Umanesimo e Rinascimento - UNITER

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Umanesimo e Rinascimento - UNITER
UNI TER – Arese
Appunti di storia dell’Arte
di
Maria Garbini Fustinoni
per i partecipanti al corso su
Umanesimo e Rinascimento
Pag. 2……………………..Umanesimo e Rinascimento
Pag. 9…….….Il volto nuovo delle città del XV secolo
Pag. 13……………………..………………La prospettiva
Pag. 15…………..…………..La scultura nel XV secolo
Pag. 23………..…………..L’architettura nel XV secolo
Pag. 34…………………………La pittura nel XV secolo
Pag. 39………………………………...…………Masaccio
Pag. 48……………………………Piero della Francesca
Pag. 56………………………………….Sandro Botticelli
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UMANESIMO E RINASCIMENTO
Il RINASCIMENTO, uno dei periodi culturalmente più ricchi nella storia del pensiero
occidentale, durante il quale maturano parecchie novità, si concretizzano ed
affermano alcuni concetti già presenti nel Medioevo, è un fenomeno tipicamente
italiano.
1- L'Italia, per la sua posizione al centro del Mediterraneo (che favorisce i commerci
tra l'Oriente e l'Europa centrale), per la spinta ideale che naturalmente le viene dal
fatto di essere la sede della Chiesa e della religione cattolica, con tutta la tradizione
di cultura e filosofia che ciò porta con sé, precede l'Europa sul piano dello sviluppo
economico e sociale. Dopo la metà del 1500, con l'intensificarsi dei rapporti con
l'America, da poco scoperta, l'asse geopolitico si sposterà verso i paesi che si
affacciano sull'Atlantico: Spagna, Olanda, Inghilterra. Ma per ora l'Italia continua a
godere i frutti della sua politica culturale ed economica. Qui erano nate le prime
banche, che avevano finanziato le crociate (promosse per la liberazione dei luoghi
santi, ma che erano risultate estremamente importanti per il controllo delle vie di
comunicazione e di commercio con l'Estremo Oriente) e che avevano offerto
l'occasione per farsi avanti alle città mercantili italiane ed alle repubbliche marinare.
Qui gli imprenditori italiani che si erano occupati della organizzazione dei trasporti,
del commercio delle merci importate, della lavorazione delle merci grezze e della
esportazione del manufatto finito, si erano arricchiti ed erano pronti alla scalata
politica.
2- È un momento magico per l'arte e per la moda.
L'alta moda, la moda-arte, è un fenomeno di sempre, ma diviene importante
nell'Umanesimo e nel Rinascimento, quando l'artista ne diventa testimone,
promotore e creatore in opere in cui al ritratto astratto del Medioevo succede una
rappresentazione naturale, reale, anche se idealizzata, dell'uomo.
3- Ha caratteristiche simili a quelle del nostro secolo (soprattutto della seconda metà
del nostro secolo), sia dal punto di vista culturale che da quello economico e
sociale. Il nostro è infatti uno dei secoli più neri nella storia dell'umanità (due guerre
mondiali, il nazismo, vari genocidi, la carestia e la fame in vaste zone dell'Africa), ma
è anche uno dei più ricchi. Si stanno riscoprendo l'uomo con i suoi diritti, la
democrazia, l'ecologia...
Umanesimo e Rinascimento abbracciano il periodo culturale che va dal 1380 circa al
1580.
È un periodo culturalmente unitario e, benché i due termini "umanistico" e
"rinascimentale" esprimano caratteri diversi, il Rinascimento è il complemento,
l'evoluzione naturale dell'Umanesimo, che a sua volta non è una rivoluzione,
un'improvvisa reazione al Medioevo, ma il punto di arrivo di un processo evolutivo di
laicizzazione della cultura che si caratterizza con un ritorno ideale all'antichità
classica, riscoperta attraverso lo studio dei testi greci e latini e delle opere classiche,
soprattutto di scultura e di architettura.
Lo studio diretto degli antichi più che la causa del nuovo modo di pensare ne è stato
la conseguenza. I nuovi ideali hanno infatti spinto gli umanisti a rileggere con spirito
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nuovo le opere del passato ed a ricercare in esse le giustificazioni teoriche della
nuova filosofia.
La nuova cultura era stata preannunciata dall'interesse per il naturale che si era
andato sviluppando presso le corti europee, dove, già nel Trecento, la riproduzione
della realtà nelle opere di pittura e scultura era andata assumendo sempre più una
giustificazione artistica, cioè espressiva, terrena, non più subordinata solo all'intento
dottrinale.
Era già presente in Italia nella letteratura in volgare, nell'opera di Dante, così ricca di
passioni umane, nel Petrarca e nel suo amore per Laura, amore terreno per una
donna vera, non "angelo venuto di cielo in terra...", nel Decamerone, nel quale
Boccaccio presenta, divertito e per divertire, un mondo laico e borghese.
La conquista del pensiero greco fornisce una valida risposta all'esigenza di
collocare la conoscenza dell'uomo al centro dell'indagine filosofica e scientifica.
Marsilio Ficino (1433-1499) sente la grandezza dell'essere umano, che nel suo
complesso tende a diventare il tutto, perchè è la vita del tutto (Marsilio Ficino:
Theologia Platonica).
Questo concetto veramente moderno ed antimedioevale dell'uomo viene ripreso da
Pico della Mirandola (1463-1494) per il quale l'uomo è il centro dell'universo, il
compendio di tutto il creato, il libero artefice e costruttore di se stesso. (Pico della
Mirandola. De hominis dignitate).
Contemporaneamente alle forme letterarie si rinnovano quelle politiche; decadono le
istituzioni universali e nascono gli stati moderni; fioriscono le attività economiche, le
invenzioni, le esplorazioni geografiche e si rinnovano le arti.
ELEMENTI CARATTERISTICI dell'UMANESIMO.
Naturalismo e centralità dell'uomo.
La tendenza al naturalismo ed alla centralità dell'uomo che già nell'arte gotica si era
manifestata in alcune statue delle cattedrali (per esempio "L'ange qui rit" nella
cattedrale di Chartres) che non sono più simboli, ma rappresentazione delle cose
sensibili così come esse sono, da fatto occasionale nell'Umanesimo diventa un
principio, un metodo: La natura e il reale hanno valore in sé e per sé, non sono più
in rapporto di soggezione con la religione.
L'uomo del Quattrocento non diventa né laico, né ateo, si pone però in rapporto con
la natura e con se stesso in maniera spontanea, realistica: Dio è il creatore, ma
l'uomo è il centro del creato, è misura di se stesso, e la terra è il suo regno. Crede
nella vita futura, nel peccato originale e nella redenzione, ma queste idee non sono
più il punto di riferimento della sua vita e del suo pensiero: È lui il centro
dell'Universo e la sua ragione è in grado di capire e spiegare tutto.
Individualismo.
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La bottega rispecchiava l'ideale comunitario di vita nel Medioevo, il prodotto artistico
era quindi frutto del lavoro della comunità (anche se i veri artisti ne erano i maestri)
ed artigiani ed artisti non firmavano le loro opere. Il rapporto che Brunelleschi
instaura con le maestranze durante la costruzione della cupola di Santa Maria del
Fiore pone fine a questo momento, la comunità cede il posto all'individuo.
Frutto e conseguenza di questo nuovo individualismo è, tra l'altro, la visione
sensuale ed edonistica della vita: "Chi vuol essere lieto sia..." canta il Magnifico.
L'arte medioevale era pervasa dalle voci che le venivano dalla Bibbia e dal Vangelo:
"Tutta la natura soffre la maledizione del peccato" (Genesi). "Cristo redime
l'umanità. L'umanità partecipa al processo di riscatto di sé e della natura, attraverso
il lavoro e le vicissitudini della vita" (San Paolo. Lettere). Ora che non si sente più
responsabile degli altri, l'uomo vive per sé e crea per sé (edonismo- estetismo).
Razionalismo.
Sia l'aristotelismo che, e soprattutto, il platonismo localizzano nella ragione
dell'uomo la forza che astraendosi dalla realtà giunge alla conoscenza, base
indispensabile per il controllo ed il dominio sulla natura e sulle sue forze:
L'ignoranza genera soggezione, paura; la conoscenza rende liberi.
Nel Quattrocento viene studiata e rivalorizzata la filosofia platonica, in
contrapposizione alla filosofia aristotelico-tomista che aveva caratterizzato il
pensiero medioevale e che era stata, appunto attraverso l'opera filosofico-teologica
di Tommaso d'Aquino, assunta come filosofia ufficiale della Chiesa Cattolica.
Per Platone la conoscenza non è risultato dell'esperienza (empirismo aristotelico)
per la quale la mente sintetizza ed "estrae" le idee dal reale (nihil est in intellectu
quod prius non fuerit in sensu). L'esperienza del mondo reale, per il platonismo,
serve solo a stimolare il processo conoscitivo che si completa nella riscoperta, nella
mente, delle idee in essa preesistenti (innate).
Per Aristotele la mente è una "tabula rasa" che viene riempita astraendo, attraverso
l'esperienza sensibile, le idee dalla realtà.
Per Platone le idee, che esistono da sempre nell'Iperuranio, vengono imprigionate
nella materia (originariamente informe) dando origine alla realtà sensibile.
L'anima (la mente) è un'idea superiore incarnata che plasma la materia Uomo in
essere intelligente e che porta in sè il bagaglio del mondo ipersensibile. La
conoscenza è riscoperta della realtà ideale che è già in noi, da sempre. L’atto
conoscitivo così realizzato rivela un mondo perfetto, ideale, dove ogni cosa trova il
suo posto, nella giusta proporzione, nella giusta misura e collocazione, un mondo al
cui centro c'è l'uomo.
Estetismo e libertà di espressione.
L'Umanesimo vuole riprodurre nel mondo reale l'ideale bellezza del mondo
razionale, con libertà e scioltezza dei modi espressivi, grazia, eleganza, vitalità,
linea ampia e chiara.
Nel mondo reale, naturale, ma riscoperto e riordinato dalla ragione, tutto è chiaro,
sereno, ritmico, melodico. I caratteri essenziali dell'arte in questo periodo sono
dunque la misura, l'ordine, le proporzioni, la saldezza costruttiva, la luminosità. È
l'ideale classico, che nel secolo successivo giungerà a maturazione e arriverà
all'apice della sua parabola: il Quattrocento è tensione e ricerca, il Cinquecento è
perfezionamento e completamento dell'ideale classico.
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Unitarietà.
L'arte gotica si era espressa attraverso il racconto; le storie bibliche erano state
presentate a cicli, gli eventi si svolgevano davanti agli occhi dei fruitori in scene
messe insieme a creare la grande storia.
Il principio fondamentale dello stile ideale umanistico è invece l'unitarietà, che viene
conseguita nella produzione artistica grazie alla nuova tecnica compositiva, alla
piramide prospettica, che determina un solo punto di vista. Il gotico medioevale
richiedeva certo maggior fantasia anche da parte dell'osservatore che doveva
ricomporre le storie in unità di discorso; l'umanista è invece razionale: tutto è al suo
posto, collocato esattamente dove deve essere.
CARATTERI del RINASCIMENTO.
Quando il nuovo ideale, che è nello stesso tempo novità e continuità, un nascere ed
un rinnovarsi, diviene norma di vita di tutta la civiltà, non solo italiana, ma europea,
abbiamo il passaggio dall'Umanesimo al Rinascimento.
Nel Quattrocento l'arte di Donatello, Brunelleschi, Piero della Francesca, Mantegna
è quella di una società in lotta per conquistarsi il dominio sulla natura. È ottimista ma
essenziale, severa, rigorosa. Le figure sono forme solide, massicce. Si muovono
nello spazio, libere e naturali, sono eleganti e leggiadre, ma esprimono nello stesso
tempo forza, energia, serietà, dignità.
È l'arte che ben s'addice all'ambiente storico e culturale in cui opera Cosimo dè
Medici (Cosimo il Vecchio), uomo d'affari che si circonda di dotti e di artisti, ma che
mette ancora al centro della sua vita la banca e l'ufficio.
ll tardo Quattrocento è la cultura della seconda generazione, dei figli e nipoti che
godono quanto è stato fatto dai padri.
Dal naturalismo realistico al naturalismo ideale.
Dal naturalismo realistico di Donatello, attraverso Botticelli, si giunge al naturalismo
ideale di Raffaello: L'uomo non è quello che è, ma quello che dovrebbe essere. La
perfezione cui tendeva il Quattrocento si realizza nel Cinquecento.
È un fenomeno brevissimo, dura forse dieci, quindici anni. Leonardo, Raffaello,
Michelangelo ci danno opere "perfette". Il loro entusiasmo per l'Uomo ideale è vero,
sentito, ma proprio per questo dura pochissimo. La realtà è ben altra...
Leonardo e Raffaello muoiono intorno al 1520, ma già nelle sue ultime opere
(Incendio di Borgo) Raffaello supera la sua idealizzazione della realtà.
L'attività artistica di Michelangelo culminerà nella Pietà Rondanini, opera tutt'altro
che "classica"...L'idealismo è sentito e vissuto lo spazio di una breve illusione.
Dall'Uomo centro dell'Universo all'Uomo divinizzato.
L'uomo, da centro del creato, ma sempre reale, diventa perfetto, dominatore dei
propri sentimenti, colto, raffinato (Baldassarre Castiglione, La Velata, Ginevra Benci,
La Gioconda).
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È l'uomo divinizzato, tanto perfetto che viene accusato di formalismo l'artista che ce
lo propone, ma l'artista crede in quella perfezione: Raffaello, con Leonardo e
Michelangelo, vive con sincerità questo momento ideale del classico, questa forza e
bellezza e armonia dell'uomo e della natura.
È un momento dello spirito lontano dal nostro sentire attuale, ma rimane per noi
punto di riferimento, fonte di ispirazione. L'angoscia di Van Gogh è più vicina alle
immagini che ci sono tristemente familiari di Dachau, o a quelle della fame nel terzo
mondo o degli orrori del Vietnam; è più scioccante, forse più reale, ma alla bellezza
ideale, al mondo perfetto propostoci dai classici, irreale anche ai loro tempi, ma
vissuto come illusione, desiderio, speranza, dobbiamo accostarci non foss'altro che
per trarre ispirazione e conforto.
Dall'individualismo al concetto di genio.
Scoperta la "dignitas hominis", il valore autonomo dell'uomo e della vita, senza
preoccupazioni ultraterrene, l'uomo celebra l'umanità come libertà, come vita
interiore. Vede nel mondo che lo circonda il suo dominio, scopre nell'esperienza
diretta e nella ragione la chiave per intenderne i segreti. Dio ha creato il mondo,
l'uomo lo conosce e perciò lo domina.
Tutto il Rinascimento insiste sullo stesso tema.
"L'uomo è simile a Dio." E Tommaso Campanella dice che all'uomo "poca è la
terra...." e poi ancora che l'uomo non è solo conoscitore, ma anche "fabbro del
cielo". Non più dunque solo "faber fortunae suae"...Sono espressioni di orgoglio
infinito.
L'uomo del Rinascimento ha la religione dell'azione; la sua prima qualità è la virtus
classica, un insieme di doti fisiche e morali che lo spingono ad agire e lo portano al
successo, gli fanno conseguire ricchezza, gloria, onori, rendono immortale il suo
nome. Ne deriva il desiderio di farsi costruire grandi palazzi e di commissionare
ritratti che tramandino ai posteri il suo volto.
Questo attivismo è espressione di quella generazione di artigiani, mercanti,
banchieri, che avevano arricchito ed ingrandito lo stato cittadino. È la borghesia che
con operosità, parsimonia e cautela costruisce la sua ricchezza e quella dello stato.
Nasce una nobiltà non più legata al sangue o al titolo, ma, come dice l'Alberti,
"nasce solo da te e non riceve reputazione da chi che sia".
Il "principe nuovo" è creazione del mondo borghese; può venire da una famiglia di
mercanti (Medici), condottieri (Sforza, Montefeltro), e si costruisce, secondo la sua
volontà, come un'opera d'arte, il suo stato, che è il primo stato moderno, organizzato
secondo la sua propria ragione, con la sua moralità ed il suo fine (Machiavelli).
Naturalmente alla generazione che ha dato vita a tutto ciò con la sua forza, ma
anche con la sua serietà ed onestà, succede quella dei figli, più impegnati a cogliere
il piacere ed i frutti di quanto fatto che a cambiare una situazione che appare ideale.
A Firenze Lorenzo dei Medici non si preoccupa di produrre. Vive la vita di corte. È il
Principe, fa il poeta e il mecenate. È più libero, meno vincolato, più idealmente
perfetto; si circonda di artisti, commissiona loro opere (Battistero, Porte) ma non li
impegna con vincoli precisi.
Da sempre le Arti e le congregazioni religiose, che agivano nel nome e nell'interesse
della comunità, avevano commissionato la maggior parte delle opere, promosso
concorsi, imposto, anche se parzialmente, soggetti e modi. Ora sono i principi che
ordinano e pagano gli artisti. E diventano collezionisti. Le opere che prima erano per
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lo più richieste per abbellire i luoghi pubblici ora ornano anche i palazzi privati, e
l'artista, che aveva dovuto rispettare nel soggetto, anche se non nella forma, i
desideri del committente, ora si sente più libero.
