n. 14 - Autunno 2010 - Le Montagne Divertenti

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n. 14 - Autunno 2010 - Le Montagne Divertenti
Trimestrale di Valtellina e Valchiavenna
T rimestrale
di
A lpinismo
e
C ultura A lpina
n°14 - autunno 2010 - EURO 3
Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale 70% DCB-Sondrio
Parole in vetta
I messaggi degli
alpinisti
Funghi
Quelli che non
raccoglieresti mai
Alpinismo
e
v
r
i
D tenti
Bernina, cima Piazzi,
Punta di Scais
e Cengalo
Artigiani
L'ultimo mugnaio
Valchiavenna
Monte Mater, la
sentinella di Chiavenna
Cipriano Valorsa
Il Raffaello grosino
Sondrio Valmalenco
L'otto della scala dei
Pizzi
Porte di Valtellina
Dal Vivione all'Aprica
Valtellinesi nel
mondo
La magia delle Ande
Natura
Locuste e anfibi
Fotografia
I tramonti
Passo dopo
passo
La valle del Saiento
Inoltre
Ricette, poesie, giochi,
leggende...
Le grandi creste
quattro vie per cavalcare il cielo
valchiavenna
- bassa valtellina - Valmasino - alpi retiche e orobie - valmalenco - alta valtellina
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Le Montagne Divertenti Editoriale
Beno
«Cosa provi ad andare in montagna?»
E' domanda ricorrente di chi in montagna non va spesso e ne è incuriosito. Dare risposta è tuttavia molto difficile.
Forse ci era ben riuscito il nostro amico Fausto che, in una email, scriveva così:
«In quanto alla montagna, sai, io ci ho sempre un po’ passeggiato ma, sulle cime, fino a due anni fa non ero mai
stato: in due anni ne ho fatte almeno cento (non le ho contate ma più o meno ci siamo) e se ci sono andato è
perchè mi davano qualcosa … L’effetto non sono in grado di spiegartelo: banalmente ti dà sensazioni di libertà e
di immensità; credo ci vorrebbe un poeta, un pittore o un musicista per trasmettere qualcosa che vada oltre a delle
banali parole, oppure, in alternativa, lo devi capire da solo.
L’effetto, comunque è soggettivo: immagino che alla maggior parte della gente dica poco o niente o non ritenga la
fatica comparabile ai benefici; se paragoniamo il numero di persone che se ne stanno sulle montagne a quelle che se
ne stanno in città e fanno shopping, oppure non fanno niente, la proporzione è ridicola…»
In copertina: Autunno al lago Azzurro (27 ottobre 2009, foto Roberto Moiola).
In questa pagina: valle dei Ratti, alpe Camerà (1 novembre 2009, foto Beno).
Ultima di copertina: la "schiena del mulo" sullo spigolo Vinci (15 luglio 2009, foto Mario Sertori).
2
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti 1
Legenda
Spiegazione delle schede tecniche
Ottimo anche per anziani non autosufficienti
o addirittura sprovveduti turisti di città. Ideale
per la camporella, anche per le coppiette
meno esperte.
Una breve e divertente spiegazione dei gradi di difficoltà (in “scala Beno”) che vengono assegnati
agli itinerari nelle schede sintetiche, così che possiate scegliere quelli a voi più congeniali. I gradi si
riferiscono al periodo in cui è stato compiuto l’itinerario, sono quindi influenzati dalle condizioni
del tracciato. Non sono contemplate le difficoltà estreme, che esulano dalle finalità di questa
rivista e dalle nostre stesse capacità. In DETTAGLI, invece, viene espressa la difficoltà in caso di
condizioni ideali del tracciato secondo la scala alpinistica convenzionale.
Le schede sintetiche sono anche corredate da indicatori grafici che vi permetteranno, a colpo
d’occhio, di valutare l’itinerario.
Bellezza
pericolosità
Quasi meglio il centro commerciale
Carino
Ne vale veramente la pena
Assolutamente sicuro
Basta stare un po’ attenti
Assolutamente fantastico
Fatica
Richiesta discreta tecnica alpinistica
Pericoloso (è necessaria una guida)
ore di percorrenza
Si comincia a dover stare
attenti alle storte,
alle cavallette carnivore
e nello zaino è meglio mettere
qualche provvista
e qualche vestito.
dislivello in salita
Una passeggiata!
meno di 5 ore
meno di 800 metri
Nulla di preoccupante
dalle 5 alle 10 ore
dagli 800 ai 1500 metri
Impegnativo
dalle 10 alle 15 ore
dai 1500 ai 2500 metri
Un massacro
oltre le 15 ore
oltre i 2500 metri
Le scarpe da ginnastica
cominciano ad essere
sconsigliate (sono d’obbligo
abito da sera e mocassini).
E’ meglio stare attenti
a dove si mettono i piedi.
Vertigini vietate!
su RADIO TSN
FM 101.100/97.700
ogni martedì con Beno & special guests
ore 7:45 - 8:45 - 11:15 - 12:45 - 18:45
WWW.RADIOTSN.IT
Montagna divertente,
itinerario molto lungo
e ricco di insidie di varia
specie. Sconsigliato a tutti gli
appassionati di montagna non
esperti e non dopati.
Itinerario abbastanza
lungo, ma senza
particolari difficoltà
alpinistiche.
E’ richiesta una buona
conoscenza dell’ambiente
alpino, discreta capacità
di arrampicare
e muoversi su ghiacciaio
o terreni friabili come
la pasta sfoglia.
E’ consigliabile una guida.
E’ una valida alternativa
al suicidio. Solo per
persone con un’ottima
preparazione fisicoatletica e buona
esperienza alpinistica.
Servono sprezzo del
pericolo e, soprattutto,
barbe lunghe e incolte.
LE MONTAGNE DIVERTENTI
Trimestrale sull’ambiente alpino di Valtellina e Valchiavenna
Registrazione Tribunale di Sondrio n° 369
Editore
Beno
Direttore Responsabile
Maurizio Torri
Redazione
Alessandra Morgillo
Enrico Benedetti (Beno)
Roberto Moiola
Responsabile della fotografia
Sommario
Speciali d'autunno
Itinerari
d’alpinismo
Itinerari
d’escursionismo
Rubriche
6
Roberto Moiola
Realizzazione grafica
Beno
Revisore di bozze
Mario Pagni
Responsabile cartografia
Matteo Gianatti
Hanno collaborato a questo numero:
Antonio Boscacci, Associazione Micologica Martino Anzi di
Sondrio, Enrico Minotti, Fabio Locatelli, Fabio Pusterla,
Eliana e Nemo Canetta, Franco Benetti, Giacomo Meneghello,
Gianni De Stefani, Gioia Zenoni,Giordano Gusmeroli,
Giorgio Orsucci, Giorgio Urbani, Giovanni Bolognini,
Guido Scaramellini, Jacopo Merizzi, Kim Sommerschield,
Luciano Bruseghini, Luisa Angelici, Marcello Di Clemente,
Marino Amonini, Mario Sertori, Matteo Gianatti, Nicola
Giana, Pascal van Duin, Paolo Rossi, Pietro Pellegrini, Renzo
Benedetti, Sergio Scuffi.
Si ringraziano inoltre
Ezio Gianatti, Mario Maffezzini, Matteo Tarabini, Fabrizia
Vido, Johnny Mitraglia, Eva Fattarelli, Enrico Minotti, Roberto
Lisignoli, la Tipografia Bonazzi e tutti gli edicolanti che ci
aiutano nel promuovere la rivista e tutti gli sponsor che credono
in noi e in questo progetto.
Redazione
Via S. Francesco, 33/C – 23020 Montagna (SO)
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Beno di Benedetti Enrico
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Prossimo numero
21 dicembre 2010
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Errata corrige n. 13 Estate 2010
Il modello 3D di Ark Sound a pag. 116 è opera di Nicola Poletti,
mentre la simulazione grafica a pag 117 è di Barbara Ligari.
Parole in vetta
12
30 Valmalenco
Biancograt al Bernina
59 Sondrio-Valmalenco
L'otto della Scala dei Pizzi
Valtellinesi nel mondo:
La magia delle Ande
84 Il mondo in miniatura:
Locuste sotto la lente
Funghi: quelli che non mangeresti mai
18
78
37
Valmasino
Spigolo Vinci al Cengalo
64 Valchiavenna
Monte Mater
89 Fauna Vita negli specchi
d'acqua montani
Möla, möla, ch’el vè la farina!
23
L'ultimo mugnaio
24
29
93 Arte e montagna
Cipriano Valorsa
98 Poesia in dialetto
45 Orobie
Cresta Corti alla Punta di Scais
70
Passo dopo passo
La valle del Saiento
Il pietrone malenco negli Urali
Le grandi creste
99 L'arte della fotografia
I tramonti in montagna
104 Le foto dei lettori
52
Alta Valle
Cresta Sinigaglia alla Piazzi
74
Porte di Valtellina
Vivione-Aprica
1 1 0 Giochi
1 12 Le ricette della nonna
Speciali d'autunno
Testi e foto Giorgio Orsucci
Pensieri, emozioni, annotazioni e qualche racconto.
Ecco la piccola grande storia dei libri di vetta.
6
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Sulla cima del Monte Masuccio (7 agosto 2010, foto Giacomo Meneghello- www.clickalps.com)
Le Montagne Divertenti Parole in vetta
7
Speciali d'autunno
freddo".
Alcuni giorni, i più belli, quelle
domeniche autunnali di cielo terso,
si attardano nel quaderno assediando
varie pagine e accendendo di gioia i
commenti e le annotazioni. Altri,
forse per condizioni meteorologiche
insostenibili, trovano in loro rappresentanza solo pochi e brevi interventi;
a volte nemmeno quelli.
Si vedono poi calligrafie di ragazzi
e giovanissimi accanto a scritte più
tremolanti di ammirevoli ottantenni:
“è stato un po' faticoso ma alla fine c'è
lo fatta” annota nel Ferragosto 2005
Vera di anni 10, che ci auguriamo si
sia fatta nel frattempo più giudiziosa
nella grammatica; solo poche pagine
prima Margherita da Bellano informava che era tornata a cinquant'anni
di distanza dalla prima volta!
Si vedono naturalmente lodi,
preghiere ed afflati religiosi, dai più
classici - “Ti lodo, mio Dio, di fronte
alle montagne”, recita la preghiera
dell'alpinista - ad altri più inconsueti
- “L'allenamento per il Kima sia sotto
la tua protezione, o Signore”, si limita
E ancora. Si vedono i
commenti più disparati,
alcuni banali, altri
più profondi; questo
scherzoso e puramente
autoreferenziale,
quello melanconico e
riflessivo.
ad annotare Massimo, probabilmente
impaziente di continuare la sua
sessione di allenamento.
M
olti seguono ancora - e
giustamente - la tradizione
di annotare la sintesi dell'itinerario,
effettuato e in previsione, informazioni, è bene ricordarlo, per le quali
è nato e si è sviluppato l'uso dei
quaderni di vetta, utili in caso di
intervento del soccorso.
Una parentesi meriterebbe la
storia di questa tradizione, se solo si
sapesse di più di quello che già s'è
detto. Già i primi alpinisti solevano
forse lasciare annotato in cima alle
montagne le vie di salita e di discesa
da loro affrontate, forse non su un
quaderno, quanto più probabilmente
su un semplice foglietto fermato da
un sasso, una sorta di testimonianza,
di prova, della loro conquista.
Da quei foglietti si è passati a
più resistenti quaderni, e al posto
del sasso si è posizionata qualche
cassetta metallica. Per il resto, poco
è cambiato. Ancora oggi, molti alpinisti ed escursionisti mantengono
l'abitudine di specificare la via di
accesso da loro seguita e le tappe che
prevedono di effettuare, oltre che
informazioni sulle proprie tempistiche - "Barconcelli > Varrone > Pizzo
in 3 ore 14 minuti e 4 secondi! Eccezzionale!" esulta Claudio da Bolzano.
Oltre a queste informazioni,
minimo comun denominatore della
maggior parte degli interventi, vi è
poi un ampio corollario di commenti
che vanno da “Wind segnale pieno!” al
resoconto di un fortunato Samuele
“Abbiamo visto 18 stambecchi, 3
picchi, uno scoiattolo e 3 marmotte”, a
Una pagina di un libro di vetta del pizzo dei Tre Signori,
celebre vetta orobica amata parimenti da valtellinesi e bergamaschi.
Il libro è "conservato" presso la sede CAI di Piazza Brembana (19 luglio 2010).
N
on c'è dubbio! Per un'anonima agenda annuale di
una banca non può esistere destino
migliore: assurgere a libro di vetta è
un vero e proprio passaggio di grado.
È tuttavia un compito di responsabilità che la trattiene autunno, inverno,
primavera ed estate in qualche
umida cassetta su una vetta alpina,
protesa verso il cielo. Ciò le impone
di raccogliere e custodire nelle sue
pagine ogni frammento di umanità
che voglia riversarvi l'alpinista che
sale sin lassù. Un compito, infine, cui
segue una meritata pensione, quando
questa agenda, satura di ricordi ed
esperienze, scende finalmente a valle,
dopo un anno o due di lavoro, se la
vetta è frequentata, addirittura dopo
vari decenni per vette più d'élite,
come la Cresta Guzza o la Punta
di Scais, su cui dopo 30 anni giace
ancora il primo quaderno. Finite
8
Le Montagne Divertenti le pagine il libro andrà a riposare
nell'armadio di una sede CAI o di
qualche altra associazione alpinistica.
Ammetto la mia pigrizia: è proprio
in una sede CAI, e non su qualche
vetta come sarebbe stato più logico
fare, che sono andato a ricercare
qualcuno di questi volumi. Ma la
suggestione è stata la stessa. Anzi,
finanche maggiore. Entrare quasi
per caso nella sede della sezione CAI
di Piazza Brembana, nelle Orobie
bergamasche, e trovarvi, fra gli altri,
un pensionato libro di vetta del pizzo
dei Tre Signori (anni 2005-2006),
gentilmente messomi a disposizione,
m'ha fatto sentire - seppur molto alla
lontana – come il cardinale Angelo
Mai al ritrovamento in Vaticano di
un codice col De re publica di Cicerone. A tale sensazione ha contribuito il pessimo stato di conservazione
del volumetto, un raccoglitore di
Nel silenzio
sonnacchioso della
prima mattinata,
la lettura di quelle
pagine si rivela
sorprendente, quando
non addirittura
emozionante.
fogli mangiati dall'usura e macchiati
dall'umidità, che esortava a maneggiarlo con la massima delicatezza,
quasi fosse un antico manoscritto.
i vedono i giorni dell'anno
rincorrersi uno dopo l'altro,
ciascuno con la sua particolare atmosfera: "23 luglio 2005, bella giornata,
l'aria è fresca; 24 luglio, la vetta è
avvolta da una nebbia impenetrabile;
27 luglio, ancora nebbia, fa molto
S
Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Parole in vetta
9
Speciali d'autunno
più elaborate poesie, a raffinati disegni, a lunghe narrazioni. Insomma,
è l'occasione per molti di dare sfogo
al proprio desiderio primordiale di
raccontare, di scrivere, di disegnare.
Si vede, in definitiva, in questo
come in qualunque altro libro di
vetta, quanto variegata sia la presenza
umana che popola le nostre montagne e ne conquista le vette, una
moltitudine di individui che vive la
montagna diversamente, ciascuno coi
suoi tempi, col suo temperamento,
con la sua età, con le sue convinzioni.
er concludere, un invito.
Un invito, a chi non è solito
farlo, a cercare l'agenda custodita
nella croce o nell'ometto di vetta,
ma anche all'interno dei bivacchi
o nel salone dei rifugi. Un invito a
sfogliare e leggere le parole dei grandi
e piccoli alpinisti che ci hanno preceduto su quel monte, per poi apporvi
le proprie considerazioni, i propri
pensieri, la propria esperienza, oltre
che il proprio punto di partenza e di
arrivo, per lasciare quella traccia del
passaggio che tornerà utile in caso di
inconvenienti.
P
Un racconto di una pagina sul libro del Bivacco Suretta, nell'alta valle Spluga (28 luglio 2007).
Il libro di vetta del Monte San Primo (19 luglio 2010).
Qualche ricordo dal pizzo dei Tre Signori
Ecco qualche pagina del quaderno del pizzo dei Tre
Signori. Gli interventi sono scelti senza un particolare criterio perchè sarebbe impossibile stilare una
graduatoria di fronte ad un così vario assortimento
di commenti.
10
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Parole in vetta
11
Funghi:
Speciali d'autunno
Associazione Micologica Retica Martino Anzi Sondrio
quelli che non
mangeresti mai
velenosi,
troppo brutti,
troppo duri
o
semplicemente
non li conosci!
Albatrellus ovinus (Schaeff. :Fr.) Kotlaba & Pouzar, commestibile.
12 Le Montagne Divertenti E
cco, allora, come da tutti dipende il delicato equilibrio
della nostra foresta montana: occorre essere
prudentissimi nel fumare una sigaretta, non si devono
provocare rumori, né insistere nella raccolta dei funghi,
non scalciarli, non tagliare rami o bastoni. Nessuna traccia
dovrebbe restare dopo il nostro passaggio: le persone civili non
lasciano tracce. L'eccessivo calpestio, la predazione, il chiasso, i
rifiuti abbandonati non sono per il bosco che si rinnova e vive.
Mario Rigoni Stern, Stagioni, pag. 83, Einaudi 2006
Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Funghi
13
Funghi
L
a “stagione” dei funghi sarà arrivata? Dopo un giugno e luglio all’insegna della
parsimonia e un agosto più generoso, speriamo che settembre e ottobre ci invitino a
entrare nel bosco con la consapevolezza che, come abbiamo già avuto modo di mostrare
dati alla mano, non è l'intossicazione la principale causa di morte tra i cercatori, bensì
l'imprudenza nella raccolta che porta molti fungiàtt, spesso mal equipaggiati, in situazioni
pericolose. Raccomandiamo perciò la massima prudenza!
n questo numero tratteremo altre 4 specie di funghi che la maggior parte di noi mai
raccoglierebbe, sebbene alcuni di loro siano commestibili...
I
Gomphidius glutinosus (Fries) Fries - commestibile.
Albatrellus ovinus (Schaeff. :Fr.) Kotl. & Pouz.
Gomphidius glutinosus (Fries) Fries
Q
uesta specie è la più nota del genere Gomphidius (gruppo molto omogeneo per il numero di caratteri che condividono quali: decorrenza delle lamelle, glutinosità di tutto il fungo, colorazione della carne) e non ha sosia velenosi
con i quali potrebbe essere confusa.
Cresce solitario o in gruppetti sotto conifere, prevalentemente abete rosso, ma anche sotto Pinus, dalla tarda estate
all’autunno inoltrato.
Presenta un cappello molto viscido e brillante se umido, grigio brunastro, talvolta con tonalità violacee, e con macule
sparse di colore nerastro. E’ ricoperto da glutine, una strato mucillaginoso simile a gelatina. Le lamelle sono piuttosto
spaziate e tendono a decorrere sul gambo, pallide e quasi nere con la completa maturazione delle spore.
Il gambo è cilindrico, carnoso e centrale, a volte ingrossato alla base, bianco ma con colorazione giallo oro intenso per
un tratto anche esteso a partire dalla base.
La carne è all’inizio compatta e piuttosto tenera quella del cappello, bianca sfumata della tinta del cappello in prossimità della cuticola e gialla nel gambo in corrispondenza alla porzione con lo stesso colore.
L’odore è debole e il sapore acidulo.
E’ una specie inconfondibile per il colore del cappello (bruno-grigio-vinaccia) che a prima vista ricorda quello del pinarolo (Suillus luteus), e per il gambo giallo cromo.
E’ un buon commestibile, ma come tutti i funghi commestibili glutinosi, per il suo uso in cucina va asportata l'indigesta cuticola con il glutine, separabile completamente dal cappello.
14
Albatrellus ovinus (Schaeff. :Fr.) Kotlaba & Pouzar,ù
commestibile.
Speciali d'autunno
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Albatrellus ovinus è conosciuto con il nome di “fungo del pane” per il caratteristico aspetto screpolato del cappello che
ricorda la crosta del pane.
E’ un fungo terricolo che cresce nei pendii più umidi e bui dei boschi di conifere (simbionte abete rosso), dall’estate al
primo autunno, redditizio per i cercatori, perché molto abbondante nei siti di crescita.
Si presenta con esemplari singoli con cappello e gambo ben distinto, e con colorazioni giallo-verdastro sporco.
Ha cappello con superficie finemente vellutata, opaca, spesso grossolanamente
screpolata. La superficie imeniale (la parte fertile del fungo che si trova sotto il
cappello) è di colore da bianco a crema, apparentemente liscia, ed è costituita in realtà da minutissimi pori con tubuli molto brevi, non separabili dalla
carne. Il gambo, generalmente corto, è centrale e eccentrico, di colore bianco
brunastro.
Fungo di notevole consistenza, ha carne bianca poi giallastra, soda e compatta
e con odore e sapore gradevole: i giovani esemplari si prestano alla conservazione
sott’olio o sott’aceto, mentre non è adatto ad essere consumato fresco. Da adulto
diventa coriaceo e perciò inservibile per i micofagi.
Suo simile è Albatrellus confluens, che si differenzia per la tendenza a presentarsi
come una massa irregolare di numerosi individui saldati tra loro, che possono
anche superare i 30 cm, e con cappelli di colore arancio sabbia screpolati che
ricordano la crosta di pane ben cotta.
Alla cottura la carne di Albatrellus ovinus assume tonalità verdastre, mentre
Albatrellus confluens tende ad arrossare. Per questa caratteristica le due specie si
prestano a divertenti composizioni nella conservazione in vasi di vetro.
Le Montagne Divertenti Funghi
15
Funghi
Speciali d'autunno
Ganoderma lucidum (Leyss. :Fr.) P.Karsten, non commestibile.
Paxillus involutus (Batsch) Fries, velenoso.
Ganoderma lucidum (Leyss. :Fr.) P.Karsten
versione 2
Paxillus involutus (Batsch) Fries
versione 3
E’
un fungo lignicolo, cresce su ceppaie o legno interrato di latifoglie: sembra prediligere in particolare la quercia;
piuttosto comune sul nostro territorio dalla primavera all’autunno inoltrato.
Si caratterizza per l’aspetto lucido della superficie del cappello (larghezza fino a 100 mm e 12-30 mm di spessore), di un
bel color marrone castagna, con orlo biancastro, e dalla forma vagamente reniforme.
Il gambo (fino a 150 mm di lunghezza e 20-30 mm di spessore), inserito lateralmente sul cappello, è anch’esso lucido,
noduloso-bitorzoluto, dello stesso colore marrone scuro del cappello.
Ha superficie imeniale (parte fertile del fungo che si trova al di sotto del cappello) costituita da pori così minuti da
sembrare liscia, di colore bianco ocraceo (tubuli alti 10-20 mm con spessore 0,2-0,3 mm).
Come la maggior parte dei funghi lignicoli ha consistenza coriacea, di nessun interesse alimentare, desta però la nostra
curiosità per la fama di cui gode nella cultura asiatica. Pare infatti che sia conosciuto e usato nella medicina tradizionale
asiatica (Cina, Giappone e Corea) da almeno duemila anni. Noto come REISHI in Giappone e LING-ZHI in Cina, ha
meritato l’appellativo di Medicine of Kings o Fungo dell’Immortalità, per le sue proprietà benefiche.
Anticamente il suo valore era inestimabile e l’uso riservato a pochi, mentre le moderne pratiche di coltivazione l’hanno
reso accessibile e di largo consumo.
Le proprietà che vanta spaziano da attività anti-infiammatoria, a anti-ipertensiva, da anti-trombotica e ipo-glicemica, a
immuno-stimolante e persino anti-tumorale.
Recenti ricerche hanno consentito di isolare i composti organici contenuti in Ganoderma lucidum, ai quali sembrano
essere attribuite le sue proprietà benefiche. Merita senz’altro la nostra considerazione per la sua eccezionale fama in
oriente.
16
versione 1
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
versione 4
Il genere Paxillus comprende funghi terricoli e lignicoli, con lamelle sempre decorrenti ed il
margine involuto. E’ un fungo molto comune e lo si ritrova in qualunque tipo di bosco a gruppi
numerosi dall’estate all’autunno. Tutto il fungo, compresa la carne, se si strofina, o si appone un
leggera pressione, subisce un viraggio di colore al bruno-rossiccio.
Ha un cappello prima convesso, poi appianato e infine imbutiforme con un orlo involuto, con
una superficie feltrata se tempo secco,
o vischiosa se umido, con colorazione
bruno-ocra, bruno-fulva con marcati
riflessi olivastri. Le lamelle sono fitte
e decorrenti sul gambo, di colore ocra
pallido poi brunastre con riflessi olivastri. Il gambo è cilindrico, eccentrico
e concolore al cappello. La carne è
compatta giallastra con odore debole
e sapore amarognolo.
La specie più importante è Paxillus involutus, fino a pochi anni fa
considerato commestibile, ora
responsabile della sindrome paxillica, un tipo di avvelenamento che
può portare, con un consumo a più
riprese ravvicinate, a esiti mortali.
P lizar
La nomenclatura
I funghi come tutti gli esseri viventi hanno un nome e un cognome che li rende ovunque riconoscibili
senza ambiguità. Esistono per questo codici di nomenclatura internazionali che si occupano di dare alle
singole specie un nome semplice, univoco e universalmente applicabile. Per i funghi è obbligatorio utilizzare il Codice Internazionale di Nomenclatura Botanica (CINB) che stabilisce: di utilizzare la lingua e la
grammatica latina come linguaggio universale, di depositare in un erbario per la comunità scientifica un
esemplare tra quelli utilizzati per definire la nuova specie e di indicare la singola specie in forma binomia e
con il nome degli autori. Ad esempio:
Paxillus involutus (Batsch) Fr.
Paxillus = nome di genere con iniziale maiuscola
involutus = nome di specie con iniziale minuscola
Batsch = (August Johann Georg Karl Batsch botanico e medico tedesco del 1700) nome di colui che per primo ha determinato la specie.
Fr. = abbreviazione di Fries (Magnus Elias Fries botanico e micologo svedese del 1800 considerato il padre della micologia)
nome di colui che ha modificato l’inquadramento della specie.
Le Montagne Divertenti Funghi
17
I mulini
Rubriche
interesse suscitato dai
L’
modelli di Giovanni
Morelli ci induce a volgere
1
uno sguardo sui “lavori
del passato”, da lui in
parte vissuti, poi tradotti e
ricreati negli originalissimi
ambienti che formano
la sua straordinaria
collezione.
Tra le eccellenze
gastronomiche che oggi la
valle sfoggia per deliziare i
palati e catturare gli ospiti
figurano i piatti poveri
- polenta e pizzoccheri che hanno radici lontane,
profonde nel territorio
e nella memoria delle
generazioni più stagionate.
L
embi di fondovalle e dei versanti erano coltivi di “fromento
autunnale/marzuolo, segale autunnalemarzuola, grano turco quarantino detto turcassino, fraina, grano di Siberia,
orzo, domega, miglio precoce/tardivo,
panico” unitamente a “fagioli, rape,
pomi di terra, verze, lino e canape” e
costituivano i pilastri della dieta quotidiana, come ben descrive Melchiorre
Gioia in “Statistica del dipartimento
dell’Adda” del 1813.
Possiamo avere una fotografia più
nitida di queste coltivazioni e dei
mulini dalla testimonianza diretta di
Ercole Bassi, posteriore di quasi un
secolo.
e nel 1890 “questa industria è
pure in grande diminuzione” oggi
possiamo quasi definirla “archeologia
rurale” visto che tra abbandono ed
incuria poche sopravvivenze hanno
retto alla civiltà dei consumi.
Appezzamenti grandi come francobolli punteggiano il versante retico
di granturco, segale e furmentùn; una
nota di merito va attribuita al solatio
versante tiranese di Baruffini per un
modesto quanto orgoglioso recupero
di queste colture.
Il mais di fondovalle, per estensione
più significativo, è trinciato e insilato:
S
Möla, möla,
ch’el vè la
farina!
1 - Giovanni Morelli, classe 1923, è l'uomo che da
oltre 17 anni sta realizzando dei modelli
miniaturizzati degli ambienti e macchinari un
tempo diffusi in Valtellina [vd. M. Amonini, Adèss
té spiéghi, in Le Montagne Divertenti n. 12,
Sondrio 2010, pp. 17-21].
Marino Amonini
La
delMontagne
mulino Rusina
a Vendolo (Castione, 11 aprile 2010, foto Marino Amonini).
Divertenti
18ruota Le
Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Taglio della segale a Ligone (22 luglio 1985, foto Marino Amonini).
Da “La Valtellina” di Ercole Bassi, 1890
I molini per la macinazione dei cereali sono 523 ripartiti in 72 comuni,
con una forza idraulica di 457 cavalli e con circa 800 operai. Il prodotto si
calcola in quintali 16.746 e cioè quintali 1109 frumento, il resto granturco
segale e farina. Meno quelli Ongania a Sondrio, e Bertolazzi a Delebio, sono
tutti vecchi molini a macina, molti con lavoro intermittente, che servono per
il bisogno locale.
I comuni che contano maggior numero di molini sono i seguenti: Teglio
38, Montagna 26, Berbenno 23, Torre 20, Chiesa 20, Castione 19, Sondrio
19, Chiuro 18, Chiavenna 17, Piateda 17, Villa di Tirano 16, Delebio 15,
Ardenno 14, Albosaggia 13, Cosio 13, Sondalo 12, Morbegno 11, Caiolo
10, Grosio 10, Grosotto 10, Mello 10, Piantedo 10, Val Masino 10, gli altri
comuni 218.
Dagli annali di statistica (Statistica industriale della provincia di Sondrio)
da cui è tolto questo prospetto, rilevasi che i molini sono in tutto 611 con 885
motori idraulici ed altrettante copie di macine e 101 buratti e un apparecchio
cilindrico per la rimacinazione a Delebio. Di questi molini erano nel 1886
in attività 506 con 733 motori idraulici della forza di 458 cavalli con 511
operai, fra i quali 156 donne e 18 ragazzi sotto i quattordici anni, che lavoravano in media 224 giorni all’anno.
La rimacinazione si eseguisce in 14 molini, dei quali 6 a Morbegno, 3 a
Sondrio e 3 a Tirano.
La produzione di frumento fu nel 1882 di quintali 12.052, degli altri grani
inferiori nel 1878 di quintali 157.706 per un totale di quintali 169.758.
Adunque questa industria è pure in grande diminuzione, non potendo
reggere alla concorrenza dei molini meccanici.
Möla, möla, ch’el vè la farina!
19
I mulini
Rubriche
è prerogativa alimentare dei bovini
quando non viene spudoratamente
proposto come combustibile per stufe
d’avanguardia!
Quanto ai mulini, si è assommata
al declino delle colture una negligente
trascuratezza culturale che ha minato
la loro conservazione nel tempo.
Nell’ultimo decennio, un sussulto
di buon senso ha determinato il recupero di qualche manufatto, vuoi con
interventi e risorse erogate dalle Istituzioni o, in alcuni casi, con i sacrifici di
volonterosi privati.
