un viaggio a ponte vecchio - pensieri sparsi di una coccinella felice

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un viaggio a ponte vecchio - pensieri sparsi di una coccinella felice
giorgia imbriani
un viaggio a ponte vecchio
racconti
c’era una volta un blog. un altro.
un blog fatto di racconti, di impressioni, di parole messe in fila una
all’altra. un giorno, ho deciso di chiuderlo. perché, parliamoci chiaro,
non era un granché.
ma i racconti, alcuni, non erano male.
o, quanto meno, mi ci sono affezionata, con il tempo.
dirimpa.wordpress.com
ponte vecchio
ponte vecchio. inverno. vento gelido che ti attraversa il cappotto, e lì,
come sempre, un uomo, e una chitarra. accanto, una tazza di caffè, con
il fumo che balla tutto intorno, a lottare contro il freddo. e una ragazza,
avvolta in un mantello rosso, seduta sul marciapiede con il mento
appoggiato sulle ginocchia, a pensare a parigi, agli artisti di un tempo
che non ha mai conosciuto, e a quella chitarra lì accanto che sembra
volerle dire qualcosa.
…
- che mestiere ha detto che fa?…
- regalo canzoni ai passanti.
- ah, bello. …ma perché?
- e’ un bel posto, questo mio sgabello, per osservare la gente che passa.
guardo, e intanto suono. se ti siedi qui, guardi e aspetti, ad un certo
punto ti vien voglia di regalare note ai passanti. note, o intere canzoni.
ad una distinta signora che torna a casa dopo un pomeriggio passato a
chiacchierare con le amiche davanti ad una tazza di thè… una
romantica canzone, ripescata in qualche polveroso baule lassù… poi, ecco
che arriva un giovane, è di sicuro un pittore, avvolto in una lunga
sciarpa, che pedala veloce verso una donna che è lì che lo aspetta col
naso attaccato ai vetri appannati, o forse verso una tela addormentata,
con quel corpo di donna da costruire… e’ strano come restando qui a
rompere il silenzio della neve e il sussurrio del fiume qui sotto ci si possa
innamorare così tante volte in un attimo, non importa se di un paio di
stivali che ballano sul selciato o di una sciarpa ciclista, e come ogni volta
ci si possa trasformare in un menestrello per loro…
…
certo che avevano ragione, con quella storia dei ricordi, che ti si
accoccolano dentro e non ti lasciano più. a volte mi sembra di andare
avanti a vivere come se non fossi più io, come se in realtà fossi rimasta
in un attimo, sospesa a guardare un istante, un volto, una mano, una
chitarra, mentre il mondo intorno a me va avanti, e la neve se ne va, e
la gente mette via i cappotti e si avvolge di leggero lino colorato…
sarà che io sono ancora avvolta di rosso, ma c’è una nota, sempre quella,
non ricordo nemmeno come si chiama, una nota sola, che mi rimbalza
tra i ricordi, e sembra che sia sempre stata lì, quando ero bambina e
correvo nei campi a piedi nudi, o quando ero triste e contavo le nuvole
stesa sopra una coperta, era sempre lì, a fare da colonna sonora alla
mia vita. strano che l’abbia riconosciuta solo dopo, anni dopo, in una
sera d’inverno a ponte vecchio…
qualcosa a che fare con le panchine e il solletico
(cercare da qualche parte un nesso)
a volte, sembra che il mondo se ne stia lì a guardare, come quei vecchi
alle panchine dei giardini pubblici, quelli che non capisci mai come fanno
a non fare mai niente, stanno solo lì, come faranno a non annoiarsi, e a
non morirne, di questa solitudine spesa a guardare cani e bambini che
corrono e ridono. forse è proprio lì il trucco. correre. e guardare la gente
che corre. trovare qualcuno che corre e guardarlo. il mondo che guarda
gli uomini che corrono. e ride. guarda migliaia, milioni di esseri che
corrono verso il niente, verso un lavoro, una donna, o un uomo, una
canzone, una fotografia, un libro. e ride. vai poi a capire se ride per
l’assurdo motore di questa giostra. o se ride per il solletico.
abbey, un giorno dopo, in sogno
passeggiava sola, era notte. forse se ne sarebbe accorta, se avesse
degnato di uno sguardo il mondo esterno, e non si fosse dedicata così
assiduamente a dipanare i suoi pensieri, slegandoli e attorcigliandoli tra
loro, cercando di trovare un senso negli eventi di quelle ultime ore. forse,
se avesse solo sbirciato qua e là, ogni tanto, agli incroci, si sarebbe
accorta di aver superato da un pezzo la sua meta ultima, o quello che
avrebbe potuto essere la sua meta ultima. si sarebbe anche accorta di
quell’ombra che la seguiva, ormai da ore, instancabile e silenziosa. e forse
avrebbe potuto capire a fondo quello che sarebbe successo, di lì a pochi
minuti, quello che tante volte aveva aspettato, temuto, e che proprio
mentre abbassava la guardia scaricava su di lei tutti i suoi effetti. non
ascoltava, o forse rifiutava di capire a fondo, quello che tante volte si era
detta, senza sosta, ogni momento di quegli ultimi mesi di solitudine e
pellegrinaggio muto per le vie della città. come d’incanto, tutti gli
avvertimenti che la sua mente aveva mandato a memoria sembravano
scritti sulla sabbia, all’avvicinarsi dell’alta marea. sembravano ora
svuotati di significato, niente aveva più senso, niente sembrava voler dire
ancora
qualcosa,
quella
notte.
anzi,
sembravano
ora
lasciare
inesorabilmente il passo a una richiesta di riscatto, una disperata
richiesta di aiuto, per favore, non chiedo altro che di dimenticare. a
volte, basta anche solo un attimo e ci si ritrova in un posto che non ci si
aspettava di vedere, a cercare nei ricordi il momento esatto in cui si è
presa una nuova strada…
…
era notte. poche macchine in giro, era agosto e la città è sempre deserta
e silenziosa. forse un’altra beffa del destino, direbbero, se solo fosse
partita in vacanza, ora sarebbe, nella peggiore delle ipotesi, in una
vecchia osteria, a guardare un paio di vecchi giocare a carte e bere
lambrusco.
e invece, silenzio.
asfalto.
la luna lassù, un paio di stelle ad augurare un buon risveglio attraverso
le persiane socchiuse. i primi lavoratori del giorno. qualche ora ancora e
si sarebbe dovuta mettere al lavoro, un’altra settimana seduta a una
scrivania, davanti ad una tastiera e con mille idee, confuse, incerte, nella
testa. sarebbe dovuta cominciare un’altra, noiosa, tutto sommato inutile
settimana di lavoro. se avesse seguito la strada della sua ragione, i
precisi,
chiari,
accurati
avvertimenti
che
da
mesi
si
ripeteva,
automaticamente, ogni volta che la sua strada si incrociava con quella di
qualcun altro. invece, la città aveva progetti diversi, strade sconosciute
nelle
quali
avventurarsi,
sbirciando
dietro
gli
angoli
dei
portoni,
salutando i cani randagi, passando oltre le cartacce gettate a terra, lo
sguardo fisso sui pensieri, solo quelli, le sensazioni, e non sapere dove le
strade vanno a finire. perdere di vista la meta, non pensarci nemmeno
più. non avere il tempo, né il bisogno, di pensarci. vagare, a pochi
centimetri da terra, per la città silenziosa.