Quando i Signori prendono il potere, devono, all'inizio, tenere nascosto il loro
interesse personale e così commissionano opere che sono aperte al pubblico
(Cappella dei Pazzi) o che vengono esposte in luoghi pubblici, all'interno di chiese
(Cappella Brancacci, in Santa Maria del Carmine...). Dopo la metà del Quattrocento
è tutto un fiorire di opere profane; vengono costruiti a Firenze i palazzi delle grandi
famiglie (Rucellai, Pitti, Medici, Tornabuoni, Strozzi...) ed i palazzi ducali a Ferrara,
Mantova, Urbino.
L'artista nuovo.
Durante il Medioevo l'artista è artigiano, esecutore, ed appartiene alla modesta
classe dei lavoratori manuali. I giovani aspiranti vanno a bottega, fanno i garzoni,
s'impratichiscono nel lavoro e poi cominciano a produrre. Provengono spesso da
famiglie modeste e nelle botteghe si formano culturalmente, mentre fanno il loro
tirocinio pratico.
Durante l'Umanesimo l'artista deve invece essere colto e raffinato; è un intellettuale.
Molti degli apprendisti provengono da famiglie agiate. A bottega, mentre fanno
pratica, coltivano la mente, leggono i classici, studiano filosofia e storia. La
formazione teorica, culturale, prevale sull'apprendistato manuale.
Lo spirito, da collettivo, diventa individuale. La bottega non produce più opere in
comune, il maestro avvia alla pratica dell'arte, ma poi lascia che l'allievo si esprima
liberamente. E spesso scopre che l'allievo "sa già di più", ha in sé l'ispirazione, la
capacità innata, la genialità. Possono così fiorire aneddoti come quello su
Verrocchio e Leonardo.
Nella bottega quattrocentesca, che si evolve rispetto a quella artigiana, anonima, dei
secoli precedenti, si continuano però a produrre, accanto alle opere di arte
maggiore, anche lavori di terracotta, gonfaloni, stemmi, disegni per arazzi e insegne,
per stoffe e broccati, per ricami, commissioni che non sono disdegnate nemmeno da
pittori destinati a diventare famosi (Botticelli, Squarcione...).
Nel Cinquecento, con Michelangelo, tramonta definitivamente la bottega e nasce
l'artista creatore.
I pittori del passato erano per lo più salariati, pagati a mese; i migliori di loro
percepivano anche notevoli somme, ma non erano mai compensate le opere
singole.
Verso la fine del Quattrocento, ma soprattutto nel Cinquecento, Leonardo,
Michelangelo, Sebastiano del Piombo, Tiziano si fanno pagare le loro opere. Fanno
quadri a loro "talento" e ne pattuiscono il prezzo.
Finiscono le corporazioni artigiane e nasce l'Artista che, anziché frequentare la
bottega, frequenta i circoli, dove gli intellettuali, gli umanisti, gli uomini di cultura si
incontrano, discutono e scambiano la loro scienza.
Alla scuola pratica si sostituisce l'Accademia, al solo esempio del maestro
succedono i libri di teoria: geometria, prospettiva, calcolo, anatomia.
Gli artisti cominciano a firmare le loro opere e le città erigono monumenti ai loro
artisti più famosi. (Firenze fa erigere in Duomo un monumento sepolcrale al
Brunelleschi).
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Si cominciano a scrivere le prime autobiografie (Ghiberti).
All'interesse per l'opera si accompagna l'interesse per l'artista, mentre cominciano a
farsi strada i concetti di personalità, stile, genialità. Leonardo diventa così famoso
che re e principi se lo contendono; Raffaello è il beniamino della corte papale che gli
mette a disposizione un palazzo; Tiziano è nominato Conte palatino da Carlo V ed è
sepolto in Santa Maria dei Frari.
E Michelangelo è chiamato "il divino". È il primo artista "solitario", scontroso,
posseduto dal demone, dal genio, da una forza che è superiore alla sua stessa
volontà e che gli s'impone.
In nome di questa genialità all'artista nuovo viene permesso tutto. È al di sopra degli
stessi re (Carlo V s'inchina a raccogliere il pennello caduto a Tiziano). L'opera d'arte
è creazione autonoma del genio, che è senza vincolo, e l'artista è lo strumento
tramite il quale il divino si esprime. Acquistano perciò grande valore il bozzetto, il
disegno, l'incompiuto che già esprime in sé l'idea, l'intuizione del genio dell'artista al
suo primo rivelarsi ed essere documentata.
L'Arte si svincola dalla Teologia, non è più ancella della Filosofia o della Scienza. Si
fa Arte per il piacere estetico, perchè l'Arte sia gustata. I soggetti possono essere
religiosi o mitologici, ma sulla storia da raccontare prevale lo stile dell'artista, la
forma, il colore. L'Arte da mezzo diventa fine, da strumento che deve rendere
dilettevole l'utile, diventa diletto ed è considerata l'espressione più alta della cultura,
il piacere più elevato dello spirito.
L'artista mette il fruitore in rapporto con il bello, il divino, l'ideale. Il naturalismo
diviene fittizio; il mondo rappresentato è ideale. Lo spazio sembra reale, ma è
mentale, è unità, equilibrio, perfezione, espressione dell'intuizione della mente
dell'artista, che è l'eroe intellettuale che concretizza nella sua opera l'ideale
perfezione del creato, che è il medium tra il banale e l'assoluto, tra il buono e il
bene.
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IL VOLTO NUOVO DELLE CITTÀ DEL XV SECOLO
L'Italia è la prima in Europa che, raccolta l'evoluzione verso il naturalismo ed il
razionalismo, si accosta agli antichi, allo studio delle opere classiche, alla romanità,
le cui vestigia sono a portata di mano.
Centro di questo fervore di vita e di sviluppo economico è la città, verso la quale si
spostano industria, commercio e servizi e nella quale il potere passa nelle mani dei
ricchi commercianti e banchieri.
Della città cambia anche l'aspetto esteriore.
Per apprezzare il profondo significato della sua trasformazione è opportuno
confrontare la struttura architettonica ed i palazzi di Urbino con quelli di San
Gimignano, città che, malgrado gli inevitabili mutamenti apportati nei secoli, sono
fortunatamente giunte sino a noi nel loro aspetto quasi originale ed hanno
mantenuto intatto il carattere e la peculiarità dell'epoca in cui avevano raggiunto il
loro massimo splendore artistico ed il vertice della loro importanza politica e
culturale, che coincidono per San Gimignano con il XIII e XIV e per Urbino con il XV
e XVI secolo.
La loro posizione geografica, un po’ al di fuori delle grandi vie di comunicazione, la
situazione logistica, alla sommità di due colline, e la straordinaria unità artistica della
loro struttura urbanistica hanno contribuito a salvarle dai "barbari" rifacimenti che nei
secoli successivi hanno distrutto o modificato tante opere architettoniche medioevali
e rinascimentali. (Famoso è rimasto a Roma il detto popolare "Quod non fecerunt
barbari faciunt Barberini" a significare le distruzioni di opere classiche romane e
post-romane operate per edificare barocche case e chiese in voga soprattutto
all'epoca in cui la famiglia Barberini godeva a Roma dei favori della Fortuna).
Il raffronto ideale tra le due città (la realtà ha dovuto tener conto delle costruzioni
preesistenti e della natura del terreno su cui edificare) si può fare accostando il
dipinto trecentesco di Taddeo di Bartolo, riproducente San Gimignano che sorregge
un modellino della città turrita, alla tavola della scuola di Piero della Francesca,
raffigurante la città "ideale", come concepita dagli artisti del Rinascimento.
La città medievale è chiusa fra le mura che la dividono dalla campagna e dal resto
del mondo. Le viuzze strette, le case piccole, pur susseguendosi in mirabile armonia
e aprendosi su piazze suggestive, rappresentano il senso limitato degli orizzonti
culturali propri del Medioevo: la Chiesa, il Palazzo Comunale e la Torre del Podestà
si impongono con la loro autorevole struttura sul resto della città.
Diversi sono gli spazi e le proporzioni della nuova città rinascimentale. Il Palazzo
della Signoria e la Cattedrale, pur mantenendo tutte le loro prerogative di eccellenza
e simbolo del potere di chi le abita, non dominano più le costruzioni circostanti.
L'armonia non viene dal gusto innato nell'accostare tante piccole, diverse
costruzioni, ma dalla perfetta prospettiva che allinea i palazzi intorno a strade e
piazze luminose, dove linee rette, cerchi, archi e portici disegnano spazi
razionalmente esatti. (Vedi Perugino: Consegna delle chiavi. Roma. Cappella Sistina
e Raffaello: Sposalizio della Vergine. Milano. Brera).
Le città reali non hanno chiaramente queste caratteristiche ideali, di sicuro però
l'attenta analisi delle opere rimaste rivela quanto diverso sia stato lo spirito
animatore delle due filosofie e dei due modi di concepire la vita, e nello stesso
tempo evidenzia quanto la realizzazione architettonica superi con la sua viva
imponenza la fredda scrittura del progetto.
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In ogni epoca la filosofia, intesa come concezione totale della vita dell'uomo, come
sustrato ideale della realtà in cui egli vive, come principio metafisico e logico che ne
condiziona l'agire quotidiano, ha dato un'impronta unitaria alle espressioni artistiche
che in essa sono fiorite. In nessuna epoca, come nel XV e XVI secolo, tale unità è
cosi viva ed immediata da permettere quasi di conoscerne e gustarne in un'unica
opera d'arte l'intera gamma delle espressioni culturali. Così attraverso la pittura di
Piero della Francesca o del Beato Angelico o di Masaccio o di Botticelli o di Paolo
Uccello è possibile gustare l'architettura del Brunelleschi o di Leon Battista Alberti o
le sculture di Donatello e Luca della Robbia.
La vita che si svolgeva nei quartieri alti delle città nuove del XV secolo ci si propone
con incredibile realismo. La moda, i costumi, le calzature, le acconciature ci vengono
tramandati insieme con i mobili, i tendaggi e le altre opere minori di artigianato,
elementi che spesso nemmeno notiamo quando ammiriamo i capolavori dei grandi
maestri dell'arte, ma che sono testimonianze non secondarie dello spirito dell'epoca.
San GIMIGNANO: La porta San Giovanni
Ci appare severa, con l'arco ribassato, solida ed imponente costruzione che lascia
intravedere attraverso la piccola apertura uno scorcio della viuzza stretta su cui si
affacciano le variopinte botteghe degli artigiani. Sono il clima e l'atmosfera
particolarissimi del Medioevo.
URBINO: Porta di Valbona
L'ampia porta si apre su una strada larghissima (se consideriamo l'epoca in cui fu
costruita). Più che una chiusura essa è un ornamento, un arco di trionfo sotto il
quale dare il benvenuto agli ospiti illustri della città.
San GIMIGNANO: Piazza del Duomo
La semplicissima Basilica in stile romanico, la severa facciata del Palazzo
Comunale, l'imponente Torre del Podestà simboleggiano il potere e l'autorità non
solo sulla vita sociale, ma anche sullo spirito dei cittadini.
URBINO: Il Palazzo Ducale
Il Palazzo Ducale, opera del Laurana, ha perso la severità medioevale per dare
spazio ai balconi, alle luminose aperture, all'eleganza delle proporzioni.
San GIMIGNANO: Il cortile del Palazzo Comunale
Ci appare come un suggestivo, severo, chiuso luogo di meditazione o spazio di
raccolta per il piccolo esercito comunale.
URBINO: Cortile del Palazzo Ducale
L'armonia, gli spazi equilibrati, gli archi e i colonnati dei portici ricordano la città
ideale della scuola di Piero della Francesca. Sono luogo luminoso ed aperto di ideali
incontri tra letterati, filosofi ed artisti.
Il confronto tra Urbino e S.Gimignano ci ha permesso di farci una modesta,
incompleta idea del profondo cambiamento culturale che prende al suo inizio il nome
di Umanesimo e che culmina nel Rinascimento.
Urbino, nella sua singolare unicità, ci ha permesso nel breve escurso fotografico (e
lo permette tuttora al visitatore preparato) di fare un salto indietro nel tempo, di
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immergerci nella vita del XV secolo. Non è difficile, con un minimo sforzo di fantasia,
immaginare per le sue vie snodarsi il dramma del "Riconoscimento della Vera
Croce" di Piero della Francesca.
La "Flagellazione di Cristo" dello stesso Piero ha luogo idealmente nel cortile del
Palazzo Ducale.
La vita nel Rinascimento non era certamente tutta idillica e perfetta come potrebbe
apparire da queste pagine. La concentrazione della ricchezza presso poche famiglie
toglieva alla stragrande maggioranza la possibilità di una vita non dico agiata ma
almeno comoda. Una certa miopia diffusa tra i detentori del potere avrebbe presto
portato l'Italia alla recessione politica ed economica nel contesto europeo. Ma il
nostro studio si limita ad analizzare le opere d'arte di quel periodo; ed è noto che
nella produzione artistica, soprattutto delle epoche cosiddette classiche, le
testimonianze di vita tramandateci sono quelle della parte elitaria della società.
L'idealismo umanistico induceva a rappresentare solo forme perfette:
architettonicamente (archi e colonne, per esempio, geometricamente proporzionati)
e figurativamente (uomini ideali o idealizzati). Farà ancora scandalo, oltre un secolo
dopo, la pittura del Caravaggio, che metterà sulle tele la realtà reale: uomini e donne
del popolo, come quelli che vivevano e morivano per le strade di Roma.
L'obiettivo delle nostre analisi, dopo aver cercato di comprendere e gustare l'arte del
XV e XVI secolo, è proprio quello di soffermarci su questi particolari, abiti soprattutto
ed acconciature, calzature e copricapi, ma anche accessori minori come spille e
bottoni, che possono definirsi in una parola riassuntiva e semplificatrice come Moda,
che però inquadrata nell'insieme della cultura e dell'arte oltrepassa e quasi
sconfigge l'alone di effimero che troppo spesso viene associato a questa
espressione della vita, per assurgere a manifestazione culturale, rilevante
testimonianza dei valori e dello spirito di un'epoca.
FIRENZE CENTRO DELLE BELLE ARTI
Le lotte tra le grandi famiglie per il controllo sul papato e soprattutto la cattività
avignonese dei Papi hanno determinato un lungo periodo di abbandono e
decadenza della Città Eterna. Le antiche costruzioni vengono lasciate andare in
rovina o, peggio ancora, sono preda di saccheggi. Solo alla fine del Quattrocento,
con l'inizio del Rinascimento, il riaffermarsi dello splendore del papato riporterà a
Roma grandi architetti e pittori (Michelangelo, Bramante, Raffaello...) e rifioriranno
quindi le belle opere monumentali.
Il Quattrocento è il secolo di Firenze che già dall'inizio del XV secolo aveva
finalmente assoggettato o attratto nell'orbita del suo potere economico e culturale
Pisa, Arezzo, Cortona, Prato e Pistoia e che già nel Trecento si era arricchita delle
opere d'arte di Arnolfo da Cambio e di Giotto ed aveva visto fiorire tutto intorno a sé
il talento degli scultori toscani sotto la guida di Nicola Pisano.
Su questo terreno fertile nasce la cultura nuova, rivoluzionaria. È nuova la matrice
filosofica, è nuova la matrice sociale. Tramonta la città comunale, si afferma la ricca
borghesia che, impadronitasi del potere prima economico e poi anche politico,
soppianta l'antica aristocrazia. Il potere religioso, prima dominante, per poter
mantenere la sua posizione si aggrega al potere economico-politico. Vescovi e papi
vengono imposti dalle grandi famiglie borghesi.
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L'artista assume un risalto sconosciuto nel Medioevo: da capo-mastro, vertice della
piramide, ma pur sempre artigiano facitore delle sue opere, diventa ideatore,
creatore, disegnatore, filosofo, scrittore.
Gli artisti di questo secolo non sono per la maggior parte "specialisti": basti per tutti
pensare a Brunelleschi: orafo, scultore, architetto, o ancor più a Leonardo, che oltre
al resto è scienziato, e non per desiderio di dimostrare capacità realizzatrici
eclettiche, ma per confermare ed esprimere il carattere ideale e creativo dell'artista,
che può poi collaborare manualmente alla realizzazione delle proprie opere o
lasciarle indifferentemente ad altri da realizzare.
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LA PROSPETTIVA
Durante il Medio Evo gli elementi fondanti dell’Arte Classica, proporzione,
simmetria… che avevano dato origine al concetto di “bello classico”, vengono
trascurati e sostituiti da un espressionismo che non si cura di forme classiche, di
proporzioni, ma è spontaneo e diretto.
Già dal Trecento si avverte però un nuovo interesse per l’età classica, che porta nel
secolo successivo alla riscoperta del pensiero antico, attraverso lo studio diretto dei
documenti e delle fonti letterarie.
I nuovi fermenti sono già evidenti ad Assisi, nell’opera del “Maestro di Isacco”, di
Giotto, di Duccio.
Giotto, coma già abbiamo visto, è impegnato in quella che Longhi definisce “
spaziosità”. La realizza, e con lui altri pittori trecenteschi, empiricamente:
a) i volumi architettonici sono presentati come parallelepipedi, visti in posizione
obliqua: Storie di Isacco (1291/1295).
b) L’artista dispone sulla scena più punti focali: ne deriva una profondità
suggestiva, ma del tutto approssimativa (Giotto: Annuncio a Anna. Cappella
Scrovegni.)
