAS) della Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUSPSI); insegna psicopatologia al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Friborgo. Ha
insegnato come professore invitato e a contratto alle Università di
Palermo, Bilbao e dell’Insubria. Responsabile dell’Osservatorio per
le Medical Humanities della SUPSI; vice-direttore della Rivista per
le Medical Humanities dell’Ente Ospedaliero cantonale (EOC); vice-presidente della Fondazione Sasso Corbaro. Collabora da anni
con il Giornale del Popolo di Lugano con una sua rubrica quindicinale dal titolo “Educando”. Interessato agli intrecci e intrighi
psico-antropologici della nostra tarda-modernità e ai fenomeni di
mutazione della soggettività (attraverso il filtro dell’educare e del
curare), oltre alle questioni epistemologiche ed etiche relative alla
Cura.
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Lorenzo Pezzoli - Psicologo e psicoterapeuta, insegna ed è ricercatore presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera
italiana (SUPSI) al Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali
(DSAS) e Dipartimento Sanità (DSAN); membro della Federazione svizzera degli psicologi (FSP) e già vicepresidente dell’Associazione ticinese degli psicologi (ATP), esercita la professione in
studio dal 2000. Ha diretto per 15 anni i Servizi ambulatoriali per
tossicodipendenti prima gestiti dall’Associazione Alice poi dalla
Fondazione Ingrado coordinando le équipe multidisciplinari.
Claudio Mustacchi - docente ricercatore di pedagogia e animazione socioculturale presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e
Sociali (DSAS) della Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI).
Studia filosofia ad indirizzo psicologico e pedagogico all’Università degli Studi di Milano dove si laurea con una tesi sulle dinamiche di gruppo nella formazione internazionale. A Milano consegue
la specializzazione in animazione teatrale alla scuola del Piccolo
Teatro e la qualifica di terapeuta della psicomotricità all’Istituto
Anne Marie Ville.
Ha esercitato le professioni di psicomotricista e animatore e ha
collaborato con l’Ufficio Franco Tedesco per la Gioventù fino al
1991. È poi entrato nel gruppo di ricerca europeo sulla creatività
della facoltà di pedagogia sociale della FHS Amburgo, attività che
lo ha portato a insegnare fra il 1993 e 1995 pedagogia del teatro
nella FHS di Merseburg in Germania dell’Est e a collaborare alle
ricerche promosse dall’Unione Europea. Fra il 2001 e il 2010 è
stato professore a contratto di pedagogia sociale all’Università degli Studi di Milano e di pedagogia dell’animazione all’Università
di Milano Bicocca.
Lorenzo Pellandini - nfermiere psichiatrico, docente presso la
Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) al
Dipartimento di Scienze Aziendali e Sociali (DSAS), coordinatore
Villa Ortensia - unità abitativa del Centro abitativo ricreativo e di
lavoro (CARL) dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale
(OSC).
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Guenda Bernegger - Laureata in Filosofia (Università di Losanna), Master in Medical Humanities (Università dell’Insubria) e
in Teatro Sociale e di Comunità (Università di Torino). Ha svolto
attività di ricerca grazie a finanziamenti del FNS, dell’Accademia
Svizzera delle Scienze Mediche e del Canton Ticino. È vice-presidente della European Society of Aesthetics and Medicine, che ha
co-fondato nel 2005.
Attualmente, insegna etica presso il Dipartimento Sanità
(DSAN) della Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), collabora con l’Osservatorio per le Medical Humanities della SUPSI ed è caporedattrice della rivista per le Medical
Humanities edita dall’Ente Ospedaliero Cantonale.
Graziella Corti - insegnante, studia antropologia all’Università
di Neuchâtel, dove ha ottenuto un diploma DEA con un Mémoire
sulle riformulazioni identitarie dei migranti senegalesi attraverso le
pratiche alimentari. Insegna storia alla Scuola Media di Breganzona e collabora come consulente scientifico per il Museo Etnografico della Valle di Muggio.
Ha ideato due mostre: Parole di terra, parole di ferro (Losanna/
Balerna, 1999) sulle simbologie dei tessuti bogolan del Mali e Forme d’acqua (Cabbio, 2003), uno sguardo antropologico sull’immaginario dell’acqua, curando il testo del catalogo della mostra;
ha collaborato con un articolo al catalogo della mostra L’albero
monumentale (Cabbio, 2007).
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Finito di stampare nel mese di Settembre 2014
Realizzazione grafica e stampa: Diemme srl - Ghiffa
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