…
accanto, un uomo dorme. strana sensazione, strani eventi, strana
alchimia… strano sentirsi così libera di poter stare semplicemente qui,
così. strano pensare di poter non pensare al futuro, strano credere che si
possa pensare di poter vivere qualcosa, e qualcuno, fino all’ultima cellula,
senza volerne o doverne prevedere la fine, o l’inizio. semplicemente
vivere e sentire in ogni angolo del corpo e della mente di stare bene, qui,
con lui. anche se, in fondo, laggiù, rimane la paura che possa finire con
la stessa rapidità con cui è cominciato, un paio di giorni e tutto è solo
passato,
un
ricordo
appuntato
distrattamente
su
un
quaderno,
un’immagine sbiadita in testa, un odore a fior di labbra che pian piano
scompare…
storia di un viaggio
prima stazione. brisighella. un vecchio albergo dalle rosse tende scolorite,
un bambino che saluta sorridendo il treno, con la manina a sbucare dal
cappotto, in lontananza un castello...
seconda stazione. nemmeno un cartello. persa sulle colline. un gallo
passeggia lungo la ferrovia, ai piedi di una collina avvolta nella nebbia,
tanto che riesci appena a vedere la fattoria addormentata lassù, tra i
filari di vite, e il sentiero che ti mostra orgoglioso le orme fresche di una
vecchina, avvolta in uno scialle, con la sporta della spesa...
"san cassiano! stazione di san cassiano!!" chissà per chi, o cosa, urla... nel
grigio di questa fredda giornata d'autunno, un albero. solo, tra il nulla di
una campagna che sembra abbandonata. e la luce di quei frutti color del
sole, a illuminare quel che resta di una casa, di una vita, di un sogno
d'amore sognato chissà quando, in una notte d'estate, all'ombra di quei
rami...
il paese laggiù in fondo alla valle, ed il treno a tagliare il suo orizzonte.
una strada che diventa ponte, e poi piazza. poche case di molti colori. un
vaso di fiori rossi che indomito resiste al freddo.
in bilico sulla sponda del ponte, a guardare il torrente...
marradi. stavolta è il paese a starsene lassù, seduto in comoda poltrona.
come quell'uomo affacciato al balcone. guccini. pipa e basco, sciarpa e
maglione girocollo grigio.
le mani in tasca e lo sguardo a cercare qualcosa tra le rotaie...
biforco. letteralmente. due strade, ad incontrarsi in mezzo ad un campo.
forse, doveva solo sgranchirsi le gambe.
...
aprire gli occhi, e per prima cosa vedere la città addormentata lì in
fondo, con la foschia che ne nasconde il colore... aprire gli occhi, e non
poter indovinare chi sei, perché sei lì, che giorno è. potrebbe essere
qualunque giorno, qualunque anno, e non importa. vedi firenze, e sorridi.
ritornare a firenze. questa volta da sola. appoggiata ad un muretto, a
guardare l'immagine che per tutta la vita accompagnerà quell'attimo in
cui il mondo si è fermato, in cui il respiro è rimasto sospeso a mezz'aria,
prima di volare, lungo le onde, a colorare di noi tutta la città.
scendendo lungo il fiume, lo sguardo basso, le orecchie a cercare un po'
di silenzio, sono tornata a ponte vecchio. da sola, ad incontrarlo
nell'istante di un pensiero. con uno strano sapore di malinconia e gioia
nel cuore.
sarà il fiume... sarà che a mettersi qui sul lungarno, quest'angolo di città
sembra un quadro incorniciato di nuvole e onde... sarà che a camminare
per queste stradine, a cercare il ricordo del silenzio di una cappella e
dell'odore di cera, si riesce a cancellare il tempo... sarà che tutto,
qualunque pensiero, qualunque suono diventa idea di se stesso. così, i
miei ricordi diventano romanzo, canzone, quadro, vecchia fotografia in
bianco e nero. mantengono giusto un paio di contingenti attributi, il
fresco sulle guance in una notte a ponte vecchio, il caldo del sole a
piazzale michelangiolo, l'odore di cera, ma potrebbero essere ricordi di
una qualunque coppia in un qualunque momento della storia. potremmo
essere noi, secoli fa. potremmo essere noi, fra secoli.
arrivare qui, per caso, e scoprire l'eternità di noi. sentire un sapore di
felicità nel petto. correre a casa, su questo treno. scrivere, come un
fiume. pensare, come se io fossi una città che, silenziosa, osserva gli occhi
degli innamorati che l'attraversano, cattura i loro sguardi, e li conserva
nei suoi palazzi, nelle sue vie, nelle insegne dei suoi negozi...
il rumore del mare
il rumore delle onde sulla spiaggia, e l'odore di salsedine in inverno. e'
bastato un attimo, e una scena di un film, per farmi immaginare come
sarebbe vivere in una casa che sa di mare, in riva alla spiaggia. di quelle
che quando ti svegli e apri la finestra della camera senti un fruscio in
lontananza. una piccola locanda almayer, alla quale ritornare dopo una
passeggiata a piedi nudi tra le onde...
chi nasce al mare, non riesce a viverne lontano, dicono. io che sono nata
nella bassa, io che per una vita ho immaginato che il paradiso fosse
alzarmi e vedere la rugiada nei campi, ora mi ritrovo ad immaginare
come sarebbe bello vivere ad un palmo dall'oceano mare...
péage
avresti mai immaginato che una stazione di servizio potesse essere quasi
una poesia? sentire il rumore dell'auto che si ferma, e paradossalmente
accorgerti solo in quel momento che era accesa. ti è sempre sembrato
strano, fin da bambina, quando andavi in vacanza coi tuoi: sentivi il
rumore della macchina solo quando si spegneva, e le tue orecchie ormai
abituate al brusio si sentivano come in una chiara mattina d'estate, al
mare. brusio si sentivano come in una chiara mattina d'estate, al mare.
