I In questa foto avevo dodici anni. Era il giorno di

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I In questa foto avevo dodici anni. Era il giorno di
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In questa foto avevo dodici anni. Era il giorno di
Natale del 1948, e sotto l’albero trovai il dono più bello
che abbia mai ricevuto, e che determinò il percorso
della mia vita.
È davvero straordinario come guardare un’immagine
in bianco e nero riesca a rievocare i ricordi in tutta la
loro nitidezza, vivi e intensi, a volte anche dolorosi,
come se il passato fosse ora, nel momento in cui lo
pensiamo. Poi, lentamente, le reminiscenze si dissolvono, fino a svanire dietro gli spettri del passato che vigilano, come sentinelle, sul nostro tempo. Quello che è
stato non ci appartiene più, o forse non lo abbiamo mai
vissuto. In fondo, neanche il tempo ci appartiene.
Infatti è solo la nostra presunzione a farci credere il
contrario, e quando pensiamo di trattenerlo, esso è già
trascorso.
La mia immagine del tempo è quella di un ruscello
che scorre silenzioso, carezzando i ciottoli, e quando
tenti di afferrarne l’acqua, limpida e fresca, ha già raggiunto il fiume, lasciandoti a mani vuote. Il tempo è il
ruscello della nostra vita. Ma cosa dico? Queste sono
elucubrazioni di un povero nostalgico.
Guardo ancora la foto e riaffiorano altre immagini.
Ricordo che, quando uscivo da scuola e non c’era mia
madre ad aspettarmi, per tornare a casa percorrevo un
brevissimo tratto sulla Odenstrasse, e mi fermavo sempre davanti al negozio di antiquariato del vecchio signor
Kohlen. Mi piaceva tanto guardare come adornasse le
due vetrine con soffici velluti, sui quali adagiava garba-
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tamente i preziosi oggetti. Ne immaginavo la morbidez za al semplice tatto. Una volta, il signor Kohlen mi spiegò che questa particolare operazione non era affatto
trascurabile, se si voleva suscitare l’interesse dei clienti e attirarli nel proprio negozio. Sosteneva, ad esempio,
che il colore dei tessuti dipendesse dalle antichità da
esporre, che fosse importante far risaltare la peculiarità di un oggetto o lo splendore di un’epoca, che bisognasse saper accostare oggetti differenti, ma di eguale
bellezza o valore.
Tante volte ho pensato che da grande avrei fatto
anch’io l’antiquario, e avrei imparato a decorare le
vetrine, proprio come faceva il signor Kohlen, avvolgendole con velluti vaporosi e colorati.
Intanto mando giù un sorso del mio whisky. Guardo
ancora la foto. Tutto ebbe inizio il 18 ottobre, il giorno
del mio compleanno. Quel pomeriggio, fermandomi
come di consueto davanti alla vetrina del negozio di
antiquariato, lo vidi e lo ammirai come chi guardi un
oggetto per la prima volta. L’emozione fu cosí grande
che, ancora adesso, ripensandoci, sono percorso da un
brivido. Stetti immobile, non so per quanto tempo, a
osservarlo, a percepirlo in ogni suo particolare.
Contemplai, volgendo il capo prima da un lato e poi
dall’altro, le sue forme morbide e sinuose, a un tratto
tondeggianti, e mi ricordarono, improvvisamente, mia
madre e la sua bellezza superba. Il tessuto color porpora che circondava quello splendido oggetto sembrava
insinuarsi maliziosamente tra gli incavi della sua corposità lignea, come delle mani che cingono i fianchi di
una donna. Provai allora l’impulso di toccarlo, di sfiorare la compattezza dei contorni flessuosi della sua
cassa armonica, di carezzare le corde rigide e austere,
di scorrere le dita sul manico, fino all’altezza del riccio.
Quasi non mi accorsi che il signor Kohlen, senza dir
nulla, mi prese per mano, mi portò all’interno del negozio e mi fece accomodare su una sedia; poi scomparve
in una stanza attigua. Io lo attesi immobile. Poco dopo
ritornò con uno splendido violoncello, sedette di fronte
a me, posizionò lo strumento tra le ginocchia, e cominciò a suonare. Ricordo che l’archetto scivolò leggero
sulle corde, quasi a volerle carezzare, e una melodia
soave ruppe quel silenzio riverente, avvolgendo la stanza, le pareti, gli oggetti antichi e la storia che essi custodivano gelosamente. Ascoltai in estasi le note librarsi
nell’aria ed ebbi la sensazione, per un attimo, che esse
si posassero sulla mia pelle, penetrandola dolcemente,
fino ad arrivare nel centro delle mie emozioni. Lacrime
brucianti mi inumidirono gli occhi, e feci uno sforzo
immane per trattenerle, forse per vergogna. Pensai che
da grande non avrei più fatto l’antiquario, né avrei
addobbato le vetrine con oggetti antichi e preziosi, né
mi sarei circondato di velluti morbidi e colorati. Da quel
momento, invece, seppi con certezza che la mia vita
sarebbe dipesa, per sempre, da un violoncello.
