Frammenti de La Generazione degli Odissei

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Frammenti de La Generazione degli Odissei
EDOARDO E. MACALLE’
la generazione
degli ODISSEI
(half
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Fedor Dostoevskij (“il giocatore”), Nassim Nicholas Taleb
(“il professionista dell’incertezza”) e Renato Di Lorenzo (“il
pratictioner”)
saran le vere “voci fuori campo” di questo nostro lavoro. Ci accompagneranno
lungo il suo percorso, spesso anche guidandoci, ma sempre e solo in quanto
“voci”, “voci” che potranno anche confondersi con la nostra (a volte useremo le
loro stesse parole proprio perché incapaci a trovarne, noi, di migliori!), ma che,
dal “fuori campo” in cui si trovano, non potranno mai giungere ad occupar
pienamente la scena. Certo, talvolta andremo anche a perpetrare, ai loro
danni, un vero e proprio saccheggio, giacché, nel “nostro”, si farà pieno bottino
del “loro” argomentare, ma non potrebbe esser altrimenti una volta scelto di
dialogar con loro come s’è soliti fare con la propria coscienza: da un lato con la
necessaria distanza, perché senza quest’ultima, in realtà, non si potrebbe mai
dare alcun dialogo, dall’altro senz’alcuna distanza, trattandosi proprio di un
dialogo “tutto dentro di noi”. Un dialogo che, quando ci sarà data la possibilità,
renderemo sempre esplicito, ma che in talune occasioni saremo obbligati a
sottacere
proprio
per
non
interrompere
l’armonico
fluire
del
discorso
(detestiamo le note a piè pagina: spezzano il piacere della lettura, proprio
come fan gli spot con la visione di un film!). Saremo anche noi, perciò, un po’
giocatori, un po’ professionisti dell’incertezza ed un po’ practitioners, ma non
saremo
mai
solo
giocatori
o
solo
professionisti
dell’incertezza
o
solo
practitioners. Proveremo, infatti, a spingerci un po’ oltre tali ruoli, assumendo
di volta in volta il più opportuno, ma solo per proiettarci verso qualcosa di
diverso, qualcosa di nuovo (forse…), dove tuttavia non è ancor chiaro cosa
possa trovarsi. O meglio: con la speranza di non trovare alcunché di
definitivo.
Come giocatori, evidentemente, non potremo che appassionarci alla nostra
stessa ricerca, ma già come professionisti dell’incertezza ci vedremo costretti a
dubitare dei suoi stessi risultati, fin a convenire, con il practitioner, che, in
realtà, neanche a noi sarà mai concessa alcuna verità assoluta, alcuna verità
rivelata e da rivelare a nostra volta: che senso potrebbe più avere, oggi, la
figura dell’analista tecnico investito di un sapere divino da esibirsi e
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trasmettersi ai comuni mortali?… A differenza di quel che alcuni credono
ancora, infatti, il rapporto tra l’investitore ed i mercati finanziari non può esser
più concepito sulla base di schemi fissi ed immutabili: quel rapporto, ora, è da
intendersi come una vera e propria creazione continua (e a sensi non univoci!)
che, per migliorarsi, necessita solo di un impegno più che costante.