silenzio. eppure c'era qualcosa, qui.
sentire il rumore della portiera che, piano per non svegliarti, si apre, e
l'aria fredda della notte entrare ad accarezzarti le dita dei piedi che
sbucano dal sacco a pelo. socchiudi gli occhi, fuori dal finestrino il buio,
un paio di neon. una stazione di servizio, pare. chissà quanta strada
abbiamo fatto, mentre dormivo. un bel po', se ora dobbiamo per forza
fermarci qui a prendere un po' di freddo.
comunque, avresti mai immaginato che potesse essere così poetico,
svegliarsi nel cuore della notte in un paese straniero, alzarsi con gli occhi
ancora
addormentati,
andare
nell'autogrill
a
prendere
un
caffè,
sciacquarti la faccia, sgranchire le gambe. tornare indietro, e sentirti così
lontana dal mondo, così libera di poter girare la macchina e andare
dove vuoi. nessun impegno, solo una strada, e la possibilità di vedere il
mondo.
rientrare in macchina, con il sapore di caffè sulle labbra, e un po' meno
sonno. alla radio, una canzone francese. portiera. la macchina che pian
piano riparte. eccolo, il mondo che vuoi vedere. tutto racchiuso qui
dentro, solo con il paesaggio che cambia di là dal finestrino.
un'ombra, a farmi compagnia
mi ricordo di quando, da piccola, guardavo peter pan e la sua ombra
rincorrersi sui muri di una camera da letto. e ricordo il chiaro,
presuntuoso convincermi dell'assurdità della scena. dell'impossibilità, per
un'ombra, di abbandonare il corpo che l'ha generata. nessuno aveva mai
provato a farmi capire. forse erano tutti assolutamente d'accordo con
me. e pensare che una foto scattata per caso su un treno avrebbe dovuto
aprirmi gli occhi. qualcuno c'era arrivato, e io ancora mi ostinavo a non
voler credere. ce n'è voluto di tempo per smettere di guardare al mondo
con gli occhi di un cinico assassino di storie e cominciare a guardare le
ombre vivere sui muri, staccate dal corpo.
una fredda sera d'inverno, faccio conoscenza con un'ombra che abita la
parete della mia stanza d'albergo. non posso distinguerne i colori, né
l'espressione. non posso indovinare altro che una linea scura tracciata sul
muro intonacato di fresco. non so se sorride, se ha gli occhi aperti o
chiusi, se piange. non so se mi sta guardando, se osserva i miei
movimenti o li immagina soltanto. e' solo un'ombra. un piatto, grigio
disegno, direbbe qualcuno. un piatto, grigio disegno, avrei detto anni fa.
freddo di mattoni e tinta rosa per pareti ormai sporca dal passare degli
anni. e invece, quell'ombra prende vita. sembra impossibile, ma posso
vedere la piega del collo, il punto esatto in cui la spalla diventa braccio,
posso distinguere ogni ciocca di capelli, e alla debole luce dell'abat-jour
indovinarne il colore. posso sentire l'odore della sua pelle, immagino il
suo fiato disegnare nuvole sul freddo vetro della finestra. posso vederne i
movimenti, anche i più impercettibili, e sentire un brivido correre lungo
la mia schiena ad ogni suo avvicinarsi a me...
fuori, piove
mattino presto. la sveglia che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace.
dalle persiane entra una luce che sembra ancora di luna, e invece sono le
nuvole. nere nuvole a giustificare quelle goccioline che rigano i vetri.
d'altra
parte,
è
ancora
inverno.
mi
giro
dall'altra
parte,
rannicchiandomi ancora di più sotto il piumone. le piccole luci dell'abatjour ancora accese, devo averle dimenticate ieri sera. accanto a me, sul
cuscino, c'è ancora il libro che avevo cominciato a leggere. georges perec.
e nemmeno mi ricordo di aver avuto il tempo di leggerne una riga.
un'altra mattina, lunedì per di più. 7:00. sveglia. solito rituale: mi giro,
spengo quell'irritante squittio, tiro su il piumone sopra al collo, e non se
ne parli più. inutile che mi vengano a dire che devo alzarmi, e lavorare.
mi volto dall'altra parte, l'abat-jour accesa anche stanotte. dovrò
ricordarmi di spegnerla, una buona volta. niente libro, e la mente
ancora appannata a cercare di ricordare. domenica sera... cena con
amici, al solito. tante parole, cibo, un po' di televisione. due di notte,
troppo tardi per leggere. ecco perché. devo essermi addormentata così,
in questa esatta posizione, sul fianco sinistro, con la testa leggermente
sollevata in un morbido abbraccio. devo aver dormito profondamente,
un lungo sonno senza sogni, perché stamattina mi ritrovo nella stessa
identica
posizione.
tra
me
e
il
cuscino,
un
profumo
conosciuto.
schiacciato contro la mia guancia, un intero album di ricordi. quella
mattina d'agosto. e quella notte stellata in collina. la tensione del giorno
prima in un piccolissimo albergo a firenze. ora, è qui, come un libro.
aperto su una pagina che ancora non conosco.
sshhh
notte. di corsa, in macchina. il finestrino abbassato, quel poco che basta
per sentire le cicale. uno scialle, indosso solo la sottoveste. l’aria che ti si
attorciglia intorno alle gambe, e poi su fino alla vita, a solleticarti i
fianchi... l’aria della notte, nera, fresca carezza. un campo. uno
qualunque, in fondo. seduti su una panca, a parlare con la notte, ad
ascoltarla, le stelle e le luci della città, laggiù. solo il fresco della notte, il
respiro delle piante addormentate, sotto i piedi nudi la rugiada, e il
solletico dei trifogli. in lontananza, abbastanza da non rompere quella
magia, una macchina rientra verso casa. sembra casa, estate, ponticello
e passeggiate solitarie, una campagna diversa, ma sempre uguale. pace.
come un bambino che dorme, pugni chiusi.