Se il mercato e la schizofrenia
normativa sanitaria ne impediscono l’impiego molitorio, ai mulini
rimane il compito di essere silenziosi
testimoni di un passato tanto attivo
quanto essenziale: questi beni etnografici, in altre regioni già ben valorizzati,
assumono così un ruolo didattico,
come negli ambienti ricostruiti da
Giovanni Morelli, per trasmettere alle
nuove generazioni il senso delle
proprie radici.
Attualmente in media valle sono
stati riordinati mulini a: Berbenno
valle di Mulini, Cedrasco Mulino
Carmelino Oberti, Castione Mulin
de la Rusina, Montagna in Valtellina
Mulino a Cà Mazza, Poggiridenti
Mulino in valle della Rogna, Castello
dell’Acqua Mulino a Cà d’Albert Mulin del Celest, e Teglio Mulino
Menaglio a San Rocco; alcuni raggiungibili comodamente, altri con una
salutare camminata.
Se per un verso è lodevole aver restituito dignità a questi preziosi opifici
non si può dire che sia stato altrettanta
positiva la promozione del territorio
con adeguato e sostenuto slancio ad
orientare flussi di scolaresche, visitatori locali e turisti su quei circuiti
slow food in cui arte, natura, storia e
paesaggio siano intimamente saldati.
Diventa talvolta impresa individuare
dove e chi ne detiene le chiavi, come e
con chi si possano visitare. Insomma si
percepisce un déjà vu tutto italico: si
progetta, si spende, si inaugura sotto i
riflettori poi si spegne la luce.
Aldilà delle valutazioni individuali è
Ruttico
gomme
incontestabile che una maggior attenzione collettiva a questi manufatti
che costituiscono un valore aggiunto
all’offerta turistica ed alla delicata
risorsa ambientale non può che far
bene.
Proprio nel momento in
cui ci si gongola per essere
tornati padroni delle
nostre acque sarebbe il
caso di fare un ulteriore
passo avanti e pensare
di riappropriarci del
biologico dei nostri padri,
dissipato senza ritegno,
nonostante oggi risulti
molto chic. Sporcandoci le
mani di farina macinata
a km zero, potremmo
riscoprire armonie e sapori
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Il mulino tradizionale
Era costruito in prossimità di una
fonte d’acqua che costituiva la forza
motrice dell’apparato meccanico.
Il primo contenitore del grano era la
tramoggia a forma di tronco di piramide rovesciato, con base quadrata;
il fondo era staccato di un minimo
spessore dalla tramoggia e si muoveva
per poter determinare il quantitativo
di grano che doveva passare per essere
macinato. La registrazione dello spessore veniva fatta dal mugnaio con un
regolatore a verricello in base al quantitativo che il mulino riusciva a macinare. Il fondo rimaneva in continuo
movimento tramite una punta inserita
in un perno che muoveva un triangolo “capel de prét” il quale a sua volta
muoveva il fondo. Il grano usciva e
andava in mezzo alla macina rotante
“bucaia”. C’erano due macine, una
fissa e una rotante. La distanza fra loro
era di uno o due millimetri nella parte
centrale per facilitare l’entrata del
grano, invece andando verso l’esterno
la distanza diminuiva ulteriormente
fino a mezzo millimetro; i chicchi
per forza centrifuga andavano verso
l’esterno ed erano obbligati a rompersi
sempre di più.
Alla fine di questa operazione il
grano così triturato, per mezzo di una
canalina di legno, andava a finire in un
prisma ottagonale chiamato “bùrata”
che ad una estremità era rivestita di
seta a trama fine da cui usciva la farina
migliore, più fine; vi era quindi un
rivestimento di seta a trama leggermente più rada che faceva passare
la farina più grossa. Infine usciva la
crusca.
La farina più fine era quella ottenuta
dalla segale e dal frumento (semola)
e pertanto la “bùrata” del mulino
adibito alla loro lavorazione era rive-
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Il mulino Rusina a Vendolo (Castione, 11 aprile 2010, foto Marino Amonini).
20
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti stita di seta.
Se un mulino doveva macinare
anche granoturco, dopo la seta veniva
posta la canapa.
La farina finiva poi nel cassone;
prima vi si depositava quella di prima
qualità, poi l’altra che si chiamava
“sentrel” (Villa) o “fìuret” (Chiuro)
e veniva usata per la panificazione,
in quanto era stesa sulle assi di legno
prima di porvi il pane per la lievitazione, e inoltre si utilizzava per il pasto
delle bestie. Nel caso della segale e del
frumento, la crusca e il “sentrel” venivano macinati una seconda volta per
ricavarne altra farina. Al primo passaggio si otteneva il 40-45% di farina; il
massimo possibile per la segale era il
65%, per il frumento il 70-72%.
Se il cliente voleva tanta farina la si
ripassava anche due volte ottenendo
una farina un po’ più scura, però fine.
All’interno della “bùrata” c’erano due
martelli che battevano alternativamente sulla tela in modo che non vi
rimanesse attaccata della farina. Il
suono provocato dal movimento era
to-to to-to. Da qui il detto “Tó fó el to”
che alludeva alla diceria che i mugnai
fossero ladri e cercassero di trattenere
della farina. Quando il contadino non
aveva la possibilità di pagare il lavoro
del mugnaio, questi tratteneva da 5
a 7 kg di farina per ogni quintale di
frumento “la multura”; il quantitativo prelevato dipendeva anche dalla
Möla, möla, ch’el vè la farina!
21
Rubriche
naturale di cava.
Normalmente i mugnai avevano 2
o 3 mulini adibiti alla macinatura dei
diversi cereali di produzione locale
che erano frumento, segale, saraceno,
granoturco, miglio e orzo; quest’ultimo si poteva macinare per ricavarne
farina per minestra.
La farina per la polenta veniva macinata più grossa, mentre quella per i
pizzoccheri doveva essere più fine.
Il mulino “a schiaffo”
difficoltà della lavorazione, come nel
caso della segale che avendo un chicco
molto duro da sfarinare richiedeva un
maggior lavoro.
La segale coltivata nel piano era più
tenera, quella di montagna era durissima ma di qualità migliore.
La macina faceva 120 giri al minuto
mentre la “bùrata” circa 30. Il mulino
non doveva mai funzionare a vuoto
perché si sarebbero potute staccare
delle piccole schegge di sasso.
In genere la macina doveva essere
martellata ogni due mesi, ma la
frequenza dipendeva dalla quantità di
cereale macinato.
Sulla macina veniva fatta la rabbigliatura cioè una serie di scanalature
ravvicinate.
Questi incavi portavano verso il
centro il grano oltre a favorire l’immissione di aria, evitando il surriscaldamento della pietra.
La macina fissa, chiamata “francésa”, era un agglomerato molto resistente e serviva per macinare segale e
frumento; per la lavorazione di granoturco e grano saraceno “furmentùn” si
utilizzavano macine in pietra locale.
La “francésa”, diffusasi alla fine dell’
Ottocento, non era un sasso monolitico, ma era formata da spicchi legati
col cemento.
Un altro tipo di macina in uso era
“la brianzòla” che a vista sembrava
un impasto di graniglia, ma era sasso
La differenza sostanziale fra questo
mulino e quello tradizionale stava
nella ruota ad acqua che lo azionava,
che era una turbina a cucchiaio. Posta
orizzontalmente sotto le macine in
posizione parallela evitava l’impiego
delle ruote dentate di trasmissione.
Il mulino “a schiaffo” si trovava più
facilmente in montagna dove c’era
meno disponibilità d’acqua in quanto
esso funzionava non con il peso ma
con la pressione dell’acqua; per questo
richiedeva che la condotta terminale
fosse il più possibile verticale in modo
che si creasse una pressione di
caduta dell’acqua che raggiungendo
attraverso la canaletta i cucchiai della
turbina li “schiaffeggiasse” con forza
facendoli girare.
La parte superiore del mulino
(carico e macine) era uguale a quella
del mulino tradizionale, con la
tramoggia, il sollevatore, il regolatore e
la “bucaia”. Nel cassone al posto della
“bùrata” c’era una specie di setaccio
rettangolare con un rivestimento di
seta o canapa che veniva sostituito
in base al tipo di grano che si doveva
macinare e veniva mosso da un
sistema di leve che poggiando su una
camme calettata sull’albero di trasmissione la faceva vibrare lateralmente
provocando la caduta della farina nel
cassone e della crusca nella “marna”;
oltre alla crusca si otteneva quindi una
sola qualità di farina.
A Castello dell’Acqua esiste un
mulino “a schiaffo” ormai in disuso1.
1 - Schede di Giovanni Morelli riprese da
"Ambienti, vita e lavoro nel passato”, Edizioni
Biblioteca “L. Faccinelli”, Chiuro 1983.
22
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
L'ultimo mugnaio
I
l giorno di Ferragosto del 1987,
per vincere l’afa ed il puzzo di
palta che regnava ovunque dopo le
calamità di quella tragica estate, salii
a San Rocco di Teglio per godere un
momento della tradizionale festa e
smaltire i pizzoccheri scarpinando tra
le contrade disseminate tra i castagni.
Capitai tra un pugno di rustiche
case. Prima lo scorrere di un fiotto
d’acqua, poi l’inconfondibile ruota
incendiarono la mia curiosità: ero
giunto a un vecchio mulino.
Trovai una coppia di regiùr seduti
su un sedile di pietra a godersi uno
scampolo di fresco e chiesi avidamente notizie sul mulino.
Con genuina calma l’uomo mi
disse: “L'è mè”, accompagnato dal
sorriso ironico e divertito della
moglie.
Con eguale calma entrò in casa a
prendere le chiavi, l’aprì, e mi introdusse nell’infarinato locale occupato
dal complesso di ruotismi, tramogge,
cassoni, utensili ed un ovattato ricamo
di ragnatele.
Armeggiò liberando la possente
ruota dentata in ghisa ed il mulino si
animò.
Con gesti misurati versò qualche palettata di grani di furmentùn, le macine li masticarono con
sordo rumore, e dopo pochi minuti
il mugnaio, aprendo l’antone del
cassone, mi mostrò un sottile strato di
farina.
Mi spiegò con collaudata sapienza
il suo lavoro, palpò quasi con delicatezza la farina, la raccolse con un
consumato scopaccio di saggina in
un mestolo e me la consegnò in un
sacchetto di tela.
Per quanto fossi concentrato
nella ripresa dei suoi gesti, provai
un fremito nel ricevere quel dono,
semplice quanto antico.
E pensare che la letteratura racconta
quasi sempre di mugnai balòss, scaltri
a scambiare granaglie, imbrogliare
sulla qualità e sul peso del macinato.
In Antonio Menaglio, così lo
conobbi, colsi un malcelato orgoglio
per il suo sapere, ma anche un velo
Le Montagne Divertenti Il mugnaio Antonio Menaglio (15 agosto 1987, foto Marino Amonini).
di malinconia per le ragnatele che,
inequivocabilmente, segnavano l’agonia dell’attività del mulino di San
Rocco.
Già sul finire degli anni ’60, con
una drastica riduzione dell’attività,
stava per chiudersi un capitolo di
storia di almeno tre generazioni di
mugnai: Antonio figlio aveva ereditato il mulino dall’omonimo padre,
condotto ancor prima dal nonno
Andrea, mentre sfuma la memoria dei
discendenti sulla genesi dell’opificio.
Da quando Antonio
mancò, nel 1993, il
mulino restò chiuso ed
abbandonato.
Nel 2006 il Comune ha avviato un
progetto di recupero, cui sono seguiti
graduali interventi.
Ad oggi non si conoscono i tempi di
ultimazione né i propositi di gestione
anche se si sussurra vi sia l’intenzione di fare del minuscolo borgo dei
Mulini di San Rocco e del suo storico
forno per il pane un sito museale.
Möla, möla, ch’el vè la farina!
23
La Valtellina nel mondo
Speciali d'autunno
Il pietrone malenco
negli Urali
Finalmente ce l’ha fatta!
Ci riferiamo al “pietrone” di serpentino che oggi troneggia -in rappresentanza
dell’Italia- presso il confine Europa-Asia sugli Urali. In provincia di Sondrio
sicuramente molti avranno sentito di questo progetto: ne hanno parlato
stampa e televisione locali. Ma vale la pena certo di raccontare in dettaglio
come mai una scheggia (meglio dire uno scheggione ...) delle nostre
montagne sia finito a migliaia di chilometri dalle Retiche.
Testi e foto Eliana e Nemo Canetta
E
ra l’estate del 2008 e un grande
battello zeppo di russi, con
due isolati turisti italiani, scendeva
le placide acque del Volga. Quei due
italiani eravamo noi, ben decisi a
navigare il padre dei fiumi europei
da Perm ad Astrahan non assieme a
una torma di turisti euro-occidentali
ma con un battello e croceristi russi
doc. Non solo quindi una esperienza
turistica ma pure sociale ed umana.
Dato che le nostre conoscenze della
lingua di Tolstoi sono piuttosto
scarse, un’amica di Perm ottima
conoscitrice del francese ci scortava
per aiutarci a meglio comprendere
e a meglio socializzare. Ecco quindi
che sul “ponte alto” di quella nave
oltre al russo risuonava pure la lingua
di Victor Hugo. Un bel giorno una
giovane russa assai carina si avvicinò
e chiese, in perfetto idioma gallico,
chi eravamo e cosa facessimo laggiù.
Era una professoressa di francese del
Politecnico di Ekaterinburg, la grande
città di 2 milioni e mezzo di abitanti
posta sugli Urali proprio al confine tra
Europa ed Asia.
erto affascinata dalla nostra
lingua sciolta e dai racconti
delle nostre valli e montagne, ci chiese
se saremmo stati disposti, nell’inverno seguente, a recarci nella sua
città a tenere un paio di conferenze
(in francese) sulla Valtellina e le sue
caratteristiche turistiche, culturali ed
economiche. Poteva sembrare una
proposta irrealizzabile, ma i Canetta
un po’ folli lo sono e decisero che la
cosa si poteva fare.
C
E
Il rappresentante del Sindaco di Ekaterimburg e il direttore del Museo Geologico dell'Università "battezzano" con spumante russo la pietra malenca.
così, eccoci ad Ekaterinburg
in giacca e cravatta a parlare di
Bernina ma pure di dighe, di turismo
invernale e di vini tellini. Un successo:
anche nelle altre università della città
si parlava dei due italiani che erano
giunti a raccontare storie e vicende di
24
Le Montagne Divertenti Le Montagne Divertenti Autunno 2010
La cerimonia del Pane e Sale. In primo piano il Rettore dell'Università di Geologia e il Mufti di
Ekaterinburg (15 luglio 2010).
quelle Alpi lontane che per moltissimi
russi sono un mito. Ed ecco che Svetlana, la nostra nuova amica professoressa di francese, ci guidò presso
scuole ed istituti di cultura. Tra i tanti
l’Università di Geologia San Nicola
II. Strane cose succedono ad Ekaterinburg, la città dove lo zar con la sua
famiglia fu brutalmente assassinato
per ordine di Lenin. Viene dedicata
allo zar l’università (che aveva fondato
nel 1914), mentre nella piazza
accanto troneggia ancora la statua di
chi comandò l’eccidio dei Romanov
... ma questa è un’altra storia.
icordiamo che gli Urali - e
la provincia di Ekaterinburg
non fa certo eccezione - sono un
vero paradiso per gli appassionati di
rocce, minerali e geologia. La lunga
R
Il pietrone malenco negli Urali
25
Speciali d'autunno
ed antica catena montuosa rigurgita
di miniere e giacimenti di pietre ornamentali e preziose. Ovvio quindi che
l’Università di Geologia sia un punto
cardine, non solo a livello locale, ma
pure rispetto all’intera Russia.
opo aver incontrato i vertici
degli istituti fummo condotti
a visitare lo splendido museo dove il
baffuto e simpatico direttore ci illustrò un suo progetto:
realizzare con rocce provenienti
dai vari paesi d’Europa ed Asia un
sentiero geologico, proprio nei
pressi del monumento che pochi
chilometri fuori città indica il punto
esatto in cui i continenti europeo ed
asiatico si incontrano.
ncora una volta i Canetta
furono travolti dall’entusiasmo.
Un po’ più difficile fu convincere il
direttore che le rocce delle Retiche
rappresentavano a puntino l’Italia. Naturalmente il buon geologo
conosceva serpentini e graniti, ma
per lui lo stereotipo delle rocce
italiane erano i marmi di Carrara e
dintorni. Ma poteva il direttore del
Museo di Tirano abitante in Valmalenco perdere una simile occasione?
Quando partimmo dalla città uraliana
era già mezzo convinto. Il colpo finale
glielo portammo con una forbita
relazione di più pagine, con tanto di
cartine geologiche in cui dimostravamo (a ragione) come le serpentine
fossero tipiche rocce alpine, di eccezionale significato geologico e per di
più, presenti pure negli Urali, come
potessero costituire il naturale segno
della nuova amicizia italo russa.
D
A
Libri
potrebbe credere. Al battesimo erano
presenti oltre a Pietro Cabello e Laura
Lenatti, pure il vicesindaco di Chiesa
dal cui territorio giungeva il blocco
di serpentino e l’assessore alla cultura
Bruno Ciapponi Landi, del Comune
di Tirano, che sin dall’inizio, assieme
al museo cittadino, aveva appoggiato
senza riserve la nostra idea. La spedizione era pure patrocinata dal Prefetto
Chiara Marolla nonché dalla Comunità Montana Valtellina di Sondrio e
dall’Unione dei Comuni della Valmalenco.
I
l viaggio del ciclopico blocco
di circa 4 tonnellate e mezza, si
svolse in meno di 10 giorni. Quanto
allo sdoganamento ... beh diciamo
che la burocrazia è uguale in tutti i
paesi del mondo: quindici giorni di
viaggio da Chiesa ad Ekaterinburg e
10 mesi per le procedure di dogana.
Ma finalmente nella primavera del
2010 il pietrone fu definitivamente
consegnato al baffuto Direttore che
poté iniziare, con l’aiuto dei suoi
studenti, a posare la pietra: prima
rappresentante in assoluto dei paesi
che parteciperanno a questo interessante e bel progetto.
E
così il 15 luglio eravamo in
parecchi al monumento Europa
Asia. Giustamente i Cabello a rappresentare i cavatori e noi con in mano le
lettere di saluto e di amicizia del Presidente della Provincia, del Presidente
della Comunità Montana Valtellina
di Sondrio e del Sindaco di Tirano.
Ma con noi erano anche tutti gli altri
tellini che in un modo o nell’altro
avevano appoggiato l’impresa. Il presidente Medvedev era a Ekaterinburg
ma, troppo impegnato dai colloqui
con la cancelliera Merkel, non aveva
potuto essere presente. In compenso
vi erano molti altri che citiamo un po’
alla rinfusa: i vertici delle Università,
i rappresentanti dell’amministrazione
cittadina nonché quelli dell’ufficio di
tutela dei beni culturali della regione
uraliana, il Muftì della città e molti
rappresentanti di stampa e TV, provenienti pure da altre lontane repubbliche come quella del Tatarstan. Il
servizio d’onore era assicurato dagli
studenti, qualcuno in costume tipico
altri nelle sgargianti uniformi blu e
oro tipiche di molte università geologiche della Federazione.
E
domani? La nostra pietra resterà
laggiù nel bosco di pini e
betulle sola e dimenticata? Non è così,
altre pietre giungeranno ma soprattutto il politecnico di Ekaterinburg ha
chiesto alla Valtellina ed al Museo di
Tirano di collaborare con loro ad un
progetto europeo per la preparazione
degli studenti della facoltà di turismo.
Tirano ha già risposto positivamente:
ritorneremo sugli Urali ad illustrare
come nelle valli dell’Adda e della
Mera si sia organizzato il turismo in
questi ultimi decenni, dalle Alte Vie
alla gastronomia, dalla cultura allo sci.
Il ponte tra Alpi e Urali è gettato.
C
onvinto il Direttore bisognava
trovare un cavatore disposto non solo a donare il pietrone,
ma pure spedirlo a sue spese sino
a Ekaterinburg. Fummo fortunati.
Trovando nel Consorzio Estrattori
Pietre Ornamentali della Provincia
di Sondrio, ed in particolare nel suo
presidente Pietro Cabello un disponibile e ottimo interlocutore che
subito comprese quale importanza
avesse per l’industria estrattiva locale
una simile azione. A questo punto
non si doveva far altro che scegliere
la roccia, ridurla nelle giuste dimensioni e poi spedirla. Il tutto fu realizzato con meno problemi di quanto si
26
Le Montagne Divertenti Il Rettore dell'Università di Geologia di Ekaterinburg al taglio del nastro (15 luglio 2010).
Autunno 2010
Fiori di ciliegio
Bambini anni ’50, ciak si gira!
Marino Amonini
Quando le lancette dell’anagrafe
scandiscono una certa età si è colti
dall’irresistibile onda di ricordi che
hanno segnato il cammino percorso;
si affacciano volti, si delineano i
momenti di paura e di gioia, emergono le esperienze.
L’alpinista e scrittore di montagna
Oreste Forno ci consegna il primo
libro di una trilogia, un gustoso cesto
di racconti della sua infanzia, che
sono uno spaccato del vissuto di ogni
overcinquanta cresciuto nei paesi di
montagna della Valtellina.
Centoquarantacinque coriandoli,
questi brevi racconti, colorati di innocenza, genuinità e humour montanaro
davvero godibile.
"Non c'era bianco più candido dei
fiori dei ciliegi. Nemmeno quello della
neve.
Li guardavamo e dentro di noi era
tutto un ribollir di gioia.
L'inverno era già dimenticato e la
primavera era tutta intorno con i suoi
colori, i profumi, il cinguettio vivace
degli uccelli e la promessa di giornate
lunghe e calde, di giochi e scorribande
fino a tarda sera.
Era la nostra vita che tornava, che
riprendeva forte dopo la sonnolenza
della stagione fredda e, con entusiasmo,
andava avanti.
Ciliegi erano un po'ovunque. Bianchissimi nei boschi che incominciavano
a tingersi di verde, nei prati con l'erba
appena nata, nelle vigne, tra le case. Le
api ronzavano da un fiore all'altro e
presto quei fiori si sarebbero trasformati
in frutti, prima ciliegine verdi, poi più
grosse e tonde, poi ancora un po' più
grosse e chiare fino a che non avrebbero cominciato a farsi rosse per noi che
eravamo lì ad aspettarle!
Sarebbero state una grande festa quelle
ciliegie, sarebbe stata una grande estate!
Così dicevano quei fiori..."
Così si apre il libro, così l’autore ne
spiega il senso che dà origine al titolo,
Le Montagne Divertenti Oreste Forno, Fiori di ciliegio. Bambini anni ’50, ciak si gira!, Ed. Bellavite Missaglia, 176 pagg., €
15.
così dovrebbero dire ancora quei fiori
che evocano l’irripetibile stagione
dell’infanzia.
Oreste, di cui son ben noti l’amore
per la montagna e la sensibilità letteraria, in Fiori di ciliegio ripercorre i suoi
anni verdi presentando una galleria
di ritratti ed episodi che, come in un
colorato caleidoscopio, ruotano negli
anni ’50.
O, come recita il sottotitolo del
libro, parte il film, la bobina dei ricordi
si srotola e la lettura si fa sempre più
piacevole di pagina in pagina.
Recensioni
27
Speciali d'autunno
Grandi creste
Beno
L'
Enciclopedia
dell'alpinismo1
definisce "cresta" la "linea
di congiunzione di due
versanti rocciosi o nevosi di
una montagna; può essere
larga o stretta, rocciosa o
innevata. Una cresta può
essere orizzontale, inclinata
o molto ripida e interrotta
da gendarmi, forcelle o
selle".
L
e grandi creste sono
le regine: scale per il
cielo che superano notevoli
dislivelli e nel loro sviluppo
presentano spesso tutte le
morfologie descritte.
I
n Valtellina questi possenti individui tettonici sono assai diffusi
e han fatto la gioia dell'alpinismo
d'inizio '900. Per quei pionieri doveva
essere un po' come riuscire a cavalcare col surf un'onda nell'oceano in
tempesta: non c'erano infatti le attrezzature moderne, i metodi di assicurazione rapidi, nè tantomeno una
esauriente conoscenza del territorio da
poter garantire loro, una volta lanciati
nell'avventura, di tornare a casa vivi.
Nelle vecchie relazioni suggerimenti del tipo "si supera con un po'
di piramide umana" o "si oltrepassa
il trapiombo con una ampia spaccata"
rendono tutta la dimensione avventurosa di quei lunghissimi viaggi verso la
vetta.
olendo invitarvi a percorrere
alcune di queste grandi creste,
abbiamo selezionato le quattro per
noi più rappresentative di Valtellina
, anche se talvolta poco frequentate.
V
1 - W. Unsworth, Enciclopedia dell'alpinismo,
Zanichelli, Bologna 1994
28
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti La frastagliata e difficile cresta SO del pizzo Roseg e il rifugio Carate, ravvicinati per effetto del
teleobiettivo che li ha ripresi dai pressi dell'alpe Musella (12 settembre 2009, foto Beno).
Spesso, infatti, la lunghezza dell'avvicinamento o della via, oppure le rocce
non sempre sicure e gli ambienti
troppo selvaggi dissuadono gli scalatori da tracciati difficilmente gestibili
per chi è abituato a muoversi solo in
falesia o su percorsi battuti.
a scelta è stata ardua; prova
ne sono le grandi escluse che
ci ripromettiamo di trattare quanto
prima: lo spigolo N del Badile, la
cresta SO del Tremogge, la Bumiller
al Piz Palù, l'impressionante cresta SO
del Roseg, la Hintergrat all'Ortles o
la Suldengrat al Gran Zebrù solo per
citarne alcune.
oi, se vogliamo essere sinceri,
sono arrivate in redazione
bustarelle, escort e raccomandazioni
tali da veicolare le nostre decisioni e
le nostre indecisioni verso un verdetto
che molti non condivideranno, ma
di cui altri andranno orgogliosissimi
potendo dire d'averle fatte tutte!
e vincitrici pertanto sono:
- la Biancograt al Bernina
L
P
L
(AD+), una via d'alta quota frequentatissima, tutta in territorio svizzero,
che mischia ghiaccio e roccia con
passi fino al III+ grado;
- lo spigolo Vinci al Cengalo
(TD), la più bella lama di granito
delle alpi centrali con difficoltà fino al
VI grado;
- la cresta Corti alla Punta di
Scais (D, fino al IV+), via mozzafiato
sugli immani strapiombi della cresta
occidentale della seconda vetta delle
Orobie;
- la cresta Sinigaglia alla cima
Piazzi (D, fino al IV), altra pietra
miliare dell'alpinismo valtellinese che
richiede intuito e profonda conoscenza della montagna.
Insomma, ce n'è per tutti i gusti,
ma senza dimenticare che si tratta di
salite alpinistiche impegnative, veri e
propri viaggi che richiedono allenamento e velocità per essere conclusi in
giornata e per portare a casa la pelle al
sopraggiungere del cattivo tempo.
Grandi creste
29
Alpinismo
Biancograt al
Bernina
Luciano Bruseghini
30
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Dal pizzo Bianco (m 3995) al pizzo Bernina (m 4050) attraverso la tormentata
Breccia del Bernina (16 luglio 2008, foto Beno).
Biancograt al Bernina (m 4050)
31
Valmalenco
Alpinismo
L
La Tschierva, la "scala del cielo", il secondo gendarme della breccia del Bernina e l'ultimo tratto verso la vetta (23 luglio 2006, foto L. Bruseghini).
Bellezza
Fatica
Pericolosità
Partenza: Pontresina (m 1800).
Itinerario automobilistico: da Sondrio si prende
la SS 38 fino a Tirano. Alla rotonda nei pressi del
santuario si svolta a sx in direzione del confine di stato.
In territorio elvetico si prosegue lungo la strada numero
29 per il passo del Bernina. Superati i 2323 metri del
valico si scende fino a Pontresina (76 km da Sondrio).
Itinerario
sintetico: Pontresina (m 1800) capanna Tschierva (m 2583) - forcola Prievlusa
(m 3430) - Biancograt - pizzo Bernina (m 4050) capanna Marco e Rosa (m 3609).
Possibilità
di discesa: 1- capanna Marco e Rosa
(m 3609) - ghiacciaio Scerscen Superiore - rifugio
Marinelli (m 2813) - rifugio Carate Brianza (m 2636) Campo Moro (m 1950); 2A- capanna Marco e Rosa passo Belleviste (m 3688) - passo dei Sassi Rossi
(m 3510) - passo Marinelli Orientale (m 3120) - rifugio
Bignami (m 2400) - Campo Gera (m 2100); 2B- capanna
Marco e Rosa - passo Belleviste (m 3688) - Fortezza stazione Morteratsch (m 1900).
Tempo previsto: 8 ore dalla capanna Tschierva alla
Marco e Rosa (si consiglia di effetturare la traversata in
3 giorni con pernottamenti alla Tschierva e alla Marco e
Rosa).
Attrezzatura richiesta: corda (50 m), piccozza,
imbracatura, ramponi, 3-4 chiodi da ghiaccio, fettucce,
cordini, alcuni rinvii, casco.
Difficoltà/dislivello: 5- su 6 / 2200 m.
Dettagli: Alpinistica AD+. Salita in ambiente con
passi di III+ e pendii glaciali impegnativi.
Mappe: Kompass foglio 93 - Bernina-Sondrio 1:50000.
a Biancograt è la cresta
bianca che caratterizza il lato
settentrionale del pizzo Bernina
ed è definita, per la sua particolare
conformazione, “Scala del Cielo”1.
E' una lama di ghiaccio così appariscente che lascia a bocca aperta sia
chi la vede per la prima volta, sia chi
ha la possibilità di ammirarla spesso.
Guardandola dalla strada che da St.
Moritz porta al passo del Bernina, o
meglio ancora dalla terrazza panoramica del Diavolezza, appare come
un candido mantello protettivo
sopra il serpentino scuro che costituisce la base del 4000 più orientale
delle Alpi. Sogno di molti alpinisti
provenienti da tutto il mondo, ogni
estate è meta di un pellegrinaggio
continuo, con anche alcuni pazzi
che la ridiscendono con gli sci o lo
snowboard!
a salita al Bernina dalla Fourcla
Prievlusa non presenta in
nessun tratto difficoltà sostenute,
ma le condizioni di rocce e ghiaccio
rendono talvolta l'ascesa pericolosa,
specialmente vista la grande esposizione della via.
C'è ampia possibilità di assicurazione su spuntoni rocciosi, con
chiodi da ghiaccio e anche affidandosi agli spit presenti lungo la via.
a prima salita fu nel lontano 12
agosto 1878 ad opera dell'alpinista tedesco Paul Gussfeldt (futuro
primo salitore anche alla cresta di
Peutèrey al Monte Bianco), accompagnato dalle fortissime guide di Pontresina Hans Grass e Johann Gross; essi,
sbucando dalla forcola Prievlusa,
raccontano della linea quasi perfetta
di questa lama di ghiaccio e neve.
L
L
La scala del cielo (m 3700 ca, 23 luglio 2006, foto Luciano Bruseghini).
S
i parte dai m 1800 di Pontresina, ameno villaggio svizzero
posto all'incontro tra val Bernina e
val Roseg, a poca distanza dal più
modaiolo St. Moritz. La prima tappa
di avvicinamento prevede una lunga
camminata di circa 7 km in direzione
SO, lungo la carrareccia che percorre
la pianeggiante val Roseg fino all'hotel Roseg (m 2000, ore 1:30)2,
1 - Himmelsgrat
2 - In questo tratto è possibile anche usufruire del
comodo servizio di carrozze trainate da cavalli, ciò
permette di risparmiare un po' di energie in vista
della scalata del giorno successivo.