Il signor Kohlen mi disse che sarebbe stato felice di
insegnarmi a suonare, se i miei genitori avessero
acconsentito. Qualche anno dopo, mi confessò che quel
giorno vide nei miei occhi la luce del talento e intuí che
anche io un giorno sarei diventato un virtuoso perché
possedevo una particolare predisposizione dell’animo.
Mia madre, che era un’eccellente pianista, insegnandomi a suonare, non riuscí mai a trasmettermi lo
stesso amore che lei nutriva per il pianoforte. Cosí,
nonostante i suoi sforzi, sosteneva che io non dedicassi abbastanza tempo allo studio della musica, rammaricandosi per la mia scarsa passione nei confronti delle
sette note. Probabilmente, fu la scelta dello strumento
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sbagliato a offuscare il mio talento, facendomi apparire
poco incline alla musica. Quel giorno le annunciai che
intendevo studiare violoncello, e acconsentí con grande
gioia. In seguito si accordò con il signor Kohlen per
farmi andare da lui nel pomeriggio, prima dell’apertura
del negozio di antiquariato.
Mi alzo e mi sposto verso la portafinestra. Guardo
fuori. Lo spettacolo è straordinario, davvero suggestivo.
La notte ha già calato il sipario sulla città e il mio
sguardo, da quassù, si smarrisce tra le migliaia di
punti luccicanti e colorati che sembrano rincorrersi in
una danza silenziosa. A questa immagine, adesso, si
sovrappone quella della vecchia foto in bianco e nero. Il
passato inonda la mia anima. Io ero accanto all’albero
di Natale e sorridevo di una felicità mai provata, mentre con la mano sfioravo il mio regalo adagiato su un
piedistallo: uno splendido violoncello, con un grande
fiocco rosso sul manico, all’altezza del riccio.
Chiudo gli occhi, mentre avvicino il bicchiere alle
labbra. Il sorso di whisky si sofferma piacevolmente
nella mia bocca, diffondendo il suo sapore forte e intenso, per poi discendere piano lungo la gola, come una
piccola lingua di fuoco.
Di nuovo, le visioni antiche si ricompongono davanti ai miei occhi, e mi pare di vedere il chiarore della
neve che, in silenzio, aveva imbiancato le strade e gli
alberi, rendendo quella notte candida e soffice. Mi
sembra di avvertire sulla pelle il gradevole tepore del
fuoco che ardeva nel camino del salotto, di catturare il
profumo delizioso dei biscotti al cioccolato e alla vaniglia che aveva preparato zia Anne, di sentire ancora
sugli occhi le mani morbide e profumate di mia madre
che, impedendomi di guardare, mi guidava verso l’abete e verso il violoncello.
Mio Dio! Cerco di contenere le sensazioni che, a un
tratto, mi travolgono, con lo stesso impeto di una tempesta che si abbatte in mare, e mi rendono simile a un
vascello in balia delle onde furiose.
Mi sposto verso la poltrona e mi siedo. Debbo indugiare nei ricordi, per non sciuparli troppo in fretta.
Debbo custodirli ancora, e lasciarli riaffiorare adagio.
Sono come frutti rari e prelibati, da gustare lentamente, per godere appieno del piacere che può trarne il
palato. Accendo una sigaretta. Dopo ogni boccata,
gioco col fumo azzurrino, soffiandolo ora con forza, ora
lievemente, in modo da formare dei cerchi, delle spirali, o delle piccole forme vaporose e leggere che, restando sospese a mezz’aria, nella sottile penombra della
stanza, sembrano volersi trattenere ancora per qualche
istante, davanti a me, prima di elevarsi e dissolversi
completamente.
Dalla poltrona, sulla quale sono piacevolmente accomodato, continuo a guardare fuori, attraverso il vetro,
e vedo le luci infinite scintillare e pulsare di vita, come
fossero piccole stelle. Penso che pure i ricordi, come le
piccole stelle, pulsino di vita, contengano immagini,
colori e suoni, e racchiudano odori e sensazioni tattili.
Guardo l’orologio. Mezzanotte è già trascorsa da
quaranta minuti. A quest’ora la città, complici le tenebre, si risveglia e brulica di strane creature che, cambiandosi d’abito, indossano doppie esistenze. Sembra
che una forza nuova, improvvisamente, avvolga ogni
elemento, cosí che la notte mostri anche i suoi aspetti
più misteriosi.
L’oscurità ha un potere magico sugli esseri più sensuali, risvegliando in essi certi istinti sopiti durante le
ore luminose e facendo loro intravedere i contorni
voluttuosi delle cose; allo stesso modo suscita un certo
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timore negli esseri meno audaci, che scorgono nella
notte solo risvolti inquietanti.
Di notte, accade che vite sconosciute si intreccino
casualmente, e scaccino la propria solitudine, giacendo
per poche ore su letti freddi di camere anonime, in
alberghi anonimi, per poi scomparire nel chiarore purpureo di un’aurora qualunque.