autoradio
come per scherzo, cercare in vecchi cassetti nella mia testa le colonne
sonore di un'intera vita. come per scherzo, anche se in fondo non è vero
che non ho ricordi legati alla musica. non ora, non da grande. non da
quando la musica esce da tutti i buchi possibili di questo mondo. non da
quando non c'è più poesia, checché ne dicano. ma quando ero piccola, in
macchina con mamma che dormiva e papà che guidava verso il
campeggio, quando ero piccola sì che la musica aveva davvero un
significato. con la roulotte attaccata dietro, che arrancava per le strette
stradine della iugoslavia. io che cercavo di dormire, che credevo di
dormire, e invece ascoltavo. così, per scherzo, cercare quelle vecchie
canzoni italiane, con le parole allora incomprensibili e storpiate nella
mia testa di bimba. e all'improvviso ricordare, esattamente, il rumore
del giradischi di papà, il fruscio che voleva dire "finito!", quando in casa,
prima delle grandi partenze, cercava di mettere tutta quella musica in
una piccola cassetta di plastica bianca, e poi scriveva i titoli, tutti
allineati, con quella sua vecchia macchina da scrivere. come facesse, poi,
a far stare quei grandi dischi "che non si devono assolutamente toccare
che si rompono!" tutti dentro le cassette, è ancora un mistero. ed io,
stesa sul pavimento con le gambe piegate all'insù, a dondolare, che
sfogliavo quegli enormi quadernoni scritti fitti fitti, che papà diceva che
erano le parole delle canzoni, così io mi mettevo a cantare, seguendo col
dito un'immaginaria catena di note e parole.
neve, improvvisa
nevica, ancora. mezzo metro di bianchi fiocchi, ancora non violentati
dalle auto, beffardamente bloccate nel loro letto di bianco abbraccio.
qualche vecchietto si ostina a lottare contro il freddo, con una pala nelle
mani rosse. i bambini, come sempre, a rincorrersi nel giardino dietro
casa, improvvisati soldati di ventura a combattere contro muti fantasmi.
una finestra. una macchina. un motorino. quella buffa bicicletta tutta
ricoperta da uno spesso strato di neve. colpita. la neve crolla al suolo,
ricoprendo un povero cagnolino. il padrone, colpevole, che lo riporta in
casa, a dormire sotto al termosifone della cucina. sembra di sentire le
grida della mamma, arrabbiata con l'incoscienza del figlio, scocciata per
il suo forzato esilio in casa. televisione e parole crociate. e il desiderio di
poter essere incosciente, anche lei, come il figlio. o, al massimo, matta
come quel piccolo batuffolo di cotone bianco, nonostante il freddo.
almeno, ora si gode il caldo delle mattonelle di marmo, attraversate da
invisibili tubi amici. come quando, da piccola, si stendeva sotto l'albero di
natale, lasciando il freddo fuori, guardando le luci e i colori di quella
fantasia da cartone animato, con i piedi ben incollati al termosifone.
mare d'inverno, solo con il blu del cielo
passeggiare lungo il molo, con le dita che ancora sanno di pesce, chissà
poi perché non danno quelle bustine a forma di stella di mare, con le
salviettine al limone… passeggiare, guardare una strana barca bulgara,
trainata o trainante, entrare nel porto di marina di ravenna. chissà poi
che ci fanno i bulgari quaggiù… sempre che fossero bulgari, in effetti.
come quel cartone animato che guardava sempre mio fratello. una
barchetta legata con una corda ad un grande transatlantico. questo sarà
anche
molto
meno
romantico,
ma
insomma
l’idea
è
quella.
e poi c’è la luna, chi l’avrebbe mai detto. nemmeno l’avevo vista, e un
dito puntato a guardare il cielo blu, che strano il cielo blu di febbraio,
ma ora l’ho capito che quando il dito punta il cielo, nino, bisogna
guardare il cielo e non il dito. luna. chiara, come se si vergognasse di
starsene lì, come se avesse paura di non poterci stare. come se fosse
venuta, solo un attimo, a controllare che tutto andasse bene. tutto bene,
grazie. nemmeno in un film avrebbero potuto fare di meglio, mettere
insieme una giornata di sole, una fresca aria di quasi primavera, un
buon pranzo e una strana euforia che sembrava quasi di poter
chiacchierare con quel pescatore, peccato se ne sia andato via, con il suo
cane. pazienza, ci accontenteremo di ricordarlo così, curvo sotto il peso
degli anni, con le mani dure e callose e il passo dondolante di chi, in
fondo, non ci sa camminare, sulla terraferma.
lista nozze
lui la tira per un braccio, direzione computer e cellulari, ma lei se ne sta
lì, con il naso all’insù, proprio davanti ai ripiani delle stoviglie, reparto
“liste
nozze”.
lui
già
teme
l’inevitabile,
il
richiamo
implicito
dell’inesorabile dichiarazione, proprio sul più brutto, non sia mai che le
sia venuto il momento romantico proprio ora, alle cinque di un caldo
pomeriggio d’agosto, in uno squallido negozio. non può certo immaginare
che le liste nozze non c’entrano proprio niente, figuriamoci se a lui
interessano i piatti con i fiori sul bordo, o i bicchieri di mille forme e
colori. figuriamoci se gli interessano ora, a quasi trent’anni, proprio oggi
che
era
uscito
non
interessano
per
comprare
nemmeno
a
un
lei,
regalo
a
per
volerla
il
dire
suo
computer.
tutta.
si
sta
semplicemente chiedendo com’è che le pentole sembrano così lucide e
brillanti solo quando sono in un negozio, ben allineate sul ripiano di
vetro. com’è che se ne stanno lì, perfettamente ordinate in file da tre, e
sembra che siano così belle, e poi quando te le porti a casa sembra che
non abbiano più interesse ad imbellettarsi per affrontare la vita. una
volta accasate, smettono i loro abiti migliori, e se ne stanno meste in un
angolo, rigate dall’uso e opache dall’acqua e sapone. non che abbiano
molto interesse a mantenersi giovani e belle, in fondo: anche i mestoli, a
ben pensarci, una volta scartati del loro fiocco nero sul collo cominciano
il loro lento declino. impettiti e impeccabili all’inizio, allineati sul ripiano
e illuminati da una luce blu, diventano presto lisi dall’uso, con il fondo
rovinato dal continuo sostare in quei due millimetri d’acqua, sul fondo
del portaposate a lato del lavandino.
e se un tempo riuscivano a commuovere, con quel loro accarezzare
continuo i fianchi della loro amata pentola, ora si limitano ad
adagiarvisi sopra, stanchi, in bilico al riparo dal fuoco.
al parco
non l’avete mai visto un coniglio in ritardo? pensare che credevo fossimo
noi, quelli perennemente indaffarati. un’intera mattinata a correre, su e
giù, fuori e dentro da quel buco di terra che è la sua tana, o il suo
ufficio, a questo punto non puoi mai sapere. incontra un amico,
buongiorno coniglio!, si girano un po’ intorno, e poi via, ognuno per la
sua strada. me ne sono rimasta qui ad osservarlo, tutta mattina,
pensando a cosa mai può fare, tutto il santo giorno, un coniglio. forse è
proprio questa la tanto elogiata intelligenza della nostra specie: aver
avuto la rivoluzionaria e malsana idea di inventarsi tutto questo circo
per non morire di noia. lavoro, studio, casa, chiesa, vacanze e pranzi in
tavole imbandite. efficaci ed insostituibili ritrovati della tecnica e
dell’ingegno per perdere tempo, e tenere occupata la mente e il corpo.
poi deve essergli sfuggita un po’ troppo la mano, ma l’idea di fondo non
era poi così male.