32
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Biancograt al Bernina (m 4050)
33
Valmalenco
Alpinismo
posizionato in una grande piana
coronata a S dall'imponente gruppo
di cime delimitate dal Glüschaint a
dx e dal pizzo Sella a sx. Terminata la
strada sterrata, si imbocca un comodo
sentiero che pian piano piega verso S
innalzandosi dal bosco di radi larici
fino a raggiungere l'enorme morena
che delimita la vedretta di Tschierva,
un tempo larga centinaia di metri,
oggi ridotta a un lumicino nella parte
bassa. In lontananza, sulla sx, appare
la capanna Tschierva, sovrastata dai tre
imperatori: Bernina, Scerscen e Roseg.
Sebbene siano tutte grandi cime, la
maggior parte degli alpinisti che transita da queste parti è solo per scalare
la Biancograt3. La capanna Tschierva
(m 2583, ore 2) è di proprietà del
Club Alpino Svizzero e dispone di oltre
cento posti letto. Il rifugio appare già
strano in lontananza, ma quando ci si
arriva sembra proprio un'opera d'arte
moderna; infatti a fianco della classica struttura di montagna con il tetto
spiovente, è stato costruito un enorme
cubo di cemento, legno e vetro contenente una grande sala da pranzo in
grado di accogliere i numerosi ospiti.
Dalla terrazza esterna si può ammirare
il profilo O della magnifica Biancograt
che nelle ore del tramonto si colora
prima di rosso e poi di arancione, per
poi brillare d'argento al chiarore della
luna e delle stelle.
a sveglia al mattino suona molto
presto, verso le tre, perchè ci
aspetta una giornata assai lunga e
faticosa. Aiutati dalla luce delle pile
frontali, una moltitudine di alpinisti si
incammina, in direzione SE, lungo la
morena che delimita il versante idrografico dx della vedretta di Tschierva,
costeggiando la parete O del piz
Morteratsch. Diversi ometti di pietra e
le evidenti tracce di passaggio rendono
più agevole individuare il percorso tra i
massi e gli sfasciumi lasciati liberi dalla
ritirata del ghiaccio. Calzati i ramponi
e attraversata una breve conca nevosa,
raggiungiamo la base rocciosa che delimita la forcola Prievlusa, che vinciamo
facilmente con una breve arrampicata,
aiutati anche dai gradini di ferro
posizionati per superare il tratto più
D
Il tratto che dalla Tschierva sale verso la forcola Prievlusa (16 luglio 2008, foto Beno).
34
Le Montagne Divertenti La cresta N del pizzo Bianco del Piz Morteratsch (25 luglio 2006, foto L. Bruseghini).
A complicare il tutto ci sono
anche i circa 500 metri di
vuoto che strapiombano da
ambo i lati.
L
3 - In percentuale si può dire che il 95 % degli
ospiti del rifugio sale al Bernina, il 4 % va al Roseg
dalla Eselgrat (cresta dell'asino!) e meno dell'1%
osa affrontare il bellissimo naso di ghiaccio per
conquistare il monte Scerscen.
roccette e neve piegando leggermente
a sx (sosta). Imbocchiamo quindi il
primo canalino (leggermente a dx) e
lo risaliamo fino a rimontare la cresta
spartiacque.
'ora in avanti seguiremo il filo
di cresta. Raggiunto il tratto
pianeggiante che precede un'ardita
torre rocciosa, la aggiriamo per il suo
versante orientale (neve o sfasciumi),
per riguadagnare lo spartiacque dove
ha inizio il tratto più caratteristico
della Biancograt: l'aerea cresta nevosa.
Eccola! Ora appare in tutta la sua
grandezza stagliarsi verso il cielo, un
disegno divino.
L'inizio è subito ripido e mette a
dura prova i ramponi e la piccozza. Poi
la pendenza cala leggermente dando
l'illusione di aver superato il tratto
critico, invece di nuovo compare una
ripida impennata che solitamente si
doma utilizzando anche dei chiodi
da ghiaccio. La cresta è molto varia: a
tratti abbastanza larga e a tratti affilata
come una lama e costringe gli alpinisti
a dei giochi di equilibrismo!
Dalla forcola Prievlusa alla Punta Prievlusa (16 luglio 2008, foto Beno).
ripido.4 Guadagnata la forcola Prievlusa (m 3430, ore 2), appare uno
spettacolo meraviglioso: i pizzi Palù
e le Belleviste che dominano la sottostante vedretta del Morteratsch, baciati
4 - A seconda delle condizioni ci si può anche
affidare al pendio nevoso (35°-40°) che aggira le
rocce da dx per ritraversare verso sx e raggiungere il
valico (m 3430)..
dal sole rosso che fa capolino sopra il
Diavolezza! Prima di cavalcare la cresta
nevosa bisogna ancora superare l'imponente bastione roccioso della Punta
Previulsa (m 3610, III). Con una
rampa obliqua, traversiamo in diagonale verso dx portandoci sul versante
O della cresta; dopo un piccolo diedro
(sosta al termine) continuiamo per
Autunno 2010
Vista di profilo sembra uno spigolo
perfettamente lineare; in realtà il suo
andamento è sinuoso come le tracce
lasciate da un serpente sulla sabbia.
Superati diversi dossi e ampie curve, si
giunge al pizzo Bianco (m 3995, ore
2) dove la spettacolare cresta di neve
e ghiaccio ha termine. Per arrivare in
cima al Bernina bisogna vincere un
tratto di roccia dove due alte guglie di
pietra, denominate i "Gendarmi" sbarrano la strada agli alpinisti.
Dopo un tratto sul versante E della
cresta rocciosa, scendiamo dal primo
gendarme con una doppia da 15 metri
(soste tutte già attrezzate) e ci caliamo
nella breccia del Bernina. Dopo alcuni
metri verso S, saliamo direttamente il
secondo gendarme di roccia (diedro/
canale con passaggio di III+).
Al successivo intaglio torniamo sul
filo di cresta, arrivando alla ripida
parete rocciosa di circa 50 metri che ci
separa dall'ambita vetta. Nella seconda
metà la parete diviene più facile e
Le Montagne Divertenti Alpinisti lungo la cresta N del pizzo Bianco (m 3800 ca, 23 luglio 2006, foto L. Bruseghini).
appoggiata fino alla cima del pizzo
Bernina (4050 metri, ore 2).
l panorama spazia a 360° dato che
nessuna vetta intorno ci eguaglia
in altezza. A SE l'occhio viene catturato dall'ampio bacino della vedretta
da Morteratsch circondato dalla Cresta
Guzza, dai gemelli pizzo Argento
e Zupò e dalle Belleviste. A SO vi
sono invece il monte Scerscen con la
I
sua esile cresta rocciosa e il panettone
nevoso del Roseg. Tutte le altre cime
vicine, anche se superano abbondantemente i 3000 metri, sembrano dei
nani visti dal re delle Retiche.
L
a discesa
solitamente non
avviene per la via di salita a causa
dei pendii ghiacciati, ma ci si abbassa
dal versante italiano, lungo il percorso
Biancograt al Bernina (m 4050)
35
Alpinismo
Spigolo Vinci
al Cengalo
Testi e foto Mario Sertori (Guida Alpina, tel. 349 6784134 - www.up-climbing.com)
Il tracciato di discesa per le Belleviste e la Fortezza (16 luglio 2008, foto Beno).
normale alla vetta. Un esile profilo
nevoso, con dirupi a sx, ma soprattutto
a dx verso il versante elvetico, conduce
alla Punta Generale Perrucchetti, la
cima italiana del Bernina, leggermente
più bassa di quella svizzera. Calandoci
lungo il filo di cresta, misto di roccia e
neve, si perviene a un salto roccioso di
una ventina di metri che si oltrepassa
con una calata in corda doppia. Un
altro breve tratto di misto tra roccia e
neve conduce al facile ghiacciaio che,
con una corta discesa, guida al rifugio
Marco e Rosa situato alla forcola della
Cresta Guzza (m 3609, ore 1:30).
Una tappa è d'obbligo, anche solo per
salutare il Bianco (Giancarlo Lenatti),
gestore del rifugio, nonchè grande
alpinista e sciatore estremo.
Dalla Marco e Rosa vi
sono diverse alternative
per rincasare, a seconda
del tempo a disposizione
e soprattutto dei mezzi di
trasporto.
itinerario di discesa 1
La via più breve prevede di rientrare utilizzando la ferrata che parte
dal rifugio, a fianco del canalone della
Cresta Guzza, e che conduce al ghiacciaio di Scerscen Superiore. Raggiunto
l'enorme pianoro candido, bisogna
attraversarlo diagonalmente, in direzione SE, verso il passo Marinelli
Occidentale (m 3000, ore 2). Da qui
una traccia su sfasciumi e grossi massi
accompagna in poco tempo al rifugio
Marinelli (2813 m, ore 0.30). Poi,
seguendo il sentiero dell'Alta Via della
Valmalenco si scende in direzione S,
36
Le Montagne Divertenti alla Bocchetta delle Forbici, nei pressi
della quale sorge il rifugio Carate
(2636 m, ore 1). Ci si abbassa quindi
compiendo un semicerchio attorno al
Sasso Moro per sbucare al parcheggio
ai piedi dell'invaso artificiale di Campo
Moro (m 1900, ore 1:30). Questa
soluzione prevede ovviamente che ci
sia qualcuno ad attenderci, perchè per
usufruire dei mezzi pubblici, attivi
solamente nei mesi di luglio ed agosto,
bisogna ulteriormente sgambare fino a
Campo Franscia (m 1500 m, ore 2)5.
itinerario di discesa 2
al rifugio Marco e Rosa
ci si muove in direzione
E lungo la Vadret da Morteratsch,
molto bella nella prima parte, quanto
crepacciata e disseminata di seracchi
nella seconda. Si compie un ampio
semicerchio verso dx ai piedi della
Cresta Guzza, del pizzo Argento, del
pizzo Zupò e delle Belleviste fino al
passo delle Belleviste (m 3700, ore
2). Da qui si ha un'ottima visuale
sulla Biancograt e sembra strano
averla superata solo poche ore prima.
Il tragitto ora si divide: o si va verso
l'Italia (A) o verso la Svizzera (B).
D
variante 2A
Se si sceglie il patrio suolo, si piega
in direzione S e si attraversa tutto
l'infinito altopiano di Fellaria fino al
passo dei Sassi Rossi (m 3500), per
poi abbassarsi lungo una zona molto
5 - Per organizzare un viaggio che prevede l'uso dei
mezzi pubblici senza l'impiccio dell'auto ci si può
organizzare verificando gli orarei su:
www.sondriochiesa.com/linee (da Franscia a
Sondrio)
www.trenitalia.it (da Sondrio a Tirano)
www.treninorosso.it (da Tirano a Pontresina)
crepacciata (OSO) ai piedi delle pareti
S dei pizzo Zupò e Argento, con
diversi slalom per superare i numerosi buchi che ostacolano il passaggio.
Raggiunto il ghiacciaio sottostante
si punta a SO al passo Marinelli
Orientale (m 3100, ore 2) proprio ai
piedi della Punta Marinelli che come
un faro indica la via agli alpinisti. Da
questo valico ci si può dirigere a SO
verso il rifugio Marinelli e poi scendere
a valle per l'itinerario precedentemente
descritto, oppure seguendo il ghiacciaio verso SE si perviene a una grande
roccia da dove parte un sentierino,
tracciato su sfasciumi e morene, che
porta al rifugio Bignami (m 2400,
ore 1:30). Da qui una piccola mulattiera che costeggia dall'alto il Bacino
artificiale di Campo Gera conduce ai
piedi del muro della diga (m 2000, ore
1:30) dove arriva una strada sterrata.
Anche questa via di rientro prevede di
avere un altro mezzo a disposizione o
di scendere a piedi fino a Franscia.
VAriante 2b
Chi invece vuole ritornare a
Pontresina, dal passo delle Belleviste
deve ripiegare lungo il ghiacciaio in
direzione N, fino a raggiungere una
balza rocciosa detta Fortezza. Con
una calata in corda doppia si supera il
dislivello con il ghiacciaio sottostante.
Si scende sempre in direzione N
prima su ghiacciaio, poi su sfasciumi
per toccare la lingua terminale della
vedretta del Morteratsch. Seguendola
fino al termine e poi utilizzando il
comodo sentiero che dal rifugio Boval
porta alla stazione del trenino rosso
(m 1900, ore 2.30). Una fermata di
treno e si è a Pontresina.
Autunno 2010
Sulla
"schiena di Divertenti
mulo", al 5° tiro
Le Montagne
(VI).
Spigolo Vinci al Cengalo (m 3367)
37
Valmasino
Alpinismo
o giallo oro, o nero carbone; la luce
del mattino accende i quarzi uno ad
uno tempestandoli di raggi ed è bene
proteggere gli occhi per non rimanere
accecati.
E’ come la gigantesca prua
di un vascello schiaffeggiata
da venti furiosi di
mari agitati che hanno
smerigliato per bene i suoi
profili, inventando forme
irreali.
’arrampicata è magnifica e di
gran soddisfazione: dapprima
un po’ rude, ricorda gli antenati
pionieri dell’alpinismo, poi evolve in
rebus gravitazionali su alcuni tratti
da antologia del genere granitico.
Qui il gesto da primordiale si fa
elegante, tecnico, leggero. Non
necessita di particolare forza, ma
di un briciolo di coraggio nel
mettersi alla prova dove le corde
scendono tra le gambe e si
allontanano senza passare
in nessun chiodo di sicurezza. E’ lì che si
salto giallo
assapora il gusto
(V+)
deciso
della
libera, e si
)
lame ( I V
Pizzo Cengalo, versante meridionale. In evidenza la lama seghettata dello spigolo Vinci. Indicati l'attacco e la Punta Angela (1 settembre 2006).
Bellezza
Fatica
Pericolosità
Partenza: rifugio Gianetti (m 2534).
Itinerario automobilistico: 6 chilometri dopo
Tempo previsto: 3/5 ore dall'attacco.
Attrezzatura richiesta: una serie di friends fino
Morbegno in direzione Sondrio, appena oltre un
ponte, all’altezza del paese di Ardenno, girare a sx e
seguire per Valmasino. Ci si inoltra nella valle lungo
la strada provinciale e si raggiungono i nuclei abitati
di Cataeggio e Filorera. Proseguendo si costeggia il
Sasso di Remenno (nota palestra di arrampicata
sportiva) e si arriva a San Martino (14 km). Nel
paese, al secondo tornante, lasciare a dx la strada
per la val di Mello, proseguendo diritti per 4 km fino
alle terme dei Bagni di Màsino (m 1171).
6a (5c+ obbligatorio).
Guide: Mario Sertori e Guido Lisignoli, Solo granito,
ed. Versante Sud, Milano 2007- 2009
Avvicinamento: Dal rifugio seguire per un tratto il
sentiero Roma verso il rifugio Allievi, passando sotto l’
isolato sperone di Punta Enrichetta. Attraversare,
salendo verso l’evidente anfiteatro posto sopra la
prima torre dello spigolo SO del Cengalo, quindi salire
in un diedro canale a dx con un masso incastrato che
Discesa: in doppia sulla via Carosello. La prima
delle 7 calate è molto evidente nei pressi di Punta
Angela (spuntone con cordoni e maillon, poi spit)
oppure si prosegue facilmente tra blocchi fino alla
cima del Cengalo e si scende dalla via normale
(versante O).
La Prua
I
l pizzo Cengalo è l’enorme
bastione che fiancheggia la più
celebre montagna delle Alpi Centrali,
il Badile, e insieme se ne stanno
in quella postura dalla notte dei
tempi, quando furono scaraventati
dal mondo ipogeo verso i cieli boreali, costringendo al raffreddamento
coatto i loro graniti incandescenti.
Sono come due orsi pietrificati che
danno le spalle alla Bregaglia e guardano a meridione, verso le desolate
38
porta in cresta facilmente (ore 1:30).
Le Montagne Divertenti al 3 e nuts, rinvii, 2 corde da 50 m, casco, imbraco. In
via chiodi. Per la discesa dalla normale: scarponcini e
piccozza.
Difficoltà/dislivello: 5.5 su 6 / oltre 2000 m.
Dettagli: Alpinistica TD. 350 m (12 lunghezze),
sassaie del Màsino fino alle nebbie
della pianura lombarda. Hanno
schiene larghe ed attraenti, tanto
che, osservandoli da nord, con quelle
levigate muraglie formano un quadro
tra i più suggestivi delle Alpi. Anche
dal versante opposto però la visione
è armoniosa, seppure meno impressionante, e non mancano alcune
linee di qualità, decisamente ardite.
Tra queste una posizione di primo
piano se l’aggiudica lo spigolo S del
Cengalo, essenziale e seghettato come
l’intuizione di un architetto futurista.
L
diedro nero (V+/VI)
Parte in sordina e prende il volo man
mano che si alza, acquistando slancio
e decisione, corpo e sostanza, colore e
lucentezza: le lastre diventano monoliti, gli spuntoni torri di una fortezza,
gli appigli cristalli affilati, le fessure
esplosioni geometriche. Scalare su
quel crinale che galleggia nell’aria dà
respiro all’azione, la pietra punge ed
entra nel palmo delle mani trafiggendo polpastrelli e suole delle scarpe,
ma tiene gli arrampicatori saldamente
attaccati alla montagna. La tinta del
sasso non conosce compromessi,
Autunno 2010
sente l’eco della storia passata sulla
pelle del Cengalo. Molte mani hanno
spolverato quei cristalli e si sono
aggrappate alle lame dorate seguendo
i passi di Alfonso Vinci, colui che
trovò la soluzione verticale di quel
capolavoro della natura.
La Storia
l primo che rivolse le sue attenzioni allo spigolo S del Cengalo
fu il conte Aldo Bonacossa, un nobiluomo milanese poco avvezzo alla
mollezze del suo rango, tra i più
assidui frequentatori delle selvatiche
montagne del Màsino e tra i massimi
conoscitori di quelle vallate. Bonacossa scalò con successo la prima
parte della cresta in due riprese, nel
1922 con Sarfatti e nel 1925 con
Orio, ma alla base della “Schiena di
Mulo”, un promontorio appiccicato
al vuoto e privo di appigli, dovette
arrendersi. Forse se avesse avuto per
compagno Gervasutti il “Fortissimo”
come alla Torre Re Alberto, le cose
sarebbero andate in modo diverso1.
Forse. Deviarono ad ovest e con un
percorso sinuoso conclusero l’ascensione sull’anticima meridionale della
montagna, che il conte battezzò
Punta Angela in onore di sua madre.
A quel tempo nei cieli delle Alpi brillavano molte stelle e tra di esse una
particolarmente scintillante, quella
del lecchese Riccardo Cassin (1909 –
2009, è stato uno dei più importanti
alpinisti del ‘900).
I
1 - Nell’ottobre del 1933 Giusto Gervasutti, accompagnato da Bonacossa, sale sull’inviolata torre Re
Alberto, in alta val Torrone, supera una placca di 30
metri improteggibile e dichiara:” è il passaggio più
duro della mia carriera”. VI grado, abbondantemente confermato dalle rarissime ripetizioni moderne
(6a).
(V)
Alla sua corte ogni tanto facevano capolino “i comaschi”, alpinisti coriacei tra i quali sicuramente il
più dotato era Alfonso Vinci. Spirito
libero e sognatore, ben presto si stancò
di portare lo zaino alla base delle
pareti al seguito del grande Riccardo
e iniziò a cercare la sua strada. Riempì
un quaderno di vie da aprire e, come
spesso succede nella storia, alcune gli
riuscirono e altre gli vennero soffiate
sotto il naso. Il suo era un alpinismo
giovane e fresco di idee, praticato con
mezzi rudimentali, ma che coglieva
risultati sorprendenti. Nel luglio del
1938 con Paolo Riva venne a capo
dell’ostica muraglia settentrionale
del pizzo Ligoncio, nel Màsino: 600
metri di ripide placche e fessure da
brivido, paragonabile alla Cassin sulla
NE del Badile, anche se un po’ meno
lunga. Ma i suoi orizzonti erano ampi;
l’interesse per il nuovo e la risoluzioni
di problemi considerati impossibili
lo portarono lontano dalle montagne
di casa. Nelle Dolomiti gettò l’occhio sull’allora inviolata O del monte
Agner, una parete gigantesca che
domina una valle selvaggia. Nell’estate
del 1939 in tre giorni di battaglia
con Elia Bernasconi venne a capo di
quell’abisso di 1300 metri. Nelle Alpi
centrali, Vinci si innamorò a
prima vista della cresta S del
Cengalo, sapeva che altri
l’avevano provata invano.
Forte di una gran classe
in arrampicata e dei
successi precedenti,
si sentiva pronto
per un tentativo. Attaccò il
16 agosto del
1939 con
Il profilo dello spigolo Vinci e a dx il
"salto giallo", terzultimo tiro (V+ ).
schiena di mulo (VI)
(III/IV)
Le Montagne Divertenti Spigolo Vinci al Cengalo (m 3367)
39
Valmasino
Alpinismo
la medaglia d’oro al valore atletico.
Alfonso Vinci è sicuramente tra i
maggiori alpinisti italiani degli anni
’30. Di ideali libertari, partecipa attivamente alla resistenza: è il partigiano
Bill, capo della divisione valtellinese
delle Brigate Garibaldi che si distinse
per l’audacia delle sue azioni. Nel
1945, dopo aver disarmato un’intera
caserma con cinquanta carabinieri,
è catturato e rinchiuso nel carcere
di San Vittore. A guerra terminata
decide di cercare fortuna altrove, si
imbarca per il Sudamerica con 200
dollari in tasca e una cassa piena di
materiale da arrampicata.
i fidati Bernasconi e Riva e, arrivato
alla cosiddetta “Schiena di Mulo”,
superò con le scarpette di gatto (come
erano nominate allora le pedule in
manchon già usate da Emilio Comici
sulla Dolomia) un passo arduo, senza
possibilità di assicurazione, pinzando
dal dorso giallo di granito i cristalli
affioranti che gli permisero di acciuffare la splendida lama successiva. Il
dado era tratto.
Piantò alcuni chiodoni
artigianali, quelli ereditati
da Mario Molteni2 e sbucò
sul terrazzo sotto la lancia
strapiombante, una sorta di
totem inaccessibile.3
Ad indicargli la strada fu un
sentiero di funghi neri, provvidenziali
erosioni rocciose che lo condussero
di nuovo in cresta, ma ancora in un
punto insormontabile. Con grande
intuito scese una decina di metri sul
versante occidentale e s’infilò sul
“Diedro nero”, un atletico angolo di
lastre sovrapposte che porta alla base
dell’ultimo ostacolo rilevante, il “Salto
giallo”. Qui un comodissimo ballatoio senza parapetti fa da anticamera
ad una scaglia inclinata incisa da una
regolare fessura. Vinci la superò con
eleganza, sospeso sul vuoto frizzante
del versante E. Dalla parte opposta
lo osservava il pilastro orientale di
Punta Sertori su cui, un paio di giorni
prima, con gli stessi compagni, aveva
tracciato un percorso diretto. Doveva
essere una grande soddisfazione risolvere così due grossi problemi della
zona e depennarli dal libro degli
itinerari da aprire. Oggi la sua via sul
Cengalo è una classica della regione,
tra le più belle del Màsino e non ha
perso smalto nonostante l’età e l’attacco dei driller. All’inizio del terzo
2 - Mario Molteni, soprannominato Mario Preet, per
il suo sguardo serio e melanconico, un po’ da prete di
borgata, era un alpinista comasco del gruppo di Vinci, morto di sfinimento nel luglio del 1937 dopo aver
aperto con Cassin e compagni la via sulla NE del Badile. Alla sua scomparsa la madre di Molteni regalò
ad Alfonso Vinci il materiale alpinistico del figlio
(compreso un mazzetto di chiodi artigianali).
3 - Nelle prime ripetizioni e a tutti gli anni ’60 per
superare senza rischi il primo sprotetto tratto della
Schiena di Mulo venne usato un grosso filo di ferro
uncinato lungo alcuni metri, che permetteva di
arpionare il primo chiodo, distante appunto un po’
di metri. Se ne trova testimonianza in alcune foto
d’epoca.
40
Le Montagne Divertenti Dovrebbe partire con
Gervasutti, che nel
frattempo è impegnato
sul Mont Blanc du Tacul:
attenderà invano il suo
compagno, perché da quei
graniti il Fortissimo non
farà ritorno4.
A. Sione
4 - Giusto Gervasutti (1909 – 1946) detto il Fortissimo è stato uno dei più importanti alpinisti degli
anni ’30 e ’40. Scomparve in un incidente durante
la discesa da un pilastro del Mont Blanc du Tacul
che successivamente porterà per sempre il suo nome
(monte Bianco).
millennio infatti sono spuntati, per
mano elvetica, in coppia alle soste e
sporadici sui tiri, luccicanti fittoni e
placchette inox.
Uno sfregio all’opera d’arte?
Certamente sì, secondo un manipolo di valorosi valligiani che ha
liberato a martellate il Vinci dalle
quelle catene. Così adesso si possono
ancora passare i rinvii nei consumati
chiodi del primo salitore o solleticare le fessure con i friends, geniali
invenzioni che semplificano molto le
cose. In ogni caso è puro piacere per
i moderni arrampicatori ripercorrere
questa pietra luminosa che Alfonso
Vinci ci ha lasciato, lui che di sassi
preziosi era un grande esperto.
Alfonso Vinci
lfonso Vinci nasce a Dazio,
in Valtellina, nel 1915, studia
all’università di Milano laureandosi
in lettere e filosofia e successivamente in scienze naturali con specializzazione in geologia. Trasferitosi a
Como, frequenta l’ambiente alpinistico locale e lecchese e, dopo un
periodo di formazione con scalatori
celebri come Riccardo Cassin, trova
un suo personale percorso verticale
contraddistinto da alcune importanti
prime ascensioni. Gli anni che precedono l’inizio della seconda guerra
mondiale lo vedono protagonista nel
Màsino e nelle Dolomiti agordine con
nuove salite di alto livello, tanto che
gli viene conferita dal regime fascista
A
Autunno 2010
Un gendarme sulla cresta.
Le Montagne Divertenti Alfonso Vinci (foto Jacopo Merizzi). Scrive di lui Franco Brevini: "sembra uscito da un romanzo
di Jack London, ma è nato a Dazio, in Valtellina, nel 1915. Nella sua vita Alfonso Vinci ha fatto di
tutto: scalare montagne, esplorare nuove terre, valicare la Cordigliera, inseguire tesori scomparsi
sui manoscritti dei conquistadores, cercare diamanti in Venezuela".
H
a in tasca un visto per Brasile,
Venezuela e Cile. Nell’emisfero australe Vinci scala montagne,
esplora vallate dal Messico alla Terra
del Fuoco. Compie la prima traversata transandina, mettendo piede
sulle principali vette della Cordillera
dal Venezuela al Perù, passando da
Colombia ed Ecuador. Nella Guayana
riesce, con il botanico venezuelano
Cardona, a raggiungere la sommità
dell’Ayuàn Tepuy, da dove cade la
più alta cascata del mondo, il Salto
Angel. Ma la sua sete di conoscenza
va ben oltre l’aspetto geografico o
sportivo: risalendo il corso dell’Orinoco è il primo occidentale ad entrare
in contatto con la tribù degli indios
Yanoama sui quali compie approfonditi studi etnografici. Da questa
esperienza nasce il libro Samatari che
entrerà a far parte della trilogia sudamericana di Vinci, composta anche
da Diamanti e Cordigliera. Un altro
elemento importante dell’esperienza
in quel continente è la scoperta dei
diamanti di cui diviene in breve
tempo, anche grazie ai suoi studi in
geologia, ma soprattutto ad un fiuto
insuperabile, uno dei massimi esperti.
Per sette anni, spesso da
solo, setaccia la foresta
con una bussola e un
enorme zaino riuscendo
a sopravvivere in
quell’ambiente infernale
dove neppure il sole riesce a
filtrare, tra serpenti, insetti
velenosi e vegetazione
impenetrabile, ma alla
fine trova il più grande
giacimento del Venezuela
e uno dei più importanti di
quel continente.
I
n breve la zona è invasa da una
moltitudine di cercatori, avventurieri e disperati di ogni risma e Vinci
cambia aria. Così racconta nel suo
libro Diamanti5 il tentativo di vendere
il bottino del suo team:
“…Era cominciata la corte attorno
ai nostri diamanti, il vecchio Paul era
stato mandato perché ci valutasse il lotto
e facesse un’offerta. Ci appartammo
5 - Dal libro Alfonso Vinci, Diamanti – A caccia di
fortuna in Venezuela, Vivalda editori, Torino 2005
Spigolo Vinci al Cengalo (m 3367)
41
Valmasino
Alpinismo
dietro la capanna e in un grande piatto
di portata, prestatoci dalle donne di
Armando, rovesciammo le bottigliette dei
diamanti. Questi facevano un mucchio
enorme, irreale, da prendere a manciate.
Paul dilatò gli occhi e immobilizzò
l’espressione del volto, come se l’emozione
l’avesse paralizzato. Indietreggiò visibilmente e solo allora osò dire:” Troppi,
troppi diamanti, io non li posso valutare,
metteteli via prima che li vedano”.
onostante questo non diventerà ricco, perchè l’area, in
virtù della legge di quel paese, entrerà
a far parte del patrimonio dello Stato.
Ma Vinci più che dall’agiatezza è affascinato dalla scoperta, in ogni campo
è quella che lo riempie di nuove energie. A lui si rivolgono per consulenze
governi e compagnie che intendono
sfruttare i minerali. Alfonso Vinci ha
anche insegnato per tre anni all’università venezuelana di Mérida ed ha
trovato il tempo, in un’esistenza da
Indiana Jones, di scrivere, tra romanzi
e saggi, una dozzina di libri. Insomma
un personaggio poliedrico, una sorta
di moderno Ulisse, come l’eroe
omerico attratto invincibilmente dal
sapere, in ogni campo a cui si affaccia,
dalla scalata di una muraglia vertiginosa, all’esplorazione di una vallata
sconosciuta, dalla scoperta di pietre
sfavillanti, alla vita tra gli Yanoama. In
tutto questo il suo agire è alimentato
dall’ansia del nuovo e permeato dal
tocco sublime della bellezza. Vinci è
un artista, ma le sue opere sono tracciate sulla pietra di pareti sconfinate
o sulla carta stampata dei libri che ha
scritto. Queste le sue parole, dal testo
di una conferenza tenuta a Sondrio
nel 19896 :
"Quando entrai per la prima volta
nelle terre dell’Alto Amazzoni e della
Guayana, il mio programma di esploratore di molta curiosità e di pochi
mezzi, era vario e ambizioso: vivere
con gli indi primitivi, riconoscere flora
e fauna esotica, navigare i grandi fiumi
pericolosi, scalare le vertiginose cime
di arenaria, e per portare avanti tutte
queste attività, affidarmi alla geologia,
cioè trovare oro e diamanti che potessero
pagare le spese. Ricordo una frase: “ Io
N
6 - Conferenza di Alfonso Vinci tenutasi a Sondrio
il 12.5.1989 il cui testo integrale è pubblicato alle
pagine 143-149 dell’Annuario del CAI sez.