La notte appartiene anche agli esseri malvagi che,
profittando di sguardi dolci e ingenui, infliggono sofferenze ai deboli; ai carnefici che, come gli angeli del
male, cercano vittime innocenti sulle quali riversare il
proprio odio per un mondo che pare ignorare le loro esistenze.
Inoltre, è il rifugio dei mendicanti d’affetto in cerca
di calore; degli assassini che uccidono crudelmente i
sentimenti; dei ladri che rubano in gran segreto l’amore; degli amanti che bruciano in passioni clandestine;
dei diversi che amano liberamente, ritrovando una propria identità.
Ecco che la notte diviene il tempio sacro in cui si
consumano scelleratezze infami e piaceri inconfessati,
dove sembra che tutto sia possibile, che tutto accada e,
al tempo stesso, che nulla sia mai esistito, in un gioco
violento e lussurioso. È tutto questo. Nella notte tutto
si compie, misteriosamente, e tutto si dimentica, in
gran fretta.
Al contrario, la mia notte racchiude solo elementi
magici e sensuali, fantasiosi e creativi. La immagino
come una veste sottile, morbida e leggera, quasi impalpabile, che ricopre perfettamente i corpi e gli oggetti,
migliorandone le forme e i contorni. È per questo che
ogni cosa, di notte, ci appare diversa, ancor più gradevole di quanto non lo sia già. La sento come un profumo sensuale che possiede lievi fragranze selvatiche; la
paragono a una splendida donna che ti aderisce
addosso mentre ti ama. La considero un’amica che ti
si siede accanto e ti ascolta in silenzio; la ritengo una
fonte di energia inesauribile cui attingere sempre, per
dar vita alle creazioni artistiche più sublimi. A ogni
modo, nessun pensiero rende angosciante la sua oscura presenza.
Ricordo che, da bambino, mio nonno mi raccontava
spesso la storia degli strani folletti dei boschi, buoni e
giocondi, che avevano lunghe barbe bianche. Erano i
guardiani del sonno. Abitavano casette scavate nei
tronchi degli alberi, e indossavano calzoni, casacche e
berretti verdi, per meglio confondersi tra le fronde e i
cespugli. Solo pochi fortunati riuscivano a vederli.
Quando giungeva la sera, e l’oscurità stendeva il suo
manto impalpabile sulla terra, questi piccoli esseri
uscivano dal bosco, si recavano nei villaggi, ed entravano nelle case degli uomini, per vegliare sui loro sogni
e per allontanare da essi dispiaceri e afflizioni. Si diceva, inoltre, che ad alcuni lasciassero in dono anche
delle monete d’oro.
Da allora, io non ho più avuto paura del buio e ho
sempre pensato, al contrario, che di notte non sarebbe
mai potuto accadermi nulla di male o di sgradevole.
Ora sorrido della mia innocenza infantile, smarrita
un giorno nei baci di Yvette che, in una magica atmosfera notturna, mi lasciò scivolare sulla pelle bianchissima del suo corpo. La ricordo con il suo sguardo da
cerbiatto.
Bevo ancora un piccolo sorso. Avevo diciotto anni
quando la incontrai per la prima volta in rue de la
Lumière.
“Mi scusi... le è caduta questa,” dissi, raccogliendo
da terra la piccola sciarpa rossa.
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Lei, che si era voltata verso di me, mi guardò con i
suoi grandi occhi neri e dolci, e mi sorrise.
“Oh, la ringrazio! Non me n’ero accorta. Sono un po’
sbadata stamane,” rispose, con la voce più soave che le
mie orecchie avessero mai udito.
E quando le porsi il tessuto delicato che le aveva
avvolto il collo sottile, le nostre mani si sfiorarono.
Fu in quell’istante che la guardai intensamente,
sentendomi di colpo confuso e impacciato, come un
bambino che debba conoscere nuovi compagni di giochi, e nell’istante successivo pensai che dovevo rivederla ancora, non potevo lasciarla andar via cosí,
senza conoscere neppure il suo nome. Ma cosa mi
stava accadendo? Possibile che l’emozione mi impedisse perfino di parlare, di dire anche una sola parola, o
una frase sciocca: che era una bella giornata, e che
nell’aria si sentiva già la primavera? A ogni modo,
sapevo che, se desideravo trattenerla ancora, dovevo
inventarmi qualcosa, un motivo qualsiasi, accidenti! E
solo quando fu sul punto di congedarsi da me, ritrovai
un poco del mio coraggio, e la invitai a recarci in un
bar.
“C’è un caffè proprio qui, dietro l’angolo,” le dissi,
indicando la direzione con lo sguardo.
“Mi spiace, ma non posso proprio accettare, sono in
ritardo e... dovrei andare,” rispose timidamente, infliggendomi con quel diniego un dolore nel petto, simile a
una leggera morsa, che non potevo sopportare oltre.