…
ha smesso di correre. ora se ne sta lì, accanto ad un cespuglio, come una
sfinge a guardia della sua alcova. sotto i rami, un paio di orecchie e due
occhi che lo seguono in tutto quello che fa. e questa immobilità,
finalmente, mi sembra quanto di più perfetto potesse fare.
…
questo, almeno, la nostra umana intelligenza ha avuto il buon senso di
lasciarcelo.
dal treno
quasi il tramonto, e io me ne sto qui, seduta sullo scomodo poltroncino
di un treno, aspettando la stazione giusta. o quanto meno, quella che
indica come destinazione questo pezzettino di carta rosa e azzurro.
comunque, musica nelle orecchie, come al solito. un libro appoggiato sulle
ginocchia, un libro che parla di memorie perdute e ricercate, di odori
che ricordano qualcosa che a prima vista non sai. un libro che parla
anche di me, in fondo, e di quel vecchietto laggiù. l’ho visto per un
istante solo, chino come solo i vecchi sanno stare chini su un orto, a
strappare erbacce e intanto che ci sono anche un po’ di insalata per la
cena.
…
stessa scena, ovviamente senza il treno, anni fa, in un caldo tramonto
d’estate.
stesso colore arancione nell’aria, stesso sole caldo che piano piano si
nasconde dietro quell’ultima nuvola, che sembra messa lì apposta a
nascondere agli occhi di noi comuni mortali la bellezza del tramonto.
stesso campo, o suppergiù. stessa verdura, a bere l’acqua della lunga
pompa gialla (che si dà alla sera, se no evapora subito, e io a bocca
aperta ad imparare dalla nonna dalle dita ruvide di lavoro). stessa
schiena china a raccogliere sempre qualcosa. a pensarci dopo, sembra
che i vecchi non facciano altro. raccogliere.
…
raccogliere tutto il giorno. raccogliere verdura, raccogliere erbacce,
raccogliere un nipotino perso sul vialetto di casa. raccogliere ricordi,
pensieri, immagini. raccogliere idee e previsioni. raccogliere minuti e
secondi di una vita passata così.
…
la cosa buffa, a questo punto, è che seduta qui a ripensare alle mille cose
misteriosamente raccolte dai miei vecchi, mentre io sembravo distratta
a giocare, e invece, lo vedi?, eccome se vedevo, la cosa buffa è che seduta
qui ci sia io. a raccogliere anche io qualcosa, con la schiena curva sulle
mille gonne pesanti, il grembiule a fiori, le scarpe rotte ma tanto
servono per andare in campagna.
per come la vedo io
come il vento che si intrufola nei vicoli, a poterlo vedere mentre prende
tra le dita un foglio di carta stropicciato e lo fa roteare tra i muri delle
case. e’ inverno, notte. il vento congela la pelle, e la carne. ma il foglio
nemmeno se ne accorge, continua a ballare, lo vedi come danzare,
volare, roteare… sembra che stia per venirti addosso, il vento che lo
scaglia con violenza contro di te. chiudi gli occhi. ma dal niente una
folata ancora più forte lo prende da sotto il tuo naso, fai appena in
tempo a sentirne l’odore che già è dall’altro lato del vicolo, appoggiato in
un bidone…
…
un gatto. immagina un gatto. con quegli occhi che solo i gatti sanno
tirare fuori. altro che artigli. sono gli occhi il vero problema dei gatti.
comunque. un gatto, arrampicato su un cornicione, a
godersi la scena, a guardare il vento, lui che con quegli occhi può
vederlo. sembra aspettare il momento giusto, arrampicato lassù con
tutti i muscoli tesi. non sente il freddo, concentrato com’è.
…
un solo, preciso salto, e lo vedi piombare sul foglio un attimo prima che
tocchi, inesorabilmente, il bidone. ormai ridotto, e riducibile, a piccola
pallina di carta. non sembra vero, poterne vedere una forma amica.
come i gomitoli della nonna… con questo sì che si può giocare. imitare il
vento. un salto, una capriola, e si ritrova dall’altro lato del vicolo.
superata una folata di vento, che voleva solo riprendersi quel tesoro
bianco. e che ora rimbalza da una zampa all’altra, veloce come uno
sguardo. poi, un colpo più forte. il vento che si ferma a guardare anche
lui. una palla che vola, verso un bidone, sempre quello. una sirena della
polizia, lontana, come in ogni film. neanche a farlo apposta. canestro.
essere onda
un’onda.
di quelle che partono da un punto imprecisato dell’oceano, laggiù. di
quelle che si fanno migliaia di chilometri, magari accompagnate da un
delfino, o da un gabbiano che si è allontanato un po’ troppo da casa.
un’onda.
di quelle che arrivano dalle parti di una spiaggia, che forse nemmeno
l’hanno scelta, così, all’improvviso. che magari se ne sarebbero state
ancora un po’ al largo, a pensare a dove andare. e invece.
spiaggia.
e sabbia. qualche conchiglia, il gabbiano che finalmente si riposa, l’orma
di un cane passato da qui.
spiaggia.
e per prima cosa, a solleticarmi la pancia, quella che chiamano riva.
perché, poi? non è forse sempre spiaggia? ed è per via della riva che si
dice arrivare? e allora, vuol dire che sono arrivata? e ora…?
con la coda tra le gambe
era come se non fosse successo niente. sapeva che sarebbe dovuto
succedere qualcosa, a questo punto, e così guardava stupito all’insù,
aspettando. gli occhi sbarrati, le orecchie pronte a cogliere il minimo
rumore. e non riusciva a capire come mai lei fosse ancora lì, a
continuare imperterrita con quello che stava facendo. possibile che non si
fosse accorta di niente? possibile sperare che sarebbe finito tutto così?