Valtellinese, Sondrio 1989 .
Montagne
42 xxxxLexxxx
xxxx
xxxxx Divertenti Il "diedro nero",
8° tiro (V+/VI).
Autunno
2010
Le Montagne Divertenti Cordate sulla Schiena di Mulo.
non vado in giro a ricercare diamanti,
ma ricerco diamanti per poter andare in
giro.” Naturalmente nei tempi lunghi e
negli spazi immensi delle regioni sconosciute, tutto finì per mescolarsi inestricabilmente ma alla fine, pagato lo scotto
dell’apprendistato, come in tutte le cose,
i programmi funzionarono. Vissi con
le tribù primitive, raccolsi nuove specie
botaniche, navigai i fiumi pericolosi,
scalai quelle montagne incantate e resi
positivo il bilancio economico scoprendo
il più ricco giacimento di diamanti del
Venezuela”.
I
mportante per i suoi studi geologici e la ricerca di oro e diamanti
è anche la traversata del Borneo, la
maggior isola dell’arcipelago indonesiano e la terza al mondo per superficie, che l’esploratore portò a termine
quando era già un affermato e conosciuto scopritore di giacimenti. Terminata la stagione delle pietre preziose
rimase in Sudamerica lavorando come
geologo sulle grandi dighe del bacino
del Rio delle Amazzoni, divenendo un
esperto di movimenti franosi. Vinci
tornava spesso in Valtellina, nella sua
Dazio, ma d’estate amava soggiornare
Spigolo Vinci al Cengalo (m 3367)
43
Alpinismo
in un solitario maggengo della valle di
Albaredo, sulla sommità di un dosso,
sospeso tra la visione ad occidente
delle docili montagne che si affacciano
sul lago di Como e a nord degli amati
graniti del Màsino. In un’intervista7 di
Giuseppe “Popi” Miotti, pochi anni
prima della scomparsa di Vinci, avvenuta a Roma nel 1992, alla domanda:
“Seppure valtellinese lei ha passato la
giovinezza a Como?” Vinci risponde:
“In effetti io non mi considero molto
valtellinese. Sono nato a Dazio ma poi
ho trascorso l’infanzia e la giovinezza a
Como. Posso dire di essere stato comasco;
oggi non sono più niente di tutto ciò,
perché vado qua e là per il mondo.”
Rifugio Gianetti (m 2534)
E infine: “Ha mai nostalgia
di tutte queste avventure, di
questa vita?”
“Nostalgia? La nostalgia non
esiste”.
Il rifugio Gianetti e il pizzo Badile (11 ottobre 2009, foto Beno).
7 -Intervista pubblicata alle pagine 164/168 del
libro Dal Corno Stella al K2 edito dal CAI sezione
di Sondrio
44
Le Montagne Divertenti Cresta Corti
alla Punta di
Scais
Beno
E'
il luogo ideale dove pernottare se si vuole affrontare lo spigolo Vinci.
Per raggiungerlo, dal parcheggio dei
Bagni di Màsino, proseguire lungo la
stradina che costeggia il caseggiato e
un campo da tennis fino ad una radura con cartelli indicatori. Prendere
il sentiero di dx ben segnalato e salire
nel bosco, raggiungendo l’alpe Corte Vecchia e poco oltre le Termopili,
caratteristica strettoia tra due massi. Proseguire ancora nel bosco e poi
in salita piuttosto ripida fino a una
grande cascata attraversata dal sentiero. Oltrepassato il “Pianone” ed
un ponte, ancora in salita tra dossi e
pietraie fino al rifugio Gianetti (ore
3:30). E’ gestito da Giacomo “Mimmo” Fiorelli e dalla sua famiglia, tel.
0342 645161, aperto da metà giugno a fine settembre.
Autunno 2010
Il possente sperone occidentale della Punta di Scais, inizio della bellissima cresta
Corti (2 aprile 2006, foto Beno). I valtellinesi Giuseppe Miotti e Pietro Scherini che
compirono nel 1987 una delle prime ripetizioni invernali, dissero che quella salita li
Le
Montagne
aveva
impegnatiDivertenti
più della NE del Cengalo!
Cresta Corti alla Punta di Scais (m 3039)
45
Versante orobico
Alpinismo
1
E
F
Fatica
Pericolosità
Partenza: Agneda (m 1223).
Itinerario automobilistico: da Sondrio si
prende la SS 38 in direzione Tirano fino alla fine della
tangenziale. Poco prima del passaggio a livello si
svolta a dx e si segue la SP che unisce Montagna
Piano e Piateda fino a Busteggia. 100 metri oltre l'ex
canile si prende la stradina sulla dx che sale a Pam per
poi ricongiungersi all'arteria principale per Piateda
Alta. Dopo circa 7 km da Sondrio si è al bivio in
località Mon. Si segue sulla dx la carrozzabile che si
inoltra in val Vedello. Oltre la Centrale di Vedello
(m 1000, 6 km) il fondo diviene sterrato. Ignorato il
successivo bivio per Ambria (dx) seguita per 2.5 km
fino al paesino di Agneda, oltre il quale, quasi in
fondo alla piana, si trova un'area attrezzata per picnic neii pressi della quale si può lasciare l'auto.
Itinerario
dona sangue e torna a donare.
Se hai compiuto 18 anni e sei in buona salute, scegli di donare il tuo sangue.
Un gesto semplice e prezioso che aiuterà molte vite a ripartire.
46
AVIS SEZIONI COMUNALI DELLA PROVINCIA DI SONDRIO:
AVIS DI BORMIO 0342 902670, AVIS DI CASPOGGIO 0342 451954, AVIS DI CHIAVENNA
0343 67297, AVIS DI LANZADA 0342 452633, AVIS DI MORBEGNO 0342 610243, AVIS DI
0342
800593000
Le POGGIRIDENTI
Montagne Divertenti
380292, AVIS DI SONDALO 0342 801098, AVIS DI SONDRIO Autunno
2010
3
4
5
6
1- Torrione Occidentale della Punta di Scais (m 2970); 2- grande depressione; 3- Canale Bonomi; 4- Punta di Scais (m 3039); 5- Torrione Curò
(m 2996); 6 - Fetta di Polenta (m 2970). Ripresa effettuata dal pizzo Brunone (4 luglio 2007, foto Beno).
Bellezza
Non lasciarci a secco:
2
L
sintetico: Agneda (m 1223) - diga di
a cresta Corti è una via leggendaria, una cavalcata di oltre
1000 metri di dislivello positivo che
raggiunge la Punta di Scais per la
sua lunghissima cresta occidentale,
dorsale rocciosa che separa il vallone
di Porola da quello di Scais. E' un
banco di prova per tutti gli alpinisti
di buon livello, un viaggio sospesi
alle nuvole che negli ultimi anni è
immeritatamente poco frequentato.
orfologicamente la cresta,
partendo
dalla
vetta
(m 3039) e andando verso O,
presenta un lungo tratto pianeggiante e dentellato che, raggiunta
M
Le Montagne Divertenti Scais (m 1494) - alpe Caronno - rifugio Mambretti
(m 2004) - Punta di Scais per la cresta Corti
(m 3039)- discesa per il canale Bonomi - ghiacciaio di
Scais - rifugio Mambretti - Agneda .
Tempo previsto: 15 ore per l'intero giro (8 ore per
la sola cresta Corti)
Attrezzatura richiesta: scarponi, corda (50 m),
piccozza, imbracatura, ramponi, cordini, fettucce,
4-5 friend, alcuni rinvii, casco.
Difficoltà/dislivello: 5+ su 6 / oltre 2000 m.
Dettagli: Alpinistica D. Via lunghissima e
complessa (IV+ obbligatorio) su roccia malsicura,
possibili tratti innevati o ghiacciati. Richiesta ottima
conoscenza dell'ambiente alpino.
Mappe: Kompass foglio 105 - Foppolo-Valle Seriana
- 1:50000.
una netta depressione, s'innalza fino
ai m 2970 del Torrione Occidentale, ben visibile anche dal rifugio
Mambretti. La cresta quindi scende
ripida fino alla base, situata tra le
morene di Scais e di Porola, dando
vita a quel robustissimo bastione
roccioso che domina l'alta val
Caronno.
e rocce sono a tratti buone e
a tratti malsicure e scivolose.
Ciò, unito alla lunghezza del tragitto
e ai molti passi su roccia non banali
(fino al IV+ obbligatorio), rende
sconsigliabile l'avventura a chi non
ha buona tecnica e pratica di monta-
L
gna.
L
a storia alpinistica della cresta
Corti può essere suddivisa in
quattro fasi:
- il 20 maggio 1909 P. Berizzi, B.
Sala e A. Iosi salgono dalla vedretta
di Scais al Torrione Occidentale;
- il 16 luglio 1911 P. Berizzi, G.
Pellegrini e B. Sala compiono la
prima traversata dalla Punta di Scais
al Torrione Occidentale;
- l'1 ottobre 1916 B. Sala e F. Perolari traversano il Torrione, salendolo
per il suo versante orientale e scendendo per il tratto superiore della
sua cresta occidentale (passaggio
Cresta Corti alla Punta di Scais (m 3039)
47
Versante orobico
Alpinismo
chiave della cresta Corti);
- il 22 luglio 1926 Alfredo Corti e
Augusto Bonola compiono il primo
percorso integrale della cresta dalla
base alla vetta estrema.
u un'impresa straordinaria: la
cresta occidentale della Punta
di Scais rimaneva l'ultimo grande
problema irrisolto dell'alpinismo
orobico. Se a questo aggiungiamo che
a compierla fu il fortissimo professor
Alfredo Corti, alpinista di indubbia
fama e bravura, uno dei maggiori
conoscitori delle Alpi Orobie e delle
vette valtellinesi, va da sè che la cresta
Corti divenne immediatamente una
via mitica e da subito frequentatissima.
Detto ciò, mi è difficile giustificare
l'abbandono di questo percorso negli
anni recenti. Forse le ragioni vanno
ricercate nella severità dell'ambiente,
nella difficoltà a fuggire in caso di
imprevisti, nella mancanza di spirito
d'avventura delle ultime generazioni
di montanari che preferiscono una via
super ripetuta e assediata da aitanti
alpinisti come un centro commerciale
di sabato, piuttosto che andare alla
ricerca di luoghi dove è la grandiosità
della Natura la padrona assoluta delle
rocce e dei cieli.
E' importante inoltre sapere che
sono possibili scappatoie lungo gli
impegnativi canaloni che si originano
dalla cresta, in modo particolare nella
parte medio-alta.
Nella relazione ho utilizzato tempistiche che fanno riferimento a persone
allenate, quindi un po' più rapide
dell'escursionista medio1.
Gli lascio il casco in macchina e
si parte. Su per i tornanti cementati che portano alla diga di Scais,
quindi, fedeli alle indicazioni per la
Mambretti, traversiamo il ponte della
Padella. Il buio cela le forre del torrente
Caronno, la cui presenza si manifesta
nel gorgoglìo delle acque. Siamo ora
nel fitto bosco; il buio pesto è ancor
più accentuato dai fari della diga che
mi accecano. I miei compagni hanno
i frontalini accesi, io, morto di fame o
fedele al risparmio energetico, tengo il
mio nello zaino e cerco di non scivolare sulla rocce umide che rivestono il
sentiero. Poco dislivello e siamo alla
casa del custode. Dormono tutti.
Costeggiamo la diga dalla sua sponda
settentrionale, quindi torniamo a salire
fino alla ex capanna Guicciardi e alla
bucolica piana dell'alpe Caronno (m
1612, ore 1).
Le mucche pascolano già. La flebile
luce dell'alba ancor lontana ci aiuta
a scavalcare la recinzione elettrificata senza prendere la scossa. Sempre
a E, dopo il ponte sul torrente che
scende dall'alpe Rodes, la via bollata
si fa coraggio e con qualche tornante
guadagna presto quota. Un piccolo
piano con boschetto, poi su per il
crinale alberato finchè i larici lasciano
il posto ai pascoli, ai fiori e al tetto
rosso della capanna Mambretti
(m 2004, ore 1).
Ci fermiamo a bere nel piazzale di
cemento a E del rifugio. Davanti a noi
la cupa sagoma del Torrione Occidentale della Punta di Scais. Ricontrolliamo il libro del Corti2. Troppo lunga,
troppo complessa la via e la descrizione
per ricordarsela.
alutata Miriam, che per ammazzare il tempo si dedicherà a
pizzo degli Uomini, Biorco e Rodes,
seguiamo per un tratto il sentiero
verso E, quindi per neve e sassi mobili,
puntiamo alla morena che divide i
ghiacciai di Scais e Porola e che porta
proprio alla base della cresta. Due
nette spaccature verticali solcano la
parete. Noi ci affidiamo a quella di dx:
iniziamo la scalata. La roccia è buona,
facile e ricca di appigli (III). Ogni
tanto ci sono chiodi e fettucce forse
per soste o per calate.
F
4 luglio 2010
ono le 2:45 quando risalgo in
moto la val Venina alla volta della
Centrale di Vedello e quindi Agneda.
C'è un'umidità pazzesca, eredità dei
temporali di ieri sera. L'asfalto è ancora
bagnato, le pozzanghere disseminate
sullo sterrato mi fanno schizzare acqua
ovunque. Alle 3 in punto arrivo nella
piana di Agneda (m 1228). Vicino alla
staccionata dell'area pic-nic, Pietro
e Miriam, miei compagni d'avventura, sono già dritti in piedi come le
marmotte fuori dalla tana. Facciamo
le dovute presentazioni, visto che è la
prima volta che ci vediamo off-line.
4
3
2
1
S
1 - Su tratti senza difficoltà tecniche vengono
calcolati 400 m/ora.
48
Le Montagne Divertenti S
La prima parte della cresta Corti vista dalla Mambretti(4 luglio 2010, foto Beno). Coi numeri
sono indicate le posizioni delle foto alla pagina seguente.
Autunno 2010
2 - S. Saglio, A. Corti e B. Credaro, Guida ai
Monti d'Italia. Alpi Orobie, CAI-TCI, Milano
1956.
Le Montagne Divertenti 1- Il diedro a cui culmina la grande spaccatura verticale. 2- La cresta che segue la spaccatura
(4 luglio 2010, foto Pietro Pellegrini / Beno).
L'uscita, dopo circa 6 lunghezze di
corda, è costituita da un diedro di 10
m, un po' infame perchè bagnato.
Ci sono alcune cordate sul ghiacciaio
di Scais che ci guardano, forse sbalordite dalla nostra abilità nel salire una
parete che sembra inaccessibile. "Se
vuoi far colpo su una ragazza devi dirle
che siamo passati di qui, ma mai farla
avvicinare abbastanza da capire che in
realtà è facile!".
Traversiamo verso dx e, seguendo lo
spigolo sfasciumato (II), guadagnamo
un primo piccolo intaglio da cui
usciamo con un tratto ripido su roccia
buona (III, 5 m).
Cerchiamo di rimanere sempre
in cresta, dove si alternano tratti su
roccia e tratti su rottami che, superato un primo torrione, portano ad
un secondo più marcato, separato dal
Torrione Occidentale della Punta di
Scais da una forcella.
Vi scendiamo con prudenza (dx) e ci
troviamo dinnanzi al passaggio chiave
dell'intera via. Dall'intaglio scendono
due canali di cui quello settentrionale
(sx) è attrezzato a chiodi per la fuga.
Direttamente sopra l'intaglio c'è un
chiodo di quando ancora c'erano i
prati nel fondovalle e un picchetto di
ferro che ai tempi veniva usato per facilitare il passaggio. Oggi sono entrambi
inservibili. Levato lo zaino attacco
sulla verticale del chiodo, che risulterà
non essere la soluzione migliore.
3- Il passaggio chiave della salita: un muro
strapiombante con infisso una sbarra
metallica (4 luglio 2010, foto P. Pellegrini).
4- Gli ultimi lastroni verso il Torrione
Occidentale (4 luglio 2010, foto Beno).
Cresta Corti alla Punta di Scais (m 3039)
49
Versante orobico
Alpinismo
La roccia non è solida
e strapiomba, metto un
paio di sicure, rinvio
anche all'anello, ma con
la consapevolezza che
nulla mi reggerebbe in
caso di caduta.
All'altezza del chiodo mi sposto
sulla sx, dove con fatica e ghisata di
braccia riesco a salire sul pianerottolo
sovrastante (10 m, V)3 da cui, con
arrampicata più agevole a sx dello
spigolo (III+) raggiungo lo spuntone
con fettuccia marcia per la sosta (circa
25 m dall'intaglio). Arriva Pietro con
anche il mio zaino, poi due tiri facili
ed aerei ci regalano la sommità del
Torrione Occidentale della Punta di
Scais (m 2970, ore 4).
na lunga lama esposta ci porta
alla grande depressione a E del
Torrione4. Grazie ad una cengia sul
lato settentrionale prima, e a una su
quello meridionale poi, superiamo il
successivo pennacchio e, attraversato
un breve corridoio espostissimo (sugli
strapiombi a S si vedono delle soste su
friend che lasciano presumere una fuga
disperata), siamo alla zona delle grandi
placche. Si tratta di una serie di lucide
lastre inclinate, scure, scivolose e di
roccia cattiva.
La parte bassa non è problematica,
anche perchè ci si affida agli sfasciumi
sulla sx, mentre quella alta rivela 30
metri difficili, specie l'uscita che porta
al ballatoio sommitale (30 m, IV+).
Quassù Pietro prova l'ebbrezza di
volare assieme agli appigli stufi di stare
in cima alla montagna: la mia sosta
tiene; e chi ci avrebbe scommesso?!?
Il tragitto quindi diventa più
semplice fino ad un liscione rossiccio
inclinato verso S. Al suo termine c'è
una sosta recente su chiodi. Valuto
di non usarla: la corda appoggerebbe
I chiodi del canale Bonomi su cui effettuare le
4 doppie (4 luglio 2010, foto P. Pellegrini).
U
3 - Alla linea descritta esistono due varianti:
- la Longo-Giudici che scende a dx (O) in un
canalino per circa 10 metri, per risalire in seguito
una marcata fessura fino al suo termine (20 m,
IV-); dal termine della fessura superare a sinistra un
camino leggermente strapiombante (10 m, IV+),
che riporta in cresta;
- la linea originale che dall'intaglio percorre la
cengetta esposta sulla sx, per poi risalire il primo
muro per rocce più semplici di quelle da noi
seguite (III+) e ricongiungersi alla nostra linea sul
pianerottolo 10 m sopra l'intaglio;
4 - Abbiamo aggirato i maggiori problemi dal lato
settentrionele.
50
Le Montagne Divertenti L'affilatissima lama che scende quasi 100 metri dal Torrione Occidentale verso la grande
depressione a E di quest'ultimo (4 luglio 2010, foto Pietro Pellegrini).
su uno spigolo affilato e potrebbe
tagliarsi. Scendiamo così di 3-4 metri
sul versante N (II) e affidiamo le nostre
pellacce ad un chiodo fossile. Sembra
stabile, poi la calata da qui è di soli 5
metri fino alla neve che ricopre la breccia.
A S il precipizio è
immane, mentre a N
qualche cengetta mitiga
l'orrore del paesaggio.
Dire che siam stanchi è un eufemismo, per cui zitti zitti ci trasciniamo
verso altre dentellature finchè ci si
presenta un gendarme aggettante su
un muro verticale. Sul suo lato meri-
dionale vi è una corda per aggirarlo da
S. Vi arriviamo e strisciando in una
spaccatura ci abbassiamo nel canale
oltre la torre da cui, con attenzione,
risaliamo in cresta (IV)5. Senza più
paura arriviamo all'ultima prominenza
che, salita e discesa appoggiandoci al
suo versante settentrionale, ci regala
la forcella a cui culmina il canale
Bonomi. Siamo ai piedi della cuspide
finale, marcata dalle due piccole croci
che da ore vedevamo in lontananza.
C'è un po' di neve fino al ripiano
detritico sotto la piodessa per la vetta,
quella dove 110 anni fa il Bonomi salì
scalzo, mentre Bruno Galli Valerio lo
guardava incredulo.
5 - Il passaggio migliore dovrebbe invece essere,
dopo un tratto di cavalcata sulla groppa del
gendarme, con appoggio sugli sfasciumi del
versante settentrionale.
Autunno 2010
La piodessa del Bonomi, ultimo passaggio (IV+) per sbucare in vetta alla Punta di Scais
(4 luglio 2010, foto Pietro Pellegrini).
I
o di solito percorro la spaccatura
che solca la faccia meridionale
(III), ma oggi voglio imitare il mio
eroe baffuto e, pur tenendo le calzature
ai piedi, m'arrampico sulla scivolosa
placca (IV+). Sono 15 metri duri, con
gli appigli che si sbriciolano e i piedi
che scivolano sulle rocce inumidite
dalla nuvola dell'impiegato che ci ha
raggiunto. Attimi di apprensione, ma
eccoci all'apice della Punta di Scais in
compagnia delle due croci, un cordino
per la calata in doppia e una calorosa
stretta di mani (m 3039, ore 4 dal
Torrione Occidentale).
I nostri occhi sbarrati dicon tutto
di queste ore fuori dal mondo, soli
con una montagna tanto bella quanto
ostica, promossi a gitanti di buon
livello dopo una lunga lotta contro
la paura del vuoto e una spasmodica
Le Montagne Divertenti Calata in corda doppia dalla vetta (5 luglio
2007, foto Beno).
ricerca della concentrazione e della
fiducia nelle nostre capacità.
Credete sia finita?
Assolutamente no! La
Punta di Scais non ha
accessi facili.
L
a via di discesa migliore è il
canale Bonomi, subito a O della
cima. Dopo una calata in doppia dalla
vetta, torniamo all'ultima forcella. Ci
abbassiamo (S) di circa 10 metri nel
canale e sulla sponda dx troviamo il
primo chiodo con anello per la calata.
Giù in doppia, stando attentissimi alle
continue scariche di massi.
Ogni 25 metri c'è un chiodo e
contati 4 siamo sulla ripida scarpata
innevata6 che scende fino alla vedretta
di Scais. Pietro esibisce una grandiosa
tecnica da ninja che rende superflui i
ramponi. Magari un giorno la imparerò anche io.
Allo sbocco del canale ci spostiamo a
sx (E), quindi proseguiamo giù per la
rampa innevata fino alle balze rocciose
sopra il ghiacciaio e le vinciamo con
attenzione per cenge.
' fatta, scivoloni giù per la neve
e siamo alla base della cresta
Corti. Intercettato il sentiero per la
Mambretti (m 2004, ore 2:30), dove
ci aspettano Miriam, 'na brenta d'acqua gelta e il piacere di un'ora e mezza
di cammino senza l'angoscia dei precipizi.
E
6 - A stagione inoltrata è una facile pietraia.
Cresta Corti alla Punta di Scais (m 3039)
51
Alpinismo
Cresta Sinigaglia
alla cima Piazzi
Beno
Cima Piazzi, versante N, ritratta da Kim Sommerschield (www.kimsommerschield.com).
E'
sorprendente che solo nel 1971 una cordata, quella composta da Bruno Gilardi
e Duilio Strambini, si impegnò a traversare integralmente la fantastica cresta che
dal colle delle Pecore sale in vetta alla cima Piazzi (m 3439). Quale dimenticanza per gli
alpinisti che, già votati da anni ai gradi elevati, si erano scordati di risolvere una delle
vie più appariscenti ed estetiche che si possono ammirare anche stando comodamente
seduti in macchina sulla strada per Livigno! La cresta supera una moltitudine di torri
e gendarmi, incisioni e colletti, per portarsi sulla maggiore delle vette di val Viola e val
Grosina.
52
Le Montagne Divertenti Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Cresta Sinigaglia alla cima Piazzi (m 3439)
53
Alta Valle
Alpinismo
Cresta Sinigaglia: placche sui Corni di Verva (14 luglio 2010, foto Beno).
Bellezza
Fatica
3Passi Pericolosità
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Le Montagne Divertenti prendere la SS 301 del Foscagno e dopo circa 16 km
e aver superato Isolaccia, Semogo e San Carlo si arriva
ad Arnoga.
Avvicinamento: Si attraversa la SS 301 in
54
Partenza: Cascina di Verva (m 2123).
Itinerario automobilistico: Da Bormio
Autunno 2010
prossimità del tornante dove sorge l'albergo Li Arnoga
e si segue la strada bassa indicata da tabelle segnavia
del Parco Nazionale dello Stelvio. Si imbocca la val
Viola Bormina sul versante orografico sinistro
scendendo dopo qualche chilometro (località Baite
Paluetta, m 1938, km 2.5) fino al torrente Viola, lo si
attraversa su di un ponte di cemento per proseguire,
su una sterrata, verso la val Verva. La vallata corre da
N a S e unisce val Viola e val Grosina. Dopo alcuni
strappi si esce dal bosco e si arriva alla cascina di
Verva (m 2123, ore 1:30).
L
a cresta Sinigaglia alla cima
Piazzi deve il suo nome al
Corno Sinigaglia (m 3316), la
più appariscente delle torri che si
traversano nella via, salito per la
prima volta da Giorgio Sinigaglia
in compagnia di Pietro Rinaldi (18
agosto 1897).
La roccia è generalmente cattiva,
uno gneiss frantumato che solamente
in brevi tratti si presenta compatto.
Le Montagne Divertenti Itinerario
sintetico: Cascina di Verva (m 2123)
- colle delle Pecore (m 2437) - Corni di Verva - Corno
Sinigaglia (m 3316) - cima Piazzi (m 3439) - discesa
per il versante SO (via Normale) - cascina di Verva.
Tempo previsto: 15 ore per l'intero giro (10 ore
per la sola cresta Sinigaglia)
Attrezzatura richiesta: scarponi, corda (50 m),
piccozza, imbracatura, ramponi, cordini, fettucce,
4-5 friend, alcuni rinvii, casco.
Difficoltà/dislivello: 5+ su 6 / oltre 1800 m.
Dettagli: Alpinistica D. Via lunghissima e
complessa (IV obbligatorio) su roccia malsicura,
possibili tratti innevati o ghiacciati. Richiesta ottima
conoscenza dell'ambiente alpino.
Mappe: Kompass foglio 72 - Parco Nazionale dello
Stelvio - 1:50000.
Lo sviluppo è notevole: dal colle
dell Pecore alla vetta sono ben 4 km,
che uno strabiliante Fabio Meraldi
chiuse in sole 3 ore nel 1986 e che
Giovanni Ongaro e Matteo Galli per
primi (e unici per ora) vinsero in
invernale nel febbraio 1993.
A livello paesaggistico si domina il
ghiacciaio tormentato che ricopre il
versante N della cima Piazzi e i ben
più dolci pascoli della val di Verva.
Spesso nella prima parte della
via le capre pascolano pochi metri
sotto cresta e invitano gli scalatori a
raggiungere i maggiori dei Corni di
Verva aggirando da O tutte le prime
difficoltà. Diabolica tentazione: le
capre che vedete sono in realtà alpinisti tramutati in cornuti per aver
millantato di aver fatto la cresta Sinigaglia senza averla percorsa integralmente!
Cresta Sinigaglia alla cima Piazzi (m 3439)
55
Alpinismo
14 luglio 2010
lle 6 di mattina alla cascina di
Verva (m 2123) le vacche son
già sveglie, mentre un gran numero
di Apache dorme nelle tende ad igloo.
Gli passiamo accanto; qualcuno russa
emettendo dei latrati disumani. Ci
allontaniamo velocemente prima che
il lupo mannaro si svegli e traversiamo
decisamente verso N fino ad entrare
nel vallone sfasciumato che sale verso
l'evidente colle delle Pecore, ampia
sella che mette in comunicazione
la val Cardonè e la val di Verva. La
traccia è discontinua, ma l'obbiettivo
è ovvio e presto raggiunto (m 2437,
ore 1).
A
Calata
doppia traDivertenti
l'ultimo dei
Le Montagne
Corni di Verva e il Corno Sinigalia
56 in corda
(14 luglio 2010, foto Beno).
Autunno 2010
Cresta Sinigaglia, sullo sfondo la vetta della
cima Piazzi e il possente ghiacciaio (14 luglio
2010, foto Beno).
D'ora in poi la via va letta
con l'intuito, cercando
i passaggi migliori. Dei
principali problemi darò
traccia in questa breve
relazione che però, vista la
lunghezza e la complessità
del tragitto, non potrà mai
essere del tutto esaustiva.
La cresta Sinigaglia vista dall'inizio della via,
poco prima del Corno delle Pecore (14 luglio
2010, foto Beno).
Le placconate che portano al maggiore dei
Corni di Verva (14 luglio 2010, foto Beno).
Dal valico, prendiamo il canale
detritico che sale ripido verso S e
sbuca sui macereti a pochi minuti
dalla sommità del Corno delle Pecore
(m 2610). Un tratto di cresta pianeggiante, con qualche scalino nella
roccia e ampie zone erbose, porta fino
alla quota 2773, il primo dei Corni di
Verva. Appoggiandoci a dx, ci abbassiamo con attenzione a una sella. Da
qui, come da molte delle altre incisioni che incontreremo, capiamo che
per qualsiasi necessità si può comodamente fuggire per il canalone detritico
che scende in val di Verva.
Ci spostiamo sulla dx e dopo un
camino marcio (III+), per rocce più
comode siamo al secondo corno.
Oltre il successivo intaglio affrontiamo un delicato spuntone, quindi
tocchiamo per rocce rotte le quote
2923 e 3079. Alla successiva depressione troviamo le maggiori difficoltà
della via: saliti di qualche metro sulle
rocce, ci portiamo per una cengetta
sul lato della val Verva. Ci abbassiamo
di 3 metri, attraversiamo un colatoio e
ci arrampichiamo su un camino (IV)
a cui segue un lungo diedro che ci fa
ricavalcare la cresta, ora molto aerea
fino al corno quotato 3135. Nuova-
Alla ricerca del passaggio migliore (14 luglio
2010, foto Beno).
Le Montagne Divertenti Cresta Sinigaglia alla cima Piazzi (m 3439)
57
Alpinismo
mente un intaglio, ma questa volta
arriviamo facilmente al maggiore dei
Corni di Verva (m 3139, ore 5).
Discesi per qualche metro disarrampicando, troviamo una prima sosta su
chiodi per la discesa in corda doppia1.
Con una calata (20 m) che obliqua
verso sx ci portiamo alla seconda sosta
(fettuccia), quindi obliquando ancora
verso sx e calando quasi nel vuoto
(20 m) siamo alla breccia. Una bella
arrampicata per placche e canali ci
regala il Corno Sinigaglia (m 3316),
dove un paletto metallico con freccia
segnala la sommità raggiunta.
Ed ecco un'altra forcella, questa
volta con neve e una prominenza
centrale che, con qualche difficoltà,
aggiriamo da sx.
Inizia quindi un tratto più facile,
ma di roccia a dir poco pessima. Tra
pietraie e qualche muro da arrampicare, superiamo agevolmente gli
ultimi su e giù che ci regalano la vetta
(cima Piazzi, m 3439, ore 5).
Oggi è brutto tempo, altrimenti da
quassù il paesaggio è sterminato, visto
che questo massiccio isolato è punto
di vedetta sia sui vicini Ortles e Cevedale, sia sul più lontano gruppo del
Bernina.
cendiamo per la facile via
normale, quella che calca la
cresta S e i nevai e le pietraie del lato
SO 2. 30 metri di semplici roccette (S,
II) ci accompagnano ad una selletta.