“La prego! Le prometto che non la tratterrò per molto
tempo. Mi piacerebbe tanto parlare con lei, anche per
pochi minuti, e se proprio non le andrà di rispondere,
non importa, ascolterò i suoi silenzi. Mi conceda almeno il tempo di un caffè!” aggiunsi, congiungendo le
mani.
Ripensandoci, credo che mi sorrise e accolse di buon
grado il mio invito, perché il tono emozionato della mia
voce e lo sguardo da cane bastonato l’avevano impietosita.
Cosí ci ritrovammo seduti da Maxime, un caffè frequentato da artisti di ogni genere, a chiacchierare,
come se una vecchia amicizia ci legasse da molto
tempo.
Era davvero bella Yvette, con la freschezza dei
suoi venti anni, mentre io, temendo che potesse
considerarmi troppo giovane per accettare di rive dermi ancora, non fui sincero riguardo la mia vera
età, e le dissi di averne ventidue, illudendomi cosí
di apparire ai suoi occhi degno di considerazione.
Pensai che qualche anno in più mi regalasse quella
maturità che piace tanto alle donne. Solo più tardi,
Yvette mi confessò di non aver mai creduto a quel la menzogna, e di avermi amato ugualmente con
tutto l’amore che poteva, anche per quella piccola
bugia.
Era davvero bella Yvette, con il suo ovale perfetto e
con i lineamenti nobili. La bocca aveva labbra ben disegnate e un rossetto vermiglio ne esaltava la pienezza
morbida; il naso era piccolo e i grandi occhi neri parevano racchiudere i misteri di terre lontane. Sembrava
una di quelle magnifiche principesse che danzano ricoperte di soli veli, al bagliore di una splendida luna
piena.
“Studio lettere e spero, dopo la laurea, di diventare
una scrittrice a tempo pieno. Al momento, collaboro
con una rivista femminile. Rispondo alle tante missive
che arrivano in redazione, dando dei consigli, e scrivo
piccole storie d’amore. E lei, invece, di cosa si occupa?”
aveva chiesto.
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Io ero già una specie di talento, ma questo naturalmente non glielo dissi. Le raccontai tutto il resto: che
mi trovavo a Parigi da due settimane perché frequentavo un corso presso la scuola del maestro Degal, con il
quale avrei fatto poi una serie di concerti; che soggiornavo in un pensionato per soli musicisti in rue de
Richelieu, dove avevo la fortuna di occupare una stanza singola. Che restavo fuori tutto il giorno, quando
non avevo da studiare, e rientravo in camera solo per
dormire; che avevo conosciuto alcuni amici, con i quali
trascorrevo parte del mio tempo libero; e che la sera mi
ritrovavo con essi nel solito bistrot a bere vino rosso,
suonare e cantare.
Poi, all’improvviso, le cose cambiano, indipendentemente dalla nostra volontà. Arrivò Yvette che se ne stava
in disparte nelle ultime file del teatro, e che spesso mi
ascoltava per tutta la durata delle prove. E quando io elogiavo la sua pazienza, dicendole che non avrei fatto per lei
la stessa cosa, fingeva di adirarsi, e mi colpiva a cuscinate. Cosí finivamo col ridere, distesi sul letto, e a smorzare
subito dopo la nostra ilarità con baci ardenti. Credo che
quella sia stata la prima volta che mi innamorai.
Trascorsero sedici giorni dal nostro incontro in rue
de la Lumière, e arrivò anche la data del mio primo concerto parigino.
Yvette era seduta nel secondo palchetto di sinistra.
Prima di adagiare l’archetto sulle corde, cercai il suo
viso, e con gli occhi le sussurrai che l’amavo e che la
musica, quella sera, sarebbe appartenuta a lei soltanto. Mi sorrise. Dallo scintillio del suo sguardo scuro e
penetrante, compresi quanto fosse felice, e quanto
fosse emozionante per lei essere la mia musa divina.
Ricordo che le mie dita scorrevano sul manico della
tastiera ora con adagi, ora con rallentati, ora con mossi e
con crescendi, e pareva che, attraverso l’archetto, le note
fluttuassero nell’aria, tanto da poterle toccare, e volassero in alto leggere, come foglie trasportate dal vento.
Quella sera fu un vero trionfo. Gli applausi scrosciarono per lunghi e interminabili minuti. Solo allora
Yvette conobbe il virtuosismo che scorreva nella mia
anima, e comprese il significato delle mie parole quando cercavo di spiegarle che cosa rappresentasse per me
la musica.
Dopo aver cenato nel solito bistrot, ci recammo sul
Lungosenna a passeggiare. Io portavo il violoncello in
spalla. Yvette indossava un abito verde smeraldo e
aveva i capelli raccolti in una piccola crocchia che sciolsi piano, lasciandoli ricadere sulle spalle. Poi la baciai
passionalmente.
Era il 20 maggio e nel cielo splendeva una magnifica e lucente luna piena.
“Stasera voglio che tu mi faccia un regalo,” mi sussurrò in un orecchio.