In tutto il periodo tardo-gotico si continua a cercare una rappresentazione realistica
dello spazio, ma esperienze e risultati sono personali, dipendono dalle esperienze
solitarie degli artisti. Nessuno ne scrive o, se succede, il risultato è poco chiaro e
illuminante. (Giusto de’ Menabuoni: Nozze di Cana. Scrovegni).
Nel 1344 Ambrogio Lorenzetti impiega per la prima volta nella sua Annunciazione il
punto di fuga prospettico: Se osserviamo il pavimento, vediamo che le piastrelle
convergono verso un unico punto nascosto da una colonnina, che divide in due lo
spazio pittorico. E’ una buona intuizione, ma relativa, infatti, se osserviamo bene la
colonnina, vediamo che nel punto da cui parte, in basso, è in primo piano, segna
bene la distanza dal pavimento, Poi, però, alzandosi, si schiaccia contro la parete di
fondo, annullando quindi la profondità della stanza.
Ben diverso il risultato che otterrà ad Arezzo, un secolo dopo, Piero della Francesca
nella sua Annunciazione: la sua colonna ci dà dello spazio una consistenza fisica
realistica.
La prospettiva, come conquista, non riguarda solo l’Arte ed i problemi ad essa
connessi: è figlia di un mondo nuovo.
Secondo la cultura umanistica l’Arte è processo di conoscenza, non tanto di
conoscenza della “cosa” quanto dell’intelletto umano, della sua facoltà di conoscere.
Nel suo “Trattato sulla pittura” Leon Battista Alberti dice che “l’artista si occupa solo
di ciò che si vede e non di ciò che (eventualmente) si nasconde dietro l’apparenza;
afferma che “il valore non è nella cosa come fenomeno (fenomeno = tutto ciò che
può essere osservato e studiato attraverso una conoscenza diretta), ma in ciò che
l’intelletto costruisce sul fenomeno.
Una società che crede nel valore dei fenomeni reali e presenti è una società che
crede nella capacità umana di produrre fatti e valori, una società attiva in cui ognuno
vale per ciò che fa e non per misteriose investiture tramandate, una società che ha
al vertice non più il sovrano, ma il borghese che ha conquistato la signoria per meriti
propri (pacifici o violenti che siano). Questa società è interessata a conoscere
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- la Natura, che è il luogo della vita e la fonte di ogni attività umana
- l’Uomo, che è il soggetto del conoscere e dell’agire.
Il conoscere dell’Arte è insieme conoscere e fare, conoscere facendo, producendo
opere.
Per quanto riguarda la Prospettiva si verifica il passaggio dalla Perspectiva Naturalis
(o communis) dei pittori medioevali, alla Perspectiva artificialis solo nel
Quattrocento, ad opera di Filippo Brunelleschi, architetto, orafo, scultore. Ma non
era un letterato e non scrisse nulla sull’argomento. Ne scrisse invece Leon Battista
Alberti (come abbiamo visto) nel suo Trattato.
Il termine Prospettiva non è nuovo nell’Arte, è classico, è usato anche nei trattati
antichi per l’Architettura e per il Rilievo illusionistico.
Nel Rinascimento la Prospettiva viene presentata
- come scoperta, non come invenzione: è dunque parte della scienza antica, rinata
nella
cultura umanistica
- come sistema unico, non come insieme di sistemi: Se identifichiamo la
prospettiva come “ottica”, abbiamo un’infinità di prospettive: per vedere ci si può
mettere sopra, davanti, al centro delle cose; si possono guardare le cose
secondo angoli e inclinazioni diverse. La prospettiva del Quattrocento vuole
ridurre all’unità tutti i possibili modi di visione.
La teoria dell’Alberti è all’origine un’applicazione delle leggi della geometria euclidea
alla visione: “Se lo spazio è una forma unitaria e omogenea, è anche una forma in
cui tutte le parti si distribuiscono simmetricamente rispetto a una linea mediana o
centrica.”
Chi guarda vede le linee di profondità convergere in un punto (punto di fuga) = una
piramide i cui lati sono triangoli, una piramide vista in profondità.
Con la prospettiva non vediamo più le cose come sono in sé, vediamo tutto secondo
rapporti proporzionali: la realtà non si presenta più come un inventario di cose, ma
come un sistema di relazioni metriche.
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LA SCULTURA NEL XV SECOLO
Il rinnovamento che ha investito l'architettura si afferma anche nella scultura, ma più
gradualmente; la tradizione gotica di Andrea e Nicola Pisano sopravvive infatti a
lungo nelle opere di alcuni scultori del Quattrocento, compreso il primo Ghiberti.
I caratteri peculiari della scultura trecentesca si possono riassumere in tre concetti
fondamentali:
a) La naturalezza (da non confondere con il naturalismo quattrocentesco):
le figure sono copie fedeli della realtà, ma non vivono nello spazio reale; sono
collocate nell'assoluto, al di fuori dei fatti e della storia. (Vedi il Pulpito di Nicola
Pisano - Battistero di Pisa e L'Angelo che ride - Cattedrale di Reims).
b) Il cortese:
è l'estetismo puro, rappresentazione idealizzata della vita di corte (L'adorazione dei
Magi di Gentile da Fabriano).
c) Il movimento mistico:
la posizione delle persone e le pieghe delle vesti danno sempre l'impressione del
movimento della spirale che spinge il tutto verso l'alto. (Madonna col Bambino di
Nicola Pisano).
Le caratteristiche della nuova scultura quattrocentesca che si ritrovano in diversa
misura nei vari autori, ma che sono sintetizzate compiutamente nell'opera di
Donatello, possono così riassumersi:
a) L'individualismo:
la personalità dell'artista, che si afferma come unico ideatore creatore ed esecutore
dell'opera d'arte, si impone in contrapposizione alla tradizione della bottega o delle
scuole d'arte proprie del secolo precedente.
b) Il naturale:
le figure e i personaggi sono calati nella realtà spaziale e temporale. Anche quando
sono statue singole hanno sempre i piedi saldamente piantati per terra, fanno parte
di questo mondo, sono creature che vivono nella storia che si svolge nella loro città
(S.Giorgio e Davide di Donatello).
c) Lo stiacciato:
nei loro bassorilievi i nuovi scultori reinventano la prospettiva, ottenuta sia attraverso
il susseguirsi dei piani della piramide prospettica, sia attraverso la nuova tecnica
dello "stiacciato". Le figure, che possono essere a tutto tondo nel primo piano, si
appiattiscono man mano che si allontanano dal punto di vista, pur mantenendo
sempre un'incredibile nitidezza di particolari e plasticità di rappresentazione.
LORENZO GHIBERTI
Firenze -1378/1455
Lorenzo Ghiberti, pur rappresentando a pieno titolo la nuova scultura
quattrocentesca, può essere considerato, soprattutto per le sue prime opere, l'ideale
anello di congiunzione tra il mondo artistico gotico e quello dell'Umanesimo.
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Fu artista fecondo e partecipò alla vita culturale ed artistica di Firenze un po’ in tutti i
settori, la sua fama rimane però legata soprattutto alle porte del Battistero di
Firenze: sono le sue opere più importanti, capolavori d'arte in assoluto, che meritano
perciò un'analisi attenta e particolareggiata.
Nel 1401 viene indetto in Firenze, per la realizzazione della seconda porta del
Battistero (la prima, quella Sud era già stata realizzata nel 1336 da Andrea Pisano),
un concorso cui partecipano scultori già noti, come Jacopo della Quercia,
Brunelleschi, Ghiberti. Il tema del concorso è obbligato: il sacrificio di Isacco.
Probabilmente anche le figure da inserire nella formella, come la cornice stessa
della formella, sono imposte dalla giuria. Al vincitore verrà assegnato l'incarico di
ornare la porta Est, quella più importante perchè di fronte alla facciata del Duomo.
Vince Ghiberti che, successivamente, grazie al risultato eccellente del primo
impegno, ottiene l'incarico della fusione anche della terza ed ultima porta, quella
Nord. Quest'ultimo lavoro è così straordinario da far meritare alla porta il posto
d'onore, di fronte al Duomo, mentre l'altra, quella del concorso del 1401, viene
spostata a Nord.
Vasari racconta nelle sue Vite che Michelangelo, passando davanti al Battistero e
ammirando il pregevole lavoro del Ghiberti, abbia esclamato: "Queste opere sono
tanto belle...che starebbon bene alle porte del Paradiso". A tanto illustre critico risale
dunque la denominazione che ancor oggi contraddistingue la porta Est del Battistero
di Firenze come “Porta del Paradiso”.
Ritorniamo al concorso e confrontiamo le formelle dei due principali contendenti,
formelle che si possono ora ammirare al museo del Bargello a Firenze. Quella che
ha consentito al Ghiberti di vincere è sicuramente perfetta come fattura (Ghiberti è
anche orafo), ma rivela ancora il suo legame con il Gotico: il taglio delle figure, il
nudo di Isacco, l'altare, la posizione ieratica di Abramo, l'ariete sul monte, il monte
stesso, schematizzato, che serve a dividere in due la scena, richiamano insieme la
solennità e la ieraticità fuori dal tempo, e la classicità, rievocata con grammaticale
esattezza.
Molto più drammatica è la scena propostaci dal Brunelleschi, più rigorosa la
scansione volumetrica, più forte il realismo. Tutti gli elementi riconducono all'istante
del sacrificio: l'ariete che si volge con raccapriccio quasi umano, Abramo che sta
vibrando il colpo, Isacco che resiste al padre, l'angelo che irrompe e ferma il braccio
di Abramo.
Chi è il migliore? Sicuramente la perfezione tecnica della fusione indusse i giudici a
preferire Ghiberti. Con quasi altrettanta sicurezza si può affermare che Brunelleschi
ha colto, ed è riuscito a rappresentare nella scultura, lo spirito ed il senso del
dramma con maggiore intensità.
La giuria di allora assegnò al Ghiberti la realizzazione della porta Est.
Essa è suddivisa in 28 riquadri: Venti raccontano storie della vita di Cristo,
dall'Annunciazione alla Resurrezione; quattro rappresentano gli evangelisti e quattro
i maggiori Padri della Chiesa.
La realizzazione dell'opera che impegnò il Ghiberti per diversi anni testimonia
l'evoluzione stilistica dell'autore: dal decorativismo garbato del sacrificio di Isacco,
verso l'ampliamento degli spazi compositivi (come nella resurrezione di Lazzaro e
nella salita al calvario) che segnano la nascita di un nuovo linguaggio artistico di più
ampio respiro e grande incanto poetico, che introduce direttamente al suo
capolavoro:
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La porta del Paradiso
"Mi fu chiesto (1425) di fare l'altra porta, cioè la terza porta di San Giovanni, e fui
lasciato libero di seguire in essa qualsiasi disegno ritenessi più perfetto, più ornato,
più ricco.... Le scene hanno abbondanza di figure. Ho fatto del mio meglio per
osservare le corrette proporzioni, ed ho cercato di imitare nei limiti del possibile la
natura, con quanti più dettagli e figure possibili. In alcune scene ha incluso anche
cento figure.
Ho eseguito questo lavoro con cura e amore. Le scene sono dieci, tutti gli edifici
sono stati eseguiti con esatte proporzioni, così che essi appaiono alla vista tanto veri
che, a dovuta distanza, sembrano essere in rilievo. Le figure in primo piano sono più
grandi, quelle distanti più piccole, proprio come avviene nella realtà. Ho eseguito
tutto il lavoro con le proporzioni che ho detto." (Lorenzo Ghiberti. I Commentari)
Oggetto della rappresentazione sono questa volta storie tratte dall'Antico
Testamento, da illustrare in formelle lobate, ma Ghiberti decide di sottrarsi a questo
schema limitativo e divide la porta in dieci riquadri entro i quali racchiude le sue
storie. Per alcune di esse torna al racconto; grazie alle nuove tecniche della
prospettiva e dello stiacciato riesce mirabilmente a isolare diversi episodi dello
stesso fatto all'interno dello stesso riquadro.
La scelta della formella quadrata, al di là della cui cornice la composizione può
spaziare all'infinito, ricorda l'Alberti e la sua definizione di rappresentazione
prospettica come finestra sull'infinito.
I personaggi in primo piano sono in genere quasi a tutto tondo; a mano a mano che
la scena si allontana, lo spessore del bassorilievo si assottiglia fino a diventare poco
più di una scalfittura.
Nell'uso del "quasi" tutto tondo, l'Alberti è in contrasto con Donatello: per Donatello
lo "spazio plastico" è una realtà a sé, senza alcun rapporto con lo spazio naturale.
Per il Ghiberti invece lo "spazio plastico" è una funzione dello spazio naturale: il
bello è in natura, anche una figurazione storica deve avere "naturalezza".
La pittoricità, i giochi di luce, la prospettiva, l'eleganza compositiva, la raffinatezza
del lavoro di oreficeria fanno di questa porta uno dei capolavori più ammirati del
Quattrocento fiorentino.
Gli stipiti sono arricchiti da finissimi ornamenti floreali. Ministatue di profeti e
profetesse inquadrano le dieci formelle. Piccole teste, a tutto tondo, escono da
numerosi medaglioni.
Il tutto a cornice delle stupende dieci storie:
La creazione di Adamo ed Eva
Caino ed Abele
L'ebbrezza di Noè
La storia di Isacco
Esaù vende la Primogenitura
La storia di Giuseppe
Mosè riceve le tavole della legge
La Storia di Giosuè. Le mura di Gerico
Davide e Golia
L'incontro della Regina di Saba con Salomone
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Nelle storie di Giuseppe, in primo piano viene ricordata la vendita di Giuseppe alla
carovana di mercanti; a metà sulla sinistra è rappresentato l'incontro di Giuseppe
con il Padre, in alto a destra l'episodio del pozzo.
Nella storia di Giosuè, l'arca passa sotto le mura di Gerico, che crolleranno al suono
delle trombe. Ammiriamo la finezza dei particolari nei vestimenti delle donne e nelle
armature dei soldati, i piani prospettici dei cavalli, il corteo con l'arca, le tende
dell'accampamento, le mura e le case della città.
Nell'incontro della Regina di Saba con Re Salomone, l'illusione della profondità
spaziale è esaltata dalla splendida architettura classicheggiante del tempio. L'effetto
plastico e il pittoricismo, accentuato dalla luce che si riflette sulle varie figure, si
fondono in un'armonia insuperabile.
Questa porta rappresenta nel senso più pieno ciò che si definisce "classico":
un'opera di cui è difficile immaginare qualcosa di più armonioso ed equilibrato.
DONATELLO. Donato di Niccolò di Betto Bardi
(FIRENZE. 1386-1466)
Cresce artisticamente nei cantieri fiorentini dell'ultimo Trecento, primo Quattrocento,
proprio quando alla poetica gotica cominciano ad affiancarsi le esperienze artistiche
di Ghiberti e Brunelleschi. Durante l'apprendistato nella sua bottega, il Ghiberti gli
trasmette il suo gusto e la sua tecnica nel trattare armoniosamente la luce sulle
superfici scolpite, gli insegna ad ammorbidire i contorni ed a trattare i panneggi in
modo elegante. Donatello è però presto portato dall'originalità del suo talento a
superare gli schematismi correnti e l'arte figurativa fiorentina si arricchisce di nuovi
elementi:
L'elemento popolare: la classicità dell'arte di Donatello non ripropone
pedissequamente i modi dell'antica Roma, l'artista riscopre lo spirito dell'antichità,
ma lo traduce in personaggi presi dalla Firenze del suo tempo. Tutte le sue opere, le
sue sculture, rappresentano personaggi veri, attuali, pur nella solennità e nella
saldezza della struttura classica (San Giorgio).
Il capriccio edonistico: nel suo secondo viaggio a Roma, Donatello scopre aspetti
nuovi della classicità: non esiste solo la severa, olimpica, imperturbabile solennità;
c'è anche l'inquietudine, la bizzarria, il capriccio, l'edonismo della tarda latinità. La
sua Cantoria (Firenze. Opera del Duomo) e l'Annunciazione (Santa Croce) sono la
testimonianza di questa nuova scoperta.
L'intimismo romantico: la malinconia esistenziale (Davide, Gattamelata) pervade
le opere della maturità.
Come tutti i grandi, ad un certo stadio della sua storia artistica Donatello supera gli
schemi entro i quali si cerca di interpretare la sua opera per diventare assoluto, per
collocarsi fuori dal tempo.
Lo stiacciato: tecnicamente Donatello è il maestro insuperato dello stiacciato.
Critica il Ghiberti, il cui “tutto tondo” dei primi piani esce dalla base della piramide
prospettica. Egli riesce invece a mantenere i piani prospettici rigorosamente
scanditi, senza far debordare le figure del primo piano, e nello stesso tempo crea
una perfetta illusione della profondità (Banchetto di Erode).
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Opere
Donatello visse a lungo e produsse numerosi capolavori che possiamo analizzare
divisi nei periodi che segnano l'evolversi e il maturare della sua arte.
Primo periodo: 1409-1425 circa. Periodo post-gotico; prevalenza dell'elemento
popolare.
1408-1409. David. Firenze. Museo Nazionale.
L'avvitatura del corpo è ancora gotica, ma il giovane rivela una baldanza tutta
moderna nel volto, nel petto: ampio, spinto in avanti.