Vero è, tuttavia, che le cose ancor adesso stanno ben diversamente e che,
soprattutto tra i più giovani, ancor troppi son coloro che pensano, a differenza
del practitioner, di trovar dietro ai mercati non tanto “il libero gioco delle
ondate di domanda ed offerta”, quanto quello, di certo ben più rigido, delle
“onde di Elliott”. Non che noi, con questo, si voglia sottoporre a critica la Teoria
delle Onde o chi ne faccia buon uso o semplice sfoggio: in realtà, a noi, di tutto
ciò nulla interessa. Una volta accettata, infatti, la tesi per cui “l’uomo è misura
di tutte le cose” non possiamo far altro che dare un senso antidogmatico ad
ogni nostro argomento: la verità sui mercati, perciò, non può esser più
qualcosa di dato una volta per sempre, non può esser quanto viene rivelato da
un profeta, né consistere in una tradizione “mitica” che possa esser
tramandata di generazione in generazione (quanti abusivi di Gann potremmo
trovare, oggi, nel nostro paese?…). Tale verità, piuttosto, consiste sempre in
un rapporto dialettico con gli eventi del mercato, un rapporto che ogni singolo
investitore o trader instaura, di volta in volta, a seconda dell’età, delle sue
disposizioni, della sua situazione, con quella realtà in cui si trova egli stesso
immerso. Tale realtà, tuttavia, è sempre qualcosa di dato, qualcosa, cioè, che il
singolo non crea, ma trova. Una realtà data, dunque, ma anche mutevole. Che
possiede in sé le ragioni del suo stesso divenire (e trasformarsi continuo) e di
cui, alla fin fine, lo stesso investitore o trader partecipa divenendo egli stesso
(cambiando, cioè, a propria volta). D’altra parte ogni singolo ha sempre dalla
sua la capacità di sentire e giudicare, nonché gli strumenti per farlo (che siano
di tipo fondamentale o tecnico o di tutt’altro tipo…) e proprio queste sue
sensazioni, nonché i giudizi successivamente espressi, rappresentano di volta
in volta il particolare rapporto che s’instaura tra l’investitore ed il mercato. Un
rapporto che, ovviamente, non può esser né fisso né costante giacché, tanto i
mercati, quanto chi sugli stessi, a vario titolo, ci lavora, non potranno mai
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essere, a propria volta, statici. In una realtà in continuo divenire accade,
pertanto, che ognuno finisca col fermare solo quegli aspetti che gli appaiono
più congeniali e questo proprio perché il mercato, da un lato, esiste prima ed
indipendentemente dall’investitore e, dall’altro, racchiude in sé la possibilità
delle più diverse sensazioni. I discorsi contrapposti che è possibile fare su ogni
suo evento non son dunque altro che le diverse possibilità di caratterizzazione
qualitativa del mercato stesso. Sia “quando” e sia “in quanto” quello diviene
oggetto di sensazione e d’analisi.
Lungo questa via, allora, appare inevitabile, da un lato, dar pieno valore alla
verità del fenomeno e, dall’altro, dar piena giustificazione alla relatività della
verità: ciascuno, infatti, ha la sua verità, perché ciascuno ha le sue sensazioni,
diverse da quelle dell’altro e sulle quali ciascuno costruisce i propri giudizi ed
argomenti. Ma se ciascuno sente in un proprio particolare modo e proprio su
quest’ultimo costruisce i propri argomenti, allora non potrà che dir sempre la
propria relativa verità. A priori, infatti, non esiste alcun’analisi del
mercato che possa dirsi vera o falsa: ciascuno affermerà sempre quel che
è vero per lui in quel momento, in quella situazione ed in quella particolare
disposizione in cui si trova.
Non abbiamo alcun dubbio che simili argomentazioni possano costarci la ben
facile accusa di “sofista”, ma questo è un accostamento che non abbiamo
alcun’intenzione di rigettare, anzi… Anche perché a tale attributo, noi,
assegniamo una valenza ben diversa da quella sostanzialmente negativa che la
consuetudine le addebita. Del resto, sarà di facile evidenza per tutti che se le
cose non fossero così come le si è appena descritte, non potrebbero esservi
neanche i mercati, i quali finiscono sempre col poggiare su quell’incontro tra
domanda ed offerta che non può che nascere dalle diverse verità (opinioni) di
chi compra e di chi vende (i mercati, su cui ciascuno mette a confronto la
propria opinione con quella altrui, non avrebbero più alcuna ragion d’esistere,
infatti, se tutti avessimo, a priori, la stessa verità).
D’altra parte, “sofista” fu anche quell’Eraclito di Efeso (VI e V secolo a.C.) che,
mostrandosi particolarmente attento a “la perenne mobilità di tutte le cose”
(tutto si muove, tutto cambia, senza posa e senza eccezione), primo fra tutti
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descrisse la realtà come un incessante processo di mutamento d’attribuirsi al
conflitto d’elementi contrari (il caldo e il freddo, l’umido e il secco…). Proprio
quell’Eraclito che, nella storia, potrebbe però esser ricordato, anche, come il
primo “analista dei mercati finanziari”. Tra i diversi simboli del divenire, infatti,
egli attribuì un ruolo d’assoluto rilievo allo stesso danaro: la moneta di scambio
non è solo in continuo passaggio da una mano all’altra, ma esprime a propria
volta, nella sintesi tra domanda ed offerta (elementi contrari!), il valore di una
qualsiasi merce. Ed è proprio in tale sintesi d’elementi contrari che si manifesta
al meglio, secondo il sofista, quella straordinaria armonia che da sempre si
cela nell’apparenza del divenire: in fondo, la trasformazione senza soste del
tutto nel tutto è solo quel che si rivela ad un primo e superficiale esame della
realtà, quando, a causa di un’analisi troppo minuta della stessa, si sia finito col
perderne la visione d’insieme. Il mondo, infatti, è solo all’apparenza dominato
dal disordine, mentre nella sua sostanza esprime sempre una logica interna
(“legge dell’armonia”) che l’uomo deve provar a cogliere.