“Mmmm... tutto quello che vuoi,” risposi, baciandole
il collo.
Yvette rise. Poi adagiò le sue labbra calde e morbide
sulla mia bocca schiusa, e ci immerse piano il petalo
delicato e rosa, dolce come il miele.
“Voglio che tu... faccia una magia,” sospirò, allontanandosi dal mio bacio e dal mio viso, e mi guardò dritto negli occhi.
Io non capivo. Cosí mi prese per mano e, in silenzio,
mi condusse sul bateau ormeggiato, che ripartí dopo
qualche minuto con pochi passeggeri. Ci sedemmo
all’aperto, e dalla prua dominavamo il fiume e la notte.
L’aria era piacevolmente fresca. Yvette si avvolse nello
scialle di lana e mi carezzò i capelli.
“Alain, suona per me! Adesso!” mi disse.
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Senza dir nulla, estrassi il violoncello dalla custodia,
lo posizionai tra le ginocchia, e cominciai a suonare.
Una melodia dolcissima si elevò nel cielo, cosparso da
migliaia di stelle, e avvolse quell’atmosfera surreale in
un caldo abbraccio; doveva aver commosso anche la
luna che, immensa e luminosa, si era avvicinata per
ascoltare meglio.
Il bateau, intanto, scorreva lento e silenzioso, e la
Senna, rischiarata da un’intensa luce lunare, era simile a un nastro d’argento.
“Grazie amore mio!” disse con un sorriso, immergendo le dita tra i miei capelli.
La guardai, inebriandomi della sua bellezza.
“Grazie per avermi donato la luna. Era talmente vicina a me che quasi la toccavo; l’ho vista perfino piangere. È questa la magia di cui ti parlavo. Questa notte, la
musica, la Senna resteranno impresse nella mia mente
per sempre, e quando quello che c’è tra noi finirà...”
aggiunse, con il tono della voce che celava già un sentimento nostalgico.
“No! Non voglio che tu...” la interruppi.
“Sshh...” disse, coprendomi la bocca con una mano
per impedirmi di parlare.
“Mi basterà rammentare questi momenti per sentirmi
ancora accanto a te. Mi hai legata con un incantesimo,
che niente e nessuno potrà mai sciogliere,” concluse.
Aveva gli occhi lucidi la mia principessa, e due lacrime, non riuscendo a restare intrappolate tra le sue
ciglia di seta, le rigarono il volto. La strinsi forte a me e
restammo ad ascoltare il silenzio della notte.
Il mattino successivo mi svegliai nel suo letto. La
camera mi accolse in una intimità confortevole e rassicurante, con le sue pareti rosa su cui erano appese
delle stampe di Renoir e di Monet. Intorno, l’arreda-
mento era costituito da un armadio, un comò, e una
cassettiera; su uno scrittoio, poi, c’erano alcuni libri,
qualche rivista per la quale Yvette collaborava, una
macchina da scrivere e numerosi fogli, sia bianchi che
dattiloscritti; altri libri occupavano una sedia. Notai
come ogni cosa fosse sistemata con cura e ordine, specchio della natura discreta di Yvette che era entrata
nella mia vita in punta di piedi.
Il sole filtrava debolmente attraverso le imposte socchiuse, e un raggio di luce sottilissimo, attenuato da
una leggera tendina ricamata color albicocca, si era
posato su una ciocca dei suoi capelli sparsi sul cuscino. Il suo viso, in quel chiarore soffuso che conteneva
innumerevoli e minuscole particelle impalpabili, appariva talmente sacro che ne avrei contemplato la bellezza per delle ore. Guardavo le ciglia folte e ricurve; le labbra socchiuse e piene del turgore notturno che le donava un’espressione infantile; le piccole narici che si dilatavano impercettibilmente a ogni respiro. Poi, intravidi
la forma del suo corpo tra le lenzuola immacolate, e
immaginai la sua pelle, nuda e bianca, immersa nel
fascio luminoso del mattino. Il desiderio di amarla
ancora mi travolse, con un fremito violento, tanto che,
avvertendo su di sé il mio sguardo bramoso, aprí gli
occhi e, dopo avermi salutato con un sorriso, saziò dolcemente la mia fame.
Yvette era una melodia dolcissima, della quale conoscevo ogni singola nota. Scorrevo con agilità e leggerezza sulle sue corde, e le facevo vibrare intensamente,
fino a raggiungere la perfezione della sua partitura, che
culminava in una magnifico assolo, emozionante, ogni
volta, in maniera diversa.
Deve esserci troppo fumo nella stanza se mi lacrimano gli occhi. Mi alzo, apro la portafinestra ed esco
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sulla terrazza. L’aria fuori è piacevolmente fredda e
giunge sul mio volto, simile a una folata di vento che,
all’improvviso, fa stormire le foglie; poi, discende lungo
il mio corpo e mi scuote, come un’onda violenta quando si infrange contro uno scoglio. Un lungo brivido pare
riportarmi alla realtà. I rumori, dal quarantesimo piano
del mio attico, sono impercettibili, e intorno a me regna
solo il silenzio ovattato della notte, avvolto in un nero
infinito, punteggiato di luci. Chiudo gli occhi umidi e
inspiro profondamente, per alcune volte. Stupido Alain!