1408-1415. San Giovanni. h. cm.210. Firenze. Museo dell'Opera del Duomo.
Il nuovo stile popolare di Donatello trova qui la sua prima testimonianza. Non figura
aulica (gotica), non reminiscenza classica (ghibertiana), ma figura solida, piantata
per terra, senza contorsioni e mistici slanci verso l'alto. Tutto è concentrato sulla
massa e sulle variazioni chiaroscurali tendenti ad esprimere il rapporto dell'uomo
con se stesso e con i propri sentimenti.
1416. San Giorgio. h. cm.209. Firenze. Museo del Bargello.
L'equilibrio classico è qui dominante, ma nessuno potrebbe collocare questa figura
al di fuori del XV secolo in Firenze. La reminiscenza classica, evidenziata dalla
solidità di impostazione, dalla solennità del porgersi, dalla staticità dell'insieme, è da
Donatello reinventata e tradotta nella lingua corrente. Il volto di San Giorgio è
inequivocabilmente fiorentino: il volto del "civis", il cittadino guerriero, così come
all'epoca Firenze sognava e vedeva i suoi uomini.
1418-1434. Profeti per il campanile di Giotto. h. cm.180. Firenze. Museo dell'Opera
del Duomo.
Donatello ci dà una visione moderna del profeta, predestinato da Dio a diventare la
"voce" di Israele in un determinato momento della sua storia, ma che Donatello vede
come uomo, cioè come parte della storia di ogni popolo ed in ogni tempo.
1423-1427. Banchetto di Erode. cm.60X60. rilievo in bronzo. Siena. Battistero.
Segna il passaggio verso la nuova tecnica dello stiacciato, che raggiungerà
l'espressione più alta nelle storie di Sant'Antonio a Padova. Le masse sono
appiattite; le prospettive sono ottenute con una minima ondulazione del fondo.
Combinando mirabilmente il disegno prospettico con il minimo di rilievo e sfruttando i
giochi di luce, Donatello riesce ad ottenere incredibili effetti di profondità. Il
movimento drammatico della scena della presentazione della testa del Battista ai
convitati si espande attraverso gli archi, nello spazio retrostante, che la luminosità
crescente dilata all'infinito.
1430. David. h. cm.138. Bronzo. Firenze. Museo del Bargello.
La certezza e la solidità espresse nel San Giorgio cedono il passo ad un intimismo
nuovo. L'artista è più maturo, disincantato. La sicurezza della giovinezza cede il
passo al dubbio e alla malinconia o, forse meglio, alla sottile ironia.
Dal punto di vista formale, la statua è perfetta. Il gioco di ombre e di luci del bronzo
ne ravviva i sentimenti, rendendoli quasi palpabili.
Secondo periodo:1430-1445 circa. Periodo tardo-classico influenzato dalla seconda
visita a Roma.
Tornato a Firenze, dopo la sua seconda esperienza a Roma nel 1432, Donatello
mette in produzione un ciclo di opere in cui è evidente l'influenza ellenistica ed
orientale che ha caratterizzato la tarda romanità.
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1435. L'Annunciazione. cm.420X248. Firenze. Santa Croce.
Leggiamo nell'atteggiamento della Vergine lo sgomento ed il dubbio della giovane di
fronte alla grandezza del mistero che le viene annunciato; forse però Donatello,
invece di fissare l'atto solenne del mistero dell'Incarnazione, sembra abbia voluto
cogliere l'attimo di sorpresa della fanciulla all'improvvisa apparizione di un estraneo.
Gli ornamenti dello sfondo, le maschere al posto dei capitelli, le colonne ornate di
foglie, i ricami sui vestiti, il movimento dell'Angelo che arriva e della Vergine in atto
di fuggire poco si accordano con la compostezza classica tradizionale.
1433-1439: La tarda classicità è presente negli elementi ornamentali della Cantoria
(cm.348X570. marmo mosaico e bronzo) conservata al Museo dell'Opera del
Duomo. Le figure degli angeli danzanti ricordano più una sfrenata festa dionisiaca
che una sacra scuola di canto. (La si confronti con la Cantoria di Luca della Robbia,
nello stesso Museo.)
1440-1433. Le Porte dei Martiri. Ogni pannello cm.31X39. Firenze. Basilica di San
Lorenzo (Sacrestia Vecchia).
Lo stesso pittoricismo tardo antico, interpretato ed arricchito con fantasia
arbitrariamente sfrenata, combina giochi di luce, movimenti ed espressioni di vitalità
che dissipano il ricordo dell'austero umanesimo religioso e civile del primo
Quattrocento fiorentino.
Terzo Periodo: la maturità.
Dal 1446 al 1450 Donatello è a Padova dove lavora all'altare del Santo. Purtroppo
durante il secolo scorso l'altare è stato totalmente ricostruito e le sculture di
Donatello sono state arbitrariamente ricollocate, cosi che si è perso l'impianto
originale voluto dal Maestro. Anche così disperse, però, le singole opere rivelano la
maturità raggiunta dall'artista e possono considerarsi il meglio della produzione di
Donatello.
La Madonna con il Bambino. h. cm.160.
Particolarissimo è l'impianto di questa opera: Il bimbo è al centro della
composizione, quasi nell'atto di essere dato alla luce; la Vergine è ritratta nell'atto
inconsueto di alzarsi e porgere il figlio al mondo. Il vibrato della luce, la
compostezza della figura creano un senso di drammatica tensione e mettono in
evidenza il gesto solenne della Madre.
Il Crocefisso h. cm.176.
Lo stesso sentimento e lo stesso senso dell'assoluto si leggono nel Crocefisso,
quasi ideale continuazione e compimento dell'offerta del suo unico Figlio che la
Vergine fa al mondo.
Le Storie di Sant'Antonio. cm.57X123.
In questi brani, vibranti di luce, carichi di effetti drammatici, Donatello sembra
distruggere il mito dell'uomo rinascimentale, mito che egli aveva contribuito a creare
con le sue opere precedenti (San Giorgio, San Giovanni, Davide...) Il dramma della
storia non è più dominato e neppure vissuto dal singolo. Sono le masse che si
muovono: la storia inghiotte gli individui.
Questo sentimento anticlassico si esprime concretamente nelle ultime due
realizzazioni importanti del Maestro.
1446-1450. Il Gattamelata Gruppo equestre cm.340X390. bronzo. Padova. Piazza
del Santo.
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Più che opera tesa ad esaltare la forza di un condottiero vittorioso, questa scultura
sembra un monumento funerario. Il basamento, che riproduce un sacello, richiama
l'immagine della morte; il cavallo, pur nella sua solenne imponenza, non esprime
l'alterigia del condottiero vincente. Il volto stesso del Gattamelata non ha nulla di
eroico; esprime piuttosto un chiuso riserbo, una melanconica riflessione su una
realtà e una storia che non sono più e che non interessano più.
1453-1455. La Maddalena. h. cm.188. legno. Firenze. Museo dell'Opera del Duomo.
È l'immagine dell'angoscia esistenziale "ante litteram", del dissolversi della forma
umana nella materia inanimata, che a sua volta "si disgrega in una luce senza
raggio, morta". (Argan-Storia dell'Arte-vol.2 pag.133)
1455-1460. Giudittta e Oloferne. h. cm.236. bronzo. Firenze. Piazza della Signoria.
Oltre a Ghiberti e Donatello, in tutta l'Italia, ma soprattutto in Toscana ed in
particolare a Firenze, numerosi altri scultori hanno arricchito delle loro opere chiese,
piazze e palazzi.
LUCIANO LAURANA. 1420-1479.
Lo abbiamo conosciuto come architetto del Palazzo Ducale di Urbino, ma è anche
uno scultore raffinatissimo. Le sue due opere più famose sono i busti di ISABELLA
D'ARAGONA (Palermo-Museo Nazionale) e di BATTISTA SFORZA (Firenze-Museo
del Bargello). Rappresentano l'idealizzazione della femminilità secondo lo spirito del
Quattrocento. Possono considerarsi la sintesi della perfetta geometria di Piero della
Francesca e della vibrante vitalità del primo Donatello.
IACOPO DELLA QUERCIA. 1371-1438.
La sua opera rappresenta un ideale ponte tra la tradizione gotica ed il classicismo
rinascimentale. Nella tomba di ILARIA DEL CARRETTO lo stile gotico prevale, ma
la serenità e vitalità del volto testimoniano l'influenza della nuova cultura.
Nelle due figure della Sapienza e della Pietà, che fanno parte della FONTE GAIA di
Siena, e nel PORTALE di SAN PETRONIO a Bologna, la drammaticità dei
sentimenti espressi e la plasticità delle forme anticipano la grande scultura di
Michelangelo.
ANDREA del VERROCCHIO. 1435-1488.
È il tipico scultore quattrocentesco. Le sue opere si possono accostare a quelle di
Donatello dell'epoca di mezzo. Il suo DAVID, garbato giovinetto, è un pezzo sublime
di oreficeria, dove i vibranti giuochi di luce sovrastano ogni altro sentimento. Più
profondi sono lo spiritualismo e la liricità di LUCREZIA DONATI, conosciuta anche
come la Dama delle Primule, il cui sorriso e, soprattutto, le cui mani ricordano la
Gioconda di Leonardo.
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Nell'INCREDULITÀ di San TOMMASO, il tipico pittoricismo del Verrocchio si
arricchisce di una tonalità di verismo donatelliano.
La statua equestre del COLLEONI infine esprime con solare chiarezza i sentimenti
tipici dell'uomo nuovo: sicurezza, fierezza, solennità del portamento, positiva fiducia
nelle proprie umane capacità.
LUCA DELLA ROBBIA. 1400-1482.
La sua opera maggiore può essere considerata la CANTORIA che nel Duomo di
Firenze fronteggiava quella di Donatello e che ora è stata ricomposta quasi
integralmente nel Museo dell'Opera del Duomo. I dieci rilievi sono inquadrati in una
nitida architettura di tipo brunelleschiano; i fanciulli che suonano e cantano, nella
serena compostezza del loro atteggiamento (contrastante con la sfrenata vitalità di
quelli di Donatello) testimoniano la piena adesione di Luca alla scuola
rinascimentale. Lo schiacciato è più di tipo ghibertiano che donatelliano.
Luca della Robbia è maestro in una bottega che produce numerosissime opere in
terracotta vetriata policroma, in cui sono dominanti il bianco e il blu. La finezza dei
lineamenti dei suoi personaggi e l'accuratezza dei particolari lo hanno reso
giustamente famoso, anche se la mancanza di originalità pone un limite alla sua
arte.
Andrea (nipote di Luca) e Giovanni (figlio di Andrea) ne hanno continuato l'opera. La
loro produzione si è però progressivamente impoverita di contenuti e di originalità.
Degni di nota sono comunque i Putti della Loggia degli Innocenti, opera di Andrea.
ANTONIO BENCI detto il POLLAJOLO. 1432-1498.
È una delle maggiori personalità della seconda generazione del Rinascimento
fiorentino. ERCOLE ed ANTEO testimoniano dei suoi studi approfonditi
sull'anatomia umana, oltre che della sua tecnica raffinata e della sua sensibilità
profonda agli effetti di luce.
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L'ARCHITETTURA DEL XV SECOLO
FILIPPO BRUNELLESCHI (Firenze. 1377/1446)
Figlio di ser Brunellesco, notaio e diplomatico, vive e muore in casa Brunelleschi
(distrutta nel 1800).
Dapprima è orefice e scultore. Come tale partecipa insieme con altri famosi artisti al
concorso per la porta del Battistero di Firenze. L'incarico viene assegnato al Ghiberti
e Brunelleschi cambia indirizzo, rivolge i suoi interessi all'architettura.
Va a Roma per studiare le "proporzioni", le idee guida dell'architettura classica. Non
copia dettagli (fregi o capitelli); indaga invece le planimetrie, cerca di scoprire le
armonie musicali dei chiaroscuri, dei pieni e dei vuoti, delle ombre e delle luci delle
antiche costruzioni. Studia le opere di ingegneria, i metodi e le soluzioni tecniche
che poi applicherà nella realizzazione delle sue idee.
Quando torna a Firenze mette mano quasi contemporaneamente a diversi progetti:
l'Ospedale degli Innocenti (1419-1444), il Duomo e la cappella di San Lorenzo
(1419-1429), la Cupola di Santa Maria del Fiore (1419-1445), la cappella dei Pazzi
(1430), la chiesa di Santo Spirito (1436-1446).
Quando a Firenze dà inizio alla sua attività di architetto, Brunelleschi si trova di
fronte ad un contesto urbano già ben definito nella sua fisionomia e nel suo stile, ma
lo affronta con il suo spirito nuovo e Firenze, città medioevale, la cui architettura si
era però sviluppata tenendo conto di una costante ispirazione classica, diventerà la
città ideale del Rinascimento, una città concepita secondo il nuovo ordine razionale
e geometrico che avrebbe guidato (o avrebbe dovuto guidare) la nascita e lo
sviluppo delle nuove città.
La città come progetto razionale
La nuova città non deve più crescere spontaneamente intorno alla cattedrale e al
palazzo del Comune, rispondendo ad una logica di sviluppo aderente alle necessità
della vita quotidiana: lavoro, produzione (botteghe artigiane) e difesa (mura). Deve
essere il risultato di un progetto, la realizzazione di un'idea. La piazza non è più il
cuore della vita comunitaria, ma l'estensione del palazzo dei Signori, una corte
d'onore. Il palazzo non è più fortificato, non deve imporsi con l'aspetto minaccioso e
cupo delle mura senza finestre verso l'esterno, non è più circondato da un vallo e
chiuso dal ponte levatoio. Deve invece farsi ammirare per l'armonia delle
proporzioni, la bellezza della forma architettonica e dei fregi che lo ornano e aprirsi
con grandi balconi e finestre verso l'esterno. Al suo interno i consiglieri militari e i
soldati sono sostituiti dai letterati e dagli artisti, dai filosofi e dai maestri dell'arte del
vivere.
La prospettiva
23
È rappresentazione razionale e definizione dello spazio che viene diviso in piani che
vanno progressivamente rimpiccolendosi. Viene schematizzata con una piramide, la
cui base è il primo piano immaginario davanti ai nostri occhi; il vertice è il punto di
fuga all'altezza del punto di vista (cioè dell'occhio dell'osservatore). Lo spazio
prospettico è uno spazio vero, ma idealizzato, luogo dove nulla è lasciato al caso,
dove tutto, fatti e cose, è razionalmente ordinato. La prospettiva non è dunque un
fenomeno o una legge ottica naturale, ma una categoria dello spirito che organizza
tutte le cose a seconda della ragione dell'uomo. Essa permette all'artista "la
rappresentazione finita della realtà, la cui estensione è infinita. Il punto d'incontro
delle linee prospettiche è il limite ed insieme il tramite tra il finito prospettico e la
infinita realtà." (Argan. Storia dell'arte italiana. Vol.II.)
In senso umanistico essa serve ancora a definire il rapporto dell'uomo con la natura,
a creare intorno all'uomo dominatore lo spazio infinito che egli domina.
La teoria della proporzioni.
Anche questa, apparentemente ereditata dal Medioevo (San Tommaso e Dante),
quando si cercava attraverso la perfezione dei numeri di vedere nel creato
l'immagine della perfezione divina, è una concezione nuova, totalmente contraria a
quella medievale. Le proporzioni non traggono origine dal divino per riflettersi nel
reale, ma dalla bellezza della realtà ideale che ha origine nella mente dell'uomo e si
riflettono, attraverso la creazione artistica, nella bellezza ideale della realtà ricreata
attraverso l'opera d'arte.
In architettura la proporzione definisce e commisura le entità di spazio espresse dai
singoli elementi; vi è un rapporto ideale tra l'altezza di una colonna, l'ampiezza
dell'arco, lo spazio tra le finestre, l'altezza dei piani dell'edificio: l'insieme armonico
di queste parti proporzionalmente accostate produce la perfetta opera d'arte. Anche
il corpo umano nel Quattrocento è studiato in base a perfette misure proporzionali.
I canoni di queste proporzioni non sono tuttavia rigidi; attraverso la loro flessibilità
l'artista di volta in volta crea opere diverse e diversamente belle: i pieni che
alternativamente dominano o sono dominati dai vuoti ed il susseguirsi più o meno
incalzante degli archi, vari per le loro ampiezze, danno in diversa misura il senso
della solennità o della leggerezza, della staticità o del movimento.
Caratteristiche comuni e dominanti in maniera diversa nelle varie opere del
Brunelleschi sono:
- La genialità ingegneristica, che si esprime ai massimi livelli nella cupola di Santa Maria del
Fiore
- L'eleganza formale: Ospedale degli Innocenti (facciata, portico e cortile interno)
- L'armonia delle proporzioni: facciata della Cappella dei Pazzi, Sacrestia di San Lorenzo,
Basilica di Santo Spirito
- La delicatezza del colore: le pareti sono sempre in intonaco chiaro, con gli spazi delimitati
da colonne e cornicioni in pietra serena: interno della Cappella dei Pazzi
- La luminosità: Basilica di Santo Spirito
- Il movimento e la leggerezza delle forme: Ospedale degli Innocenti.
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Opere.
1). La cupola di Santa Maria del Fiore. Firenze. h. m.105,50; l. m.51,70.