S
1 - Controllare gli ancoraggi!
2 - La via fu seguita per la prima volta in discesa da
Damiano Marinelli, Battista Pedranzini e Alfonso
Holskneckt nel 1876.
58
Le Montagne Divertenti Giorgio Sinigaglia
Fabio Locatelli
D
i origini torinesi - come il più
noto cugino Leone, musicista ed alpinista - nacque a
Milano nel 1875; di formazione classica, si iscrisse al Politecnico di Milano frequentandone i corsi
di matematica, poi nel 1897, divenne studente di Scienze Naturali alla
facoltà di Pavia.
Fu un appassionato alpinista e, già
molto giovane (1893), compì numerose ascensioni nelle Dolomiti, su
cime ancor oggi piuttosto note come il Pelmo, l’Antelao, il Cristallo, il
Becco di Mezzodì ed altre.
Altresì, nel tempo che trovava tra
i suoi doveri di studente, fu autore di belle prime ascensioni in tutta
la catena alpina: nel 1897 con Leone Sinigaglia e la guida Baroni tracciò la prima via sulla rocciosa parete
orientale del pizzo Redorta, che prospetta il bacino di Coca; sempre nel
1897 compì la prima traversata della Grignetta da Ballabio a Mandello,
percorrendo la notissima cresta che
ora porta il suo nome.
E nel medesimo anno salì in traver-
Insistiamo verso S per poi smontare
a dx per un lungo pendio di neve e
ganda. Spostandoci gradualmente
verso dx (N) arriviamo in vista del
canalone delimitato dalle rocce
del versante S della Piazzi e da una
barriera rocciosa. A circa m 3000,
all'imbocco del suddetto canalone,
troviamo una rampa che obliqua sulla
barriera rocciosa e ci riporta sull'orografica sx della valle dove ci lasciamo
scivolare per chiazze di neve (O) fino
sata il prospiciente torrione detto
Corno Verva, che svetta sulla cresta
della cima Piazzi e che sarà poi rinominato Corno di Sinigaglia, così come la cresta stessa.
Nonostante la giovane età si rese subito interessato e partecipe alla vita della neonata sezione CAI di
Milano, entrando a far parte del Direttivo e distinguendosi da subito
per la solerzia e l’entusiasmo che lo
resero noto ed amato; fu collaboratore della Climber’s Guide, per la
quale intrattenne fitta corrispondenza con il rev. W. A. B. Coolidge, uno
dei più famosi e coraggiosi alpinisti
dell’epoca pionieristica.
Nel 1898, per una furiosa quanto
improvvisa ricaduta di tifo, dal quale
credevasi esser ormai guarito, morì
a Milano, a soli 23 anni.
Un monumento fu a lui dedicato,
con commossa e massiccia partecipazione dei più noti alpinisti, nel
1903 e posto in val Grosina, che tra
tutti fu il luogo che in assoluto egli
più aveva amato e frequentato.
L'otto della
Scala dei Pizzi
Beno
al laghetto di quota 2600. A stagione
inoltrata comunque, il passaggio delle
persone scava nella ghiaia una traccia
ben riconoscibile che facilita l'individuazione del percorso corretto.
Dal lago, senza aver più via obbligata, continuiamo per pascoli verso
ONO fino ad intercettare e seguire
la strada sterrata (dx) che scende alla
cascina di Verva (m 2123, ore 2:30).
Autunno 2010
Marsciana
vista da
Carnale (31
Le Montagne
Divertenti
ottobre 2009, foto Marino Amonini).
L'otto della scala dei Pizzi
59
Versante Retico
Escursionismo
Monte Rolla
(2277)
Bocc. Valdone
(2176)
L'
Monte Canale
(2523)
Marsciana
L
Pra Scervera
Cagnoletti
Involto
Gualtieri
Bressia
Valdone
Cà Ceschina
Arquino
Il tracciato dell'otto della Scala dei Pizzi visto dalla strada che da Arquino sale in val di Togno (23 luglio 2010, foto Beno).
Bellezza
Fatica
Pericolosità
-
Partenza: Arquino (m 475).
Itinerario automobilistico/ciclistico: da
Sondrio, piazza Garibaldi, si prende la strada che
costeggia il Mallero e pianeggia verso N fino al ponte
del Gombaro. Si passa vicino al complesso industriale
"Fossati", quindi, attraversata una fascia di vigneti,
si giunge a Ponchiera. Al termine della frazione, la
strada entra nel bosco e pianeggia per 1.5 km fino
all'abitato di Arquino. Lasciare la macchina o la bici
(30' pedalando piano) nel parcheggio che precede il
ponte sull'Antognasco (lì è pure la fermata del bus
che parte da Sondrio, 4.5 km).
Itinerario
Vol. 1
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ss
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p
74
op
alla sc
sintetico: Arquino (m 475) -
Gualtieri (m 624) - Cà Ceschina (m 630) - Involto
(m 701) - Cagnoletti (m 723) - Pra Scervera (m
934) - Marsciana (m 1231) - Pizzi (m 1036) - La
Masun (m 1004) - scala dei Pizzi (m 900 ca) Guzzun - Bressia - Involto - Cà Ceschina - Arquino.
Tempo di percorrenza: 4 ore.
Attrezzatura richiesta: da escursionismo.
Difficoltà: 2 su 6.
Dislivello in salita: 756 metri.
Dettagli: EE. Escursione su sentieri segnalati
o carrereccie, nel tratto Masun - Guzzun la via è
piuttosto stretta e un po' esposta.
A piedi in Lombardia vol. 1
Una guida ai sentieri più belli delle Alpi e Prealpi lombarde
74 passeggiate, escursioni e trekking alla scoperta della natura
E' da poco in libreria la terza edizione completamente rinnovata della guida “A piedi in
Lombardia” (Iter Edizioni, 264 pagg., € 14), curata da un team di autori – escursionisti,
alpinisti, giornalisti e accompagnatori di media montagna – esperti frequentatori delle
montagne lombarde, coordinati da Beno e Giorgio Orsucci.
Dalle nevi perenni del pizzo Bernina ai laghi di Como e della Brianza, dal pizzo Coca
al lago Maggiore, con passeggiate classiche e frequentate, ma anche con una moltitudine
di itinerari insoliti e sorprendenti che per la priva volta han voce in una guida.
E così, scarpinando dai vigneti alle immani torri di granito della Valmasino, dalle
riviere fiorite fino alle guglie di calcare del lecchese, escursionisti ed amanti della natura
- di ogni gamba e preparezione - troveranno in questo volume una ineguagliabile fonte
di ispirazione per il proprio tempo libero.
:09
/10 15
09/07
0
E 14,0
60
Le Montagne Divertenti otto della Scala dei Pizzi è
un itinerario escursionistico
che prende il nome dalla scala in
pietra che supera un salto roccioso
nel collegamento tra Cagnoletti e la
contrada Pizzi nel comune di Torre
Santa Maria. In particolare d'autunno regala colori e quadri di rara
bellezza.
a planimetria del tracciato è un
otto il cui lobo inferiore, quello
che sale da Arquino a Gualtieri, attraversa il ponte del Valdone e ridiscende
ad Arquino, è una passeggiatina da
un'oretta scarsa, ideale per digerire la
polenta della domenica tra bei sentieri
e l'orrido del ponte; il lobo superiore,
quello che culmina alla panoramicissima Marsciana, richiede invece 3 ore
di cammino e un po' di attenzione
nella discesa dai Pizzi a Cagnoletti.
Per raggiungere il punto di partenza
consiglio vivamente di evitare l'auto,
tant'è piacevole la pedalata in bici/
passeggiata da Sondrio ad Arquino.
otto della Scala dei Pizzi è
ottimo pure per chi si vuole
allenare per la corsa in montagna
su un tracciato con discesa tecnica
e salite ripide immerse in un fresco
bosco di latifoglie. Io stesso lo faccio
di frequente partendo da casa mia a
Montagna. Le tempistiche? Dipendono ovviamente dalla vostra gamba.
In configurazione "lento defaticante"
ci vogliono 2 ore scarse a compiere
l'otto, a "fuoco" sono riuscito in 32'
a salire da Arquino a Marsciana per
chiudere il giro in 1 ora.
Autunno 2010
L'
itinerario
Arrivati ad Arquino, piccolo borgo
alla confluenza tra la val di Togno,
la Valmalenco e la valle del Valdone,
abbandoniamo la carrozza al parcheggio che precede (per chi proviene da
Ponchiera) il ponte sull'Antognasco.
Questo torrente dalle acque limpide
discende dalla val di Togno e nella sua
parte bassa, quella proprio al di sopra
dell'abitato, genera delle splendide
forre dove i ragazzi vanno d'estate a
fare bagno e tuffi. Già da qui possiamo
individuare tutte le principali tappe
della nostra salita, tra cui Marsciana,
l'alpeggio che sormonta l'imponente
fascia rocciosa a NO di Cagnoletti.
Attraversato l'Antognasco, prendiamo
l'antico ponte sul Mallero (ora solo
Le Montagne Divertenti ad accesso pedonale), quindi attraversiamo la strada principale e iniziamo
a salire su asfalto (SO). Al primo
tornante troviamo i cartelli segnaletici. Noi prendiamo lo sterrato a sx,
attraversiamo il ponte sul Valdone
e, giunti in un frutteto, pieghiamo a
dx e incominciamo a salire il ripido e
tortuoso sentiero per Gualtieri. Non
ci sono nè bolli nè segnavia, ma la
traccia è evidente.
In circa mezz'ora di cammino
siamo all'antica contrada, al centro
della quale troviamo una fontana che
reca incisa la data 1888. Entriamo
nel portico a dx (N) della fontana e,
tenendo la dx, attraversiamo l'antico
e suggestivo nucleo per sbucare nel
piazzale a S del gigantesco ponte del
Valdone. Qui vi sono le baracche/ufficio della Impregilo.
Uno stretto marciapiede tra il guard
rail e le reti di protezione ci accompagna lungo il ponte fino a Cà Ceschina
(m 630 ca, ore 0:35). Sulla dx scende
il tratturo che riporta ad Arquino,
noi invece attaversiamo la SP 15 e
imbocchiamo il sentierino che costeggia le reti a protezione di un'opera
dell'acquedotto e, dopo 2 curve (sx),
esce dal bosco e pianeggia a fianco
di un muretto fino ad una stalla, per
poi tornare a salire (dx) fra gli ultimi
vigneti/meleti ed emergere nel cuore
La chiesa di San Pietro a Cagnoletti (23 luglio
2010, foto Beno).
L'otto della scala dei Pizzi
61
Versante Retico
Escursionismo
62
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
di Involto, uno dei tre nuclei storici di
Cagnoletti. Ripresa l'asfaltata saliamo
fino alla chiesa di San Pietro (XVI
sec.), da cui si domina l'intera valle.
Una rampa acciottolata ci porta
a Cagnoletti propriamente detto.
Le sue case, in parte ristrutturate, in
parte fatiscenti, sono a testimonianza
dell'antica architettura rurale della
Valmalenco.
Per via non obbligata, ci portiamo
nella parte alta della contrada, dove
possiamo ammirare un fienile in
ottimo stato di conservazione.
Il sentiero ora non fa più sconti di
pendenza e prende quota fino al caratteristico avvallamento pascolivo di
Prà Scervera (m 934). Qui gli splendidi colori autunnali delle latifoglie
fanno da cornice alle baite a secco dei
pastori. Sull'altra sponda si notano
i cavi delle teleferiche che un tempo
mettevano in comunicazione tutti gli
alpeggi della valle del Valdone.
Avanziamo ancora paralleli al
corso della valle (O) fino a incontrare il bivio Fiessa1 (sx) - Marsciana/
Pizzi (dx). Preso a dx, dopo qualche
curva ed esserci spostati più ad E2,
saliamo una dozzina di tornanti
ravvicinati fino al bivio che a sx ci
porterebbe in 5' alla Marsciana di
Cagnoletti, alpeggio completamente
abbandonato. Pianeggiando verso
dx arriviamo a Marsciana (m 1231,
ore 1:30), splendido balcone panoramico posto sulla spalla orientale del
monte Canale.
Da Marsciana si ha un'ottima
visuale sia sulle più alte vette della
Valmalenco (gruppi del Bernina, del
Sella-Glüschaint e delle Tre Mogge),
sia sulle vette delle Orobie, nonchè
sugli abitati di Sondrio, Ponchiera e
Mossini.
Marsciana era un alpeggio di transito: i pastori in primavera, durante
la trasumanza verso i pascoli alti,
e d'autunno, quando tornavano ai
Pizzi, vi si fermavano una ventina di
giorni. A Marsciana scarseggiava l'acqua, per cui furono costruite delle
cisterne di calcestruzzo per raccogliere
quella piovana incanalata dalle grondaie delle abitazioni. Quando pure
questa finiva i pastori erano costretti
ad andare a prendere l'acqua coi gerli
o alla piccola sorgente a Prà Curati, o
addirittura al torrente Valdone.
I prati sono ora a sterpaglie e, eccezion fatta per un paio di baite, è tutto
in rovina.
a Marsciana ci abbassiamo
leggermente
traversando
verso N fino ad imboccare e seguire
in discesa per 2 tornanti la strada che
da Torre sale ai Piasci. Al termine del
secondo tornante ha inizio un lungo
traverso (N) che porta ai Pizzi. Smontati dalla rotabile (dx), per sentierino
scendiamo lungo i prati, quindi, oltre
la prima fila di case, traversiamo la
contrada verso SSE per giungere alla
chiesetta dei Pizzi (m 1036, ore
0:30)3, nei pressi della quale si trova
un bivio. E' quantomeno ironica la
freccia che segnala i Bianchi a 40',
puntando proprio in direzione N uno
sbarramento di ortiche che l'incuria ha fatto crescere fino a 1 metro e
mezzo di altezza!
rendiamo a SSE il sentiero
pianeggiante che si immerge
nel bel bosco di latifoglie e arriva al
maggengo abbandonato "La Masun",
che in dialetto significa "fienile". La
segnaletica su paletti verticali qui
invita ad abbassarsi di qualche metro,
per poi proseguire nel lungo traverso
(S). Il tratto successivo taglia una scarpata abbastanza scoscesa ed il sentiero
è talvolta molto stretto.
Si sconsiglia pertanto ad escursionisti non esperti di avventurarsi da
queste parti in caso di pioggia, neve
o ghiaccio.
D'improvviso, quando la via pare
interrompersi con un salto nel vuoto,
una scala in pietra, la Scala dei Pizzi,
ci aiuta a superare il dislivello e avanzare. In breve siamo al tratto più
suggestivo dell'intera passeggiata:
Guzzun, un avvallamento di pochi
metri sovrastato da due grandi massi
appuntiti. Si dice siano residui di una
frana paleolitica avvenuta circa 10000
anni fa e dovuta al ritiro dei grandi
ghiacciai quaternari.
Gli alberi coi fusti alti e dritti,
il tappeto di muschi verdi e foglie
ingiallite non fanno che completare
la magia del posto. Mancan solo gli
1 - Sicuramente questa piccola contrada merita una
visita, distando solo 5 minuti dal bivio.
2 - In questo tratto è frequente incontrare i cervi.
3 - Cartelli in loco, mappe e libri discordano sulle
quote. Come riferimento altimetrico in questo
articolo è usata l'IGM.
Le Montagne Divertenti D
gnomi!
Ma continua la discesa. Incontriamo
il sentiero che a dx sale alla bella falesia del Valdone, mentre la nostra via
si fa piana e diventa una strada sterrata che attraversa i prati di Bressia.
Ed eccoci di nuovo sull'asfalto. A S
si vede la bella chiesetta di Involto4,
da cui arriviamo a Cà Ceschina
(m 630, ore 1) ripercorrendo l'itinerario di salita. Senza tornare a Gualtieri, scendiamo direttamente per
comodo tratturo5 tra vigne colte e
incolte fino ad Arquino (m 475, ore
0:25).
4 - Nella conca fra Bressia e Involto sono stati
trovati alcuni graffiti (distrutti negli anni '70),
segno di insediamenti preistorici forse favoriti
dall'antica presenza di un piccolo lago.
5 - Questa stradicciola a tornanti è chiamata in
dialetto Turnaché, dal francese tourniquet.
P
Cagnoletti (23 luglio 2010, foto Beno).
Verso Guzzun (25 maggio 2010, foto Beno).
L'otto della scala dei Pizzi
63
Escursionismo
Monte Mater
la sentinella di Chiavenna
Beno
Monte Mater
(2415)
Cima Fariolo
Il monte Mater (m 2415) e l'ultimo tratto dell'ascesa. Per evitare la disarrampicata dall'anticima (II), obbligatoria dalla quota 2100 (grande
ometto) si decide di mantenere il filo di cresta, si può preventivamente scendere nelle pietraie a dx e sfuttare uno dei faticosi canali detritici
per guadagnare la vetta. (12 giugno 2009, foto Gianni De Stefani).
Bellezza
Partenza: 10° tornante della strada che da San
Fatica
Itinerario automobilistico: da Chiavenna si
segue la SS 36 dello Spluga fino a S. Giacomo Filippo
(m 552), quindi si prende a sx la deviazione per
Olmo. Si lascia la macchina al 10° tornante, dove c'è
una casetta ristrutturata e un piccolo parcheggio.
Calones
Pericolosità
Zecca
Costa
Tegial
Giacomo sale a Olmo (m 839).
Itinerario
sintetico: parcheggio (m 839) -
Sommarovina (m 956) - Tegial - alpe Calones
(m 1407) - cima Fariolo 2180 ca - monte Mater per
cresta ESE (m 2415) - crestina delle Colmanette (NE)
- lago Grande (m 1888) - Laguzzolo (m 1768) Zecca (m 1162) - Olmo (m 1056) - parcheggio.
Tempo di percorrenza: 8 ore.
Attrezzatura richiesta: scarponi.
Difficoltà: 3 su 6.
Dislivello in salita: 1600 metri.
Dettagli: EE. Itinerario selvaggio che necessita
conoscenza della montagna: la parte alta della salita
si svolge su tracce labili, dall'anticima alla vetta c'è
un canalino da disarrampicare (10 m, II; aggirabile
faticosamente per i ghiaioni); la discesa fino al lago
Grande è priva di sentieri.
Mappe: Kompass foglio n.92, Valchiavenna e Val
Bregaglia, 1:50000;
Olmo
Sommarovina
Motta di Olmo
parcheggio (839
Il monte Mater (m 2415) visto da Agunc (13 ottobre 2009, foto Roberto Moiola).
64
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Monte
MonteMater
Mater(m
(m2415)
2415)
65
Valchiavenna
Approfondimenti
Sommarovina
T
Sergio Scuffi e Guido Scaramellini
S
La chiesa di S. Giacomo a Sommarovina (11 marzo 2005, foto Sergio Scuffi).
diretti soprattutto verso l’Austria e l’Ungheria,
dove facevano generalmente gli spazzacamini.
Ne fa fede ancor oggi la grande croce cimiteriale
fusa in ferro con una targa dalle tipiche lettere
in rilievo, attestante il dono dei patrioti, cioè
degli emigrati nel regno austro-ungarico nel
1886 (anno importante per la valle, perché a
Chiavenna arrivò il treno). Anche altre tabelle in
ferro sono fuse come questa e provengono quasi
certamente dall’Austria, non essendo tale fattura
presente in altri cimiteri della valle.
Le famiglie originarie di Sommarovina, come i
Bedognetti, i Belella, i Fontana, i Giovanettoni,
i Mastai, i Masolini ecc., sono tuttora presenti a
Chiavenna e nei paesi del piano.
Ora le case, in gran parte ristrutturate (grazie
all’uso prima della teleferica e da alcuni anni
della strada carrozzabile), sono divenute abitazioni per vacanze.
66
Le Montagne Divertenti ommarovina è un borgo nel comune di San
Giacomo Filippo, a quota 956, raggiungibile da una pista che si dirama da un tornante
della strada per Olmo e San Bernardo (parcheggio presso alcuni rustici ristrutturati), attraversando la val Genasca e continuando verso S. Il
paese sorge in una posizione panoramica, da cui
si può scorgere tutta la val Bregaglia italiana e
buona parte del piano di Chiavenna. Il nucleo
fino alla metà del ’900 era permanentemente
abitato, con prati ben curati, orti, campicelli,
molte piante da frutta.
La chiesa dedicata a San Giacomo fu benedetta il 4 ottobre 1667. Il campanile fu eretto nel
secolo successivo. Nel piccolo cimitero a lato,
la cappella, con graziosa abside semicircolare,
fu costruita nel 1768 e decorata con affreschi
raffiguranti nella volta il Giudizio Universale.
Questi ultimi, attribuiti a Giovan Giacomo Rieg
di Somvix nei Grigioni, sono stati restaurati da
Ornella Sterlocchi di Chiavenna per conto del
Centro di studi storici valchiavennaschi tra il
2007 e il 2008. A spese dell’amministrazione
comunale è pure stata rifatta la tipica copertura
in piòte locali e sistemato tutto l’apparato murario.
cominciare almeno dal ’500, molti
emigranti partirono da Sommarovina
A
Gli affreschi della cappella del cimitero di Sommarovina (11 marzo 2005, foto
Sergio Scuffi).
Autunno 2010
anto era originale il nome, di
monte Mater in Valchiavenna
ne sono stati battezzati ben 2: quello
famoso a m 3023 in alta valle di
San Giacomo a S del pizzo d'Emet,
e quello meno noto a m 2415, una
sentinella che si eleva a O di Chiavenna, alpinisticamente eclissata
dalla vicinanza del bel Pizzaccio, la
cima più alta della dorsale che separa
la valle del Drogo a N da quella della
Forcola a S.
Non sarà una cima altissima, nè da
mettere a curriculum, ma il monte
Mater (m 2415) merita sicuramente
una visita per la bellezza del paesaggio che si gode dalla vetta e dalle
parti alte delle sue creste.
Per arrivare in vetta non ci sono
sentieri, ma solo piste evanescenti,
tracce delle capre e gande su cui
improvvisare una direzione; ciò
vale a dire che bisogna sapersi ben
muovere in montagna.
Su consiglio dell'amico Gianni
De Stefani, propongo questo anello
che ha come punto più alto il monte
Mater (m 2415), raggiunto passando
per Sommarovina e Calones e disceso
per il lago Grande e Laguzzolo.
22 luglio 2010
Mi sveglio alle 5 di mattina per
andare di corsa con Andrea a fare colazione al rifugio Carate, alle 10 sono
di nuovo a casa, faccio un po' l'agricolo, pranzo, mi rimetto in macchina,
consegno a Piuro il quadro - premio
del concorso del n. 13 della rivista-,
consegno riviste all'edicola di Campodolcino e alle 16:42 sono al parcheggio
al decimo tornante della strada che da
S. Giacomo-Filippo sale ad Olmo.
Maledico le troppe cose che ho
voluto fare oggi, i 30°C e quanto dovrò
correre per chiudere il giro prima che la
notte mi mangi.
Il cielo è nero e qualche tuono
lascia presagire la fine del mondo.
Nello zaino ho solo k-way, cartina e
la macchina fotografica che, visto il
meteo, mi servirà a poco.
Prendo la strada che si diparte a sx
del tornante (S) e m'incammino sullo
stesso tracciato del Trofeo Simone
Manzi, bella gara di corsa in montagna che si correva ad agosto. La pista
sale gradualmente inoltrandosi in val
Le Montagne Divertenti La pala erbosa che porta alla cresta SE del monte Mater (12 giugno 2009, foto G. De Stefani).
Genasca1, passa in galleria sotto una
cascatella e raggiunge un bivio. Prendo
a dx in salita verso Sommarovina alta.
Per fortuna ben presto il sentiero
bollato si distacca dalla rotabile e,
dopo essersi tuffato nel bosco, emerge
a Sommarovina2, dove ad attrarmi,
qualche metro più sotto (cartello), è la
chiesetta (m 956, ore 0:35). E' posta
su un poggio panoramico da cui si
ammirano la bassa val Bregaglia, la
testata della val Schiesone con l'imponente parete N del pizzo di Prata
(m 2727) e il monte Beléniga (m
2639) più a sx. Svettano anche le cime
della val Codera e della val Masino, ma
l'angolazione insolita le rende difficili
da riconoscere. In basso è invece Chiavenna.
Ritornato al sentiero, passo fra le
baite di Sommarovina fino ad un bivio
dove seguo a dx per Cigolino (indicato a 45'). Dopo un traverso (SE), il
sentiero sale più deciso fino alle baite
di Tegial, quindi piega nuovamente
a sx, entra nel bosco e raggiunge una
provvidenziale fontana, dove a dx c'è
il bivio per Calones, indicato a caratteri cubitali su un muro di cemento.
La salita è rapida e ripida, fino a due
baite in un pratone. Lo attraverso (S) e
scorgo la rotabile per l'alpe. Il sentiero
la evita e taglia il tornante, quidi sbuca
a Calones (m 1407, ore 1:15).
1 - La val Genasca scende direttamente a E del
monte Mater.
2 - Deve il suo nome alla frana, ben visibile dal
fondovalle, che si trova più a S, sul lato settentrionale del dosso Cigolino.
Un pastore fuma vicino al suo Ape.
Gli passo accanto affannato. Sono le
17:15. Senza che io gli dica nulla punta
il dito verso l'alto e, indicandomi il
monte Mater (o meglio la sua anticima), vista l'ora mi invita a limitarmi
a guardarlo da lì con lui. Gli dico che
un'ora e mezza sarà sufficiente. "Anche
meno!?" ironizza l'uomo dalla barba
bianca.
Proseguo fino alle baite alte dell'alpe,
dove le mucche sono sdraiate e ruminano il loro pasto.
Mi si attacca dietro uno sciame di
mosche e tafani: non potrò più rallentare o verrò mangiato. A testa bassa
risalgo il crinale (ONO), quando è
possibile seguendo una debole traccia.
Attraverso boschi e incontro alcune
fontane, mentre il mio obbiettivo,
l'ometto in cima la pala erbosa a
NO, pare molto lontano. Continuo
a perdere la traccia, a sbucciarmi le
gambe con ginepri, maross, marovin
e erbacce varie di cui non so il nome.
Ogni tanto passo proprio sul bordo alla
cui sx precipita la valle della Forcola:
un bel paesaggio che ha la sua perla
nell'alpe Cima, di cui si distingue il
campanile bianco.
Più salgo più gli infestanti pungono,
specialmente i ginepri che ricoprono la
via fuori dal bosco. Un paio di ometti
di pietra, di fettucce appese ai pali e
uno scheletro di capra mi confermano
l'esattezza della direzione. Ho una sete
tremenda e pioviggina. Su al dritto per
i prati cerco di uscire dalla ripidissima
pala erbosa che si vedeva anche da
Monte Mater (m 2415)
67
Valchiavenna
Escursionismo
Calones. Per facile cresta raggiungo il
gendarme (m 2180 ca., ore 2).
Sempre sul filo di erba, erba iva e
roccia seguito verso la vetta del monte
Mater, che ora si palesa e sembra
ancora molto lontana. Sulla dx c'è un
grande vallone colmo di pietroni grigi
d'ogni calibro e decido perciò d'evitarlo3. Raggiungo l'anticima, separata
dalla cuspide finale da una breccia.
Vi discendo con molta attenzione per
il canale sulla dx (II, 6 metri), quindi
traverso su roccette fino all'intaglio, da
cui proseguo un po' per rocce un po'
per erba fino alla vetta (monte Mater,
m 2415, ore 1).
Sono le 18:40 e mi godo i 5 minuti
di vantaggio sulla tabella di marcia
seduto su un massone a contemplare
l'orizzonte, il cielo nero verso il lago di
Como e le lame di luce che trafiggono
le nubi nella valle del Drogo.
Dalla vetta si dipartono 4 creste:
quella SE è la mia di salita, la cresta
O raggiunge il Pizzaccio e assieme
a quella N delimita il bacino dove
si trova Lendine; a NE un crestone
molto lungo s'abbassa verso il Pizzetto
e poi si perde nelle pietraie. A NNE si
vedono chiaramente il lago Grande e
Laguzzolo.
Tutto quel che devo fare è arrivare al
lago Grande, poi di lì, correndo giù per
il sentiero, in poco sarò alla macchina.
Mi guardo in giro, ma non si capisce
quale sia il percorso più rapido. Sottocresta a dx le capre hanno solcato la
terra col loro passaggio, un invito
da non rifiutare: in breve per questa
traccia sono su un tratto pianeggiante
della cresta. Il cantiere delle cornute s'è
fermato qui. Smonto a sx per il primo
canale utile e mi lascio trasportare
dalle frane giù fino alla grande ganda
che sovrasta a S il lago. La attraverso
per ritrovarmi in una vallecola di
grosse pietre, larici e rododendri. La
scendo cavalcando i massi, piuttosto
che i simpatici arbusti sotto cui si cela
sempre un buco.
Ecco finalmente il bel lago Grande
(m 1888, ore 1:15) e, dopo una salitina, l'agognato sentiero che comodamente giunge a Laguzzolo. La mia
corsa è salutata dall'ovazione degli
3 - La via più semplice, benchè non la più veloce,
passa per il vallone e si porta in vetta grazie a uno
dei faticosi canali detritici che scendono dalle
pendici orientali del monte Mater.
68
Le Montagne Divertenti La Valchiavenna dalla cresta occidentale del monte Mater (febbraio 2009, foto Beno).
asini. Fiero del riconoscimento e
carico anche di parte del loro sciame di
insetti, compio un lungo traverso (E),
prima di piegare a sx (N), attraversare
i pascoli abbandonati di Zecca e scivolare fino a Olmo (m 1056, ore 1:45).
Alla chiesa prendo la strada asfaltata (dx). Oltre le case del successivo
nucleo (Motta di Olmo), la bandierina bianco rossa annuncia che finalmente il sentiero si decide a tagliare
(sx) i tornanti e accorciare la mia pena.
Grazie al cielo qui se ne sbattono di
pulire i sentieri e le ortiche mi aiutano
a prevenire l'artrosi in vecchiaia.
Ma dove sarà il tornante n.10?
La Kompass qui è precisa come la
bindella nel misurare lo spessore dei
capelli. Di tornanti ne segna 6 su 18
e per di più indica un fantomatico
sentiero che costeggia tutti i tornanti
pari (salendo, quelli destrorsi). Capisco
che la fantasia non ha limiti e cerco di
ragionare. Non vorrei mai abbassarmi
troppo, così, dopo il primo taglione
e un taglio brevissimo su scalinata di
Savogno
cemento nei pressi di un tornante
dispari con casetta, vedo a S, all'incirca
alla mia altezza, Sommarovina. Opto
per rimanere sullo stradone asfaltato:
non mancherà molto. Faccio bene:
due curve e sono al parcheggio, che
mai avrei trovato se mi fossi abbassato
ancora per sentiero (m 839, ore 0:30).
Sono le 20:15, puzzo da fare schifo
e ho una fame boia. Chiamo a casa
ordinando di uccidere il vitello grasso
e salgo sul Panda che mi condurrà fino
alla tavola imbandita.
R i f u g i o
Il rifugio Savogno sorge nell’omonimo borgo raggiungibile a piedi,
partendo da Borgonuovo di Piuro e seguendo la vecchia mulattiera.
L’apertura è annuale. Oltre ad offrire la possibilità di trascorrere
la notte, il rifugio prepara anche deliziose pietanze.