Credi davvero che sia stato il fumo delle sigarette a colmarti gli occhi di lacrime? Non pensi, invece, che il
ricordo di Yvette sia ancora cosí vivo da bruciarti la
carne, come una ferita?
Rientro in casa, e penso che non è mai esistita, è
solo frutto della mia fantasia. Dalla cassettiera, accanto alla libreria, prendo la scatola rossa che contiene la
mia vita e torno a sedere sulla poltrona. In questa foto,
scattata a Place de l’Etoile, Yvette mi sorride, e sembra
quasi che voglia rimproverarmi per aver dubitato della
sua esistenza e del suo sentimento puro.
Come ho potuto farlo? Perdonami, cara!
Ho amato Yvette e, in seguito, altre donne, di quell’amore che mi riportava quasi in armonia con il creato, perché la sublimazione di quell’armonia nella sua
interezza la raggiungevo soltanto mediante la musica.
L’ardore e l’impeto, con i quali concedevo a esse la mia
anima, potevano definirsi simili, ma non uguali, ai sentimenti assoluti che mi spingevano nelle mie evoluzioni
sui pentagrammi.
Ogni giorno, vissuto accanto alle mie amanti, scoprivo e comprendevo quella parte della mia essenza che
ha influenzato, incondizionatamente, la mia vita e il
mio destino, e della quale ho raggiunto piena consape-
volezza solo con il trascorrere degli anni. Quell’essenza
mi esortava a perseguire sempre e soltanto i miei sogni,
le mie velleità e le mie aspirazioni ideali: eseguire una
musica eccelsa che contenesse la bellezza e l’armonia
di tutte le musiche, e amare, per sempre, un essere
femminile perfetto che racchiudesse, in una sola
donna, le virtù di mille donne.
Per questa mia indagine, nello studio del violoncello
sono sempre stato ossessionato da una ricerca minuziosa e solerte della perfezione, la qualità più elevata
cui un virtuoso possa anelare, cosí da potermi avvicinare a cogliere quell’ideale di musica che appartiene
solo agli angeli. Ho preteso di conquistarla con il mio
genio, il mio talento, la mia volontà e le mie mani, fino
al limite delle possibilità umane che mi siano state concesse, quasi fino a morirne.
Alle volte, il bisogno che avevo della musica pareva
esaurire perfino la mia vitale creatività, tanto da rendere la mia anima assetata, simile a un campo arido che
attenda la pioggia per germogliare ancora. Altre volte,
quello stesso bisogno, bruciava come una febbre convulsa che rendeva i suoni struggenti, pari al canto di
una donna che pianga il suo amato. Quando, invece, la
musica mi esplodeva dentro, donandomi gioia, le note
si elevavano in cielo morbide e soavi, vibrando con la
leggerezza di una farfalla.
Tante volte l’ho perfino odiata la musica; maledicevo
l’arroganza con cui mi seduceva, esercitando su di me
un fascino irresistibile, più di tante donne che ti allettino con lusinghe e promesse. Poi, ascoltavo la melodia
del violoncello dai suoni pastosi e caldi, ricchi di vibrazioni sensuali, perché l’amore per essa mi travolgesse
ancora, completamente, come il canto delle sirene di
Ulisse, e mi conducesse in uno stato di grazia assoluto.
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Le mie esecuzioni divenivano allora esemplari, ineccepibili in ogni passaggio di intensità, in ogni vibrato,
in ogni attacco dopo una pausa. Di un brano curavo
ogni particolare, ogni sfumatura, ogni volontà e ogni
suggerimento del compositore, ogni indicazione data
dalla bacchetta del direttore, ogni licenza musicale che
mi concedevo e che mi veniva perdonata. A un virtuoso
si accordano anche i capricci.
Allo stesso modo, in ogni donna ho cercato la perfezione, come se fosse una partitura, una composizione,
il mio stesso strumento. Esploravo la bellezza della sua
anima, studiavo l’arguzia del suo intelletto, osservavo
la seduzione nelle sue movenze, ascoltavo la vivacità
dei suoi discorsi, meditavo sulle sue sagge riflessioni,
riposavo sui suoi silenzi, mi accendevo col fuoco dei
suoi sensi, percorrevo la gradazione dei suoi piaceri per
poi viaggiare nell’infinità del suo corpo. Di ogni donna
ho amato la peculiarità che la rendeva differente e,
quindi, pregiata rispetto a un’altra. Per raggiungere
quell’ideale di perfezione femminile che tormentava la
mia anima, dovevo necessariamente attingere la mia
linfa vitale da molte fonti. Sí! Perché quelle splendide
creature rappresentavano la sorgente in grado di
donarmi la vita, insieme alla mia musica.