"erta sopra i cieli, ampla da coprire chon
sua ombra tutti i popoli toscani" (Leon
Battista Alberti: dedica a Brunelleschi nel
trattato "Della Pittura").
Nel 1296 Arnolfo da Cambio aveva progettato e dato inizio alla costruzione della
cattedrale di Firenze, dedicata dapprima a Santa Reparata, poi, nel 1412, alla
Vergine e chiamata Santa Maria del Fiore (il fiore è il giglio, emblema di Firenze).
L'opera si era protratta, modificata rispetto al progetto originale di Arnolfo, per tutto il
Trecento. Nel 1334 era stato dato a Giotto l'incarico di progettare il bel campanile
(che porta il suo nome) e l'artista ne aveva gettato le fondamenta. Non era stata
invece edificata la cupola della chiesa. Essa sarebbe stata il capolavoro del
Brunelleschi.
Per poter dar mano all'impresa l'artista deve partecipare ad un pubblico concorso
(1418) che lo pone di nuovo a confronto con il Ghiberti. Non c'è un vincitore e nel
1424 Brunelleschi e Ghiberti vengono nominati assieme al capomastro Battista
D'Antonio provveditori sulla costruzione della cupola.
Il compito è arduo: il primo problema che Brunelleschi deve risolvere è quello di
scegliere se completare l'opera secondo il progetto originario del Trecento di Arnolfo
da Cambio o studiare qualcosa di completamente nuovo. Decide per la seconda
alternativa.
Disegna una cupola nuova, originale, che interpreta la nuova cultura, ma la cui
realizzazione presenta subito ardui problemi tecnici. La costruzione, secondo le
procedure in uso nei secoli precedenti, dovrebbe essere sostenuta da centine
lignee, fino al completamento dell'opera, non esistono però più carpentieri esperti,
capaci di armare strutture così grandi. Brunelleschi inventa allora una tecnica nuova
che offre la possibilità alla cupola di autosostenersi mentre cresce. La ha dedotta
dallo studio delle costruzioni romane (Pantheon, Terme di Caracalla), ma la applica
in modo diverso. Non costruisce una cupola rotonda, ma ogivale, per accordarsi alle
strutture gotiche preesistenti; la divide in spicchi, la arricchisce di nervature.
La cupola poggia direttamente su un tamburo e termina con un lanterna. Perché
possa resistere alle spinte esterne, Brunelleschi la "incatena" inserendo nel suo
spessore una serie di travi di legno tenute insieme da barre di ferro, precorrendo
l'uso del ferro nel cemento armato e fornendo la soluzione per la costruzione di tutte
le cupole del Rinascimento prima, del Barocco poi.
La novità delle soluzioni presuppone un nuovo rapporto di lavoro, così che
l'architetto deve sovraintendere personalmente all'esecuzione dei lavori di cui viene
ad assumere tutte le responsabilità, mentre le maestranze devono solo eseguire. In
questo nuovo rapporto va cercata la ragione dei contrasti sorti tra Brunelleschi e
Ghiberti e tra Brunelleschi e le maestranze nel corso dell'esecuzione dell'opera.
Il risultato estetico cambia totalmente l'aspetto originale del disegno di Arnolfo. La
cupola non solo chiude l'edificio, ma lo domina, lo sovrasta con l'imponenza della
sua mole e della sua altezza, senza però appesantirlo, anzi lo innalza e lo libra
nell'aria. Il tamburo su cui si erge la cupola la collega al resto della costruzione e
nello stesso tempo la isola.
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La città ora gravita e si raccoglie intorno a questa struttura, che ne diventa centro ed
ancora.
Questa immagine nuova è in contrasto con il principio secondo il quale erano state
erette tutte le preesistenti strutture gotiche, nelle quali la guglia raccoglieva tutte le
forze convergenti verso l'alto e cercava nello slancio il punto d'incontro con l'infinito.
2). L'Ospedale degli Innocenti (1419-1424), costruito sulla Piazza della SS.
Annunziata, per conto dell'Arte della Seta.
Il portico dell'ospedale è l'esempio classico della nuova teoria delle proporzioni.
L'altezza delle colonne è uguale sia al diametro degli archi della facciata, sia alla
larghezza del portico.
I cornicioni che tagliano la facciata sopra le colonne danno l'impressione della
profondità del piano delle finestre, che è invece la continuazione del piano della
facciata.
Anche questa impresa testimonia l'innovazione totale, la creazione da parte di
Brunelleschi di un'opera nuova, anche se ispirata a modelli romani. L'arco, le
colonne, i capitelli segnano il punto di contatto con la romanità classica, ma la loro
realizzazione, il disegno originale, la proporzione nuova degli spazi e i materiali
usati danno immediatamente il senso della novità dell'arte dell'architetto. In nessuna
delle opere del Brunelleschi (così come in quelle degli altri grandi architetti del
Rinascimento) possiamo vedere una semplice copia del modello classico. Nessun
edificio della romanità ha inoltre mai posseduto tanta raffinata eleganza e tanta
leggerezza.
Il portico era presente anche nelle piazze dell'antichità e, come loggia, possiamo
ancora vederlo nelle strutture architettoniche del Trecento (Palazzo della Signoria,
Orsanmichele...), la novità del Portico progettato dal Brunelleschi consiste nel fatto
che esso non è un elemento indipendente, staccato dal contesto urbano in cui è
costruito, ma diventa elemento determinante della unitarietà del progetto.
3). Sagrestia della chiesa di San Lorenzo (La Sacrestia Vecchia) (1418-1428).
Nasce come cappella gentilizia dei Medici. È costituita da un vano cubico (lato m.
11,60, cioè 10 braccia) coperto da una cupola emisferica; al centro di una parete si
affaccia la cappella, che ripete in scala ridotta la struttura del vano della sacrestia.
Anche qui l'architettura esprime con chiarezza dimostrativa, attraverso il rapporto
dimensionale dei due vani, i concetti fondamentali della prospettiva e delle
proporzioni. Lo spazio cubico della cappellina è pensato come la proiezione in
lontananza della sacrestia, una estensione dello spazio verso l'infinito prospettico.
Le colonne e le lesene che delimitano gli spazi tra le due strutture sono in pietra
serena ed accentuano i contrasti cromatici con l'intonaco chiaro, conferendo
movimento e leggerezza alla costruzione.
4). La chiesa di San Lorenzo (1419-1442)
Ha pianta basilicale (a forma di T, tre navate che sboccano in un transetto con
cinque cappelle). Colonne, archi, cornici, modanature sono in pietra serena al fine di
sottolineare con il colore grigio chiaro il loro ruolo di cornice alle superfici, di
accentuare il movimento prospettico dei piani che si susseguono, di delimitare
armonicamente gli spazi, disegnare e permettere di confrontare proporzionalmente
gli elementi compositivi della costruzione.
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La navata centrale ripete i motivi della Loggia degli Innocenti: archi e finestre
sovrapposte al centro dell'arco, stesse proporzioni dei cubi sovrapposti.
L'abbondante luce che proviene dalle numerose finestre dà il senso dello spazio
all'aperto (la piazza), mentre le navate laterali che prendono luce da piccole finestre
rotonde danno la sensazione del portico.
Le cappelle che si aprono con grandi archi sulle navate laterali ripropongono
l'immagine della prospettiva e delle proporzioni già presenti nella sacrestia. Il
rincorrersi di archi e colonne su piani prospettici e contrapposti trova la sua naturale
conclusione nel cerchio su cui posa la cupola.
Elemento particolare di questa costruzione è la comparsa, per la prima volta, dei
dadi brunelleschiani, segmenti di architrave posti al disopra dei capitelli, che
ricordano i pulvini bizantino-romanici e servono a spingere verso l'alto gli archi ed a
rendere la costruzione più aerea e leggiadra.
5). Basilica di Santo Spirito. Firenze
I dadi, questo elemento elevante, si ripetono nella Basilica di Santo Spirito.
Apparentemente simile alla chiesa di San Lorenzo, essa traduce nella realtà un altro
dei principi fondamentali dell'architettura quattrocentesca in generale e di quella
brunelleschiana in particolare. In San Lorenzo l'elemento caratterizzante era la
prospettiva: i diversi piani prospettici longitudinali (le colonne) e quelli laterali
(navate e cappelle laterali) riproducevano la piramide prospettica. Qui sono
soprattutto le proporzioni a dare il senso della perfezione formale. L'altezza della
navata centrale è esattamente doppia della sua larghezza. La larghezza della
navata è uguale all'altezza degli archi. La parte sovrastante gli archi è di
conseguenza uguale alla loro altezza. La larghezza delle navate laterali è la metà di
quella della navata centrale; la loro altezza è doppia della larghezza.
Le cappelle laterali sono nicchie racchiuse in archi che hanno le stesse dimensioni
di tutti gli archi della chiesa.
Un elemento che la differenzia da San Lorenzo è costituito dalle colonne che
definiscono le cappelle laterali: non sono semplici lesene, quadrate e scanalate, che
hanno lo scopo di definire i piani della piramide prospettica, ma sono rotonde
(semicolonne) come quelle della navata.
Il risultato è quello di imprimere dinamicità alla struttura. Anzichè delimitare lo
spazio, esse danno l'impressione che un'altra navata si debba aprire sui lati, in un
ritmo espansivo illimitato. È l'apertura verso il nuovo concetto dello spazio
rinascimentale (Leonardo, Michelangelo) non scandito da piani prospettici rigorosi,
ma armoniosamente aperto verso l'infinito.
L'impressione finale è quella di una meravigliosa sinfonia di semicerchi, cui fa da
contrappunto la forte semplicità delle colonne.
Brunelleschi progettò (ma non realizzò) anche due chiese a pianta circolare, la linea
che comunque i committenti scelsero e che si affermò nell'architettura
rinascimentale (e proseguì per secoli nell'arte occidentale) è quella a croce latina.
La basilicale, che era stata già adottata nell'arte gotica, sembrava la più rispondente
allo spirito medioevale, la più adatta cioè a spingere l'uomo verso i più remoti misteri
di Dio, mentre la pianta centralizzata dovrebbe essere quella tipica del
Rinascimento, in quanto risponde all'idea dell'uomo centro dell'universo. Secondo
Leon Battista Alberti, teorico oltre che architetto, era invece la pianta centralizzata
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quella che rispondeva meglio di qualunque altra all'idea della divinità, infatti,
secondo la filosofia neoplatonica, il cerchio è la forma perfetta, quindi divina.
In pratica possiamo pensare che la scelta da parte dei committenti della croce latina
sia stata determinata da particolari necessità delle funzioni liturgiche.
Abbiamo comunque nel Rinascimento italiano notevoli esempi di chiese a pianta
centralizzata La Cappella dei Pazzi (Brunelleschi), La Sacrestia Nuova in San
Lorenzo (Michelangelo), il Tempietto di San Pietro in Montorio (Bramante).
6). Cappella dei Pazzi (1429-1444, probabile data del completamento dell'interno)
Il concetto di base, soprattutto per quanto riguarda l'interno, riprende i motivi della
sacrestia di San Lorenzo, ma con alcune differenze fondamentali. La pianta è
rettangolare, anziché quadrata. La copertura perciò richiede sul lato più lungo, ai
due estremi, due segmenti a botte, entro i quali si erge la cupola. La decorazione
raffinatissima include, nei pennacchi della cupola, quattro medaglioni in terracotta
policroma, opera del Brunelleschi, che rappresentano i quattro evangelisti, e
medaglioni in terracotta smaltata bianco azzurra, opera di Luca della Robbia, negli
specchi tra le lesene.
L'illuminazione dello spazio è perfetta. Le finestre che si affacciano sul portico
anteriore, il lucernario e le finestrelle che si aprono alla base della cupola diffondono
all'interno una luce metafisica, senza ombre, assoluta, come lo spazio
geometricamente perfetto dell'edificio che la cattura.
Nell'armonia e proporzione della facciata, nello spazio e nella prospettiva,
nell'eleganza ritmica dei pieni e dei vuoti si riassumono tutti gli elementi
dell'architettura brunelleschiana.
La facciata e il portico hanno la funzione di concentrare la mente, raccogliere lo
spirito e quindi creare insieme un ponte e un diaframma tra lo spazio mutevole
esterno e la razionale chiarezza e serenità dell'interno.
Brunelleschi fu anche il creatore del tipico palazzo rinascimentale.
Lo spirito laico e secolare del Rinascimento favorì a metà del XV secolo la nascita
del palazzo cittadino. A Firenze tutte le grandi famiglie, Medici, Pitti, Strozzi,
Pandolfini..., vollero il loro palazzo, diverso dagli altri nei dettagli, ma simile nella
tipologia. Ognuno infatti occupava un intero isolato, sorgeva (e sorge) direttamente
sulla strada, sulla quale presentava la facciata principale, possente e severa nel suo
bugnato più o meno rustico, più o meno levigato, alleggerita dalle file delle finestre
che si aprivano sui tre piani.
Ogni palazzo aveva al suo interno un cortile circondato da portici colonnati e in
ognuno di essi il piano terreno era riservato agli uffici, alle stalle, alle cucine ed alle
sale del corpo di guardia. Le finestre di queste stanze che si affacciavano sulla
strada erano in genere piccole ed ornate da grate di protezione, che talvolta erano
piccole opere d'arte.
Al primo piano, il piano nobile, c'erano gli appartamenti dei proprietari.
Con la costruzione del palazzo rinascimentale nasceva il nuovo tipo di architettura
urbana, non più commissionata dal potere religioso o dal feudatario, ma dal ricco
uomo d'affari, commerciante o banchiere.
Brunelleschi disegnò e fece costruire per Luca Pitti l'omonimo palazzo, ora sede di
una delle maggiori gallerie d'arte di Firenze e del mondo. Gli stessi concetti di
proporzionalità rigorosa, (spazi razionalmente scanditi, numero e altezza dei piani,
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numero delle finestre...) di eleganza formale e armonia che hanno caratterizzato le
opere religiose del Brunelleschi, vengono applicati anche nella realizzazione di
quest'opera civile.
Il palazzo fu successivamente ampliato dall'Ammannati e da Alfonso Parigi per
volontà dei Medici che ne divennero proprietari nel 1549. Gli interventi successivi ne
hanno modificato profondamente l'aspetto originale, di cui resta testimonianza in un
quadro di Giusto Utens. Se però, osservando l'attuale Palazzo Pitti, si isolano
idealmente le sette finestre centrali che si aprono sopra il portone dell'ingresso
principale, si riesce ancora ad avere un'idea della facciata così come era stata
concepita dal Brunelleschi.
LEON BATTISTA ALBERTI (1404/1472)
Nasce a Genova, dove la famiglia si trova in esilio, studia latino e greco a Padova,
scienze matematiche e fisiche a Bologna, si apre all'arte a Firenze, dove diventa
discepolo e amico del Brunelleschi.
È cavaliere ed atleta, abile conversatore, commediografo, linguista, compositore,
matematico. Elegante letterato, manca della genialità del Brunelleschi e degli
architetti del secolo successivo (Michelangelo e Bramante), è tuttavia il vero "uomo
del Rinascimento", versatile e completo.
Scrive tre trattati sull'arte: De Pictura, De Statua, De Re Aedificatoria. Nel primo, che
è il manuale della pittura toscana del Quattrocento, l'Alberti enuncia in modo
sistematico la concezione prospettica brunelleschiana applicata alla pittura. Scrive
l'ultimo, sull'architettura, a Roma, dove è addetto alla cancelleria pontificia e dove,
dopo il ritorno dei Papi, una schiera di artisti e letterati inizia la ricostruzione della
Città Eterna, che raggiungerà il suo massimo splendore nel secolo successivo,
quando Bramante, Michelangelo e, verso fine secolo, Bernini e Borromini
presteranno la loro opera a favore di Papi e Principi.
In questo trattato (dieci volumi) cerca di formulare le leggi che erano state applicate
dai Greci nelle loro opere architettoniche, partendo dal principio che i Greci avevano
concepito i loro templi in termini matematici.
Come Brunelleschi è l'architetto quattrocentesco che ha lasciato la sua impronta ed
ha dato un volto nuovo a Firenze, così l'Alberti ha lasciato la sua impronta
soprattutto a Rimini ed a Mantova.
Le caratteristiche, o gli elementi, fondamentali della sua architettura possono
riassumersi in:
- Solennità e classicità, contrapposti all'eleganza e alla leggerezza del Brunelleschi. Il suo
classicismo è talvolta più copiato che interpretato (Fianco del Tempio Malatestiano), le sue
teorie, però, interpretate da grandi architetti, eserciteranno un'ampia influenza nel secolo
successivo.
- Plasticità: lo spazio non è più solo ritmo scandito in infiniti piani prospettici, razionalmente
chiari e luminosi, ma diventa elemento mobile, ricco di chiaroscuri; non superficie lineare,
ma insieme di masse aggettanti (Mantova: facciata di S.Andrea).
- Dinamicità: in contrasto con la metafisica statica brunelleschiana, l'architettura diventa monumentale,
espressione di valori ideologici, oltre che di razionalità pura (Monumentalità della facciata del Tempio
Malatestiano, monumento all'orgoglio del committente).
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Opere
1). La prima opera architettonica di Leon Battista Alberti è il Palazzo Rucellai,
edificato per il mercante fiorentino Giovanni Rucellai tra il 1447 e il 1451.