Son cose, queste, che Eraclito disse circa 2500 anni fa a proposito della realtà,
ma che potrebbero tranquillamente dirsi, oggi, per i mercati finanziari e delle
quali tutti coloro che giusto su questi compiono i propri studi dovrebbero
sempre tener conto.
Il termine “armonia”, tuttavia, potrebbe indurre alcuni a veder nei mercati
finanziari una “presenza” ben diversa da quella di semplici uomini che sugli
stessi mettono a confronto le proprie verità. Non è evidentemente, questa, la
nostra intenzione: non esiste alcuna presenza occulta dietro il divenire dei
mercati finanziari! E’ piuttosto vero che, come non è possibile dare alcuna
probabilità “fuori del tempo”, così non è possibile prescindere da quell’armonia
che proprio “nel tempo” manifesta le sua probabilità. Nel divenire dei mercati,
nelle tendenze assunte da questi, infatti, le diverse verità degli investitori confluiscono verso un’armonia che non è mai data a priori, ma che si forma, con
diversi gradi di probabilità, nell’incessante scorrere del tempo. E se, a priori,
non può darsi alcun’analisi dei mercati che possa dirsi vera o falsa, è pur vero
come, a posteriori, tale giudizio sia facilmente esprimibile, proprio perché, col
tempo, l’armonia (qualunque essa sia!) è in grado d’imprimere un impulso, una
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tendenza agli eventi che nulla potrebbe mai celare ai nostri occhi (…agli occhi
di chiunque).
E’ evidente, perciò, come s’apra, inevitabile, un baratro tra noi ed il mercato,
tra i nostri investimenti e proprio quel che è oggetto degli stessi: giacché,
infatti, non è possibile dare, a priori, alcun giudizio vero sul mercato e giacché i
nostri investimenti, invece, son sempre assunti “a priori”, quale criterio si
potrà mai adottare per districarsi nell’autentica babele d’opinioni in cui
analisti, consulenti e guru, finiscono col sommergere tutto ciò su cui è
possibile investire?…
Non si tratta, evidentemente, di un problema di poco conto. E senza soluzione
finirebbe col condannarci ad un vero e proprio immobilismo di stampo
nichilista. Un aiuto, ancora una volta, ci viene però dal practitioner che è in
noi: “Il problema s’è complicato, ma non è il caso di disperare, perché noi
siamo practitioners, …persone, cioè, che hanno solo bisogno di ricette semplici
e affidabili!”. Il solo criterio che si possa usar nel caso, infatti, è un criterio che
rimanda al “bene”, al “ciò che è bene fare” contro il “ciò che non è bene fare”,
al “ciò che è utile per noi fare” contro il “ciò che è per noi indifferente fare”, al
“ciò che potrebbe esser per noi di soddisfazione” contro il “ciò che non
potrebbe fornirci alcuna soddisfazione”. E questo, non solo a priori dei possibili
risultati finali del nostro operare, ma a prescindere, soprattutto, da qualsiasi
opinione altrui, che possa rivelarsi vera piuttosto che falsa. Non c’è altro
criterio che questo, allora, per valutare chi ci sta di fronte e ci consiglia un
particolare investimento: “lo fa per il nostro bene o per tutt’altro motivo?”. Un
criterio che potremmo anche definire “politico” sempre che con tale termine si
faccia riferimento alla polis (la comunità) greca e a colui che opera per il bene
della stessa. E che tale criterio sia matematicamente misurabile potrebbe
apparire, ai più, incredibile, ma lo sarebbe certamente meno ricordando come
lo stesso Pitagora riuscì a descrivere in termini puramente matematici persino
“il piacere estetico procurato da un accordo musicale”. In realtà Pitagora si
spinse ben oltre: se il numero, infatti, riesce a spiegare una sensazione tanto
delicata quanto quella appena descritta, allora è lecito supporre, per
estensione, che tutto sia matematizzabile. Noi, nel nostro piccolo, non
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arriveremmo mai a tanto, ma non è affatto casuale la nostra citazione di
Pitagora: i mercati vivono di numeri, i numeri sono il solo alfabeto attraverso il
quale possano esprimersi e proprio ai numeri si dovrà tornare per riuscire a
trovare quell’armonia che abbiam visto essere ciò che si cela dietro l’apparenza
d’ogni divenire. Compreso quello degli stessi mercati.