Si può forse essere fedeli soltanto a Mozart,
Schubert, Beethoven, Chopin, Puccini o Verdi?
Certo che no! La fedeltà è uno sciocco concetto
inventato dall’uomo, per secondare il proprio egoismo.
Ogni musicista non ha una genialità che lo rende
diverso da un altro? Non esprime forse, attraverso le
note, una disposizione dell’animo che appartiene a lui
soltanto? E ogni composizione, ogni opera, non contiene forse una bellezza melodica e un’armonia delle quali
sarebbe un peccato privarsi?
La musica deve essere amata nella sua interezza,
senza confini o limitazioni che ne danneggerebbero soltanto lo studio e l’ascolto, perché essa, come la natura,
appartiene a ognuno.
Non è forse vero che il fragore del tuono che squarcia la nube, lo scroscio della pioggia che cade a dirotto,
il frangersi spumeggiante delle onde sulle alte scogliere, il sibilo del vento che soffia intensamente tra gli
alberi, e lo stormire del fogliame, sono tra le più alte
pagine musicali che la natura abbia scritto per l’umanità? Contengono suoni magnifici che esprimono la
forza e la potenza del creato, la cui comprensione è universale, e suscitano in ogni essere vivente sentimenti di
timore, gratitudine, rispetto o adorazione. Oh! Se soltanto si imparasse ad ascoltare e a trarre insegnamento dalla natura, l’arroganza degli uomini forse si placherebbe!
Lo studio di una partitura non comprende soltanto
la lettura delle note riportate sui pentagrammi e l’esecuzione del brano, ma richiede soprattutto una conoscenza approfondita del suo autore, un’indagine sulle
esperienze che hanno animato la sua esistenza, un’analisi della sua essenza interiore. È necessario cogliere
i sentimenti che egli ha provato, gioire degli amori che
lo hanno infervorato, vivere l’intensità delle passioni
che hanno nutrito la sua anima, patire per le sofferenze che hanno afflitto il suo cuore, percorrere le sue
emozioni, fino a percepire anche la spiritualità del suo
essere. Solo in questo modo è possibile narrare ed
esprimere, attraverso la musica, la forza, la potenza, il
dolore, la gioia e l’inquietudine che hanno ispirato la
sua sensibilità artistica, permettendogli di creare un’o pera di grande intensità. Solo in questo modo, egli
entra in me, diviene la mia stessa persona, vive della
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mia energia e io, decantando la sua arte e la bellezza
della sua musica, attraverso le mie emozioni, stabilisco
un perfetto connubio tra le nostre anime.
Ma quante sono le anime delle quali mi sono nutrito?
Intanto, Yvette continua a sorridermi da Place de l’Etoile,
e a rammentarmi la sua esistenza e il suo sentimento
puro.
Un giorno, mi raccontò della sua infanzia felice trascorsa nei pressi di Barbizon. Viveva in una grande
casa, immersa nella quiete della campagna e circondata da animali domestici e da vigneti che producevano
dell’ottimo vino. Poi, il tono della sua voce s’inasprí,
divenendo grave, quando descrisse il tragico evento
della guerra, che giunse come un’ombra scura e minacciosa, scacciò via la letizia di quegli anni, distrusse il
delicato equilibrio instauratosi tra uomini e natura, e
completò il suo disegno macabro, strappandole suo fratello Paul, che morí nel vigore dei venti anni. Da quel
momento, Yvette conobbe la triste miseria dell’animo
umano che prova solo odio e rabbia nei confronti dei
suoi simili, quando venga abbagliato da una lucida follia di “superomismo”, senza essere mosso neppure da
un briciolo di pietà per essi. Yvette vide la morte passarle accanto, più volte, e portarle via anche Marie, la
sua compagna di giochi. Quel giglio candido e puro
venne reciso, in una sera d’estate, dalla furia rapida e
incalzante dei colpi di mitraglietta esplosi da alcuni soldati che, dopo aver fatto irruzione in casa sua, non avevano provato alcun rispetto verso la famiglia riunita
intorno alla tavola, nell’ora di cena, la cui unica colpa
era quella di chiamarsi Kamiski.
“Cosa c’entrava Marie con la guerra, sai spiegarmelo?”
mi aveva chiesto, con gli occhi umidi che contenevano
tutto il dolore del mondo.
“E mio fratello Paul, cosa aveva fatto di male per...
per meritare di morire? Lui, insieme ad altri soldati,
aveva soltanto aiutato alcuni ebrei a... a fuggire!” concluse, con lo sguardo fisso nel mio, e la voce tremante.
Non lo dimenticherò mai più il nero di quegli occhi,
profondi quanto gli abissi degli oceani, nei quali mi
parve di annegare. Provai una tale vergogna, guardandola, e provo la stessa vergogna, anche ora che ricordo
l’episodio.