In quest'opera l'elemento proporzionale proprio del Quattrocento ha il sopravvento
sulle altre caratteristiche: esso è definito da tre piani a bugnato liscio, scanditi da
cornicioni via via più marcati ed ornati, in senso orizzontale, con finestre
ritmicamente inquadrate da paraste (lesene) doriche al primo piano, ioniche al
secondo e corinzie al terzo.
2). Anche nella facciata della chiesa di S.Maria Novella a Firenze prevale il motivo
geometrico della modularità. Il progetto è basato su un modulo, rappresentato da
ciascuno dei quadrati neri disegnati sotto il rosone.
Le semplici tarsie geometriche in marmo policromo (la rivestitura in marmo è eredità
dell'antica Roma), inquadrate nelle colonne doriche e ioniche della parte superiore,
servono a raccordare il tutto con la parte inferiore (dorica) della facciata medievale
preesistente. Le colonne corinzie che inquadrano le tarsie e gli archi in marmo
policromo nella parte intermedia servono a ricondurre tutta la facciata alla solenne
classicità del portale.
L'artista completò la facciata nel 1456 introducendo il motivo delle larghe volute che
collegano la navata centrale e quelle laterali, motivo che godette di grande fortuna
nei secoli, dopo essere stato adottato dal Vignola nella Chiesa del Gesù, a Roma.
3). La chiesa di S.Francesco a Rimini (1447-1450), detta anche Tempio
Malatestiano perché sarebbe dovuta diventare il mausoleo di Sigismondo Malatesta
e della sua famiglia, segna il passaggio verso la più nuova e tipica architettura
albertiana e può essere considerata la trasposizione pratica delle sue teorie.
Il tempio, che è rimasto incompiuto, avrebbe dovuto costituire una specie di scatola
racchiudente la preesistente chiesa gotica. La facciata ed il fianco (l'unico che è
stato completato) vanno analizzati separatamente. Il fianco ripropone, visivamente,
quasi in copia la solennità degli acquedotti romani; in pratica le nicchie profonde,
nello spessore del muro di pietra, erano destinate a diventare tombe per i Malatesta
e la loro corte. La facciata richiama gli antichi archi di trionfo romani (sembra che
l'artista si sia ispirato ad un arco romano di Rimini). In ambedue i casi, la classicità è
più copiata che reinventata. L'elemento plastico è evidente nelle semicolonne
aggettanti, negli archi e nei cornicioni. Il podio su cui poggiano le colonne serve ad
accrescere la monumentalità dell'opera, oltre che a rafforzare il contrasto tra le parti
piane (il podio stesso) e le parti aggettanti, aumentando l'effetto di movimento e di
plasticità.
4). A Mantova l'Alberti progettò la chiesa di San Sebastiano (1460) e quella di
Sant'Andrea (ca. 1470). Ambedue si alzano su una grande piattaforma o podio.
La chiesa di Sant'Andrea a Mantova è la più completa delle opere albertiane, perché
ne riproduce tutti gli elementi caratteristici.
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All'esterno, la facciata è un forte organismo plastico, un'incalzante contrapposizione
di pieni e vuoti la monumentalità dell'arco centrale è enfatizzata dagli archi laterali
più piccoli.
NOTA: Modulo è il termine usato nell'architettura moderna, per indicare una unità di
misura convenzionale (10 centimetri) dalla quale derivano tutte le altre misure di un
edificio.
All'interno la modularità cubica (5 cubi in lunghezza 3 in larghezza) ripropone la
teoria delle proporzioni.
L'estremità ad est è disegnata come una chiesa a pianta centralizzata, con transetto
e coro di uguale lunghezza. Le navate laterali sono sostituite da cappelle
(alternativamente grandi e piccole) scavate nel muro spesso.
Il susseguirsi dei pieni che si intervallano alle cappelle laterali ripropone la plasticità
solenne degli archi trionfali.
La volta a botte rinnova la solennità delle terme romane.
5). San Sebastiano.
La chiesa ha pianta centralizzata, basata però sul quadrato e non sul cerchio
"divino".
Per apprezzarne gli elementi classici della modularità, dell'armonia, delle
proporzioni e della solennità è bene studiare il disegno originale della facciata,
poiché i rifacimenti successivi ne hanno alterata profondamente la fisionomia.
MICHELOZZO MICHELOZZI (1396/1472)
Fa parte della scuola del Brunelleschi e combina scrupolosamente le eleganti
proporzioni del maestro con la plasticità dell'Alberti, che egli però ingentilisce
profondamente.
Le sue opere più famose sono:
1). Libreria del Convento di S.Marco in Firenze.
Il preesistente convento domenicano fu restaurato da Michelozzo per ordine di
Cosimo il Vecchio, tra il 1437 e il 1452. Nella Libreria l'esempio e lo stile
brunelleschiani sono copiati; manca la geniale creatività del maestro. L'eleganza è
formale, le proporzioni fredde; la perfetta razionalità della teoria di archi e colonne
sembra uscita più da un libro di logica che dalla fantasia di un poeta.
2). Il palazzo Medici-Riccardi. Firenze. Via Larga.
Michelozzo si esprime con maggiore originalità e genialità nelle costruzioni civili. Qui
il confronto con i maestri è meno immediato, i risultati sono più accattivanti.
In questo palazzo Michelozzo combina gradevolmente il bugnato brunelleschiano di
palazzo Pitti con quello di tipo albertiano di palazzo Rucellai, sfumando dal basso
verso l'alto la rusticità di questo stile ornamentale, che si conclude nel paramento
liscio del terzo piano. La delicata eleganza delle bifore contribuisce ulteriormente ad
alleggerire i piani superiori, chiusi da un solenne cornicione, che richiama la solidità
del bugnato del piano terra. Su questo si aprono cinque portali (tre dei quali
successivamente chiusi da finestre inginocchiate) che immettono nel cortile
quadrato, circondato da un elegante portico di chiara ispirazione brunelleschiana
(vedi Ospedale degli Innocenti).
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La notorietà dei personaggi che lo hanno abitato e delle storie che si sono svolte
all'interno delle sue mura contribuisce ad accrescerne la fama anche al di là dei
meriti artistici, che pure sono notevoli.
La perfezione formale della realizzazione, la posizione in cui sorge (nel cuore di
Firenze, a fianco del Duomo, sede del potere religioso) ne hanno fatto il simbolo
della Firenze rinascimentale, esempio tipico di palazzo quattrocentesco e modello
per l'architettura civile fiorentina dei secoli successivi.
3). Cappella Portinari, nella chiesa di Sant'Eustorgio a Milano
Michelozzo è presente anche a Milano. Sua è la Cappella Portinari nella chiesa di
Sant'Eustorgio (presso la porta Ticinese). L'imitazione della Sacrestia di San
Lorenzo del Brunelleschi è evidente sia nella pianta quadrata della cappella sia
nella continuazione prospettica della cappellina. Anche qui l'eleganza semplice e
raffinata di Brunelleschi cede il passo a ornamenti, cornicioni e dipinti che
appesantiscono la purezza formale del maestro.
BENEDETTO DA MAIANO (1442 – 1497)
Sua opera principale è il Palazzo Strozzi a Firenze. In bugnato rustico, si ispira al
Palazzo Pitti di Brunelleschi, anche se nelle finestre, eleganti bifore, ricorda molto di
più il palazzo Medici-Riccardi di Michelozzo. I motivi chiaroscurali accentuati
ricordano l'origine dell'autore, che è soprattutto scultore.
L'idea di forza, di potere, data dalla massiccia facciata è enfatizzata dall'ombra
profonda che getta l'ampio cornicione.
Tutte le stanze guardano verso il cortile interno.
L'imponenza della costruzione, i richiami formali insistenti rivelano nel committente
l'intenzione di una sfida alla rivale famiglia Medici. Le due famiglie e i due palazzi
furono allora, e rimangono tuttora, i simboli della Firenze del XV secolo.
GIULIANO DA SANGALLO (1445 – 1516)
Sua opera principale è la Villa Medici di Poggio a Caiano.
Gli uomini nuovi del XV secolo riscoprono la natura anche come luogo di svago
raffinato e meditazione nella solitudine agreste. Ad imitazione della romanità rinasce
la villa di campagna, di classica memoria (Casale di Piazza Armerina, ad esempio).
Nella Villa di Poggio a Caiano (1480-1485) i vari elementi architettonici (archi come
acquedotti, tempio con frontone) si inseriscono, non sempre armonicamente, nella
elegante facciata.
In seguito l'ispirazione formale classica sparirà e, nel secolo successivo, la villa
costituirà elemento originale e caratterizzante del Rinascimento italiano.
LUCIANO LAURANA (1420 - 1479)
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La più imponente, inimitata perché inimitabile opera di architettura civile del XV
secolo è il Palazzo Ducale di Urbino del dalmata Luciano Laurana. Giunto ad
Urbino nel 1466, probabilmente dopo aver lavorato a Firenze nella Scuola del
Brunelleschi (Vasari: Vite) si mette al servizio dei Montefeltro. Il duca Federico gli
assegna il difficile compito di organizzare in un complesso armonico due costruzioni
preesistenti, l'antico palazzo ducale e il castelletto. Il palazzo non si presenta quindi
come una mole compatta, ma come un articolato susseguirsi di costruzioni, cortili e
giardini che si fondono in mirabile unità. La natura del terreno, collinare e scosceso,
pone continuamente all'architetto ardui problemi da risolvere. Il risultato è il mirabile
Palazzo Ducale.
La facciata che guarda verso la valle evoca certamente il ricordo dei castelli tardo
gotici francesi, ma esprime un concetto tipicamente umanistico. "È un'architettura
militare che si trasforma, a vista, in civile, alludendo insieme alle virtù guerriere e al
saggio pacifico governo del Signore" (Argan-Storia dell'arte - vol.II pag.269).
Il richiamo ai castelli medioevali è servito a raccordare il palazzo al castelletto; le
ampie finestre, i balconi e le logge della facciata e del cortile, mirabilmente inseriti
tra i torricini, testimoniano il nuovo spirito aperto dell'Umanesimo.
Il cortile interno, di tipica ispirazione fiorentina, introduce nelle sale luminose, tra le
quali è famoso lo studiolo del duca, completamente rivestito con eleganti intarsi
lignei.
33
LA PITTURA NEL XV SECOLO
Benchè la pittura del XV secolo muova dalla stessa poetica e dalla stessa rivoluzione
culturale e filosofica che ha caratterizzato la scultura e l'architettura, l'elevato numero
di pittori, la provenienza da esperienze, origini, scuole molto diverse, l'abbondanza
della loro produzione rendono difficile parlare di "elementi comuni" a tutti o almeno
alla maggior parte degli artisti del Quattrocento.
Si possono tuttavia identificare alcune idee guida che costituiscono l'invisibile filo
conduttore di tutta la pittura del secolo.
La prospettiva
È l'elemento dominante in tutte e tre le arti figurative del XV secolo; testimonia
dell'unità culturale dell'epoca; quando si passerà dalla rigorosa sequenza dei piani
prospettici alla larghezza spaziale dello sfumato leonardesco, sarà segno che questo
periodo si è chiuso definitivamente.
L'uomo centro dell'universo
È l'uomo, così come lo hanno idealizzato gli umanisti, che riempie i primi piani delle
tele dei pittori del XV secolo. Gli sfondi, i paesaggi, la natura, sono spazi ideali, che
servono a mettere in evidenza l'uomo e i suoi sentimenti, la sua bellezza e la sua
sicurezza, la sua armonia e la sua perfezione.
La chiarezza e la compostezza classica
Anche nelle scene più movimentate (le battaglie di Paolo Uccello o le Storie di
Nastagio degli Onesti di Botticelli, per citare un artista dell'inizio e uno della fine del
secolo) le figure assumono un aspetto solenne e definito, quasi statuario, dai contorni
netti. Quando Leonardo introdurrà lo sfumato, sarà la fine del Primo Rinascimento.
I motivi per cui le opere venivano prodotte
Potevano essere celebrativi (Le battaglie di Paolo Uccello), illustrativi (tutta la
iconografia religiosa), documentari (la ritrattistica); o poteva essere, finalmente, la
semplice ispirazione dell'artista (vedi gli schizzi di Leonardo) a stimolare la creazione
di opere pittoriche. Artisti veri e mestieranti accettavano commissioni. Spesso gli
stessi grandi artisti ripetevano se stessi (soprattutto verso fine secolo, per esempio il
Botticelli) per soddisfare le richieste dei mecenati.
PAOLO UCCELLO 1397-1475
1397. Paolo nasce a Firenze da Dono di Paolo, barbiere e chirurgo.
1404. Figura come garzone di bottega in una lista dei dipendenti del Ghiberti. È
addetto alla pulitura della prima porta eseguita dal Maestro per il Battistero di Firenze.
Lavora con lui anche il giovane Donatello.
1415. Risulta iscritto all' "arte" dei medici e degli speziali.
1424. È iscritto alla "compagnia" dei pittori di San Luca.
1425-30ca. Lavora a Venezia come mosaicista nella basilica di San Marco.
1432. Tornato a Firenze nel 31, lavora per il duomo.
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1436. Esegue per il duomo l'affresco che rappresenta Giovanni Acuto.
1445. A Padova (secondo il Vasari) lavora assieme a Donatello.
1453. Dalla moglie, Tommasa di Benedetto Malifici, ha un figlio, Donato.
1475. Muore il 10 dicembre.
Nelle "Vite" il Vasari lo presenta come "solitario, strano, povero e malanconico",
"senza molte pratiche" (ossia con pochi amici), e così egli fu probabilmente, tutto
dedito alla pittura, affrontata con il rigore con il quale si affrontano le scienze, ma
sicuramente, spesso, anche con un pizzico di ironia e con la gioia che deriva
dall'osservazione costante della natura e dallo studio dei colori.
Fu poi davvero così povero come le lamentele della moglie o i vari aneddoti che su lui
si raccontano potrebbero far credere? In realtà i committenti delle sue opere e le
opere realizzate farebbero pensare ad una vita non misera; il testamento, inoltre,
dimostra che la sua situazione economica non era disastrosa.
Ad una prima lettura la sua opera è "difficile" da capire. Nel contesto del
Rinascimento anche il Vasari lo critica; ma nella descrizione dello storico, che
vorrebbe essere negativa, si possono leggere invece i valori positivi, essenziali della
sua pittura.
Paolo Uccello -dice infatti il Vasari nel libro II delle sue Vite- sarebbe stato il "più
leggiadro e capriccioso ingegno....se si fosse affaticato tanto nelle figure ed animali,
quanto si affaticò e perse tempo nelle cose di Prospettiva, le quali affaticano la natura,
e se ne cava -chi più attende a lei prospettiva che alle figure- la maniera secca, piena
di proffili...."
Paolo Uccello, infatti, più che alle figure, che tanti altri artisti sapevano ben disegnare
copiando la natura, ebbe "leggiadro e capriccioso ingegno". Andò oltre la natura, a
scoprire nelle cose, animali, persone le forme geometriche fondamentali (rette, curve,
archi, cerchi...) e si divertì a riprodurle in razionali e chiari spazi prospettici
arricchendole di colori leggiadri e capricciosi: cavalli bianchi, rossi, neri, con finimenti
degli stessi colori, e armi, lance e spade fantasiosamente colorate.
1). Storie del Duomo di Prato (Cappella dell'Assunta). 1435-40.
Natività della Vergine. cm.302X361. Affresco trasferito su tela.
È opera importante per l'ampiezza prospettica e per l'uso raffinato dei colori, vivi ed
antinaturalistici (notevole l'uso di una base di colore verde per dare maggiore vivezza
agli incarnati), che trasferiscono la scena, ricca di quotidianità, in un sfera fantastica.
Come avviene anche in altre opere di Paolo, le soluzioni prospettiche sono varie e
non concorrono in un solo punto di fuga.
2). Ritratto equestre di Giovanni Acuto. 1436 (data della conclusione dell'opera).
cm.820X515. Firenze. Duomo.
È un affresco trasferito su tela, dipinto sulla parete sinistra (per chi entra) del duomo
di Firenze, cui si affianca quello di Andrea del Castagno, che ritrae Niccolò da
Tolentino. L'impostazione delle due opere è molto simile, ma le caratteristiche dei
due artisti le rendono profondamente diverse.
Ambedue gli affreschi indicano che ormai la teoria brunelleschiana della prospettiva è
diventata un canone fisso per tutti i pittori. In Paolo Uccello essa è senz'altro rigorosa,
anche se quello della prospettiva in quest'opera è stato uno dei problemi più dibattuti
dai critici. Esiste infatti una contraddizione prospettica tra il gruppo equestre ed il
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basamento, rappresentati secondo due punti di vista differenti: il basamento è stato
eseguito per essere visto dal basso, mentre il cavallo è allo stesso livello
dell'osservatore.
Andrea del Castagno, che ha dipinto la sua opera dopo che quella di Paolo Uccello
era stata completata, ha fatto in modo che l'osservatore, ponendosi di fronte al suo
affresco, potesse osservare anche quello di Paolo con la perfetta illusione del rilievo
e con il giusto angolo prospettico, senza doversi spostare.
La differenza di stile e la personalità dei due pittori si rilevano osservando
attentamente le figure dipinte, il cavallo e il cavaliere.