Come vedete, il nostro viaggio sarà un viaggio alquanto strano: ci spingeremo
sempre oltre, al di là dell’ultimo approdo, non sapendo bene cosa poi si possa
trovare, ma consapevoli, fin dall’inizio, che il nostro non sarà mai il viaggio di
un esploratore, in cerca di qualcosa di nuovo, quanto quello di chi, come
Ulisse, tornando a casa, troverà lungo la strada ben altro da quel che si
sarebbe atteso: non già, dunque, qualcosa di consolidato e famigliare, quanto
una realtà ancora in corso. Ed essendo una realtà in corso, una realtà in
divenire, quel che proveremo a trovare, è più che probabile che l’obiettivo cui
si stia mirando possa anche non esser colto del tutto. Fortunatamente, ogni
obiettivo, prima ancora d’essere raggiunto, esprime sempre una tendenza che
lo possa cogliere: sarà proprio a quest’ultima che noi s’andrà a guardare con
maggiore attenzione! Anche perché, lasciatecelo dire, la tendenza è sempre
più interessante dell’obiettivo che la giustifica: se Ulisse fosse arrivato ad
Itaca in poche settimane, Omero non ne avrebbe certamente cantato le gesta
nell’Odissea.
Siete ancor dubbiosi?… Ascoltate, allora, un po’ questa.
Nell’estate del 1865, per far fronte ai propri debiti, Dostoevskij fu costretto a
vendere all’editore Stellovskij i diritti per pubblicare la raccolta completa delle
sue opere. Nel contratto, tuttavia, fu posta una clausola a favore dell’editore e
di cui è lo stesso Dostoevskij a farci partecipi: “M’impegnavo a consegnargli un
romanzo di almeno dodici fogli a stampa per l’edizione delle mie opere, e se
non gliel’avessi consegnato entro l’1/12/1866 lui, Stellovskij, sarebbe stato
autorizzato a pubblicare per nove anni gratis, e a suo piacimento, tutto quel
che io avrei scritto, senza diritto alcuno ad un mio compenso.”. Nell’ottobre del
1866 Dostoevskij, di quel romanzo, non aveva ancor scritto una sola riga e
disperava di poter far fronte ai propri impegni. Fu allora che un amico gli
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consigliò di ricorrere all’aiuto di una stenografa, la ventenne Anna Grigor’evna
Snitkina. I due cominciarono a lavorar insieme il 4 ottobre e già il 29, dello
stesso mese, il romanzo fu pronto. Quel romanzo divenne, poi, Il giocatore e
quella donna, a propria volta, l’ultimo grand’amore di Dostoevskij.
Ma allora, chi mai ricorderà quel lontano 1/12/1866 che fu, invero,
il solo obiettivo di tutta questa storia?…
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In prossima pagina troverete un pezzo tratto dal libro:
è stato scritto oltre quattro anni fa, ma nessuno se n’accorge…
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1 febbraio 2003
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D 2003
In un’era d’incertezza quale l’attuale, le certezze debbono esser
vendute. Non certo comprate. Chi le ha, ci mancherebbe, per ora se
le tenga strette, ma con un occhio sempre attento a quel che gli
accade intorno. Chi non le ha, invece, ne stia alla larga, perché in
un’epoca quale l’attuale anche le certezze cambiano in fretta. Non
era forse il dollaro, un tempo, il porto più sicuro in cui mettere i
quattrini proprio quando le cose si facevano incerte?… Non era forse
l’oro quel che tutti noi dovevamo evitar come la peste perché…
“anche le banche centrali se ne vogliono, ormai, disfare”?