Menù: garganelli al ragù di cinghiale, stinco alla birra con polenta
e verdure, semifreddo cioccolato e menta, vini sfusi e in bottiglia
della casa vinicola "Mamete Prevostini" .
A Savogno d’inverno si possono compiere meravigliose passeggiate.
Il grande ometto sulla cima Fariolo a m 2180 ca (12 giugno 2009, foto Gianni De Stefani).
Autunno 2010
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Le Montagne Divertenti Monte Mater (m 2415)
69
Passo dopo passo
Escursionismo
Diario di Viaggio di Antonio Boscacci
Valchiavenna
La valle del Saiento
Hanno cambiato l’ora legale e
quindi si dovrebbe dormire un’ora in
più. Mi alzo come faccio da mesi alla
stessa ora e parto da Sondrio che sono
quasi le 7. Attraverso una città ancora
addormentata, con una pioggerellina sottile sottile che mi costringe
ad aprire quasi subito l’ombrello. Le
montagne intorno, in un cielo che si
sta lentamente schiarendo, appaiono
avvolte da dense cortine di nuvole.
Mentre mi dirigo verso i Trippi,
camminando lungo la pista ciclabile
al bordo della strada, osservo, ancora
distesa sui prati, una spessa coltre di
nebbia. L’umidità del mattino che si
sta aprendo al giorno sembra per un
momento sollevarsi e svanire. Attraverso la statale 38 ai Trippi e imbocco
29 novembre 1998
rima di uscire dalle case di
Sondrio, incontriamo un nostro
vecchio amico, Felice, che fa l’autostop. Gli diamo un passaggio perché
sappiamo che dobbiamo andare più o
meno dalle sue parti. Infatti lui tutte
le domeniche lascia Sondrio e torna a
casa sua a Rogorbello. E noi abbiamo
deciso di andare a Nova, altra frazione
di Vervio. Salendo verso Tirano,
chiacchieriamo di maggenghi e lui ci
dà qualche notizia sull’itinerario che
abbiamo intenzione di percorrere.
Lo lasciamo a Vervio e, seguendo
una strada parallela al corso dell’Adda,
arriviamo a Nova, che è l’ultima
contrada di Vervio sul confine con il
comune di Lovero.
archeggiamo l’auto poco più
avanti, nei pressi di un crocifisso. Qui, al posto di questo piccolo
monumento, c’era un tempo una
costruzione che veniva utilizzata
dalla guardia comunale di Lovero per
P
Pradil (22 novembre 2009, foto Antonio Boscacci).
Bellezza
Fatica
-
Partenza: bivio per Nova (poco oltre il ponte di
Lovero) (m 520).
Itinerario automobilistico: da Tirano
proseguire sulla SS 38 per 5.5 km, quindi uscire a
dx per Lovero. Proseguire fino al ponte di Lovero e
prendere il bivio per Nova (6.5 km da Tirano).
Itinerario
Pericolosità
-
70
sintetico: bivio per Nova (m 510) -
Le Baite (m 666) - Bollata (m 825) - La Possola
(m 1085) - Pradil (m 1320) - torrente Saiento
(m 1330) - Calunga (m 1285) - Quattro Rui
(m 1081) - Rogorbello (m 785) - Nova (m 522)
Dislivello in salita: 800 m.
Dettagli: E/EE, sentieri inghiottiti dalla
vegetazione in alcuni tratti.
Carte: Fogli LOVERO e GROSIO dell’Istituto
Geografico Militare 1:25000
foglio VAL POSCHIAVO – MORTIROLO della Carta
Tecnica della Comunità Montana Valtellina di Tirano
1: 25000
foglio TIRANO-VAL POSCHIAVO ediz. Multigraphic
1:25000 (su base IGM).
Tempo per l'intero giro: 4-5 ore.
Attrezzatura richiesta: da escursionismo.
Difficoltà: 1-2 su 6.
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
P
Le Montagne Divertenti controllare, durante la notte, che non
ci fossero furti nelle vigne circostanti.
Saliamo verso la montagna e, fortunatamente, incontriamo due persone
che stanno potando le piante di un
meleto. Fa molto freddo e ci sembra
strano che, con quel freddo, abbiano
già cominciato a potare.
«Cominciamo adesso che non c’è il
sole, perché quando arriva sarà ancora
più freddo». Strana teoria questa, che
non avevo mai preso in considerazione.
Ci spiegano molto bene che strada
dobbiamo prendere e ci incamminiamo verso le ultime vigne. Che
questa fosse un tempo una terra piena
di vigneti, lo dimostrano molto bene i
resti dei numerosissimi piccoli terrazzi
ricavati sui ripidi fianchi della montagna ben oltre il limite attuale del
bosco e ce lo conferma il nome stesso
della zona: Vignai.
Superato un ruscello, lasciamo la
la strada per Piateda, osservato,
mentre attraverso il ponte sull’Adda,
da un grosso corvo nero appollaiato
su un grande albero. Leggo gli avvisi
di una pesa pubblica e, poco dopo,
mi infilo a sinistra lungo una strada
sterrata che mi porterà a Piateda.
Chiedo conferma ad un contadino
mattiniero, intento a spargere letame
sull’argine di un fosso e lui annuisce.
La pioggia cessa e posso infilare
l’ombrello dentro lo zaino. Ma è
una tregua di brevissima durata
perché, fatti duecento metri, la pioggia riprende più vigorosa di prima.
E’ una pioggia fastidiosa e, quando
passo davanti al centro sportivo e al
municipio di Piateda, mi accorgo di
avere le scarpe già per metà bagnate.
stradicciola che stiamo percorrendo
per prendere sulla destra, una larga
mulattiera selciata, che sale tra gli
ultimi vigneti e passa accanto a una
costruzione dove stanno, ben allineate,
alcune decine di arnie. Era da qualche
anno che, transitando sul fondovalle,
mi ero riproposto di salire a guardare
da vicino questo apiario.
Poco sopra incontriamo il gruppetto
di abitazioni della località Le Baite
(m 666); qualche metro oltre le case,
imbocchiamo a sinistra la vecchia
mulattiera ingombra di vegetazione
e raggiungiamo le baite di Bollata
(m 825), dove arriva anche la stradicciola che abbiamo seguito per un
tratto alla partenza.
Sopra Bollata la mulattiera, sempre
soffocata dalla vegetazione, ma visibile, compie un'improvvisa inversione
verso ovest e diventa pianeggiante,
passando sotto una fascia rocciosa.
Qui ci sono le tracce evidenti di un
La valle del Saiento
71
Escursionismo
Passo dopo passo
Possola (22 novembre 2009, foto Luisa Angelici).
incendio che ha devastato la zona e, a
macchia di leopardo, tutto il versante
sud del monte Masuccio.
Contornata la fascia rocciosa, la
mulattiera torna verso est. Passata la
baita bruciata di Muiana (m 960),
sfioriamo il maggengo di Rella
(m 1075) e arriviamo a Possola
(m 1085), un minuscolo gruppetto
di baite con un vecchio crocifisso di
legno che ci indica l’imbocco della
larga mulattiera per Pradil.
Seguiamo la mulattiera acciottolata,
che si sta riempiendo di vegetazione,
ma è ancora ben percorribile. Con
lunghi zigzag (c’è un po’ di neve nelle
zone in ombra) superiamo una fascia
di bosco ripido e usciamo accanto ai
resti delle baite più basse (m 1275)
del maggengo di Pradil e poi saliamo
al gruppetto più in alto (m 1320).
Siccome è quasi mezzogiorno, ci
72
Le Montagne Divertenti fermiamo a mangiare sulle scale in
pietra di una baita, appoggiando la
schiena a una vecchissima porta di
legno. I chiodi che servono a tenere
insieme le assi della porta hanno
grosse teste e sono stati fatti a mano. Il
buco in basso per far passare il gatto è
stato chiuso usando un pezzo di badile
rotto.
Il panorama sulla valle dell’Adda e
soprattutto sui monti di fronte, che
appartengono ai comuni di Sernio,
Lovero, Tovo di S. Agata e Mazzo, è
abbellito da vezzose nuvolette arricciate, che disegnano lunghe scie in un
cielo azzurro intenso. La neve mette
in risalto i maggenghi, che appaiono
come delle macchie bianche sul fondo
scuro dei boschi. Con la cartina in
mano, cerchiamo di individuarne
almeno i principali.
In alto, al di sopra dei maggenghi,
appare la lunga linea bianca della
strada che da Trivigno raggiunge il
passo del Mortirolo.
Pradil è il più ampio dei maggenghi
che abbiamo incontrato salendo. Vi si
può arrivare anche lungo una stradicciola che si stacca dalla strada che da
Baruffini sale a Pra’ Campo.
Lasciamo le baite allineate di Pradil
e seguiamo un sentierino pianeggiante
che dovrebbe portarci, secondo i
nostri calcoli, sulla sponda opposta
della valle Saiento.
Superato un dosso, il sentierino
taglia il fianco destro della valle,
seguendo quello che un tempo era il
piccolo canale di derivazione dell’acqua per gli usi del maggengo. Poiché
la zona è in ombra, sul sentiero sono
rimasti alcuni centimetri di neve.
Arriviamo al torrente e troviamo
una spessa lastra di ghiaccio. In alto c’è
una grande cascata ghiacciata, sotto la
quale si sente comunque rumoreggiare l’acqua, che scende dai laghi di
Schiazzera, situati nella parte alta del
vasto alpeggio omonimo, nei pressi
del confine con la Svizzera.
L’attraversamento del torrente è
facilitato dalla presenza sul ghiaccio
di uno strato di neve che aiuta a non
scivolare.
aggiunta la sponda opposta e
fatti pochi metri, il sole ci accoglie di nuovo e la temperatura sale di
almeno 20 gradi in un attimo.
Il sentierino che percorriamo taglia
il fianco sinistro della valle Saiento
con qualche saliscendi, poi confluisce
in una larga mulattiera che più ripida
non si può. La mulattiera passa davanti
a una baita ristrutturata (m 1318) e
scende sulla strada che da Vervio sale
a Susen nei pressi del maggengo di
Calunga (m 1285). Passiamo davanti
al gruppetto più basso di queste baite,
che si affaccia sulla strada (accanto a
un tornante della stessa) e che probabilmente, per la sua forma, ha dato il
nome alla località.
Scendiamo lungo la strada ed incontriamo le baite di Pestai (m 1175),
poi passiamo sopra a quelle del Sasso
del Sole (m 1102) e incontriamo il
gruppetto di baite di Quattro Rui
(m 1081). Qui lasciamo la strada e
R
Autunno 2010
Diario di Viaggio di Antonio Boscacci
imbocchiamo sulla destra la mulattiera
che scende accanto a queste baite fino
ad incontrare una baita ristrutturata
e, poco sotto, una cappelletta posta a
un bivio. Qui le mulattiere che salivano dal basso si dividevano: un ramo
portava ai Quattro Rui e proseguiva
per la Volta ed i Piani; l’altro prendeva
a sinistra per Pestai.
La cappelletta, voluta da un tal
Quadrio Giacomo, è stata edificata nel
1886. Vi si trovano, in cattivo stato di
conservazione, degli affreschi che raffigurano la Madonna col Bambino, e
alcuni santi (S. Sebastano, S. Ilario, S.
Antonio e S. Giacomo). Continuando
a scendere, attraversiamo la strada
asfaltata e poco sotto incontriamo le
case della località Solt (m 1015), il cui
nome nasce dall’essere sopra un ripido
salto di roccia.
Passiamo accanto a due case abbandonate (località La Presa, m 958)
e incontriamo di nuovo la strada.
Riprendiamo la mulattiera poco
avanti, sulla destra di un tornante,
e scendiamo alla località Molini
(m 840). Il mulino, che era utilizzato
in passato da tutte le famiglie della
zona, funzionava con l’acqua derivata
dal torrente Saiento. Il minuscolo
gruppo di edifici è stato ristrutturato
e una piccola macina in pietra è stata
posta ad ornamento del giardino.
Un centinaio di metri sotto incontriamo la contrada Ca’ Giacomo
(m 829) e, sempre lungo la mulattiera, scendiamo fino alla chiesa di S.
Sebastiano di Rogorbello (m 785).
Con il termine di Rogorbello, è indicata la zona del comune di Vervio nei
pressi della chiesa e della contrada
Bertoli. Una lapide all’interno della
chiesa ricorda che questa fu consacrata
il 23 luglio 1697, mentre un’altra
lapide, più grande, sul muro esterno,
ci fa saper che la strada di Rogorbello
venne costruita grazie all’interessamento del senatore valtellinese Ezio
Vanoni, nel 1956.
Dalla chiesa scendiamo alla contrada
Roncale e, lungo un sentierino (è
tutto quello che è rimasto di una larga
mulattiera) alle case di Scalotti. Poi
dobbiamo seguire la strada fin quasi a
Vervio. Prima del paese, pieghiamo a
Le Montagne Divertenti Valchiavenna
I maggenghi di Vervio da Pradil (22 novembre 2009, foto Luisa Angelici).
destra e, costeggiando dall’alto l’Adda,
ci incamminiamo in direzione di
Nova.
Colpiti in fronte dagli ultimi raggi
di un sole pallido e ormai al tramonto,
attraversiamo questa contrada, dove
incontriamo un anziano contadino.
Siccome anche lui insegue quest’ultimo scampolo di sole, facciamo un
tratto di strada insieme (un tratto
breve ma sufficiente per sentirlo
raccontare un sacco di cose sulla sua
vita di contadino-muratore-contrabbandiere, da riempire un libro).
E, mentre il sole se ne va dietro una
nuvola, sull’orizzonte basso e grigio,
arriviamo alla nostra auto.
Da qualche parte, oltre l’Adda, il
campanile di Lovero suona la fine
delle funzioni domenicali.
22 novembre 2009, variante di tracciato
lle baite di Possola, si può arrivare anche seguendo un itinerario diverso, ma molto
A
simile al precedente quanto a invadenza della vegetazione, più difficile però nella parte
finale (che richiede escursionisti esperti).
Seguire la strada che si imbocca all’inizio, fino a superare le baite di Bollata e incontrare
quelle di Fenendrol (m 819), poste su un ripiano circondato dal bosco (qui passa il sentiero
che va da Baruffini a Grosotto). Qualche metro sopra le baite, la strada si biforca: a destra
si va a Reguzzo e a sinistra si sale a Dos Bas. Seguire la ripida strada per Dos Bas fino a
raggiungere questo maggengo che, come dice il nome si trova su un dosso. Da qui in avanti
le cose si fanno più complesse. Proseguire seguendo una mulattiera che sale dritto e poi a
destra, invasa dalle felci. Compiere una lunga traversata salendo verso sinistra fino a incontrare un valloncello che si risale per un centinaio di metri. Salire e spostarsi sempre verso
sinistra fino a raggiungere i prati abbandonati nella parte bassa del maggengo di Possola.
La valle del Saiento
73
Escursionismo
Porte di Valtellina
Vivione-Aprica
Bellezza
Fatica
sulle mulattiere di pastori, soldati e contrabbandieri
Eliana e Nemo Canetta
Pericolosità
Il piccolo mare artificiale orobico del lago di Belviso. Nella pagina a fianco:
ultimi metri sulla mulattiera militare prima del passo del Gatto.
Partenza: Vivione (m 1828).
Itinerario automobilistico: bisogna prevedere 2 automobili,
una da lasciare all'Aprica e una al passo del Vivione.
Dall'Aprica scendere per la SS 39 fino a Edolo, quindi per la SS 42
proseguire verso S fino a Malonno (25 km), dove si prende a dx la
SPBS 294 che giunge tortuosa a Paisco, quindi al passo del Vivione
(km 45 dall'Aprica).
Itinerario sintetico: rifugio del Vivione (m 1828) - passo del
Gatto (m 2405) - passo del Venerocolo (m 2314) - alpe di Pisa - valle
del Latte - malga Magnola (m 1995) - malga Magnolta (m 1945) Aprica (m 1176).
Tempo di percorrenza: 7 ore e mezza.
Attrezzatura richiesta: da escursionismo.
Difficoltà: 2 su 6.
Dislivello in salita: 500 metri.
Dettagli: E/EE. Passeggiata su sentieri segnalati.
Punti d’Appoggio: rifugio Passo Vivione (m 1828) - aperto da fine
giugno ai primi di settembre - proprietà privata - posti letto 20 - tel.
0346-55259; bivacco Aprica (m 2227) - sempre aperto (informazioni
presso CAI sez. Aprica) - posti 15 - dotato cucina e stoviglie.
I
l volume Guida alla Valtellina e alle sue acque minerali, edito
nel 1884 dalla Sezione Valtellinese del CAI, è una vera miniera
d’informazioni sugli aspetti dell’epoca della nostra Provincia: il
Bernina è stato vinto, per la prima volta, da meno di 30 anni e lo
splendido Disgrazia ha visto il primo piede umano sulla sua vetta
solo 22 anni prima.
Se questa era la situazioni delle vette maggiori, ben si può
comprendere come quelle minori fossero ancor meno note, qualche volta del tutto sconosciute. Inoltre il volume ci proietta in una
realtà, pure economica e sociale, lontanissima da quella odierna.
Ecco ciò che dice del borgo di Carona (a S di Tresenda): “... villaggio interessante per il geologo e per il cacciatore1, dove il parroco offre
1 - Ai tempi non pochi alpinisti – il Galli Valerio tra i tanti – non disdegnavano di
combinare le gite con qualche “buon colpo”.
74
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Vivione-Aprica
75
Escursionismo
Porte di Valtellina
Passo del Vivione: una breve sosta prima di iniziare a risalire la Valbona.
ospitale alloggio e dove può vedersi una
vecchia torre ...”. Oggi la torre è crollata ed il parroco ... non c’è più; come
del resto, in inverno, nel pur allegro
villaggio non risiede stabilmente più
nessuno. La guida del 1884 è una vero
affresco di una Valtellina cancellata dal
tempo; forse da non rimpiangere, ma
certo meritevole di essere conosciuta e
ricordata.
a veniamo alla val Belviso.
Siamo nell’angolo più orientale delle Orobie: oltre si apre il solco
dell’Aprica; più in là sono i placidi
colli della costiera del Mortirolo, che
secondo i geografi moderni appartengono all’estrema periferia del massiccio
Ortles–Cevedale. Il bacino di Belviso è
quindi un vero pilastro orobico, che fa
da contrappunto al Legnone ed alla val
Lesina che limitano, ad ovest, la medesima costiera.
Ma la val Belviso ha molti altri
spunti di interesse: percorsa, se non
abitata, da tempi immemorabili, come
provano le incisioni del lago Nero,
costituì per secoli un facile e rapido
collegamento tra la val di Scalve e la
conca di Tirano; salvo poi proseguire
verso l’Engadina, la valle del Reno e
la Germania. Oggi un simile viaggio
può far sorridere, le montagne le sorvoliamo oppure le traversiamo su veloci
nastri d’asfalto. Ma ancora sino alla
Grande Guerra le idee erano diverse: la
gente, le greggi e pure molte mercanzie
traversavano le Alpi a dorso di mulo,
quando andava bene su carretti le cui
caratteristiche non differivano dai
mezzi utilizzati secoli e secoli prima.
Viaggiatori, pellegrini, emigranti e
persino i touristes che iniziavano a
percorrere ed esplorare le nostre vallate
M
76
Le Montagne Divertenti impiegavano il cavallo di San Francesco. Per cui era inutile fare lunghi giri
alla ricerca di valichi più comodi: si
utilizzava la mulattiera o il sentiero più
breve. Ecco allora che il pastore bergamasco, che portava le sue pecore verso
le Retiche, preferiva i più rapidi passi
della val Belviso, rispetto all’ampio giro
lungo la Valcamonica, per raggiungere
Tirano. Non per nulla la nostra guida
scrive del Venerocolo: "... questo è il più
facile fra i passi che legano la Valtellina
alla Val di Scalve; da esso transitano
annualmente migliaia di pecore che gli
industri pastori bergamaschi conducono
ai pascoli delle alte alpi della Valtellina e
della Svizzera ...”.
a non solo pecore valicavano
i passi della val Belviso: il
Tiranese, per la sua vicinanza con il
cuneo grigionese di Poschiavo sino a
tempi recenti è stato un tipico luogo di
contrabbando. E da Tirano scavalcare
l’Aprica, oltre che lungo era pericoloso:
troppo facili le ispezioni dei doganieri
lungo la carrozzabile. Meglio allora
risalire il Belviso, guadagnare la cresta
orobica, divallando verso Brescia e
Bergamo per sentieri di ben più difficile controllo.
itmi secolari, che sarebbero
proseguiti a lungo, ma vennero il
1914 e Sarajevo! E pure le tranquille ed
isolate valli delle Orobie, tanto lontane
dal Carso e dall’Isonzo, balzarono
all’attenzione di Cadorna: se gli austrogermanici avessero violato la neutralità svizzera (valutata meno solida di
quanto fosse in realtà) ci si sarebbe
dovuti difendere lungo una linea che
da Domodossola, per le Prealpi Varesine e Comasche, giungeva al Lario.
Più oltre il fronte avrebbe coronato le
M
R
Orobie, sino all’Aprica. Qui la nuova
linea si sarebbe saldata, nell’area del
Mortirolo, con le trincee arretrate di
Grosio e di Vezza d’Oglio, per difenderci dagli attacchi provenienti dallo
Stelvio e dal Tonale. Evidente la fondamentale importanza della val Belviso:
non solo doveva “coprire” i facili passi
verso Schilpario e la val di Scalve ma
pure “fare da spalla” all’Aprica ed
all’area fortificata del Tiranese.
Proprio per questo i nostri comandi
decisero di porre le difese oltre la cresta
spartiacque: tutta la valle sarebbe
restata nelle nostre mani, a costituire
una sorta di “piazza d’armi” ma pure
una posizione avanzata di potenti artiglierie che, battendo la Valtellina, ne
avrebbero impedito il transito da parte
dell’avversario. Tali posizioni furono
ben scelte: il dosso Pasò ad E, il monte
Lavazza ad O. Poi si incominciò a fortificare, scavar trincee e gallerie, realizzare postazioni d’artiglieria. Ma non
bastava: pochi ci pensano ma, come
diceva Napoleone, i soldati combattono con lo stomaco! Ed i cannoni
hanno bisogno di munizioni. Di qui la
necessità di facili e sicuri collegamenti
con le retrovie, i cui centri erano oltre
la cresta orobica.
Fu così che in tempi brevissimi
si realizzò una rete di mulattiere
che, dalla val di Scalve e dal passo
del Vivione, attraverso i valichi del
Venerocolo, di Venano e di Belviso,
penetravano nella nostra valle, percorrendone poi i fianchi a mezza quota,
sino a malga Magnolta, sotto il dosso
Pasò, sul lato orografico destro; sino ai
laghi di Torena, lungo il versante sinistro. Un’opera ciclopica, iniziata nella
primavera del 1916 ed interrotta (ma
in val Belviso era quasi terminata) con
la vittoria nell’autunno del 1918. Ed
anche un’opera ben eseguita, pure con
i limitati mezzi del tempo: senza ruspe
e scavatori, solo con l’ausilio di qualche
mina. A distanza di un secolo queste
mulattiere, realizzate quasi completamente a mano e con muri a secco, resistono quasi ovunque molto meglio di
tante vie di comunicazione moderne,
costate milioni di euro!
La traversata che proponiamo,
oltre ad offrire vasti panorami e la
scoperta di zone a torto poco note,
è pure un ricordo di questi uomini
che, in tempi tremendi, senza stravolAutunno 2010
gere la montagna ed i suoi equilibri,
hanno saputo lasciare un passaggio
sicuro, segno indelebile della loro
maestria. Traccia di un sapere antico
che oggi sarebbe assai utile!
Dal Passo del Vivione
all'aprica
Dal rifugio del Vivione (m 1828),
si prosegue a SO per qualche decina
di metri sino a un tabellone ove si
imbocca, verso NO, una stradella che
dirige verso la Valbona. Traversato il
corso d’acqua si è nei pressi di malga
Gaffione, dominata a SSO dal cono
verdeggiante del monte Busma; qui
terminata la sterrata, si continua verso
N sulla mulattiera militare, ben tracciata e larga in media oltre un metro. Si
infila una strettoia ove scrosciano pittoresche cascatelle per sbucare alla baita di
quota 2009. Ancora un breve tratto ed
eccoci in presenza di un ampio, caratteristico circo, tra il monte Poiat e la
costa di Valbona. Osservando dinnanzi
a noi, sulle ripide coste di erba e rocce si
scorge il tracciato militare che andremo
a percorrere. Prima però si compie
un lungo e panoramico giro attorno
al lago quota 2054, dominati da rupi
rigate da cascatelle; in qualche tratto le
frane hanno trasformato la mulattiera
in sentiero che comunque si percorre
agevolmente. Eccoci a quota 2171
ove alcuni tornanti ci portano sopra
la prima fascia rocciosa. Ritornando
verso ONO2, la vista si fa sempre più
ampia sulle antistanti Prealpi bergamasche e gli erbosi colli circostanti. Altri
tornanti ci fanno raggiungere l’ultima
conca sotto la tozza sommità della
quota 25033, sovente frequentata da
pecore e capre. La sua cresta meridionale, seghettata e rocciosa, è divisa dal
passo dallo stretto intaglio del passo
del Gatto4 (m 2405), reso più agevole
dal lavoro dei militari. Sull’opposto
versante ci si affaccia alla testata della
val Venerocolino che, 1300 metri più
a valle, conduce a Schilpàrio; verso
O sono ben visibili le vette del Gleno
e del pizzo dei Tre Confini che separano la val di Scalve dalla val Seriana.
2 - Un paio di punti (funi e catene) richiedono un
minimo di attenzione.
3 - La Guida ai Monti d'Italia chiama questa quota
monte Sellerino.
4 - E' chiamato anche passo di Valbona.
Le Montagne Divertenti Il lago di Valbona salendo al Passo del Gatto; sullo sfondo il gruppo del Cimone della Bagozza
(Prealpi Lombarde tra Bergamo e Brescia).
La mulattiera perde un poco quota tra
ampi macereti, oltrepassa una valletta
per poi risalire ad un altipiano punteggiato da laghetti (m 2294). Poco oltre
si lascia a dx il tracciato per il passo del
Sellerino, continuando a ONO per
raggiungere una selletta: qui si lascia a
sx (S) il percorso segnalato che scende
a Schilpario. Costeggiamo invece
un laghetto solitario per raggiungere in breve il passo del Venerocolo
(m 2314, ore 3.30 dal rifugio
Vivione). La vista, pur non amplissima è interessante: a N sul gruppo
del Telenek e la sottostante verde val
di Campo, a mezzodì sul dolomitico
pizzo Camino e la val di Scalve.
Oltre il valico inizia un tratto suggestivo e di notevole interesse ambientale
e panoramico: trascurato il sentiero che
scende a N, si prende a dx (ENE) il
tracciato militare che continua a mezza
costa, ben lastricato. Con qualche saliscendi, assecondando le anfrattuosità
del pendio ci si porta sopra malga
di Campo, nei pressi del massiccio
costone del monte Colombaro. Si entra
ora nella Foppola, una solitaria conca
a quota 2200 circa, dominata a NE dai
pendii rocciosi del monte Sellero, uno
dei maggiori della costiera. Subito dopo
si valica il Rio di Pisa, pianeggiando
sull’alpe di Pisa. Qui un sentiero
segnalato scende facilmente a malga di
Campo. Continuando invece a mezza
costa, la mulattiera perde lentamente
quota, affacciandosi sopra la boscosa
conca del lago Belviso; proprio di
fronte l’imponente massa del Torena,
con i suoi m 2911 massima vetta
della valle. Il nostro tracciato piega
ora a N, aggirando il monte Frera,
spalla occidentale del Telenek; poco
oltre taluni ripidi valloni, orientati a
N, colmi di neve di valanga all’inizio
di stagione, possono creare problemi
nell’attraversamento. Si guadagna così
la valle del Latte, aperta ed ampia, a
quota 1950, proprio sopra il ponte di
Frera. Continuando a mezza costa il
tracciato asseconda i monti Torsolazzo
e Cadin e, superata la val Carognera,
guadagna malga Magnola (m 1995),
ove giunge dall’Aprica una stradella; si
è dominati dalle rocce del dosso Pasò
mentre sull’opposto versante della valle
spicca la punta verdeggiante del monte
Lavazza. Poco oltre è il bivio (a dx)
per il bivacco Aprica ed il Pasò; non
lungi, a monte e valle del tratturo resti
di sentieri, gallerie e trincee risalenti
alla Grande Guerra. In breve si è agli
ampi pianori di malga Magnolta (barristorante, m 1945), sul costone dove
sono presenti gli impianti di risalita
dell’Aprica. Seguendo la stradella silvopastorale si divalla ripidamente, prima
tra pascoli, poi nel bosco, sempre su
sterrata sino alla stazione a valle degli
impianti di Magnolta (m 1200) nei
pressi del centro di Aprica m 1176
(ore 4).
Vivione-Aprica
77
Rubriche
valtellinesi
nel mondo
Valle della Luna, San Pedro de Atacama, Cile (5 luglio 2009).
Il vulcano Tunupa visto da quota 4500 metri, Bolivia (10 luglio 2009).
La magia delle
Geiser
geotermico
El Tatio, Cile (6 luglio 2009).
Montagne
Divertenti
78 nelLecampo
Autunno 2010
Ande
Testi e foto Roberto Moiola
La
delle ande
(Pseudalopex
Le volpe
Montagne
Divertenti
culpaeus) (8 luglio 2009).
La magia della Bolivia
79
Valtellinesi nel mondo
Rubriche
S
S
iamo davvero piccoli qui, nel cuore della Bolivia. Un’infinita estensione di
sale ci fa da tappeto mentre, esterrefatti, ammiriamo il sole che lentamente
viene a galla dietro la Cordillera di vulcani che tracciano il confine con il Cile.
e il nostro viaggio avesse come missione quella di scovare il luogo del mondo
in cui si incontrano cielo e terra, qui, a 3600 metri di altitudine, si potrebbe
innalzare la bandiera di conquista.
Fenicotteri spiccano il volo presso la laguna Colorada, Bolivia (8 luglio 2009).
I
l cammino ora risale abbastanza ripido e distinguiamo
una traccia solo grazie ai muri
a secco perfettamente disegnati
dai campesiños della zona. E’
quasi irragionevole che anche
qui l’uomo debba tracciare delle
proprietà.
Tanto
irrazionale
quanto pensare che qui, probabilmente solo in estate, possano
pascolare dei lama o delle vigogne.
Ora è tutto così silenzioso, quasi
irreale. Non si scorgono all’orizzonte nemmeno i flebili puntini
dei fuoristrada che solcano il Salar.
Mai come in questa occasione
siamo così lontani dalla realtà.
Quando raggiungo la quota di
4500 metri mi risveglio di colpo,
calamitato fatalmente dalla vetta
che per la prima volta si para di
fronte a me. Mi accorgo che i miei
compagni si sono attardati, così li
aspetto con un venticello frizzante
che mi congela il viso. Quando
mi raggiungono mi comunicano
l’intenzione di tornare indietro,
tranne Josef, che non vuole desistere. Le giornate in inverno sono
molto corte, motivo per cui il sole
è già alto. Ma non ce ne preoccupiamo e ci diamo appuntamento
direttamente all’Hotel De Sal, il
nostro alloggio presso Tahua, l’altro villaggio all’estremità del Salar.