Andrea del Castagno è più concreto, realista, naturale. Sia il cavallo che, e
soprattutto, il cavaliere, pur nella solennità monumentale della rappresentazione,
sono figure vive, reali.
Il cavallo avanza (idealmente in trionfo tra la folla) con imponente solennità, il
cavaliere sembra accogliere superbamente l'ovazione dei concittadini e il
riconoscimento della storia.
In Paolo Uccello dominano le geometrie formali: il disegno del cavallo (posteriore,
collo), la compostezza dei suoi passi geometricamente scanditi e ritmati (al contrario
del nervoso, quasi scomposto incedere di quello di Andrea del Castagno); le linee
stesse della figura del cavaliere (bastone del comando che si incrocia con la linea
della gamba, rotondità della spalla, linea del mantello, gamba del cavaliere che si
inserisce mediamente nel movimento delle gambe del cavallo, figura del cavaliere che
tende a formare una piramide equilibratrice al centro della composizione) denotano
l'interesse alla figurazione geometrica prospettica oltre che all'espressione di
sentimenti e alla semplice rappresentazione di "uomini".
In quest'opera, che rappresenta il momento culminante della prima fase della sua
attività, Paolo Uccello, fedele alla nuove teorie del Brunelleschi e di Masaccio, ci
presenta l'ideale di "Humana dignitas" secondo il suo spirito geometrico.
Per il Vasari: "Paolo fa i campi azzurri, le città rosse, perchè per lui i colori sono una
qualità dei piani prospettici o dello spazio, non delle cose."
È il mondo fantastico dei tre quadri in cui vengono raffigurati tre episodi della battaglia
di San Romano.
Nei tre pannelli dipinti per ornare un salone nel palazzo dei Medici viene esaltata la
vittoria riportata da Niccolò da Tolentino, amico ed alleato di Cosimo, sui Senesi nel
1432 (era abbastanza comune all'epoca presentare in grandi dipinti battaglie, eventi
storici e biblici, episodi tratti dalla mitologia).
3). Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini.
cm.182X320. 1456. Tempera a uovo su pioppo. Londra. National Gallery.
A differenza degli artisti fiorentini contemporanei, Paolo Uccello non si propone di
rendere con la prospettiva la realtà, nè si propone di raccontare un fatto.
Anche qui abbiamo una doppia prospettiva, una fuggente in primo piano, una a
comparti, ancora medievale, sul fondo.
Nel primo piano l'impostazione prospettica è sottolineata dalle lance sparse per terra
e dalla posizione del soldato morto. I piani prospettici sono segnati dai cavalli (che si
ripetono in ritmi geometrici e temporali perfettamente sincronizzati) e dalle lance
alzate dei due eserciti che si scontrano.
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Tutto assume la monumentale sembianza dell'immobilità, pur nell'apparenza del
moto, grazie all'impostazione scenica: Paolo Uccello sembra avere ideato un
palcoscenico sul quale si recita una battaglia non cruenta, all'insegna del bello.
Sullo sfondo sono dipinti campi e colline, su cui si muovono minute figure: alcune di
esse stanno combattendo, altre preparandosi alla battaglia.
L'azione principale avviene in primo piano, dove Niccolò, che impugna il bastone del
comando, avanza sul suo cavallo bianco. Lo seguono i suoi cavalieri che, chiusi in
pesanti armature di ferro, alzano aste luminose.
È una festa di colori, colori smaglianti, puramente fantasiosi, che obbediscono solo al
gusto del pittore: il cappello di Niccolò, rosso ed oro come la corta gonnella che il
comandante indossa sull'armatura, i finimenti dei cavalli, gli aranceti ed i roseti che
fanno da spalliera e sfondo alla scena di battaglia.
2). Il Disarcionamento di Bernardino della Ciarda (particolare). cm.182X323. 1456.
Firenze. Galleria degli Uffizi.
Si ripetono in questo quadro gli stessi motivi osservati nell'opera precedente; oltre
alla prospettiva segnata dalle armi e ai piani prospettici indicati dai cavalli che si
allineano con regolare cadenza, vale la pena osservare le forme geometriche, in
particolare le curve, che si susseguono quasi ossessivamente.
4). Intervento di Michelotto da Cotignola. 1456. cm.180X316. Parigi. Louvre.
Delle tre, è la tavola meglio conservata. Si può ancora notare in essa l'argentatura
delle corazze (importante per la struttura dell'opera) che doveva probabilmente
riflettere le immagini.
5). San Giorgio libera la Principessa. Londra. National Gallery.
Anche qui la composizione è intessuta di sottili geometrie e di artifici prospettici che
creano uno spazio e un'atmosfera irreale simile a quella delle battaglie.
Le figure sono calate in quest'atmosfera a metà tra l'incubo e il sogno, che i colori
freddi e brillanti insieme accentuano.
L'insistenza sul ripetersi di motivi geometrici sacrifica la realtà al gioco della fantasia
(osserviamo l'esasperata curva del collo del cavallo, l'eccessiva rotondità della figura
di San Giorgio, il disegno della parte sinistra della caverna, che accompagna le
morbide curve dell'abito della principessa, e della destra che riprende la linea del
drago e delle sue ali), ma il sentimento della natura di Paolo Uccello, la sua forma, il
suo stile stanno appunto nell'armonia delle forme geometriche.
La geometria e il colore negli abiti di Paolo Uccello.
Paolo Uccello vive dunque la sua esperienza artistica nel cuore del XV secolo, ma si
distingue nettamente dagli altri pittori per "capriccio ed originalita".
La sua moda sembra rimanere fedele al linearismo gotico del Trecento, ma le
apparenze non devono trarci in inganno. Non la veste lunga o corta, con cintura alta o
bassa, ma l'immagine interessa Paolo Uccello, un'immagine originale, caratterizzata
da un geometrismo esasperato e da colori accesi.
La sua donna ideale è alta, slanciata, ha un viso chiaro, aperto, luminoso. I capelli,
ben raccolti sulla nuca, mettono in evidenza la fronte ampliata da una rasatura, che
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accentua la forma ovale del viso e quella cilindrica del collo lungo e delicato. Le forme
geometriche che si ripetono insistentemente costituiscono il motivo unificante di tutti
gli elementi delle sue composizioni. Così nella "Natività della Vergine" (PratoDuomo) la bella pellanda con le maniche ampie della prima visitatrice, indossata su
una veste rossa con abbottonatura sulla manica, secondo lo stile trecentesco,
combina e contrasta una linea alta e slanciata con le curve che accompagnano l'arco
disegnato dalla Sant'Anna e dalla donna che l'assiste. I colori degli abiti, rosa, verde,
rosso, giallo, e quelli poco naturali dei volti danno all'immagine il particolare senso del
fiabesco che è proprio dello stile di Paolo.
Il soggetto del dipinto, che è comune a molti artisti contemporanei (vedi Pollaiolo,
Ghirlandaio...) ci offre uno spaccato di vita italiana all'inizio del Quattrocento. In un
ambiente ancora povero di mobili campeggia il letto, dotato di una pedana, su cui
possono sedere le visitatrici, e di un capace cassetto-guardaroba.
Alla puerpera, che indossa una bianca camicia da notte e il velo, fanno visita le
amiche che portano doni su piatti dipinti con scene di vita contemporanea (deschi da
parto).
L'iconografia tradizionale è rispettata: la giovane visitatrice è accompagnata da
donne più anziane che coprono le vesti con un mantello.
Lo stesso linearismo raffinato si riscontra nella principessa che San Giorgio libera dal
drago (1456. Londra. National Gallery).
I colori sono forti, brillanti, contrastanti; la figura della principessa, esile, ma forte e
decisa, è incarnazione di forme geometriche pure: ellissi, cilindro, cono.
Anche qui la fronte è depilata, i capelli sono raccolti sulla nuca, il collo è lungo. Tutto
contribuisce a dare slancio alla figura: le larghissime maniche della gamurra, la vita
alta, lo strascico.
Lo strascico, che conferisce alle donne un portamento aggraziato e solenne, è un
elemento importante dell'abbigliamento del Quattrocento; in Italia viene però
abbandonato verso la fine del secolo, quando è ancora in voga nel resto d'Europa. Si
accompagna in genere alle ampie maniche ad ala, ma lo si trova anche con maniche
aderenti.
Nella versione di "San Giorgio e il drago", attualmente al Musee Jacquemart Andrè,
a Parigi, in cui ricorrono tutti gli elementi della prima, è particolarmente notevole la
cura posta nella definizione dei particolari della gamurra: la manica spaccata è ornata
di perle e ricami, il tessuto è arricchito da stupendi disegni.
Nelle figure maschili il geometrismo è ancora più accentuato. Il voluminoso cappello
di Giovanni Acuto, rotondo e ottagonale, è ottenuto grazie alla sovrapposizione di
anelli concentrici perfetti: cerchi a tutto tondo o prospettici si ripetono in tutta la
figura. Ornamenti del cavallo, finimenti, collo del cavallo, particolari vari
dell'armatura denotano il forte interesse dell'artista alla figurazione geometrica.
Nell'adorazione dei Magi, i colori forti e contrastanti -rosso, blu, giallo, verderavvivano abiti dal taglio originale. Le maniche delle vestine e le stesse gonnelle del
paggio e del primo Re Magio sono artificiosamente gonfiate sul petto e sulle spalle
per disegnare la figura ideale di uomo propria di Paolo Uccello, che enfatizza così
facendo la tendenza della moda trecentesca ad arrotondare il petto degli abiti
maschili.
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Il Re Magio a sinistra porta sotto il cappuccio una berretta dottorale ed indossa un
lucco ad indicare il suo status; quello in mezzo indossa una veste corta ed elegante.
Anche nella famosa "Caccia di Oxford" (Oxford. Ashmolean Museum) il cacciatore
indossa una coloratissima gonnella con le ampie spalle arrotondate, la cui linea
sinuosa il pittore riprende nelle slanciate figure arcuate dei suoi levrieri.
MASACCIO 1401-1428
"È costume della natura, quando ella fa una persona
molto eccellente in alcuna professione, molte volte
non la far sola, ma in quel tempo medesimo, e vicino
a quella, farne un'altra a sua concorrenza, a cagione
che esse possino giovare l'una all'altra, nelle virtù
e nell'emulazione" (Vasari. Vite).
È il Vasari che, nelle Vite", ci dà notizia del quasi contemporaneo apparire sulla scena
dell'Arte italiana di tre grandi, Brunelleschi, Donatello, Masaccio.
Siamo di fronte ad un fatto non unico (si pensi alla Grecia del V sec. a.C., al mondo
poetico fiorentino del Trecento): in un certo momento ed in un certo luogo appaiono
contemporaneamente figure destinate non solo a lasciare ricordo di sè, ma addirittura
ad improntare di sè un'epoca e a segnare agli altri la strada da seguire.
Con Donatello e Brunelleschi, Masaccio è infatti il simbolo del XV secolo, ma la sua
arte travalica i confini del Quattrocento.
Lo stesso Vasari, per il quale la "perfezione dell'arte" era stata raggiunta nel
Cinquecento da Raffaello, Michelangelo..., afferma che lo stile di Masaccio era così
"evoluto" da poter reggere il confronto con qualsiasi disegnatore o colorista
"moderno" (e per moderni s'intendevano appunto Michelangelo e Raffaello).
In verità nelle sue opere la collaborazione delle tre arti sorelle (architettura, pittura,
scultura), la severità della costruzione e il rapporto facile e naturale tra tutte le figure
testimoniano la padronanza dei mezzi e la profondità dell'indagine.
Fu molto attivo nel brevissimo periodo in cui gli fu dato di operare. Collaborò
soprattutto con Masolino da Panicale; lasciò incompiute alcune opere che altri
portarono a termine, ma nelle quali la sua impronta è notevole. Molti artisti hanno
cercato di imitarlo e per questo motivo si è dovuto molto discutere sulle opere che gli
si possono decisamente attribuire e su quelle di imitazione.
1401- Il 21 Dicembre, festa di san Tommaso, in una casa tuttora identificata in San
Giovanni in Valdarno, Firenze, nasce Tommaso (Maso, Masaccio) Cassai.
Il nonno Simone fa il falegname (Cassai=costruttori di casse, falegnami); il padre
Giovanni è notaio, sposato ad Jacopa, figlia di un oste di Barberino nel Mugello.
1406- Muore Giovanni, padre di Tommaso; subito dopo nasce il fratello di Tommaso,
cui viene imposto il nome del padre e che, con il soprannome di Scheggia, si
dedicherà alla pittura e lascerà opere di discreto valore.
1408- La madre si risposa con un vecchio speziale benestante, Tedesco di Feo, che
la aiuta a far crescere abbastanza agiatamente i figli.
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1417- Muore il patrigno e la famiglia si trasferisce a Firenze, dove Masaccio frequenta
la bottega di Brunelleschi e conosce Donatello.
1422- Masaccio si iscrive all'Ordine degli Speziali e può così diventare pittore
autonomo, non legato, cioè ad alcuna bottega.
Dipinge Sant'Anna Metterza, per la chiesa di Sant'Ambrogio.
1424- S'iscrive alla Compagnia di San Luca, in Firenze, ed inizia la sua
collaborazione con Masolino da Panicale, che nel frattempo si è iscritto all'Arte dei
Medici ed è lui pure diventato pittore autonomo.
1426- In Novembre, a Pisa, nella Chiesa del Carmine, per la Cappella del notaio
Giuliano di Colino degli Scarsi, dipinge la pala nota come il Trittico di Pisa, pala che
comprende la "Crocefissione".
Nello stesso anno lavora alla Cappella Brancacci, nella Chiesa del Carmine a
Firenze, ed inizia la "Trinità" in Santa Maria Novella.
1426- Completa il Polittico di Pisa; lavora alla Trinità; sospende i lavori alla Cappella
Brancacci.
1427- Riprende a dipingere la Cappella Brancacci.
Completa la Trinità.
1428- Va a Roma, chiamato dall'amico Masolino, e probabilmente collabora alla
"Crocefissione" in San Clemente.
Dipinge per Santa Maria Maggiore un Trittico, di cui rimangono i Santi Girolamo e
Giovanni Battista (Londra. National Gallery), l'Assunta (Napoli. Capodimonte), la
Fondazione di Santa Maria Maggiore, anch'essa a Napoli, e vari Santi, piccoli riquadri
del Trittico, sparsi in varie collezioni.
1428. Muore improvvisamente a Roma (Vasari: "è si morì nel bel del fiorire". A
Firenze la notizia si diffonde in questi termini: "Dicesi morto a Roma per veleno").
Il nome, derivato da Tommaso, è certamente indicativo del carattere difficile e
scontroso di questo pittore.
Rimane orfano a cinque anni ed "è da ritenere che la sua infanzia sia stata poco
felice, piuttosto gravida di ombre e carenze, tutta interiore, secondo la logica del
dolore infantile, anche se la cronaca accenna alla benevolenza del patrigno" (Paolo
Volponi: Masaccio. Classici dell'Arte. Rizzoli. 1968).
L'immagine del bambino chiuso, scontroso, meditabondo, ribelle, accompagna la sua
breve storia di pittore.
L'episodio de "La distribuzione dei beni", nella Cappella Brancacci, sembra un brano
di partecipata autobiografia. La giovane donna dai lineamenti bellissimi è la Madre, il
bimbo scontroso ed agitato che con una mano si gratta la testa e con l'altra si
aggrappa alle vesti materne è Masaccio.
Il corpo di un morto che occupa tutto il primo piano della scena, chiaro riferimento ad
un miracolo di San Pietro, potrebbe ricordare il padre morto.
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La dura realtà che ha conosciuto nella sua infanzia lo porta alla riflessione,
all'introspezione, alla ricerca del perchè delle cose, del senso dell'uomo e della sua
vita, a scrutare il creato, l'uomo alle sue radici, a scoprire quell'umanità eroica ma
vera che combatte per affermare il suo dominio sulle cose, ma che non è meno eroica
quando lotta per vivere.
L'Umanesimo pone al centro del creato l'Uomo. Ma quale Uomo? Quello di Paolo
Uccello, quello di Piero della Francesca, un essere ideale, astratto, perfetto. L'Uomo
di Masaccio è invece un individuo reale, con i suoi pensieri, le sue ansie i suoi
problemi, le sue miserie, che fa parte dell'umanità che l'artista aveva conosciuto da
bambino per le strade del suo paese e che avrebbe ritrovato a Firenze, a Roma.
Nel secolo della prospettiva geometrica, che rappresenta l'ordine della ragione in cui
tutto si colloca, la prospettiva di Masaccio è più aerea; è spazio e tempo in cui si
svolge il dramma dell'uomo, ritmato non secondo le scansioni geometriche della
ragione, ma secondo i tempi e le pulsazioni della vita.
Elementi caratterizzanti il suo stile.
1- La modernità.
Masaccio fu considerato moderno dai critici di tutti i tempi, a cominciare dagli
Umanisti (Leon Battista Alberti) e poi dai classicisti (Leonardo e Vasari), dagli
Illuministi (Reynolds), dai romantici (Stendhal, Delacroix), dai moderni (Berenson,
Longhi, Salvini)...
È questo un indice della genialità ed universalità del suo messaggio. Ognuno lo
legge e lo interpreta secondo il suo linguaggio, perchè Masaccio si è espresso ai
massimi livelli dell'artisticità.
