“Metà pensione/metà lavoro”, riflessioni in margine alla “staffetta

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“Metà pensione/metà lavoro”, riflessioni in margine alla “staffetta
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“Metà pensione/metà lavoro”, riflessioni in margine alla “staffetta intergenerazionale”
Andrea Gandini
Cds, Unife
L’interesse sulla sperimentazione avviata con la cosiddetta “staffetta intergenerazionale” (che
anche in Emilia-R. verrà sperimentata entro giugno 2014) nasce dal fatto che l’intento
dell’attuale Ministro del Lavoro Giovannini è disporre di maggiori elementi per arrivare ad una
proposta più efficace nel prossimo autunno 2014. Il problema è quanto mai serio in quanto
l’Italia non ha attualmente strumenti adeguati (non solo a mio avviso) per affrontare in modo
efficace le ristrutturazioni aziendali, l’ingresso in azienda dei giovani, l’uscita degli anziani in
modo che sia massimizzato il vantaggio per l’impresa, per chi lavora (senior e junior) e
minimizzato il costo a carico dello Stato/Inps. I modelli tradizionali di ammortizzatori sociali a
carico dello Stato portano invece di solito ad accordi che prevedono: pre-pensionamenti
(specie in passato), cassa integrazione (spesso in deroga a carico dello Stato) e, proprio per
questa ragione, impossibilità di assumere (se non in particolari qualifiche e attività non
esistenti tra i dipendenti in Cig…più facile a dirsi che a farsi). Inoltre la riduzione di persone
porta si a ridurre i costi ma anche a perdere preziose conosce di chi esce per sempre
dall’organizzazione/impresa.
Un modello quindi insieme costoso e di spreco. Quanto prima dobbiamo costruire un modello
meno costoso e più efficiente per tutti.
Dal punto di vista dell’impresa sappiamo bene che periodicamente (ogni 10 anni in media) le
aziende vanno incontro a rilevanti ristrutturazioni che quasi sempre implicherebbero, per
l’efficienza aziendale un cambiamento del mix di lavoratori con una riduzione di lavoro (e di
costo) di alcuni senior (ma senza perdere tutto il loro sapere) e l’ingresso di giovani in attività
innovative.
L’ideale per i senior sarebbe inoltre un passaggio meno traumatico dal lavoro alla pensione,
specie ora che si va verso i 66 anni, con una fase finale per esempio a part-time (ultimi 2-3
anni) in modo da creare gradualmente spazi e tempi per una riconversione post-lavoro
quando le energie ancora ci sono e anche per creare quel “nuovo” che andrà a sostituire il
lavoro e il ruolo full time ricoperto per tanti anni. Per i giovani sappiamo bene come stanno le
cose: l’ideale è entrare full time ed essere aiutati (coach) nei primi passi senza subire
mobbing dai più anziani.
Se non ci saranno interventi significativi in tal senso andrà ulteriormente peggiorando sia la
produttività del lavoro sia il debito pubblico. Segnalo solo alcuni dati poco noti:
a) dal 2007 al 2012 la spesa per Cig (compresa Cig in deroga), mobilità e indennità di
disoccupazione è stata di 79,4 miliardi;
b) l’occupazione totale in Italia è scesa di 382mila unità, ma quella degli under 44 è scesa di
1.745.000 e quella degli over 45 è salita di 1.380.000 unità.
Siamo quindi in un contesto in cui la cumulabiltà totale di stipendio e pensione (che una volta
non esisteva) ha prodotto, pur in una fase di profonda recessione occupazionale un aumento
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di 209mila occupati nella fascia di età 60-64 anni e di altri 44mila unità tra i 65 e i 75 anni. Da
un certo punto di vista è anche la conferma che il sapere aziendale è fortemente detenuto nei
“quadri e tecnici” e tra gli over 50, anche se sono soprattutto i giovani a portare una ventata di
innovazione.
Per questo mi permetto di riprendere una vecchia proposta “ferrarese” emersa a seguito della
grande ristrutturazione dei siti petrolchimici degli anni '80 in tema di pensionamento, partendo
dall'assunto che non solo non debbano peggiorare i conti dell’Inps (anzi, possano migliorare)
ma che si possa anche intervenire a sostegno dei lavoratori anziani nello sviluppare la fase
finale della loro esperienza lavorativa puntando sulla parte a maggior contenuto professionale
delle competenze di ciascuno: rispondendo in tal modo anche alle esigenze di
efficienza/efficacia delle imprese nel continuare a disporre della quota di lavoroprofessionalità migliore del lavoratore anziano, erogata a part-time.