Da qui in poi procediamo su
sfasciumi, tra ripidi pendii franosi
che si alternano alle ultime
macchie di Yareta (llareta), il
verdissimo cuscino di muschio
andino che mi ricorda i più familiari pulvini di fiori che adornano
i macereti sulle Alpi. A queste
altezze il cuore e la testa aumentano ulteriormente il ritmo e di
conseguenza l’andatura subisce un
colpo netto.
E' come se a 5000 metri vi
fosse un confine biologico
che ci indirizza alla cautela.
Un cartello eloquente segnala il pericolo in una zona vulcanica del Sud Lipez, Bolivia (8 luglio 2009).
C
on me c’è Josef, indaffarato
come sempre con i pulsanti
della sua reflex. Più avanti la nostra
guida, Alex Téran, sta raccontando
qualcosa ad Eva e Katia. Alex,
ragazzo dagli inconfondibili tratti
boliviani, vive a La Paz e da anni
organizza tour nel Sud Lipez, la
più meridionale delle 16 province
nel distretto di Potosì. Ha sempre i
capelli tirati dal gel e il sorriso sulle
labbra. Alle nostre spalle, sonnecchiante, si erge isolato il Vulcano
Tunupa, indiscusso dueňo1 del
Salar de Uyuni.
Sulle sue pendici accadde
che un certo Atahualpa
sfregiò il seno di una donna
di nome Tunupa: il latte
che ne sprizzò diede origine
alla più vasta distesa di sale
al mondo.
1 - Padrone, proprietario.
80
Le Montagne Divertenti C
osì vuole la leggenda, che
Alex ci racconta mostrando
la massima convinzione. La
realtà ci dice invece che sotto
di noi si estende una coltre di
sale spessa fino a 10 metri e, in
questa stagione, liscia come una
suola di scarpa, talmente piatta
da poter testare un bolide fino a
raggiungere la velocità del suono.
Rimaniamo qui ancora per poco
dato che la nostra meta è 1800
metri più vicino al cielo. Alleggerito lo zaino il più possibile ci
incamminiamo verso il promontorio che si allunga in direzione
della cima. Al momento però
non si avvista alcuna guglia
che possa distinguersi come
una vetta. E’ tutto un susseguirsi di bastioni e canali che
formano un castello invalicabile.
Passiamo presto per Coquesa,
uno dei due pueblos in cui incon-
trare un’anima e un ristoro dopo
centinaia di chilometri provenendo dal confine cileno. A dire
il vero scopriamo ben presto che
è più facile trovare delle mummie
che persone in carne ed ossa.
Sono molti infatti i cimiteri e
le chullpas lasciateci in eredità
dal periodo incaico. In una di
queste grotte rimaniamo increduli di fronte a quattro esili corpi
perfettamente conservati. Tutto
intorno il microclima claustrofobico sembra aver fermato il
tempo: le offerte in sacrificio alla
montagna si compongono in gran
parte di vasellame, ma riusciamo
a scorgere anche fiori e vestiario.
Ripartiamo con affanno, certo più
lenti di quanto le gambe desidererebbero. D’altra parte l’altezza
si fa sentire e siamo anche un po’
frastornati dalla visione curiosa a
cui abbiamo appena assistito.
Autunno 2010
Passeggiando tra le pozze di fango bollenti presso l'area geotermica Sol De Manana, Bolivia (8 luglio 2009).
Le Montagne Divertenti La magia della Bolivia
81
Rubriche
Valtellinesi nel mondo
P
assare certi limiti senza
considerazione può significare pagarne in seguito gli effetti.
Così Josef, scorta un’agevole via
di discesa, mi comunica di voler
cominciare il rientro. Ci diamo
appuntamento sulla via del ritorno.
Fatti bene i calcoli ho ancora
alcune ore a disposizione, perciò
procedo. Sono su un terreno
dominato dal rosso che mi ricorda
i paesaggi dei western americani. Mi fermo a curiosare fra
le pietre, ne trovo di bizzarre e
colorate. Tornato repentinamente
bambino, voglio alcuni portafortuna e alla fine ne carico un
chilo nello zaino. Forse, mi dico,
non serviranno a nulla, ma anche
Armstrong in fondo si riportò a
casa i sassi dal suo viaggio lunare.
Un ultimo tratto a zig-zag mi
permette di raggiungere quello
che fino ad ora mi era apparso
come un passo. Scopro invece con
grande gioia di aver raggiunto la
caldera del vulcano. La mia mente
si lancia di nuovo a fantasticare,
tra geologia e un po’ di timore.
Negli ultimi giorni ho avuto
modo di ammirare di cosa possa
essere capace la natura: i magnifici
geysers di El Tatio o i ribollii di
fango al campo geotermico di Sol
De Mañana sono chiare dimostrazioni dal vivo di come sia vitale
evitare passi falsi.
uesto non è un documentario e posso finalmente
godermi lo spettacolo di forme
e colori, smorzati solamente da
alcune velature che stanno insinuandosi sopra la vetta. Per un
altro capriccio della geografia
sembra ora di essere sulle Dolomiti.
Riparto in direzione dell’anticima,
con il GPS che mi fa compagnia
e che traccia il mio percorso. Il
colpo d’occhio sull’altiplano mi
sbalordisce, non trovo una fine.
E quando la mente vaga, ci pensa
il freddo a pungermi violento e a
farmi ripartire.
aggiunta l’anticima, a 5200
metri, il mal di testa ha
preso il sopravvento. Mi volto,
scruto la vetta, questa volta la
distinguo, poco più alta di alcune
guglie che la precedono. Ce l’ho
buio per raggiungere Tahua. Ne
valeva la pena anche se questo
mi rovinerà i giorni successivi del
viaggio perché passati a letto con
la febbre.
Prima di addormentarmi
guardo la vetta, rischiarata
dalla luna e, stringendo
nelle mani le pietre del
vulcano, ripenso a questa
giornata, così lontana dai
ritmi frenetici del mondo
moderno.
Incontro ravvicinato con le mummie in una chullpas (tomba) di Coquesa, Bolivia
(10 luglio 2009).
Q
R
82
Le Montagne Divertenti Terra rossa presso il colle a quota 5000 metri durante la salita al vulcano Tunupa, Bolivia
(10 luglio 2009).
Tramonto verso il vulcano Tunupa, Bolivia (10 luglio 2009).
Roberto Moiola
Gli ultimi raggi del sole colorano il piatto Salar de Uyuni. Sullo sfondo il vulcano Tunupa,
Bolivia (9 luglio 2009).
a portata di mano ma è ormai
evidente che continuare è pericoloso. In condizioni normali l’avrei
raggiunta in meno di un’ora. Così
guardo il pendio piramidale che
scende verso le alture del villaggio,
ad almeno dieci chilometri da qui,
e comincio la mia discesa, a capofitto ma in forte preda alla stanchezza. Il sole è basso all’orizzonte
e proietta ombre perfette sulla
candida distesa di sale. Ora è più
facile scorgere tutti gli isolotti di
roccia vulcanica e cactus che spezzano la monotonia dell’Uyuni.
cendo abbastanza spedito,
quanto il terreno franoso
me lo permette. Dopo un’ora
raggiungo Josef che, fortunatamente, ha rallentato. Ora ci
godiamo il tramonto, combattuti
tra l’emozione ed il forte mal di
testa che attanaglia anche lui. Ci
vorranno ancora un paio d’ore al
S
Autunno 2010
Mi chiamo Roberto Moiola e vivo da
sempre (32 anni) nella splendida
Valtellina. "Sysa", il mio soprannome, deriva dal nome di mio nonno:
Cesare.
La fotografia per me è prima di tutto una passione, col tempo è diventata il mezzo che mi ha permesso di
legare l'innata passione per la montagna con quella per il computer ed
internet. Non ultima, l'inesauribile
passione per i viaggi in qualsiasi angolo del mondo (che organizzo con la
mia stupenda ragazza Eva), mi hanno
spronato ad ideare siti internet con i
quali posso pubblicare le meraviglie
che popolano il mondo così come le
vedo io: waltellina.it, waltellina.com,
Le Montagne Divertenti sysaworld.com o viaggiandonelmondo.com.
Sono tra i fondatori di questa rivista
per la quale mi appassiono nella realizzazione di ogni nuovo numero.
Collaboro attualmente come fotografo free-lance con alcune riviste specializzate di montagna ed enti turistici
della zona, organizzo corsi di fotografia e realizzo lavori grafici legati alla
fotografia, come ad esempio calendari.
Voglio ringraziare il mio maestro Vincenzo Martegani al quale devo una
buona parte delle mie conoscenze fotografiche e la cui spinta mi ha permesso di partire, 10 anni or sono, in
questo magico mondo digitale.
Roberto Moiola (2010, foto M. Ceschina).
La magia della Bolivia
83
Il mondo in miniatura
Speciali d'autunno
locuste sotto
la lente
Alessandra Morgillo
A Carletto piace
moltissimo passeggiare
in montagna in
compagnia del nonno
che gli insegna sempre
tante cose interessanti.
La curiosità di un
bambino di otto anni
lo spinge a cercare
le stravaganze di un
mondo straordinario
e tutto da scoprire: il
microcosmo e i suoi
abitanti.
È
una tiepida mattina di settembre e Carletto, armato
di lente di ingrandimento, come un
piccolo detective,
precede di buon passo il nonno e
perlustra i dintorni alla ricerca di
qualche strano insetto da osservare.
“Nonno nonno, oggi siamo fortunati, ho trovato un insetto gigante!”
esclama d’un tratto indicando
qualcosa tra i ciuffi d’erba a bordo
sentiero. Vedendo che l’anziano fatica
ad individuarlo aggiunge: “sembra
una cavalletta, è lì ferma ed è proprio
dello stesso colore delle foglie!”
Finalmente l’uomo la trova: “la
nostra amica è proprio brava a mimetizzarsi.”
“Mime..che?” balbetta il bimbo.
“Mimetizzarsi significa confondersi
con il proprio ambiente, cioè imitarne
il colore e rimanere poi immobili per
non farsi notare” spiega il nonno.
Anacridium aegyptium il più grosso Acrididae italiano e una delle
più grandi locuste europee. È diffuso in Africa settentrionale,
Europa
e AsiaDivertenti
(foto Paolo Rossi).
Le Montagne
84 meridionale
“Sarà anche mimetica, ma io non ho
mai visto una cavalletta così grande,
sai come si chiama nonno?” “Pensa,
Carletto, che è ancora giovane, gli
adulti di questa specie assumono di
solito una colorazione grigio-bruna, e,
se si tratta di una femmina, potrebbe
raggiungere i sette centimetri! Il suo
nome scientifico è Anacridium aegyptium, comunemente detta locusta
egiziana…”
“Che nome difficile!”, lo interrompe il nipotino, “sarebbe stato più
divertente chiamarla cavalletta, è una
parola così buffa, non trovi?”.
“E’ vero Carletto, infatti se la osserviamo bene potrebbe ricordare quasi
un piccolo cavallo: il capo è allungato,
la parte iniziale del dorso presenta una
specie di corazza, chiamata
pronoto,
che
sembra
Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Locuste sotto la lente
85
Speciali d'autunno
insetti
Il mondo in miniatura
una sella e, infine, è capace di
compiere grandi salti.”
“Sì nonno, ma allora in cosa differisce dalle altre cavallette?”
“Ci sono moltissime specie di
Ortotteri, ordine di insetti di cui
fanno parte anche i grilli e quelle
cavallette con le antenne lunghissime,
anche più della lunghezza del proprio
corpo.
terraneo, ma anche in Liguria e in
Pianura Padana e qualcuna arrivava
anche qui, nelle nostre serre, poiché
trasportate insieme alle piante. Oggi
è abbastanza frequente imbattersi in
qualche esemplare, ma, nonostante
le dimensioni, ciò non deve destare
preoccupazioni perché questa locusta
di indole solitaria non risulta particolarmente dannosa per la vegetazione e
non vi è rischio di invasioni.”
“Invasioni?” chiede stupito Carletto.
Così, per distinguerle, si
preferisce chiamare locuste
quelle con le antenne corte,
specialmente se hanno
grandi dimensioni.”
Il bimbo assume un’aria pensierosa:
“Ah gli Ortotteri… gli insetti che
vanno nell’orto?”
E sorridendo il nonno: “Li
potremmo anche incontrare nell’orto,
ma il termine deriva da una parola
greca che significa ali dritte; appartengono a questo gruppo tutti quegli
insetti che oltre a questa caratteristica
possiedono lunghe zampe posteriori,
adatte al salto, e un apparato boccale
masticatore, cioè delle mandibole
molto sviluppate per divorare con
efficacia i vegetali di cui si nutrono.”
“Ali? Quindi oltre a saltellare…
volano?”
“Eccome! Adesso non vediamo le ali
vere e proprie perché sono ripiegate a
ventaglio sotto le elitre, cioè delle false
ali indurite e resistenti, modificate a
protezione delle prime.”
Carletto alza lo sguardo forse
sperando di scorgerne qualcuna in
volo, allora il nonno aggiunge: “questa
è una specie solitaria, non credo che
ne vedremo altre nei dintorni, anche
se...”
“Anche se?” chiede curioso il bimbo.
“In questo periodo si spostano
facilmente perché hanno necessità
di trovare un rifugio per l’inverno.
Cercano un riparo tra la vegetazione,
ma anche presso le costruzioni umane.
Se ci saranno giornate invernali particolarmente miti, è anche possibile
che si destino temporaneamente dal
loro sonno e può capitare di vederle,
un po’ intorpidite, ferme sui muri a
prendere il sole. Torneranno attive
in primavera e i nuovi nati compariranno verso aprile.”
“Nonno, ma come faremo ad essere
86
Le Montagne Divertenti “Alcune specie di locuste si
riuniscono in grandi sciami
che oscurano addirittura
il cielo e percorrono
rapidamente grandi
distanze per divorare in
pochi giorni tutto ciò che
incontrano.
Arcyptera fusca (della famiglia Acrididae) è una specie di montagna che si trova spesso sui
pascoli in quota. Solo il maschio, leggermente più piccolo (circa 3 cm), è in grado di volare; la
femmina presenta delle ali brevi non completamente sviluppate (brachittere) (foto P. Rossi).
sicuri che si tratta proprio di questa
specie? E i piccoli, assomiglieranno un
po’ ai loro genitori?”
“Guarda bene i suoi occhi,
Carletto, cosa vedi?”
“Sono a righe!”
“Esatto, quelle strie verticali scure
sono la caratteristica più evidente
per identificare questa specie, poi il
pronoto è attraversato da numerosi
solchi, anziché presentare un’unica
intaccatura come nella maggior
parte delle locuste. Quando nascono
dall’uovo le forme giovanili, chiamate neanidi, sono chiare e piccoline,
ma hanno già l’aspetto dell’insetto
adulto, salvo per l’assenza delle ali.
Si dice che questo gruppo di insetti,
infatti, compia una metamorfosi di
tipo incompleto, cioè non vi sono nel
corso della vita grandi trasformazioni
(come dal bruco alla farfalla), ma
cambiano semplicemente le dimensioni.”
“Crescono come noi, giusto
nonno?”
“Non proprio direi… Pensa che
la parte esterna del corpo, chiamata
esoscheletro, non può crescere e a un
certo punto, quando questa sorta di
vestito incomincia a star loro stretto,
devono liberarsene per sostituirlo
con uno più grande che si sviluppa
durante la muta! È facile rinvenire
esoscheletri abbandonati, chiari ed
esili, sembrano cavallette fantasma…”
ffascinato da questi racconti
il bimbo quasi non si accorge
che la locusta egiziana silenziosamente
si è arrampicata su un ramo più alto
e, forse sentendosi troppo osservata,
sembra decisa a spiccare il volo. E
così accade! Un grande salto e le sue
elitre si aprono liberando le ampie
ali membranose. Queste, con gran
fragore, portano su in alto l’enorme
insetto che poi, un po’ traballante,
sparisce nel fitto della vegetazione. A
bocca aperta Carletto la segue con lo
sguardo e poi si rivolge al nonno: “
Andrà lontano?”
“Non credo. Gli inverni sempre
più miti consentono ormai a questi
insetti di svernare con facilità anche
alle nostre latitudini. Qualche anno
fa erano comuni nella zona del Medi-
A
Autunno 2010
Ma questi fenomeni si verificano
generalmente in Africa, dove il clima è
caldo e siccitoso. Benché i nostri prati
e pascoli, anche in alta quota, accolgano un elevato numero di specie e
alcune zone registrino un’apprezzabile
densità di individui (specialmente i
prati assolati e dotati di pendenza per
cui meno soggetti a ristagni idrici)
non si verificano fenomeni di gregarismo e migrazione.”
Carletto non è sicuro di aver capito
perfettamente ciò che intendeva dire
il nonno, ma è rassicurato dal fatto
che le cavallette pericolose si trovano
lontano, mentre dalle nostre parti
sono sostanzialmente innocue. Proseguendo lungo il sentiero nonno e
nipotino giungono nei pressi di una
radura. Qui vengono accolti da un
insistente frinire delle cavallette dei
prati: “Nonno, come fanno a fare
questo rumore?”
“Sfregando le zampe posteriori
contro il primo paio d’ali i maschi,
per attirare le femmine, producono
dei suoni caratteristici con tonalità e
ritmi distinti da specie a specie”.
Carletto le guarda saltellare, alcune
mostrano ali colorate, talora azzurre o
rosate, ma nessuna vola in alto come
la locusta egiziana che oggi ha imparato a riconoscere. Non dimenticherà
mai questo incontro straordinario
e tutto ciò che ancora una volta il
saggio nonno gli ha insegnato.
Le Montagne Divertenti Calliptamus italicus, la cavalletta dei prati detta anche dalle ali rosa per il caratteristico
colore nella parte basale delle ali posteriori. Specie polifaga, si nutre a spese di diverse piante,
sia spontanee che coltivate. In talune circostanze può formare aggregati molto numerosi,
potenzialmente dannosi per le colture (novembre 2009, foto Beno).
Chorthippus brunneus sp. (famiglia Acrididae) Locusta lunga circa 2 cm, dal colore molto
variabile che va dal verde al bruno. E’ presente sia in ambienti di pianura che montani, fino ai
pascoli di alta quota. Ha un “canto” particolare: produce una serie di frinii ripetuti ogni due
secondi circa (foto Paolo Rossi).
Locuste sotto la lente
87
Rubriche
fauna alpina
PERIODICO CULTURALE DI VALTELLINA E VALCHIAVENNA
VITA
Il nuovo numero a ottobre in edicola
Dopo il PECCATO e i SOGNI...
la
Testi e foto Alessandra Morgillo
MEMORIA
Arte, musica, fotografia, cinema, sport,
letteratura, astronomia, natura, viaggi,
psicologia, antropologia, collezionismo,
medicina e tanto altro ancora...
88
Le Montagne Divertenti www.seiinvalle.it
Tutti gli specchi d'acqua, dai più belli a quelli che paiono insignificanti pozze d’acqua
stagnante, costituiscono importanti ecosistemi, capaci di offrire prospettive di vita a
numerose specie animali e vegetali tipiche delle zone umide montane.
Autunno 2010
Un girino di rospo corre inconsapevole un serio pericolo poichè nascosta sul fondale, ben mimetizzata dai sedimenti, è in agguato una larva di
(Libellula
depressa)
Vita negli specchi d'acqua montani
Le libellula
Montagne
Divertenti
(laghetto dell'alpe Tagliato, 25 aprile 2009, foto Alessandra Morgillo).
89
Fauna
Rubriche
Rana temporaria in stadio di transizione tra girino e giovane adulto ad Arcoglio (17 agosto 2009, foto Alessandra Morgillo).
C
ome lucenti zaffiri incastonati qua e là nei morbidi
pascoli d’alta quota, i laghetti alpini
impreziosiscono il paesaggio e sono
al contempo delle vere e proprie
sorgenti di vita.
A volte sembrano racchiudere il
cielo e con esso mutare continuamente d’aspetto: da liscio specchio per le vanitose cime assolate
a ricamo di mille increspature che
seguono l’umore del vento.
n altri contesti, invece, sono
gelosamente custoditi dal bosco
e regalano atmosfere uniche grazie
ai giochi di riflessi e alle sfumature pregiate che infonde loro la
fitta vegetazione. Ci sono specchi
d’acqua la cui superficie è un vetro
cristallino che rivela i ciottoli disordinati del fondale, oppure stagni
torbidi su cui galleggiano grovigli di
vegetali.
Tutti comunque, dai più belli
a quelli che paiono insignificanti
pozze d’acqua stagnante, costituiscono importanti ecosistemi, capaci
di offrire prospettive di vita a numerose specie animali e vegetali tipiche
delle zone umide montane.
I
Il segreto degli anfibi
asta sostare per qualche minuto
presso le rive di uno qualsiasi di
B
90
Le Montagne Divertenti questi specchi d’acqua per notare una
gran varietà di forme viventi.
I primi a catturare l’attenzione sono
i numerosi girini che nuotano frenetici
in pochi centimetri di acqua: si tratta
dello stadio larvale di rane e rospi, i più
famosi esponenti degli anfibi. Creature molto particolari, tanto da costituire una delle cinque grandi classi dei
vertebrati (pesci, rettili, anfibi, uccelli,
mammiferi). La loro peculiarità è tutta
nel nome: dal greco amphi = doppio e
bìos = vita, il che significa che, pur non
vivendo due volte, la loro esistenza
riveste due forme, prima quella acquatica e poi quella terrestre. Infatti dalle
uova, deposte in acqua, nascono
erbivori natanti provvisti di coda e di
vere e proprie branchie. Solo dopo
una complessa metamorfosi, forse la
più spettacolare del mondo animale,
la respirazione diviene polmonare
(seppur primitiva, in quanto coadiuvata dalla respirazione cutanea) e si
sviluppano le zampe. Si trasformano
fisiologicamente e morfologicamente
per conquistare la terraferma e nutrirsi
di insetti. Il loro ciclo vitale rievoca
quindi il cruciale step evolutivo dalla
vita acquatica a quella terrestre che
hanno compiuto gli esseri viventi
milioni di anni fa, un passaggio che,
per questi animali, è rimasto incompleto. Non sono riusciti, infatti, a
svincolarsi del tutto dal mezzo acquatico al quale rimangono legati per la
deposizione delle uova e lo sviluppo
delle forme giovanili.
Specie d’alta quota
li anfibi che vivono nel nostro
territorio appartengono a due
distinti gruppi: Anuri (rane, rospi e
raganelle) e Urodeli (salamandre e
tritoni). Nei primi la coda è assente e
gli arti posteriori sono più sviluppati
per saltare e nuotare; salamandre e
tritoni invece possiedono una lunga
coda e gli arti anteriori e posteriori
sono simili. Tra le rane più comuni dell’ambiente alpino vi è la Rana rossa
montana (Rana temporaria). Come
pare sottolineare il suo nome scientifico, il tempo è prezioso per questa
specie, che infatti tra le prime si risveglia dal letargo invernale, anche alle
quote più alte, quando la neve non
è ancora fusa del tutto, ed è in grado
di riprendere le proprie funzioni con
temperature prossime allo zero. Sono
note per l’abitudine di radunarsi in
gran numero per deporre tutte insieme
migliaia di uova in stagni ancora
parzialmente gelati. Questa strategia è
indispensabile per garantire la sopravvivenza di una buona percentuale di
girini, visto che sono completamente
G
Autunno 2010
Rana temporaria femmina saltella nei pascoli a un centinaio di metri dal laghetto d’Arcoglio (11 agosto 2009, foto Alessandra Morgillo).
indifesi e quindi facile bocconcino per
i più svariati predatori. In autunno si
apprestano ad affrontare il gelo invernale sistemandosi sotto il fango del
sottobosco per il lungo letargo.
Fu forse il risveglio
primaverile delle rane
a suggerire agli antichi
greci l’idea che le creature
nascessero dal fango,
un elemento capace di
plasmare la vita stessa.
A
nche il rospo comune (Bufo
bufo) raggiunge quote elevate,
è resistente e la sua pelle è meno delicata di quella delle altre rane, che,
allontanarsi troppo dagli ambienti
umidi, rischierebbero la disidratazione. Questa caratteristica contribuisce tuttavia ad imbruttirne l’aspetto
e, come accade di consueto per gli
animali più “strani”, porta alla nascita
di diverse credenze popolari. Da quelle
più fantasiose, come il famoso bacio
che tramuterebbe il rospo in un principe, a quelle che possiedono una base
parzialmente veritiera, come la pericoLe Montagne Divertenti losa urina che verrebbe spruzzata negli
occhi accecando i malcapitati che si
imbattono in un animale indispettito.
Effettivamente, se si sente minacciato,
un animale lento e goffo come il rospo
ha sviluppato questa singolare strategia
difensiva: rilascia istantaneamente del
liquido così da sorprendere il predatore e guadagnare qualche prezioso
istante per la fuga. Tuttavia questa
sostanza non viene spruzzata e non è
pericolosa trattandosi sostanzialmente
di urea. Ciò che invece può irritare gli
occhi o le mucose è la bufalina, una
sostanza bianca lattiginosa dall’odore
d'aglio, che viene secreta (non spruzzata) dalle ghiandole ai lati del capo
e del dorso solo quando l’animale si
sente in imminente pericolo vitale:
è una estrema difesa che ha lo scopo
di infiammare la bocca del predatore
che si trova quindi costretto a “sputare
il rospo”, il quale, il più delle volte,
riesce a mettersi in salvo ancora integro e sano. Benché questo secreto non
sia pericoloso per la nostra pelle, si
raccomanda di non toccare i rospi o
comunque ricordarsi di lavare le mani
per evitare il contatto con occhi, naso
e bocca.
A
differenza di rane e rospi che
frequentano gli specchi d’acqua
soprattutto in primavera, il tritone,
che si ciba di invertebrati acquatici,
è maggiormente legato all’elemento
liquido e lo abbandona in inverno,
quando, a causa del gelo, è costretto
a rifugiarsi sotto ceppaie, pietre o
nel muschio. Appartiene al gruppo
degli Urodeli, come la salamandra,
ed è confuso spesso con quest’ultima
a causa della lunga coda. Occorre
molta fortuna per imbattersi in questi
animali, in quanto, purtroppo, sono
attualmente in regresso su tutto l’arco
alpino. Due specie sono presenti sulle
nostre montagne: il tritone alpestre
(Triturus alpestris), inconfondibile
quando, sentendosi minacciato, inarca
il tronco per mettere in evidenza la
vivace colorazione ventrale, deterrente
per i potenziali predatori, e il tritone
crestato (Triturus cristatus), chiamato
così per la cresta dorsale che ostenta
il maschio durante il periodo degli
amori.
Vita negli specchi d'acqua montani
91
arte e montagna
Rubriche
I
n giornate piovose autunnali è
invece facile incontrare tra le
foglie del sottobosco la salamandra
pezzata (Salamandra salamandra), dai
tipici colori aposemantici (d’avvertimento) nero-giallo o nero-arancio
che servono a classificarla come inappetibile agli occhi di chi vorrebbe
cacciarla. Il suo corpo lucido, infatti,
è costantemente rivestito da una
mucosa secreta dalle ghiandole cutanee che, oltre a proteggere l’animale
dalla disidratazione, risulta molto
irritante per le mucose di qualsivoglia
predatore avesse l’ardire di assaggiarla.
La salamandra pezzata è tipicamente
ovovivipara, ovvero non depone uova
ma partorisce larve dotate di branchie
e capaci di vita autonoma in torrenti
o specchi d’acqua ben ossigenati.
Tuttavia esiste una specie che mostra
una completa viviparità: la salamandra
alpina (Salamandra atra). Tutta nera,
come indica il suo nome latino, vive
nelle praterie rocciose e negli arbusteti
alto-montani fino a 2800 metri di
quota e ha adottato questo peculiare
adattamento per sopravvivere alle
condizioni estreme dell’alta quota. I
suoi piccoli nascono dopo una gestazione che può durare anche due anni
nel corso dei quali compiono la delicata fase della metamorfosi all’interno
del corpo materno. In questo modo
alla nascita non necessitano di acqua
e ciò consente alla salamandra nera
di vivere fino al limite delle nevi e
tollerare temperature rigide prima di
rifugiarsi sotto il terreno ghiacciato
durante i lunghi mesi invernali.
luoghi frequentati dagli anfibi
possono ritenersi ad elevata
qualità ambientale. Sono animali
molto delicati, tra i primi a risentire
dei cambiamenti climatici e degli
interventi dell’uomo sull’ambiente;
per questo infatti, moltissime specie
sono a rischio di estinzione. La loro
pelle sottile è così sensibile che può
subire gravi danni se l’acqua in cui
vivono presenta sostanze inquinanti
e in generale la minaccia più grande
rimane legata alla riduzione degli
ambienti umidi a cui sono indissolubilmente vincolati. Ogni raccolta d’acqua, dunque, può essere un prezioso
scrigno di biodiversità da salvaguardare.
Cipriano Valorsa:
il raffaello grosino
Gioia Zenoni
Il tritone crestato nuota lentamente sotto il pelo dell’acqua emergendo di tanto in tanto per
respirare (23 maggio 2010, foto Alessandra Morgillo) e Salamandra atra a Prabello (luglio
1991, foto Antonio Boscacci).
I
92
Le Montagne Divertenti Salamandra pezzata nel canyon (maggio 2010, foto Pascal van Duin).
Chiuro, Portico dei Disciplini, dettaglio dell'affresco con Santa Marta e i disciplini (28 luglio
2010, foto Beno).
Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Cipriano Valorsa - parte I
93
Arte e montagna
Rubriche
Il Raffaello grosino.
E’ una definizione un
po’ altisonante, quella
convenzionalmente
attribuita al pittore
Cipriano Valorsa.
verso l’autoflagellazione; continuano
ad essere presenti le figure mostruose,
di sapore un po’ medievale, che incarnano l’errore, il peccato, il malvagio.
Per contro, la pacata serenità dei volti
della Vergine e dei santi assurti alle
sfere celesti rassicurano sulla sorte
ultraterrena di chi conduce una vita
pia nel pieno rispetto della comunità
cattolica.
Non manca un amore per i dettagli,
specialmente nei sontuosi costumi dei
committenti, delle autorità ecclesiastiche e delle famiglie nobili, qualora
trovino spazio nella raffigurazione:
tutto ciò concorre a creare uno spaccato della società dell’epoca, della
mentalità e delle istituzioni.
Ed è senza dubbio eccessiva se
riferita alla qualità e all’intuizione
artistica del pittore che ha firmato le
più importanti opere valtellinesi nella
seconda metà del XVI secolo: il paragone va piuttosto colto nell’ottica del
rapporto fra artista e committenza - a
lui è, infatti, accordata la preferenza
delle istituzioni religiose - e del grande
riconoscimento ottenuto già in vita
e mai mancato dopo la riscoperta
critica delle sue opere da parte dello
storico valtellinese Francesco Saverio
Quadrio attorno alla metà del ‘7001.
Ma cos’è che ha reso questo artista così apprezzato, da far sì che per
un lungo periodo le parrocchie e
le confraternite di mezza Valtellina
volessero solo la sua firma per la decorazione dei propri edifici? Basta ammirare qualcuno dei suoi affreschi per
capirlo: se da un lato un osservatore
attento noterà la precisa riproposizione di modelli pittorici ampiamente
diffusi in area lombarda, segno questo
della piena adesione del pittore alla
temperie artistica dell’epoca, dall’altro
non mancherà di essere colpito dalla
misura e dalla grazia con cui sono
trattati i soggetti, non per questo privi
di forza espressiva.