non riusciva a crederci. non c’è niente da fare, è difficile far finta che
questa volta possa andare in modo diverso dal solito. e poi, perché
proprio questa volta? quali strani pensieri l’hanno portata a cambiare
idea, a lasciar correre, per una volta? una soltanto, questo lo sapeva
bene. non c’era da illudersi che potesse essere per sempre. ma intanto, si
gode la momentanea libertà, l’immunità, l’inaspettata fuga, prima che
lei se ne accorga. evidentemente, l’unica causa di questo suo bonario
lasciapassare è che ancora non si è accorta di niente. meglio cogliere al
volo l’occasione, così che quando se ne accorgerà, e vorrà distruggere
questo silenzio, si tratterrà, sapendo che in fondo, una volta fatto il
danno, è inutile accanirsi. tanto, non si ricorderà già più di quello che ha
fatto, sarebbe una cattiveria inutile…
scodinzolando, si allontana dalla stanza, mentre lei ancora rigira
l’insalata tra le mani. per terra, un tovagliolo di carta, o quello che ne
rimane.
mi chiamo toe
mi chiamo toe. no, non joe come quello del film. e no, nemmeno tom
con un errore di scrittura. toe. ti-o-e. sono un dito. o meglio, sarò un
dito. il dito mignolo del piede destro di un bambino, per la precisione. il
nome del bambino ancora non si sa, perché i genitori non sanno se è
maschio o femmina e andrea, che avrebbe messo tutti a tacere, non
piaceva ai nonni proprio perché avrebbe messo tutti a tacere. ma io mi
chiamo toe. questo è un dato di fatto. in realtà, è un dato di fatto anche
che tutti i miei fratelli si chiamano toe, ma non è mai stato un
problema, per noi. l’unica cosa che non so cosa aspettarmi dal futuro.
collant? calzettoni? pinne? insomma, uno dovrebbe prepararsi bene,
prima. imparare, studiare, allenarsi per non arrivare impreparato, con
le unghie troppo corte, o troppo lunghe. ecco, oltre al nome del bambino
dovrebbero scegliere anche le scarpe. giusto per venirmi incontro. già che
sono il più piccolo e sacrificato, qui dietro, almeno sapere dove vivrò. mi
hanno detto che tanto i primi tempi è tutto un dormire, nella culla,
“sempre che non ti mangino di baci”. questa devo averla letta da
qualche parte, e un po’ mi lascia perplesso, ma immagino sia sempre
meglio di un paio di scarpe da ginnastica.
zampirone, quello verde
in fondo era estate. c’era da aspettarselo. quello che non capiva era
come mai i ricordi si mescolassero ai sogni.
c’era da aspettarsi che quell’odore, come tutti gli odori di questo mondo,
avrebbe risvegliato qualcosa, una qualunque banalissima emozione. la
differenza era che quella volta il fumo dello zampirone la portò in un
mondo inesistente, in un racconto immaginato e non vissuto. era una
cosa nuova, tanto valeva chiudere gli occhi e vedere come sarebbe
andata a finire.
zampirone, accanto alla finestra aperta. o lo si odia dal profondo
dell’anima, o non c’è estate senza odore di abbronzante e zampirone. lei
era una di quelle da abbronzante e zampirone. per questo, appena
accesa la lucina rossa, quella testa di serpente mangiazanzare, la mente
la riportò indietro di anni, in un piccolo campeggio. l’arietta fresca del
mare, la roulotte con la veranda davanti che sa di plastica e la stuoia
color ocra, la cena a lume di lampadina, in piatti di plastica e bicchieri
di carta. le sere tutte uguali, davanti alla roulotte ad immaginare chi
passa. ne senti la voce prima di vederne i contorni (della faccia,
nemmeno a parlarne con quel buio). e poi, ogni tanto, una partita a
carte, o se è una serata speciale un gelato, giù in paese, quando c’è un
paese con dei gelati.
quella sera, sembrava tutta un’altra vita. in tenda, in un campeggio
ancora più piccolo. gli odori sono gli stessi, ma le voci, la lingua, le
persone no. essere più grande, e continuare ad amare questa leggera
umidità. essere più grande, ed amarla ancora di più, quando ti giri e alla
luce della lanternina da campeggio non puoi fare a meno di sorridere. in
giro per il mondo, in città che nemmeno immaginavi potessero esistere,
in boschi bui come la notte e umidi come la rugiada. non sembra
possibile, poter immaginare di vivere una vacanza così, con accanto due
occhi che ridono alla luce della luna. e invece, eccola, basta chiudere gli
occhi…
marea
ho visto le onde fare a gara sul bagnasciuga.
l’oceano mangiarsi pian piano metri di spiaggia.
penisole diventare isole.
bagnanti perplessi e soli con le caviglie inspiegabilmente bagnate.
orme di cuccioli sulla sabbia.
nuvole
nere
sbucare
all’improvviso
scomparire in mezzo all’oceano.
e
altrettanto
all’improvviso
illusioni
parigi. metropolitana. ora di punta. ancora due fermate e si scende.
ancora due fermate e si sale. fino alla luce del sole, prima che scompaia
dietro i tetti delle case. prima che regali a questa fetta di mondo
un’altra scena da film. comignoli, che nemmeno gli aristogatti. tetti di
ardesia. finestre dalle quali ti aspetti sempre di vedere un poeta, un
pittore che si affaccia incuriosito da un piccione affamato. e invece
niente. una madre, due bambini che urlano, un vecchio sperduto. un
paio di vasi di fiori, tanto per creare atmosfera… e il sole che si abbassa
lentamente, in un cielo del color del tramonto. quello vero, si intende.
ancora due fermate e ci toccherà renderci conto che in realtà non siamo
in un film. parigi è così… ti illude di essere come un quadro, o un vecchio
film… e invece, inesorabilmente, ti rendi conto di quanto sia reale,
squallida, a volte perfino puzzolente… ti rendi conto, per forza, di quel
fiume di gente che ti strattona sulle scale, di quell’immenso mondo
indifferente che ti scivola addosso, ti urta, ti ignora… se solo quei due
occhi potessero salvarmi. se solo potessero capire quanto mi sento
sperduta, in questo mare, di quanto avrei bisogno di una mano, di un
sorriso, di un cattivissimo caffè bevuto in un buio bistrot del marais. due
dita che ti sfiorano. uno sguardo incuriosito. chissà se potrà capitare di
rivederci, domani sera magari… all’ora di punta. due fermate prima del
tramonto.
insonnia
notte fonda, e ancora non riesce a dormire. le sembrava così semplice,
da fare: stendersi sul letto, nonostante il caldo, chiudere gli occhi, e
aspettare. e invece eccola ancora lì che si rigira senza sosta, e senza
senso. eppure, dovrebbe avere sonno… chissà cos’è. forse il letto estraneo,
forse l’eccitazione della novità, la novità dell’eccezione alla normale vita.