È strano come alcune sensazioni importanti, che nel
passato hanno scosso profondamente la nostra intimità, conservino ancora la stessa forza e riescano a sollecitarci emotivamente, allo stesso modo, anche a distanza di tempo, tanto da renderci inquieti.
Mi alzo di scatto e mi sposto verso la portafinestra
che dall’alto domina il buio e la città. Accendo una sigaretta, e dopo alcune lunghe boccate, aspirate avidamente, ho l’impressione di star meglio. È come se il
tabacco producesse sulla psiche, quando essa appare
più vulnerabile, un particolare effetto lenitivo, cosí che
i pensieri, tristi e penosi, sembrano recare meno dolore
con una sigaretta.
Provai un senso di smarrimento quando Yvette,
rammentando gli orrori della guerra, aspettò invano
delle risposte che io, invece, non seppi darle.
Quando ignoriamo alcuni avvenimenti e non possiamo avvalerci della nostra esperienza diretta, non ci è
possibile formulare neanche delle ipotesi su tali circostanze, perché esse risulterebbero del tutto errate.
Io la guerra non l’avevo vissuta, quindi, non immaginavo neppure cosa fosse, né la mia mente sarebbe
stata in grado di pensarne gli orrori. Vivevo nel mio piccolo mondo dorato, racchiuso e difeso dalla neutralità
del mio paese, ed ero inconsapevole di quanto accades-
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se non lontano da me. Ne sentivo parlare dai grandi,
ma la mia fantasia era lungi dal creare visioni che
descrivessero il contenuto di quei racconti. Mi risultava più semplice evocare immagini fantastiche sul
mondo dei folletti verdi, o su altri personaggi fiabeschi,
che pur non avevano alcun riscontro col mondo reale,
piuttosto che su avvenimenti che accadevano veramente intorno a me.
Quando Yvette indugiò lungamente nel mio sguardo,
provai un tale senso di colpa per aver trascorso un’infanzia serena nell’agiatezza della mia casa, circondato
dal calore e dall’affetto della mia famiglia, che sarei fuggito lontano. Io ero stato un bambino fortunato, le cui
uniche responsabilità erano quelle di studiare, suonare
il pianoforte, giocare con gli amici e far merenda con i
biscotti e i dolci preparati in casa. Invece, poco distanti
da me, innumerevoli migliaia di Yvette e Marie e Paul,
non avevano neppure di che mangiare; erano costretti a
nascondersi come miseri topi per rubare alla vita, ogni
giorno, un giorno nuovo; e quando venivano stanati
morivano nei grandi lager, dove regnavano i semi della
presunzione e dei sogni di potere di piccoli e folli uomini.
Scaccio questo triste ricordo che aggiunge pena al
mio cuore. Continuo a guardare dalla portafinestra, solo
che adesso non mi soffermo ad ammirare la magnifica
vista che si gode da quassù, ma osservo la mia immagine riflessa sul vetro che mi rammenta di essere un uomo
di sessantasette anni, ancora molto piacente, dal corpo
alto e magro e con una leggera brizzolatura nei capelli
neri.
Ritengo di essere ormai uno degli ultimi esteti rimasti, legato forse a un passato che mal tollera il presente, nel quale gli uomini hanno smarrito il senso della
ricercatezza, del gusto e della bellezza. Io posseggo e
custodisco ciò che i giovani di oggi, purtroppo, ignorano, ovvero la raffinata arte della seduzione. Sono una
misteriosa malia, dove eleganza e preziosismo traspaiono in perfetta simbiosi; le mie maniere esprimono una
virilità aggraziata e armonica, un’innata gentilezza garbata ed energica, una natura sensibile e vigorosa. Sono
l’essenza che racchiude le molteplici e gentili sfumature del mondo femminile nel temperamento di un uomo
passionale e romantico.
La descrizione dei miei pregi, naturalmente, non
vuol essere un vanitoso sfoggio - sarebbe miserevole
tale atteggiamento da parte mia - ma rappresenta, piuttosto, la perfetta consapevolezza del mio essere: io
conosco i desideri e le aspirazioni cui anela il mio spirito, e comprendo esattamente i limiti che potrebbero
compromettere la realizzazione di essi.
A questo proposito, penso che ogni uomo sia consapevole della propria essenza, e intuisca le proprie capacità, e negarne la percezione vale solo a giustificare gli
errori commessi, allontanando doveri e responsabilità.
Io sono ciò che vedo in quest’istante, sono l’essenza
che l’immagine riflessa sul vetro mi rimanda, sono un
uomo sopra le righe.
Ho trascorso la mia vita a osservare, indagare,
esplorare, e venerare il corpo, la mente, l’anima e il
talento delle mie donne, con una cura che appartiene a
pochi; le ho desiderate e le ho amate con impeto e ardore, e al tempo stesso, con una passionalità artistica e
una brama creativa, come se fossero creature da scolpire nei marmi bianchissimi, da dipingere in affreschi
magnifici, da decantare nei versi di splendide poesie, da
musicare per le grandi opere, o ancora da custodire
nelle trame di memorabili storie d’amore.
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