Il grafico qui sopra è veramente cinico: quel che era, una volta, il bene rifugio
per eccellenza (il dollaro), oggi è abbandonato, da tutti, al proprio triste
destino. E se l’oro negli ultimi due anni ha fatto meglio d’ogni tipo
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d’investimento, può esser solo perché ormai siam proprio… alla frutta.
L’inversione di tendenza tra i due beni-rifugio è, infatti, di portata storica:
destinata cioè a durar negli anni quanto e forse anche più di quanto voi
possiate temere. E se è l’oro a guadagnarcene… la guerra in Iraq,
probabilmente, potrebbe durare ben più di quanto gli ottimisti ci
raccontano. E se è il dollaro a perderci… è difficile credere che siano
proprio gli americani ad uscirne da veri vincitori.
In fondo, fino al 2000, anche l’oro era una sorta di Davide contro dollaro-Golia!
Se v’avessero, infatti, solo ipotizzato quel che sarebbe accaduto dopo due anni
vi sareste probabilmente sbellicati dalle risate. Oggi non ride più nessuno,
anzi… Come vedete, le certezze cambiano in fretta e approdi sicuri non è più
possibile trovarne.
Soprattutto dopo che il Vaso di Pandora è stato aperto.
Pandora, secondo la mitologia classica, è stata la prima donna a calcare il suolo
del nostro pianeta. Plasmata da Efesto (l’allora dio del fuoco), venne inviata da
Zeus tra gli uomini per punirli del fuoco rubato, da Prometeo, al carro del Sole.
Pandora, inconsapevole di questo suo vero ruolo, portò in dono agli uomini
diversi oggetti ed in particolare un orcio (un vaso) in cui Zeus aveva racchiuso
ogni tipo di sciagura. Pandora, vinta dalla curiosità (nei miti come nelle
religioni le donne han sempre avuto un ruolo… “curioso”: si pensi solo a quello
assegnato ad Eva nel Paradiso Terrestre), ne tolse il coperchio ed ogni male,
sparso dal vento, si posò anche nel più sperduto angolo della terra. E’ proprio
di qui che nasce il fondato sospetto che, se le cose van male, qualcuno
incautamente abbia scoperchiato il… Vaso di Pandora.
Quale, però, sia mai stato sui mercati, in questi ultimi anni, il vero Vaso di
Pandora (quel luogo, cioè, da cui s’è sprigionata ogni tipo di disgrazia
finanziaria), non è facile dirsi. Probabilmente si dovrebbe guardare un po’ più
lontano di quel che normalmente tutti voi pensiate: a quel 1° luglio del 1997,
infatti, quando il Baht tailandese prese a svalutarsi e, tracimando anche le
valute dei paesi vicini, spinse proprio questi ultimi verso quella crisi oggi
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conosciuta come Crisi delle Tigri Asiatiche. Ed è possibile che proprio quel
baht-ito d’ali della farfalla tailandese, portato dal vento, si sia trasformato, col
tempo, in un vero e proprio ciclone sull’altra sponda dell’oceano Pacifico, un
ciclone di cui lo scoppio della bolla speculativa sull’indice Nasdaq, non sarebbe
stato altro che la semplice punta estrema. Comunque sia andata, è proprio al
Pianeta America (in generale…), che dobbiamo oggi guardare per capire non
tanto (e non soltanto!) quel che è stato, ma soprattutto quel che potrebbe
ancora essere negli Stati Uniti e nel mondo. Ed è del tutto inutile girare intorno
al problema:
oggi, infatti, quel che pare ormai in crisi sostanziale non è solo lo
stato dell’economia americana, quanto il suo stesso modello di
sviluppo: in fondo, è il modello americano che oggi scricchiola, e
scricchiola pesantemente non solo di fronte alle evidenti difficoltà
dell’economia statunitense, ma anche e soprattutto di fronte alle
difficoltà dell’economia mondiale. L’incapacità americana nel fornire
oggi
una
risposta
plausibile
a
quel
che
ci
accade
ne
mina
irrimediabilmente le possibilità, attuali e future, di presentarsi quale
modello vincente per l’intero pianeta.