Se anche è stata osservata una certa
disomogeneità fatta di alti e bassi
nel corso della produzione, facilmente dovuti alla diversa maestria
degli aiutanti reperiti sul posto, si
può a ragione affermare che la cifra
distintiva del Valorsa è proprio
quell’eleganza, che, forse, ha suggerito l’accostamento con la soavità
tipica del meritatamente ben più noto
Raffaello.
La capacità del grosino di rielaborare i cartoni dei grandi pittori
che operarono sul Lario e in Valtellina (Bernardino Luini, Gaudenzio
Ferrari, Sigismondo De Magistris,
Fermo Stella) con un linguaggio
immediato ed estetico – osservano
gli studiosi – rivela un istinto artistico che avrebbe potuto crescere e
portare a risultati ben più ambiziosi,
se solo il pittore avesse avuto modo
di continuare la sua formazione fuori
dalla valle, a diretto contatto con le
tendenze pittoriche peninsulari in
continua evoluzione.
Cipriano, la cui biografia è nota
dal testamento scoperto e pubblicato
una quarantina d’anni fa2, resta invece
saldamente attaccato alle sue radici
per una precisa scelta di vita, quella di
dedicare la sua opera al Signore e alla
sua comunità, come testimonierebbero il grande fervore religioso con cui
aderì alla confraternita dei disciplini3
e l’impegno civile che lo spinse ad
accettare più volte la carica di decano.
Anche l’attardamento stilistico e la
1 - Fra i diversi studi, si ricordano in questa sede
solo i lavori più recenti: S. Coppa, I dipinti e le
sculture, in G. Antonioli, G. Galletti, S. Coppa, La
chiesa di San Giorgio a Grosio, Sondrio 1985; C.
D’Adda, Cipriano Valorsa e la cultura storico-artistica lombarda del XVI secolo, in Notiziario della
Banca Popolare di Sondrio, n. 70, aprile 1996; M.
Paini, N. Pozzi (a cura di), Cipriano Valorsa. Grosio
1515-1604, Villa di Tirano 2003.
2 - T. Salice, Il testamento di C. Valorsa, in
Bollettino della Società Storica Valtellinese, n. 23,
1970, pp. 51-58.
3 - Confraternita laica, i cui membri sono
riconoscibili nelle raffigurazioni perché indossano
una tunica bianca con un cappuccio che, coprendo
viso e indumenti, annulla ogni distinzione sociale
fra i membri in riunione
94
Le Montagne Divertenti Chiuro, Portico dei Disciplini. Santa Marta protettrice dei disciplini di Chiuro.
A fianco: le volte a crociera con i quattro evangelisti e i puttini che reggono i simboli della
passione (28 luglio 2010, foto Beno).
costante reiterazione degli schemi
sono stati interpretati come consapevole espressione di conservatorismo
religioso nel movimentato contesto
culturale della Valtellina del Cinquecento, segnata dalla ferma risposta
cattolica della cosiddetta Controriforma al dilagare del protestantesimo.
Un secolo di diffidenza, attriti e oscurantismo intercorre fra l’avvio dell’occupazione grigiona (1512) e lo sfociare
delle ostilità contro lo straniero e la
sua religione nel drammatico episodio
del Sacro Macello (1620): la pittura
del Valorsa incarna pienamente lo
spirito dell’epoca e di una terra di
frontiera, che vede nell’attaccamento
ai valori tradizionali la possibilità di
sopravvivere al turbinio della storia.
Così, prevalgono i temi strettamente
tradizionali e quelli emblematici dei
dogmi cattolici messi in discussione
dal luteranesimo: per questo motivo
risultano centrali la Madonna e i santi
che possono intercedere per la salvezza
delle anime. Dominano le composizioni figure austere di santi che richiamano le coscienze alla preghiera e alla
penitenza, ricorrono con una certa
frequenza inquietanti figure incappucciate che ricordano le consuete
pratiche della mortificazione attraAutunno 2010
Le raffigurazioni del
Valorsa ci permettono
di fare un tuffo nella
Valtellina dei fieri borghi
cinquecenteschi e offrono
uno spunto per meditare
su cosa significhi, ancora
oggi, essere una terra di
passaggio, cosa cogliere
dei nuovi apporti culturali
e cosa invece tutelare del
patrimonio tradizionale,
nell’ottica di una vita in
comunità che continua ad
essere l’elemento fondante
di un territorio dal
popolamento organizzato
in piccoli centri rurali.
Le opere del Valorsa sono ospitate
negli edifici sacri di diversi paesi della
media e alta Valtellina4, che costituiscono la meta ideale di piacevoli
passeggiate nei weekend autunnali
ed invernali: vi proponiamo quindi,
in questo e nel prossimo numero,
due percorsi alla ricerca di alcuni
degli affreschi e delle tele del pittore
grosino. Il primo itinerario, ideale da
compiere in bicicletta sfruttando il
sentiero Valtellina, tocca il comprensorio di Ponte, Chiuro, Teglio e
4 - Un elenco delle opere certe è consultabile sul
sito: http://www.scuolegrosio.it/progetti/valorsa/
opera.htm
Le Montagne Divertenti Cipriano Valorsa - parte I
95
Rubriche
Arte e montagna
Bianzone; meta di un’ulteriore gita,
o meglio punto di sosta al ritorno
da un’ascensione sulle Orobie può
essere la chiesa di S. Agostino ad
Agneda, che conserva una Madonna
col Bambino all’interno dell’ancona
lignea collocata dietro l’altare.
Portico dei Disciplini a
Chiuro
A sinistra della Chiesa parrocchiale
dei SS. Andrea e Giacomo5, nel cuore
del centro storico di Chiuro, si trova
il piccolo e grazioso portico che oggi
dà accesso alla canonica e che un
tempo era annesso al cimitero dei
membri della confraternita, come
confermano l’iscrizione dedicatoria e
la raffigurazione dei disciplini stretti
attorno alla loro protettrice Santa
Marta, disposte entrambe sulla parete
di fondo. Il portico ha subito numerosi rifacimenti nel corso del tempo
e il ciclo pittorico6 è quindi limitato
alle porzioni di muro sopravvissute e
alla volta a crociera, di cui restano due
campate. Sopra il primo arco è raffigurata l’Annunciazione; i due sottarchi
recano dei tondi con le raffigurazioni
di santi e profeti. All’interno del
portico, nelle lunette sottostanti gli
archi si susseguono la deposizione e
la resurrezione di Cristo, mentre sulla
parete di sinistra è
5 - Anche la decorazione della lunetta sovrastante
il portale d’accesso al sagrato della chiesa, una Pietà
accompagnata dai SS. Andrea e Giacomo sembra
opera del Valorsa, ma mancano fonti dirette che ne
comprovino l’attribuzione.
6 - Portato a compimento nel 1591, come ricorda
un’altra iscrizione che conferma, inoltre,
l’intervento del Valorsa.
Sazzo, tela con crocifissione.
Sazzo, parrocchiale di S. Luigi.
narrato il miracolo di Gesù che resuscita il figlio della vedova di Naim.
Sulla volta, la prima campata reca
la raffigurazione di un evangelista
in ogni vela, mentre nella seconda
campata si trovano quattro coppie
di putti che mostrano i simboli della
passione di Cristo. Non mancano le
autorità ecclesiastiche, raffigurate con
dovizia di particolari in due tondi che
colmano gli spazi lasciati vuoti dalle
raffigurazioni principali.
Chiesa parrocchiale di S.
Luigi a Sazzo (Ponte)
In una cappella della bella chiesa
seicentesca di Sazzo, sopra il fonte
battesimale si trova una tela dipinta
ad olio dal Valorsa nel 1596. Due
momenti salienti della vita di Cristo
sono raffigurati in due registri: in
quello inferiore, il Battesimo
nel fiume Giordano è
accompagnato
ai
lati da S. Francesco che
riceve le
stig-
mate e da S. Maurizio con il labaro;
in quello superiore una Gerusalemme
idealizzata fa da sfondo alla Crocifissione. Attorno a Gesù, la Madonna,
Maria Maddalena e S. Giovanni; ai
lati i due ladroni con la rappresentazione delle loro anime sorrette da un
angelo e da un diavolo.
Boalzo, chiesa e oratorio di S. Abbondio (28 luglio 2010, foto Beno).
Bianzone, chiesa di S. Siro (25 luglio 2010, foto Beno).
Boalzo, oratorio di S. Abbondio: Madonna con Bambino e i SS. Rocco e Sebastiano.
Bianzone, chiesa di S. Siro. Cappella di S. Pietro.
Oratorio di S. Abbondio a
Boalzo (Bianzone)
Su un poggio panoramico circondato da vigneti, di fianco all’omonima
chiesa, si erge un piccolo edificio
sul cui muro di fondo, nel 1563, il
Valorsa dipinse una Madonna in
trono col Bambino, affiancata dai SS.
Rocco (con il mantello, la bisaccia
e il bastone da pellegrino e la piaga
della peste sulla gamba) e Sebastiano
(trafitto da frecce). Lo schema compositivo di questo soggetto, racchiuso da
un’evanescente architettura dipinta,
ricorre nella coeva chiesa in località Bratta; i delicati lineamenti dei
personaggi e i colori accesi delle loro
vesti sono tornati a nuova vita dopo i
recenti interventi di restauro.
Chiesa di S. Siro a Bianzone
Il superbo complesso di S. Siro è
un vero e proprio scrigno delle opere
del Valorsa: oltre a due cappelle affrescate, la chiesa racchiude due grandi
ante lignee dipinte a tempera (con
gli apostoli e i dottori della Chiesa),
mentre nell’attiguo oratorio di
S. Pietro è esposto un dittico
ligneo intagliato e dorato,
dipinto con le raffigurazioni dei SS: Agostino
e Bernardo. La confraternita dei disciplini
ha commissionato,
per la nicchia semicircolare
della
cappella di S.
Pietro martire,
Bratta,
dei SS. Bernardo
e Antonio:
Le Montagne
Divertenti
Madonna con Bambino e i SS. Rocco e Sebastiano (21 febbraio 2010).
96 chiesa
Autunno 2010
un ciclo con le scene della passione
di Gesù: fra la presentazione alla folla
da parte di un Pilato dal costume
arabeggiante, la coronazione con
le spine e la flagellazione, al centro
Cristo porta la croce attorniato dai
SS. Pietro e Rocco, assistito dai disciplini in preghiera e sovrastato da una
Madonna col Bambino in un tondo
di nuvolette. Nei rimanenti spazi,
trovano posto santi e profeti. La
cappella di S. Orsola (poi dei Martiri)
è stata affrescata, grazie all’impegno
della famiglia Besta, con figure di
santi e vescovi.
Le Montagne Divertenti Chiesa dei SS. Bernardo e
Antonio a Bratta (Bianzone)
In località Bratta, fra le poche
case per lo più abbandonate, spicca
il campanile di una piccola chiesa
cinquecentesca. La sua facciata, preceduta da un portico a due colonne,
doveva essere interamente ricoperta
da un affresco, diviso in più registri
compositivi, che oggi si conserva
solo nella porzione meridionale del
muro. Sopra la porta d’ingresso è
dipinta una Pietà con Cristo sorretto
dalla madre e da Maria Maddalena.
Circonda il suo capo la data di realiz-
zazione dell’opera (1563). A destra,
sulla parte superiore della parete in
cui è stata successivamente ricavata
una finestra, si conservano i resti
della rappresentazione della Madonna
con il Bambino e con i SS. Rocco e
Sebastiano. Malgrado le asportazioni, il buono stato di conservazione
della superficie pittorica permette di
cogliere una raffigurazione più matura
e attenta ai dettagli rispetto all’affresco
dell’oratorio di Boalzo, di cui condivide il modello d’ispirazione.
Cipriano Valorsa - parte I
97
Rubriche
RimA
e prosa in dialetto
fotografia
I tramonti in montagna
Camp...
Testi e foto Roberto Moiola
Giovanni Bolognini
Ansè sü a la “Cruséta de Camp1”. Su tütt ross, südat e da moschi e müschìn che ne corr adrèe,
trovi miga scamp...
Me fermi a la funtàna longa, quela di vachi e
ne bevi ‘n tracc':
“Ancöo ufrìsi mì!” ghe disi.
Pö me resenti giö ‘l müs. “Brrr... se l’é gelda!”
Dal ruzzach tiri fö ‘l telefunin. Vöoli ciamà cà!
“Vaca lögia! Ancöo gh’é miga camp...”
“ ‘Stu gàfen el ciàpa miga!”
Sü üna di tanti sacòci del ruzzàch al me scapa là
l’öcc, su n’etichéta biànca, an ross gh’é scritt, Camp... “Ma varda!”
“Chi söta al stalòn, ‘na volta, gh’éra an camp
de slavàzzi, cui föi verdi-verdi e grandi.
Adess ghe n’è noma ‘n rünchétt!”
An sè olsa sü finu al sentèe de Càmpudula,
pö, a l’ümbria di pin e int ‘na smagia de füngg
ross-ross an taja fö vers Camp de Pesc.
“Ancöo gh’é ‘n gir tropa rüfàna e poch füng!”
Alùra ‘n và là in Urtighèra.
A mesdì an se senta giö ‘nde l’erba che la spüngg.
Gh’é ‘n gir nigün, en maja an bucùn,
ansé varda atùren...
Al Combul, al Denc del Coca, al Denc del Diaul... “I Denc de la Vegia”...
“Quanc denc!” pensi e bevi an sors de ross... “Vinesa!” L’à mes’ciàt cun l’acqua:
-“ ’Nsedenò se camina pù!” La ne fà! Quant levi sü me scapa:
-“ Ma seca gh’è pusèe bell de la muntàgna?”
Speci miga la risposta… La su già!
E m’envii sü pian-pianìn vers al “Doss Majù”
Quant an sè sbasa, pö, a cercà ‘l sentèe,
an truà i crap:
-“Chi s’gh’à de fà atenziòn ‘ndua se mett i pèe!
Chi gh’é miga tant de dì sù cüméla.
Vuréss miga truàss fò drizz a
l’otru Camp...”
-“ Qual?” I me fà.
I
-“ Fö al Camp dela camamèla!”
tramonti alpini non sono come quelli che si ammirano al mare o nei classici scatti della
savana, ma non per questo sono meno spettacolari e, anzi, per ritrarne tutta l'intrigata
magia si rischia di rimanere incollati al pulsante di scatto della fotocamera fino ad
averne esaurito la scheda di memoria. Se però ne capiamo le dinamiche, scopriremo
anche i trucchi per realizzare scatti di pregevole fattura.
1 - L'alpeggio di Campo si trova a m 1700 sopra Ponte in Valtellina, circa 1 ora e mezza di cammino da San Bernardo.
98
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Anemone
in Valgerola
(30 maggio
2009).
Le Montagne
Divertenti
L'arte della fotografia
99
Il monte Berlinghera si specchia nel lago di Mezzola (27 ottobre 2007, foto Josef Ruffoni).
L
a linea dell’orizzonte in montagna è assai differente
da quella della pianura. Il profilo delle montagne
infatti nasconde la magica palla rossa del sole nel momento
in cui questa si nasconde dietro la terra, perciò una foto di
tramonto in montagna non può prescindere dalla presenza
di alcune nuvole nel cielo che rimpiazzano l'assenza
dell'astro.
a cerchiamo di capire come e quando un buon
tramonto si può verificare. La luce solare, o luce
bianca, presenta una gamma di colori che vanno dagli infrarossi agli ultravioletti, ognuno è composto da una diversa
lunghezza d’onda. L’interazione della luce con l’atmosfera
fa sì che essa venga deviata a seconda della composizione
chimica dell’aria (molecole e piccole particelle). Quando la
luce è incidente viene facilmente diffusa dall’atmosfera con
una serie di rifrazioni, riflessioni e diffrazioni. La componente blu (che contiene minor lunghezza d’onda) è quella
che viene più facilmente deviata “al mittente” da queste
particelle, e ciò spiega la colorazione del cielo. La componente rossa (con maggior lunghezza d’onda) riesce, per
così dire, a scavalcare questo ostacolo causato dalle particelle presenti nell’ aria, non abbastanza grosse da riuscire
M
100
Le Montagne Divertenti a fermarne il tragitto. Si sono già visti anche cieli di
color rosso, ma solo in presenza di grandi particelle capaci
di deviare la componente rossa: è capitato in passato con
eruzioni vulcaniche in regioni molto lontane dalle nostre
latitudini.
l sole normalmente appare giallo perché la componente blu viene rimossa dai raggi diretti. Quando il
sole è vicino all’orizzonte i raggi devono attraversare uno
strato maggiore di atmosfera, viene tralasciata quindi la
componente blu a favore di quella rossa.
L’effetto rosso risulta ancor più amplificato in presenza
di atmosfera sgombra da qualsiasi impedimento: pulviscoli di vapore acqueo, afa e ogni genere di inquinamento
industriale. La condizione ideale la si ha con vento da nord
(foehn).
Se il favonio è elemento meteorologico prevedibile, è
invece il fattore fortuna a regalare nuvole dalle forme originali al momento giusto.
L’intensità nella saturazione delle nuvole è proporzionale
alla loro altitudine nel cielo. La presenza di cirri o di un
cielo a pecorelle è la spia che anticipa un gran finale di
giornata.
I
Autunno 2010
Enrosadire sul gruppo delle Odle (Dolominti, 5 giugno 2010).
Le Montagne Divertenti L'arte della fotografia
101
Rubriche
Tramonto favonico all'alpe Granda (6 dicembre 2003).
Importante è inoltre la scelta del luogo; io amo ad esempio rimanere in posizione il più possibile elevata e distante
dal fondovalle. Pernottando in un rifugio tra le montagne
si ha infatti una situazione migliore rispetto ad un paese
con i disturbi luminosi ed inquinamenti vari.
Un buon consiglio è quello di porsi di fronte ad un
laghetto. La superfice riflettente, fungendo da specchio,
ed il colore argenteo dell’acqua esaltano al meglio le luci
all’orizzonte. Un’altra buona idea è tenere il rifugio in
primo piano, con le luci appena accese che fuoriescono
dalla finestra e creano un forte contrasto con l’ultimo
bagliore crepuscolare.
nalizzando gli aspetti di natura tecnica, ci si deve
innanzitutto dotare di un treppiede che regga senza
troppe vibrazioni il peso della fotocamera: è fuor di dubbio
che ci troveremo sempre in condizioni di luminosità non
sufficiente a poter scattare completamente a mano libera.
Per evitare indesiderate fotografie con effetti di micromosso
possiamo impostare l’autoscatto ed in caso di vento anche
la funzione del blocco dello specchio, opportunamente
celato tra le funzioni speciali della fotocamera. Alziamo
il valore di sensibilità (ISO) solo se veramente necessario,
il valore di apertura del diaframma dovrebbe essere il più
A
102
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti possibile impostato al numero “f ” al quale l’obiettivo fotografico lavora al meglio secondo le recensioni degli esperti.
In condizioni di scarsa luce evitiamo di chiudere troppo
il diaframma perché possono scaturire, a seconda della
qualità della lente, forti imprecisioni dovute ad aberrazione
cromatica e vignettatura.
Quando il sole è già sceso sotto la linea dell’orizzonte è
inutile, talvolta dannoso, l’utilizzo di filtri come, ad esempio, il polarizzatore.
Per esaltare meglio colori e contrasto nella scena è
bene sottoesporre con l’apposito comando di correzione
dell’esposizione: più forte sarà la sottoesposizione e più ci
troveremo di fronte a gradevoli silhouettes.
E' una buona tecnica disporre qualche persona in
controluce per ottenere scatti di grande impatto emotivo.
Prima che le nuvole assumano il massimo della colorazione possiamo dedicarci ad inquadrare le pareti delle
montagne caratterizzate da forti contrasti, talvolta delle
inquadrature molto spinte ci regalano scatti impensabili,
tagli originali grazie al teleobiettivo. Molto interessante è
infine anche la colorazione che assume la superficie di un
ghiacciaio.
L'arte della fotografia
103
le
foto dei lettori
Rubriche
1
La graziosa chiesetta di Susen tra i mucchi e la luce del tramonto. La località di Susen è situata sopra Vervio, a m 1500, in Alta Valtellina
(23 novembre 2009, foto Giacomo Meneghello). Attrezzatura utilizzata: Canon EOS 450D. Parametri foto: 1/250s f/9.0 ISO800 18mm di focale.
D
ue sezioni dedicate ai nostri lettori: una che premia il fotografo più bravo, l’altra che mostra
la fantasia di chi ha portato “Le Montagne Divertenti” a spasso per il mondo (la foto deve
avere anche un soggetto umano, la rivista e uno scorcio del luogo!).
Le foto giunte a [email protected] sono state tantissime, per cui, nonostante sia stata ampliata
la sezione, qualcuno vedrà la propria pubblicata solo sul prossimo numero.
P
er ogni numero de “Le Montagne Divertenti” sceglieremo e premieremo la foto migliore
fra quelle ambientate sulle nostre montagne (inviare il materiale a [email protected]) e la
pubblicheremo con una recensione dettagliata e la scheda di presentazione del fotografo.
Se questa sarà a taglio verticale e con soggetto autunnale potrà essere scelta con l'ultima di
copertina del prossimo numero! Lo scatto migliore fra quelli giunti negli ultimi 3 mesi è quello di:
il fotografo
M
i chiamo Giacomo Meneghello, ho
28 anni, sono nato in provincia di
Verona, ma vivo a Sondalo. La montagna,
assieme alla fotografia, posso dire di averla
iniziata a conoscere veramente solo da un
anno, ma da allora è stato un continuo
crescendo. La montagna nasconde situazioni e sensazioni bellissime e la fotografia
è la mia opportunità di condividerle con
chi non le ha vissute. Credo che a volte la
natura regali delle emozioni uniche per chi
le sa vivere, credo che a volte possa bastare
un tramonto per scaldare il cuore di una
persona e spero che a volte possa bastare
una fotografia per non farcelo dimenticare.
104
Le Montagne Divertenti 3
recensione di sysa
L
’ autunno è il momento più bello per realizzare scatti con la
luce del tramonto. Il colore giallo dell’erba si infiamma con
la luce calda degli ultimi raggi del sole nel momento in cui esso
scompare dietro l’orizzonte.
l taglio scelto da Giacomo è molto interessante, con la chiesa
tenuta in disparte e con i covoni di fieno quasi in primo piano,
ad aggiungere un tocco di interesse all’immagine. Sicuramente è
stata la tenacia del fotografo nell’aspettare fino all’ultimo a permettergli di realizzare uno scatto così grandioso, di forte impatto
visivo ma allo stesso tempo melanconico.
La chiesetta di Susen sopra Vervio, a m 1500 di quota, è una delle
tante chiesette valtellinesi che ben si prestano ad essere fotografate.
A noi il compito di scovarle e mostrarle in tutta la loro bellezza.
I
2
4
1) Immersione all'isola Zabargad nel Mar Rosso. L'isola si trova nel sud dell'Egitto, quasi al confine con il Sudan
(14 aprile 2010, foto Vittorio Mitta).
2) Bruna Sarotti con la sua amica Graziella sul vulcano Stromboli il (26 aprile 2010).
3) Paul, Francesca, Karin, Anna, Helga e Harald sullo Squaw Peak (Phenix, Arizona, maggio 2010).
4) Rocco Del Nero e l'amico kosovaro Nehat nella periferia della città di Mitrovica (maggio 2010).
Autunno 2010
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5) Il CAI Berbenno alle isole Eolie (aprile 2010).
6) Sosta per piedi fumanti dei nordic walkers nelle rosee acque del lago salato Tuz Golü (Turchia, 26 maggio 2010).
7) Viviana Castellini e Stefano Vecchi alla alla partenza della Streif a Kitzbuhel. Sullo sfondo la cima con ricevitore
"Kitzbuheler Horn" (13 luglio 2010).
8) Valli Aldo, Patrizia, Alessandro e Nicole a Marsa Alam, Egitto (giugno 2010).
9) Franco Vaninetti e Elisabetta Saligari all'isola Vulcano nelle Eolie (aprile 2010).
10) Eccezionale incontro dei N.W. nostrani con il Bonomi turco al Galata Bridge, sul Bosforo - Istambul (Turchia, 6 giugno 2010).
10 A) Negrini Filippo e Bricalli Fabio alla Bocchetta Roma (4 agosto 2010).
11) Dialogo interreligioso con il Mufti di Ekaterinburg (Eliana e Nemo Canetta, Russia, luglio 2010).
12) Gaia ai piedi del ghiacciaio del Ventina (14 luglio 2010).
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13) Gruppo di buiatei, fedeli lettori di LMD, in visita alle Cinque Terre (Vernazza, 2 maggio 2010).
14) Tita e Guata al passo del Barbacan (11 luglio 2010).
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Le Montagne Divertenti Autunno 2010
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15) Luciana Bosio a Porto Santo (Madeira, 9 maggio 2010).
16) Eleonora, Silvia e Alessandro durante la gita Savogno-Dasile (17 maggio 2010, foto Giacomo Berra).
17) Sara e Sergio alla capanna Tschierva (val Roseg - Svizzera) ringraziano Pia ed Ermanno per la collaborazione all'impresa (luglio 2010)
18) Castello di Edinburgo: Pierangela e Gianfranco Roda con gli amici Giuseppe e Emilia.
19) Molinari Ferruccio in attesa della partenza della 34^ maratona di Parigi (11 aprile 2010).
Le Montagne Divertenti Le
Lefoto
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n.
Giochi
de
on
i
Ma ch'el?
so
lu
zi
vinti
l
Rubriche
Vincitori e
ma ch'el?
ma 'n gh'el?
L’utensile misterioso, fotografato da Gianfranco Lalli, è
una macchina orlatrice manuale, usata per confezionare e
ricaricare in casa le cartucce per fucili da caccia. Dopo aver
riempito la cartuccia di polvere da sparo e pallini in dosi
rigorosamente prestabilite, veniva messo un cartoncino
come tappo, dopodiché la cartuccia veniva posizionata in
orizzontale nella macchina orlatrice.
La manovella di destra si teneva tirata per dare pressione
e la sinistra si faceva girare creando un orlo nella cartuccia
che sigillava la chiusura.
L’edificio ritratto da Kim Sommerschield sul n.13 de "Le
Montagne Divertenti" è la facciata della ex scuola “I.P.S.
officine e cantiere” di Chiavenna situata all’incrocio tra via
Gian Giacomo Macolino e via Francesco Novi.
I vincitori sono stati:
1) Jonni Molinari di Busteggia
2) Bianca Fiorina di Bianzone
3) Ivano Contrio di Albosaggia
4) Franco Parolini di Lanzada
5) Morena Marchetti di Piateda
Sei pratico di cose strane?
Eccoti un oggetto misterioso.
Dimmi di che cosa si tratta e come
veniva utilizzato.
I 2 più veloci dalle ore 20:00 del
25 settembre 2010 vinceranno
l’esclusiva maglietta de “Le
Montagne Divertenti / Waltellina”,
il 3° classificato ricevera' una
fascetta de "Le Montagne Divertenti
/ Waltellina.it ", il 4° e il 5°
I vincitori sono stati:
1) Bruno Mortocchi di Prosto
2) Sergio Proh di Mossini
3) Cristina Luzzi di Paniga
4) Lina Bordoni di Mossini
5) Alan Muscetti di Sondalo
un libro a sua scelta tra quelli
disponibili su
www.lemontagnedivertenti.com/libri
Hanno inoltre indovinato la soluzione: Andrea Farovini, Valentino Grossi, Felice Bassola, Giovanna Vitalini,
Giovanna e Gloria Soragni.
Hanno inoltre indovinato: Adriano Maffi, Leonardo e Matilde
Giacomini, Stefano Crapella, Mirco Gastaldini, Mirko Pedroli,
Enrico Cometti, Giuseppe Torchiana, Siro Buzzetti e Chiara
Battisti.
Manda
le tue risposte a:
[email protected]
oggetto della mail: “ma ch'el?”
Ricordati di specificare il tuo
indirizzo e la tua taglia.
Ma che scimma i-è?
Se
sei un attento osservatore, indovina quali sono le 2 cime principali
che ritrae questa foto realizzata dalla cima di R osso.
Il più veloce dalle ore 20:00 del 25 settembre 2010 vincerà la foto
(40x60cm in pregevole cornice di legno artigianale). Il 2° e il 3°
classificato avranno
l’esclusiva fascetta
de “Le Montagne
Divertenti /
Waltellina”, il 4° e
il 5° un libro a sua
scelta tra quelli
disponibili su
www.lemontagnedivertenti.com/libri
Manda
le tue
risposte a
[email protected]
oggetto della mail:
“Ma che scimma i-è?”.
ATTENZIONE: LE RISPOSTE DATE IN ANTICIPO O ALL'INDIRIZZO SBAGLIATO VERRANNO RITENUTE NULLE
110
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Giochi
111
Rubriche
lE RICETTE
DELLA NONNA
Rosa canina
una marmellata squisita
Mario Pagni
V
La rosa canina è una specie spontanea che si trova diffusamente nei paesi di montagna.
La maturazione dei suoi frutti avviene nel periodo
autunnale, tra la fine di settembre e gli inizi d’ottobre, ed è
evidente quando cominciano ad assumere un colore rosso
acceso.
Per le proprietà tonificanti, astringenti e antinfiammatorie, il consumo di marmellata di rosa canina è particolarmente indicato per affrontare a piene forze la stagione
invernale. Il frutto della rosa canina è inoltre ben conosciuto per il suo altissimo contenuto di vitamina C.
INGREDIENTI PER la marmellata di rosa canina
- 1 kg di frutti di rosa canina
- acqua q.b.
- eventualmente 1 o 2 mele
- 1 kg di zucchero
preparazione
Una volta colti i frutti maturi della rosa canina è bene
privarli dei semi, incidendoli col pollice, un cucchiaino o
con lo strumento che si ritiene più idoneo.
Questa operazione, che richiede pazienza infinita e
molto, molto tempo, risulterà utilissima nella successiva
fase di passatura.
Porre i frutti privi di semi in una pentola e riempire
d’acqua fino al loro totale galleggiamento. Se si vuole
produrre più marmellata, aggiungere opzionalmente una o
112
Le Montagne Divertenti Frutto di rosa canina (27 settembre 2006, foto Beno).
due mele per ogni chilo di prodotto, sbucciate, private di
torsolo e ridotte a pezzettini.
Far cuocere per un’ora e mezza mescolando di tanto in
tanto. Passare col passatutto prima e con un setaccio poi,
per garantire la totale privazione dei semi residui e della
buccia. La resa finale è di circa il 50%.
Porre nuovamente nella pentola e aggiungere un chilo di
zucchero per ogni chilo di frutta. Cuocere per 3 o 4 minuti
fino a quando il tutto risulta ben amalgamato. Mettere in
vasi sterilizzati a tenuta ermetica.
La marmellata può essere consumata non appena si sia
raffreddata.
Autunno 2010
“ Io non vado in giro a ricercare diamanti,
ma ricerco diamanti per poter andare in giro.”
114
Alfonso Vinci (alpinista ed esploratore)
Le Montagne Divertenti Autunno 2010
Le Montagne Divertenti Ricette
115