…
alla fine, si decide e va alla finestra, a cercare un po’ di fresco. c’è l’odore
dell’estate in bicicletta dopo cena, a prendere il gelato con l’amica
cugina. bei tempi, quelli. peccato. al di là della strada c’è un’altra
finestra, mondo simmetrico al suo. dentro, una donna, anche lei
probabilmente a combattere contro il caldo, il telegiornale ha detto che
era la giornata più calda d’estate. la donna è seduta ad un tavolo, in
una casa che sembra uscita da un film da dolce vita, e scrive. ogni tanto,
guarda il muro, sembra che pensi, e poi scrive qualcosa. una parola, o
anche solo una lettera. parole crociate, a distrarre il sonno che si
avvicina. stranamente, nel mondo simmetrico al suo, il sonno lo si caccia
a colpi di parole, invece di cercarlo tra le righe di una storia. forse è
davvero lo specchio di quello che è, una donna a vegliare chissà chi
passando il tempo come riesce, come fanno tutte le nonne, almeno un
po’, nei caldi pomeriggi e nelle fredde sere, e una ragazza a pensare
insonne, a cercare di non buttare via nemmeno un minuto della sua
giovane notte.
prende la borsa, e se ne va in giro per la città addormentata, cercando
altre donne, altri rebus, altre luci accese su tavoli ancora apparecchiati
della cena. cammina con il naso all’insù, guarda tutte le finestre.
dormono, dormono tutti.
fuori, piove
mattino presto. la sveglia che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace.
dalle persiane entra una luce che sembra ancora di luna, e invece sono le
nuvole. nere nuvole a giustificare quelle goccioline che rigano i vetri.
d’altra
parte,
è
ancora
inverno.
mi
giro
dall’altra
parte,
rannicchiandomi ancora di più sotto il piumone. le piccole luci dell’abatjour ancora accese, devo averle dimenticate ieri sera. accanto a me, sul
cuscino, c’è ancora il libro che avevo cominciato a leggere. georges perec.
e nemmeno mi ricordo di aver avuto il tempo di leggerne una riga.
un’altra mattina, lunedì per di più. 7:00. sveglia. solito rituale: mi giro,
spengo quell’irritante squittio, tiro su il piumone sopra al collo, e non se
ne parli più. inutile che mi vengano a dire che devo alzarmi, e lavorare.
mi volto dall’altra parte, l’abat-jour accesa anche stanotte. dovrò
ricordarmi di spegnerla, una buona volta. niente libro, e la mente
ancora appannata a cercare di ricordare. domenica sera… cena con
amici, al solito. tante parole, cibo, un po’ di televisione. due di notte,
troppo tardi per leggere. ecco perché. devo essermi addormentata così,
in questa esatta posizione, sul fianco sinistro, con la testa leggermente
sollevata in un morbido abbraccio. devo aver dormito profondamente,
un lungo sonno senza sogni, perché stamattina mi ritrovo nella stessa
identica
posizione.
tra
me
e
il
cuscino,
un
profumo
conosciuto.
schiacciato contro la mia guancia, un intero album di ricordi. quella
mattina d’agosto. e quella notte stellata in collina. la tensione del giorno
prima in un piccolissimo albergo a firenze. ora, è qui, come un libro.
aperto su una pagina che ancora non conosco.
sulla spiaggia
svegliarsi come da un lungo viaggio nel fondo del mare. svegliarsi e
ritrovarsi, stanca e bagnata, sulla riva sabbiosa di un mare sterminato.
svegliarsi e ricordare, chiaramente, di essere stata, per un istante, nel
fondo di quel mare.
trascinata sul fondo da una corrente, che mi accarezza la pelle, sale
dalla punta dei piedi su, fino alle gambe, fino ai fianchi, fino alle spalle,
fino ai capelli che lenti si muovono intorno a me. trascinata come in
un’infinita danza con le onde, senza peso, senza suoni, senza colori che
non siano quella debole luce lassù. trascinata come una ballerina d’acqua,
divento anche io corrente, che arrotolandosi su se stessa scende sempre
più in fondo, fino a sfiorare le morbide alghe che come verde lenzuolo
vorrebbero accogliermi in un sonno senza sogni.
e invece, all’improvviso, risalire. con un brivido freddo lungo la schiena,
ritrovarsi a poter respirare, finalmente, un po’ d’aria. rimanere lì,
sdraiata sull’acqua, con il filo dell’orizzonte che si muove su e giù, più o
meno a metà dei miei fianchi. sentire il filo dell’acqua che sale, che mi
copre le orecchie per un solo istante, che mi solletica le spalle. e poi
ritornare a riva, ondeggiando sotto il pelo dell’acqua, senza respirare,
senza pensare, senza nemmeno sapere come si fa, a nuotare così.
finché, esausta, non riapro gli occhi. e mi ritrovo, accecata dal sole, stesa
sulla riva, la sabbia incollata alla pelle, i capelli ancora bagnati, il respiro
che non vuole tornare.
un rifugio perfetto
la prima cosa che mi viene in mente se penso a mezzano scotti è il
rintocco delle campane. hanno il suono del fine settimana passato in
collina, delle mattine che ti svegli con l’odore del pane appena sfornato,
del sabato al mercato, del negozio dietro casa dove trovi di tutto a
qualunque ora del giorno, e delle serate estive passate seduti davanti
casa ad aspettare il sonno.
e mi piace pensare che questo sia uno dei motivi che hanno spinto
renato, anni fa, a cercare un rustico da ristrutturare in questo angolo di
mondo. certo, il fatto di essere immersi in val trebbia deve aver avuto
una certa influenza: è un lusso non da poco poter trascorrere i mesi
estivi in questa valle, gustando per cena i deliziosi piatti tipici della zona
e avendo a due passi da casa una cittadina come bobbio, con il suo ponte
gobbo e i suoi festival estivi. ma stiamo pur sempre parlando di quattro
mura diroccate che, a dirla tutta, non sembravano un grande affare.
quella che un tempo era la casa della sarta del paese, ma che, dicono i
ben informati, è stata anche, per un po’, latteria, era all’epoca ridotta a
uno scheletro malmesso. per innamorarsene doveva esserci qualcosa di
più. da qualche parte tra quei sassi doveva nascondersi, accucciata come
i gatti randagi che li abitavano, l’idea di un rifugio perfetto.