Sappiamo benissimo che simili affermazioni potrebbero suscitare reazioni
contrastanti nei vostri cuori più di quanto possano farlo nei vostri cervelli, ma
non siamo certo stati noi i primi a sostenere tesi simili. Di più: gli stessi
americani si son, talvolta, descritti come noi s’è fatto prima. Ed è proprio in
ragione di tale descrizione, ed in particolare del modo, dolce e crudele, con cui
il Pianeta America è stato descritto nelle sue immagini principali, che un film
come “Forrest Gump” è stato premiato con ben sei premi Oscar! E solo Dio sa
quanto sarebbe stato meglio, per ogni investitore, guardare con attenzione
quel film piuttosto che leggere ogni giorno “il Sole24ore” negli ultimi anni.
Forrest Gump è un film delizioso, neanche molto recente, in cui si offre uno
spaccato piuttosto ampio di quel che è stata l’America dagli anni ’60 alla fine
dello scorso millennio, uno spaccato visto attraverso gli occhi di Forrest Gump,
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un ragazzo di uno stato del Sud, più stupido che semplice, il quale, pur
senz’alcuna volontà precisa, riesce nella vita a scalare, uno per volta, tutti i
gradini del successo fino a diventare un grande miliardario grazie ad un
investimento azionario, fatto casualmente negli anni passati, su un titolo
tecnologico (e, badate bene, il film è del 1994!…).
Forrest Gump corre. Corre sempre, corre più veloce di chiunque altro, corre
per paura, ma anche senz’alcun motivo: corre semplicemente per correre!
Lungo il suo per/corso gli cade in mano una palla ovale, da chissà dove, e lui?…
e lui corre, inseguito da tutti, imprendibile come il vento, verso la meta. E’
così, in modo del tutto inconsapevole, Forrest diventa un campione di football
americano. Ed è sempre in modo assolutamente fortuito, casuale, banale, se
vogliamo, che Forrest ottiene tutti i suoi successi. Come chi, entrato in un
chiosco
e
comprato
il
biglietto,
grazie
alla
lotteria
riesca
a
cambiar
completamente la propria vita. Forrest è come se acquistasse ogni volta un
biglietto
nuovo
ed
ogni
volta…
vincesse
la
lotteria.
Fortunato?…
No:
semplicemente americano! Come qualunque altro americano d’America. Forse
più stupido d’altri, è vero, ma, come ripete proprio lui durante tutto il film,
“stupido è chi lo stupido fa” e di stupidi che fan gli stupidi… anche l’America
dev’esser stata certamente piena. Ognuno di questi, pur senz’alcun merito
particolare, poteva vincere la propria lotteria. Perché solo questo è stata
l’America (gli Stati Uniti d’America!) negli ultimi quarant’anni dello scorso
secolo: una grande lotteria in grado d’elargire a chiunque, meritevoli o
meno, la propria grande opportunità di riscatto da una vita semplice o,
peggio ancora, stupida.
Oggi, tutto questo non è più! Non c’è nessuno più, ormai, disposto a partire,
oggi, dall’Italia per New York, convinto che, solo là, possa essergli finalmente
offerta quell’opportunità che, qui, nessuno vorrebbe concedergli (c’era un film
italiano, “Lontano da dove” ci pare s’intitolasse, che affrontava, oltre una
decina d’anni fa, proprio questo tema). La lotteria, insomma, ha chiuso i
battenti e anche in America non c’è più… trippa per gatti!
Anche Forrest Gump, in fondo, dopo tanto correre si ferma. E si ferma su una
banale panchina dell’autobus a raccontar della propria vita a chiunque gli si
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sieda casualmente a fianco (senza neanche conoscerlo). Una vita di grandi
successi, certo, ma soprattutto segnata da un grande fallimento: il suo.
Perché, proprio quando ormai pareva aver raggiunto il solo reale obiettivo,
quello consapevole, della propria vita (Forrest fin da bambino s’era innamorato
di una sua compagna di classe che finirà, poi, per andare a vivere con lui,
anche se per un solo momento…), un vento leggero, quale un battito d’ali di
farfalla, glielo porterà via (lei morirà di AIDS…). Per sempre.
Forrest in panca, non è altro che il simbolo visivamente più immediato della
fine di un campione. E nel film, con Forrest, in panchina finiscono tutti i
sogni e tutte le opportunità che gli Stati Uniti avevano regalato, negli
anni passati, a chiunque. Che ne avesse fatto esplicita richiesta oppure
no.
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