La proposta, infatti, è quella di ragionare attorno all’idea che, ad una certa età/anzianità
lavorativa, il lavoratore possa scegliere una condizione di “metà pensione / metà lavoro” ….o,
comunque, di andare in pensione part-time (ricevendo l’assegno corrispondente),
continuando a lavorare con regime diverso.
Si tratta in sostanza di gestire la parte “finale” dell’attività lavorativa in modo tale che il
lavoratore anziano:
- continui a lavorare, seppure a part time, svolgendo possibilmente la parte a maggior
contenuto professionale dell’attività precedente per la quale è pagato (a metà salario
precedente o anche più, come in genere avviene, ad es., per i rapporti di “consulenza”
che si instaurano con gli ex-dipendenti quando vanno in pensione e ai quali viene
richiesta la parte più professionale della prestazione che sono in grado di fornire);
- percepisca la quota (“metà”) della pensione, in base a quanto ha maturato, in modo
che, assieme al salario per il lavoro part-time che continua a svolgere, possa disporre
di un adeguato reddito, prossimo al salario pieno precedente o alla pensione intera
futura);
- continui ad incrementare la sua quota pensionistica in modo da andare in pensione
con il massimo per lui possibile senza gravare sull’Inps.
Lavorando a part-time, in fase di uscita “per anzianità”:
- l’uscita dal lavoro è meno traumatica, più libera nelle date e più “volontaria”;
- c’è la possibilità di sviluppare talenti ed impegni in altre direzioni (nuovo lavoro, lavoro
autonomo, volontariato, assistenza a famigliari, “dedicarsi ai nipotini” …);
- c’è più coerenza con la biografia del lavoratore che ha minori capacità di sostenere
ritmi e orari intensi dovute all’età;
- si aumenta l’efficienza aziendale in termini classici di input-output;
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si favoriscono gli spazi per l’ingresso di giovani e di nuove professionalità e si consente
ad alcuni lavoratori anziani di assumere anche nuovi compiti di accompagnamento –
tutorato dei giovani in ingresso, trasferendo le conoscenze che altrimenti
rischierebbero di andare perdute.
Questa proposta fu avanzata, e andò molto avanti, successivamente alla fase acuta della
ristrutturazione del petrolchimico ferrarese del 1981- 85 e avrebbe raggiunto un’intesa
contrattuale se si fossero concretizzati i necessari ritocchi di legge (presi in considerazione in
più occasioni, ma mai definiti efficacemente): la discussione tra i lavoratori, ed in particolare
tra i quadri, i delegati e i servizi aziendali interessati, trovò ampia condivisione, nonostante le
prime iniziali titubanze venendo da un periodo in cui tutto si risolveva con i costosi
“prepensionamenti”, che non solo in diversi casi colpivano brutalmente i lavoratori, ma
rischiavano di mettere in crisi la stessa azienda che, sotto la pressione di dover “ristrutturare”
ed eliminare “esuberi” di forza lavoro, si trovava depauperata dall’oggi al domani di preziose
figure professionali.
Attualmente esistono pezzi di normativa sul part-time collegato alla pensione (per insegnanti,
statali, nella contrattazione francese, la decontribuzione in Germania) ma sono tutti pensati
come “ammortizzatori sociali”, quindi costosi per le casse pubbliche. Nulla a che vedere con
la proposta qui richiamata che, oltre a costare pochissimo allo Stato, può conciliare una
maggiore efficienza aziendale con una serie di benefici sociali, compreso quello di disporre di
un meccanismo di “adattamento”, incentivabile, tra interessi (diversi) dei singoli lavoratori e
interesse (comune) della collettività nell’affrontare la questione dell’età pensionabile
crescente.
Al di là dei dettagli tecnici e di una eventuale strutturazione “sostenibile e praticabile” nei
contesti attuali, noi restiamo convinti dell’utilità e dell’efficacia di questo approccio: in
sostanza è la polarità opposta - e complementare - al sistema di ingresso “flessibile”
attraverso il meccanismo (di accompagnamento) dei PIL per i giovani (vedi
www.unife/ateneo/jobcentre/pil), ai quali viene offerta la possibilità di massimizzare l’impiego
del loro capitale di studi e di inserirsi in un’impresa con un lavoro che, rispondendo in termini
di “adattabilità” alle necessità di sviluppo di quell’impresa (ma anche sollecitando l’adattabilità
dell’impresa all’offerta disponibile), fa non solo più efficiente l’impresa stessa, ma sostiene,
attraverso questo stesso processo di adattabilità, la costruzione di nuovi posti di lavoro che
non sarebbero emersi e non sarebbero stati allocati attraverso le dinamiche tradizionali del
mercato del lavoro.