per dare vita a quell’idea, una volta intuito che forma avesse, ci sono
voluti interminabili fine settimana passati nei mercatini dell’usato, a
cercare l’oggetto perfetto per arredare la cucina. pomeriggi interi spesi
dal fabbro del paese per controllare che lo sportello del forno venisse
ristrutturato rispettando la forma originaria. e qualche primavera
trascorsa in pantaloncini corti a sistemare l’orto, a tinteggiare la rampa
della scala, a tirar su un muretto, a scartavetrare e rimodernare la
ghiacciaia. ci sono volute soprattutto tante chiacchiere con i compaesani,
molti dei quali, mezzadri, hanno vissuto nella grande cascina di cui
questa casa faceva parte. entrati per curiosare e per ricordare il passato,
e soprattutto preoccupati che il forno, un tempo usato da tutto il paese,
venisse
conservato,
hanno
inconsapevolmente
suggerito
le
esatte
sfumature che la casa avrebbe preso.
e così l’aria di antica casa di collina è rimasta, come la vite abbracciata
alla legnaia, nonostante la minuscola stalla, a sorpresa, sia diventata un
salottino, e nonostante non ci siano più le galline a razzolare nell’aia. al
loro posto, sophie, il cane, abbaia a chiunque passi da quelle parti, ma
soprattutto alle campane di mezzogiorno.
la parigi mai vista
la campagna che separava montmartre da parigi
parve meno estesa dall’ultima volta che avevano
fatto visita a claire. sembrava che nuove case dai
camini rossi ancora privi di fuliggine si fossero
spinte dalla butte fino a valle e che la città si fosse
protesa per andare loro incontro.
(s. vreeland)
aprì gli occhi, e si ritrovò in un mondo che non credeva di conoscere. si
era addormentata pensando a quanto sarebbe stato difficile, il giorno
dopo, andare alla fac con lo sciopero della metro e tutto il resto. oggi,
carte orange non evocava altro che la spessa carta colorata che avvolge
la baguette della signora céline, giù alla bottega.
una lunga gonna di lana marrone, una semplice maglia nera e un
mantello spesso e ruvido. capelli raccolti, come al solito, e al collo una
semplice catenina di metallo. uscì nel freddo della strada e si incamminò
verso
il
mercato,
per
la
spesa
quotidiana.
due
parole
con
la
fruttivendola, e poi un saluto a céline. poverina, con quell’influenza, e
questo freddo. in effetti, anche lei si sentiva un po’ strana, era come se
sapesse esattamente come comportarsi, nonostante non fosse il suo
mondo. o magari era solo il naso chiuso. ma era esattamente quello che
ci voleva, svegliarsi una mattina a parigi e scoprire un mondo tutto
nuovo, un mondo che non credeva di poter vedere. un mondo che
nessuno avrebbe mai più rivisto.
...
ecco, questa è la cosa che più mi manca, in fondo.
non il non aver potuto vedere la parigi d’antan, ma il non aver avuto
modo di scoprirne tutte le tracce. ho paura che un mattone, un angolo
di strada rimasto intatto da allora, mi sia sfuggito. anche se, in fin dei
conti, tutto quello che ricordo è di essere andata in giro per le stradine
del centro cercando di cancellare auto, zainetti colorati e mcdonald. e in
fondo, parigi è una città nella quale questo strano esercizio della mente è
abbastanza facile da fare. forse, l’unica città al mondo in cui sia
veramente possibile sentirsi in un posto fuori dal tempo. ma non è quello
che cercavo. quello che mi manca, è affacciarmi dalla terrazza del sacré
coeur e vedere solo colline, a perdita d’occhio, e parigi laggiù. cancellare
tutti quegli splendidi tetti d’ardesia e i camini, tutti simili, infiniti.
collezione autunno-inverno
se fosse un oggetto, sarebbe una sciarpa. una di quelle sciarpe di lana
colorate, lavorate ai ferri, con le frange. così come io probabilmente, non
potendo aspirare alla perfezione di una moleskine scritta fitta fitta, sarei
una borsa, di quelle borse a sacco di cuoio chiaro che fanno molto anni
settanta. cuoio martellato, si chiama. su di me probabilmente la
chiamerebbero cellulite. io sarei una borsa e lei una sciarpa, se vivessimo
in uno di quei mondi da cartone animato in cui le automobili parlano e
le calcolatrici cantano.
lei sarebbe una lunga, morbida, allegra sciarpa. che poi è strano, perché
è una delle persone più solari che conosco. quindi, a rigor di logica,
dovrebbe essere, che so?, un paio di occhiali da sole. anche loro anni
settanta, perché si sa che il simbolismo è vintage. l’ultimo modello di
armani non potrebbe essere così poetico.
e invece, è una sciarpa.
non ci posso fare niente, è venuta fuori così. chissà che giro strano ha
fatto la mia fantasia, ma tant’è. che poi, con il senno di poi, aveva
ragione lei. la mia fantasia, intendo. ora la sciarpa se ne va, al nord. al
freddo. forse lo sapeva già, dove sarebbe finita, e così al momento di
decidere se essere un costumino a triangolo fatto all’uncinetto e
un’enorme sciarpa blu petrolio e bordeaux, ha pensato bene di mettere
le mani avanti e buttarsi sulla seconda.
oggi il mondo si è trasformato.
non è più quello di ieri. tanto per cominciare, ho conosciuto un nuovo
posto dove passare qualche serata invernale la differenza è la stessa che
ci starebbe tra questo mondo e il mondo dei cartoni animati di cui
sopra. per dire, mio padre oggi è un calamaio appoggiato su una
scrivania di mogano. mamma un cuscino (ma in fondo ogni mamma è
per definizione il primo cuscino di ognuno di noi). mio nonno un
trattore, ovviamente un landini arancione. e la nonna un mattarello.
mio fratello, un obiettivo di una vecchia macchina fotografica. un lungo,
magro e contemplativo obiettivo.
domani il mondo tornerà ad essere quello di ieri. niente obiettivi, niente
trattori, solo persone in carne ed ossa.
…
la sciarpa deve essersi persa.
va sempre perso qualcosa, nei traslochi.
ad ognimodo, quest’inverno avrò un po’ freddo, già me lo sento, senza
sciarpa.
…
per fortuna che, essendo una borsa bella grande, non rischio di perdere
tutti i ricordi.
devo avere ancora qualche pelucco, qua e là.
per fortuna.