I classicisti hanno visto in lui la perfezione della forma, le proporzioni, la riscoperta
dell'antico; i romantici il senso del mistero, l'indagine psicologica.
Masaccio è "il bono pittore" ideale di Leonardo, colui che sa rappresentare la natura,
ma soprattutto sa rendere i "sentimenti delle cose".
2- Naturalismo e realismo.
Naturalismo e realismo sono qui intesi non come pura copia della realtà, ma come
ispirazione diretta dalla realtà, dalla vita. Non vi sono memorie erudite, mitologiche
reminiscenze, nella sua opera; c'è la vita. L'artista non ci racconta la storia passata,
ci parla del presente.
È ancora il Vasari che ci dice che la sua arte è "viva, realistica, naturale". Ed è
"nuova, innovativa", ma le novità che egli porta nell'arte non sono di carattere tecnico:
sia nei dipinti su tavola che negli affreschi egli usa metodi e materiali tradizionali; la
novità consiste nel suo interesse per la natura, che eredita da Giotto, che rafforza
tramite l'amoroso studio delle opere di Brunelleschi e Donatello, suoi amici, e che
personalizza grazie alla sua profonda analisi della luce.
3- Classicismo formale.
La sua pittura si stacca completamente dalla ancora diffusa tradizione gotica di
Gentile da Fabriano. Il suo stile è puro, senza ornato; le sue figure s'impongono
come a sbalzo, sostenute da una massa solenne, in contrasto con la linea melodica
ed il volume sfumato dell'atmosfera astratta, propria dello stile tardo gotico.
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Al decorativismo si sostituisce la sostanza, le figure vagamente sognanti
dell'iconografia precedente rivelano ora un forte senso di responsabilità, una
profonda coscienza morale. Lo stile è sobrio, deciso, vitale, robusto, "terribile nel
disegno", lo stile adatto a sostenere e sottolineare i caratteri, i sentimenti, la forza
d'animo che i personaggi esprimono.
4- Forte carica psicologica.
I primi estimatori di Masaccio furono Leonardo e Michelangelo, che riconobbero in
lui due caratteri che li contraddistinguono:
Leonardo ne ammirò la capacità di rendere i sentimenti: "mostrò con opra perfetta la
natura, maestra dei maestri".
Michelangelo lodò molto il suo trittico in Santa Maria Maggiore e disse: "coloro (le
figure rappresentate) devono essere stati vivi nei tempi di Masaccio" (Vasari- Vite).
"Le figure di Masaccio posano vivamente e perfettamente... L'espressione è così
acconcia che gli animi non son dipinti men vivamente dei corpi." (Lanzi- Storia
pittorica d'Italia. 1781).
Le opere
La cronologia dell'opera pittorica di Masaccio, che si concentra nel breve arco di sei
anni, non è certa. La successione è suggerita dall'analisi critica dei suoi dipinti, oltre
che da alcuni documenti.
1). 1422. Pala di San Giovenale.
Opera in tre parti (trittico): al centro è la Madonna con il Bambino e due angeli; a
destra (sinistra di chi guarda) sono i santi Bartolomeo e Biagio; a sinistra i santi
Giovenale e Antonio Abate.
L'opera è datata: 23/4/1422. Scoperta nella Chiesa di San Giovenale a Cascia,
presso Reggello, Firenze, è ora sotto restauro alle Belle Arti di Firenze.
Fu probabilmente completata in un periodo di tempo piuttosto lungo (due, tre anni), lo
stile infatti non è costante: giottesco e tradizionale nei santi Bartolomeo e Biagio, si fa
più naturale in Giovenale, per rivelare appieno i caratteri del
Nostro nella Madonna con il Bambino.
2). 1424/1425. Sant'Anna Metterza (cioè messa terza, con la Madonna ed il
Bambino). cm.175X103. Tempera su tavola. Dipinta per la Chiesa di Sant'Ambrogio,
Firenze, è attualmente agli Uffizi.
Per lungo tempo fu accettata l'attribuzione del Vasari di tutta l'opera a Masaccio.
Determinante fu poi l'esame del Longhi (1940) che attribuì a Masaccio soltanto la
Madonna con il Bambino e l'angelo reggicortina di destra e tutto il resto a Masolino,
ma critici altrettanto autorevoli (Salmi, 1947, Procacci, 1951, Salvini, 1952) avanzano
l'ipotesi che sia di Masaccio anche la Sant'Anna.
Nella parte sicuramente di sua mano, Masolino, malgrado sia stato influenzato dalla
forte personalità del discepolo e collaboratore, rimane legato agli schemi del
tardogotico, dai quali si stacca invece con prepotenza la Madonna con il Bambino: la
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saldezza della costruzione, la materialità delle figure, la naturalezza dei volti, danno
la prima testimonianza della nuova umanità che popolerà le tavole degli artisti del
Quattrocento, in contrasto con le auliche, anche se naturali, figure della pittura
precedente.
La concretezza delle immmagini, nella loro ravvicinata presenza fisica, è quasi
urtante: "Molto più si dimostrano vive che contraffatte" (Vasari: Vite).
Concorre a dare plasticità al gruppo compatto la luce che proviene da sinistra e che
dà origine a forti ombre e ad un trascoloramento delle tinte.
3). 1424/1425. Sagra. Già nel Chiostro del Carmine, Firenze, fu distrutta durante un
rifacimento architettonico tra il 1598 ed il 1600.
Ricordava la consacrazione della Chiesa, avvenuta nel 1422, e rappresentava la
processione del popolo fiorentino, attraverso la piazza, verso la chiesa. Ce ne
rimangono purtroppo solo alcuni disegni, di cui uno di Michelangelo, che testimoniano
l'impressione che questo affresco, rappresentazione di un evento reale di vita
fiorentina, aveva fatto sulla cittadinanza.
4). 1425/1426. Polittico di Pisa. Dipinto nella Chiesa del Carmine, Pisa, per la
cappella di famiglia da poco acquistata dal notaio Giuliano di Colino degli Scarsi.
Dei 19 quadri di cui era composto ne sono stati rintracciati solo 11 che sono
attualmente sparsi in varie pinacoteche.
Alcune delle parti fondamentali che sono rimaste sono:
La Crocefissione. Napoli. Capodimonte.
La Madonna in trono. Londra. National Gallery.
L'Adorazione dei Magi. Berlino. Museo di Stato.
Martirio di San Pietro e di San Giovanni Battista. Berlino. Museo di Stato.
La Crocefissione. 1426. cm.83X63. Legno su tavola. Napoli. Gallerie Nazionali di
Capodimonte.
In questa sua opera Masaccio ci presenta prepotentemente i caratteri della nuova
pittura assieme agli elementi specifici ed unici della sua personalità di massimo
pittore:
-la mirabile maestria nell'uso del colore. Il mantello della Maddalena in primo piano è,
da solo, una sinfonia in tono elevatissimo sul rosso, che si sfuma ed attenua nel
mantello di San Giovanni, la cui tunica blu riporta ai toni freddi ma palpitanti del
mantello della Madre.
- la profondità espressiva dei sentimenti:
La serenità del Cristo, lo smarrimento di Giovanni, la disperazione della Maddalena,
sottolineata dal gesto drammatico delle braccia, e l'incontenibile dolore della Madre
sono espressi con sublime naturalezza.
Non è frequente, e non succede a tutti i pittori, che queste due qualità raggiungano
tale grado di perfezione.
La Vergine e il Bambino. cm.136X73. Tempera su tavola. Londra. National Gallery.
Seduta su un trono imponente, nelle cui colonne sono riportati i tre ordini classici,
maestosa come una statua romana, la Vergine rivela sotto l'ampio mantello il corpo di
una creatura terrena, non lascia indovinare l'immagine idealizzata di una divinità.
Il Bambino è nudo come lo vuole la tradizione cristiana, che ne rivela la natura
umana, mentre ne afferma quella divina.
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La base del trono ricorda una sarcofago romano, evidente richiamo alla morte, come il
grappolo d'uva che il Bambino sta mangiando, simbolo del sangue che il Cristo
verserà sulla Croce per la redenzione dell'umanità.
Come gli altri pittori italiani suoi contemporanei, Masaccio usa ancora la tempera ad
uovo, mezzo che si è rivelato in questo, come in molti altri casi, delicato, ed ha fatto
perdere all'opera molta della vivacità originale dei colori. I delicati ricami della veste e
del mantello della Vergine si sono opacizzati; il rosso della veste si è scurito ed il
carnato rivela la base verde. Ma la grandiosità dell'opera, la tenera mestizia del volto
della madre che presente il triste destino del figlio non perdono valore, se parte degli
elementi decorativi sono andati perduti. Non era il decorativismo che interessava a
Masaccio!
5). 1425/1427. Affreschi della Cappella Brancacci. Firenze. Chiesa del Carmine.
Furono commissionati dalla famiglia Brancacci (Felice Brancacci), che possedeva la
Cappella fin dal 1386; furono dipinti probabilmente tra il 1425 ed il 1428 da Masaccio
e Masolino e lasciati non finiti a causa della partenza dei due artisti per Roma, dove
Masaccio morì improvvisamente nel 1428. L'esilio di Felice, caduto in disgrazia nel
1435 e dichiarato "ribelle" da Cosimo dè Medici impedì che la famiglia Brancacci
continuasse ad impegnarsi nella decorazione della cappella; la "damnatio memoriae"
da parte dei Medici portò addirittura all'abrasione delle figure rappresentanti
personaggi della famiglia Brancacci, dipinte da Masaccio nell'episodio della
"Resurrezione del figlio di Teofilo".
L'opera pittorica fu completata cinquant'anni dopo da Filippino Lippi, che con rispetto
e cura cercò di adottare, per quanto gli fu possibile, i colori dei maestri che lo
avevano preceduto, riuscendo così a non alterare l'effetto cromatico).
Dopo un primo restauro nel 1670, la cappella corse il serio pericolo di essere distrutta
per essere rifatta quando, nel 1690, il marchese Ferrari volle acquistarla per
rinnovarla sull'esempio di quella dei Corsini.
Vi si oppose la granduchessa Madre, Vittoria della Rovere, su consiglio degli
Intenditori dell'Accademia del Disegno di Firenze. Ed i dipinti furono salvi.
Nel 1746/1748, la volta ed i lunettoni furono rifatti e se ne persero gli affreschi, opera
di Masolino.
Il fumo ed il calore sprigionatisi in seguito ad un incendio scoppiato nel 1771
alterarono in alcuni punti le cromie originali; un restauro del 1904, che si proponeva
con un composto di uova e caseina di restituire la brillantezza dei colori, provocò la
comparsa di muffe che nei decenni seguenti hanno "mangiato" in alcuni punti i colori
stessi.
I lavori per il restauro del tabernacolo barocco di cui era stata arricchita la cappella tra
il 1670 ed il 1674 hanno riportato alla luce alcune decorazioni originali a racemi e due
medaglioni con figure, una maschile ed una femminile, che, protette dal marmo, non
avevano subito nè le ingiurie atmosferiche nè i danni provocati dall'incendio del 1771
e dai relativi restauri e che quindi hanno permesso di conoscere nella loro realtà
originale la vivacità dei colori ed hanno permesso ai restauratori di renderci la
Cappella così come essa era cinquecento anni fa.
Sono opera di Masaccio:
La cacciata dal Paradiso terrestre
Il Battesimo dei neofiti
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Lo sfondo della Resurrezione di Tabita (il resto è di Masolino)
Il tributo (ad eccezione del volto di Cristo)
Pietro guarisce con la sua ombra
La distribuzione dei beni
La Resurrezione del figlio di Teofilo
San Pietro in cattedra. (Le figure in secondo piano sono in buona parte di Flippino
Lippi).
Questi affreschi sono l'opera più significativa di Masaccio, che in essi raggiunge i
vertici della sua arte, anzi, forse dell'arte pittorica.
La sua morte precoce non ci permette di verificare l'esattezza di questa affermazione,
ma non si riesce ad immaginare come Masaccio avrebbe potuto eventualmente
superarsi.
Gli affreschi principali raccontano la vita di San Pietro, con fatti tratti dal Vangelo,
dagli Atti degli Apostoli, dalla tradizione; sono inseriti all'interno di una grande "gabbia
architettonica", una loggia aperta da tutti i lati, entro la quale gli episodi si succedono
secondo un preciso programma. In trasparenza, attraverso gli episodi narrati, si
leggono riferimenti alla storia della Firenze del Quattrocento, all'importanza politica
della famiglia Brancacci, alla funzione salvifica della Chiesa.
a). La distribuzione dei beni.
L'intensità dei volti e la forza dei sentimenti (pietà sul volto di Pietro, riconoscenza
attonita della donna che riceve, meraviglia interrogante dello storpio) sono
sottolineate e scandite dalla solennità del portamento di tutti i protagonisti e dalla
naturalezza dell'accadimento.
Il fatto avviene nella Firenze del Quattrocento e Masaccio ci mostra la città così come
essa doveva essere allora, le strade che egli usava percorrere, sulle quali si
affacciavano edifici di stili vari. L'episodio si arricchisce però di problematiche
religiose e di problematiche politiche dell'epoca: negli Atti degli Apostoli Pi tro e
Giovanni distribuiscono i beni secondo il principio per cui la prima comunità dei
cristiani era fondata sull'uguaglianza, la fratellanza e l'amore: a nessuno era
permesso possedere più di quanto gli fosse necessario e comunque più degli altri.
Anania aveva mentito su quanto aveva percepito dalla vendita del suo podere e così
era caduto morto ai piedi di Pietro: la falsa dichiarazione riceve la punizione divina.
Accanto alla legge divina c'è però anche quella terrena, l'episodio allude quindi dal
punto di vista politico-economico al principio dell'equità fiscale proposta con
l'istituzone del catasto.
b). San Pietro guarisce con la sua ombra.
Il cromatismo è più tenue, in armonia con la discrezione dell'atto. Il contrasto tra gli
abiti aulici degli apostoli e quelli dell'epoca, dello storpio e dei malati, così come lo
sfondo, con le tipiche case medievali fiorentine dagli sporti aggettanti, con le finestre
arricchite dal bugnato, riportano il fatto miracoloso tra le vie di Firenze. Anche i
protagonisti ci propongono personaggi dell'epoca: il Vasari premise alla "Vita" di
Masolino il ritratto dell'uomo con il cappuccio; forse l'uomo con la berretta blu e la
barba bianca è Donatello ed il san Giovanni potrebbe essere un ritratto del fratello
minore di Masaccio, pittore lui pure, conosciuto con il soprannome di Scheggia.
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Con grande sintesi ed efficacia i volti esprimono i sentimenti dei vari protagonisti: di
Pietro, conscio della forza risanatrice che sprigiona, dei malati, rassegnati ma
fiduciosi, pieni di una speranza mista a stupore e curiosità.
Le vesti, bandita ogni ricercatezza dell'ornamento, presentano poche e naturali
pieghe; il colore è vero, variato, stupendamente accordato.
c). La cacciata dal Paradiso Terrestre.
La scena è altamente drammatica. Un'improvvisa maledizione ha colpito ed incurvato
Adamo ed Eva, i cui volti esprimono la costernazione. I loro corpi, di un carnato livido,
testimoniano la perdita dello stato di grazia.
Il nudo non ha più la tensione gotica, ma sembra ispirarsi direttamente agli antichi; la
nudità di Masaccio non è però naturalisticamente dettagliata come in Van Eyck o in
Botticelli.
Il suo procedimento è sempre quello della sintesi e dell'indagine interiore, psicologica
e morale, più che del compiacimento nelle perfette forme naturalistiche.
6). 1426/1428? La Trinità. Firenze. Santa Maria Novella.
Lo sfondo ripete gli elementi classici di una cappella brunelleschiana, ma le figure
hanno i caratteri propri della pittura di Masaccio, per cui non vi sono dubbi
sull'attribuzione dell'opera.
L'amicizia e la collaborazione con il Brunelleschi lasciano, comunque sia, la loro
impronta non solo sull'architettura dello sfondo, ma anche sulla rigorosa scansione
dei piani prospettici:
- La base dell'altare
- Le due figure dei donatori
- L'arco della cappella
- La Vergine e San Giovanni
- Il Crocefisso
- Il Padre
- La seconda serie di colonne con arco.
Il triangolo, simbolo della Trinità, viene adottato nella disposizione totale delle figure,
dai donatori al Cristo e, dietro, in prospettiva, al Padre.
Archiviati gli aspetti formali, vale la pena di concentrarci sul valore artistico di
Masaccio in quest'opera.
L'elemento coloristico, malgrado le condizioni non ottimali di conservazione
dell'affresco, si presenta ancora con forza: i rossi ed i blu si alternano ritmicamente.
Non sono espressi drammatici sentimenti come nella Crocefissione di Napoli; solo la
solenne calma della meditazione del massimo mistero della Cristianità, dove Dio Uno
e Trino, l'Uomo-Dio, Gesù Cristo, l'Umanità santa e l'Umanità attuale dei donatori, su
piani separati ma comunicanti, sono offerti alla meditazione dei fedeli.
Forma e sostanza dell'espressione artistica si fondono qui mirabilmente senza
sopraffarsi o disturbarsi, nell'essenza del capolavoro, che, per essere tale, non può
essere solo forma, ma che è sostanza che si presenta ed offre in forma perfetta.
La linea essenziale e severa di Masaccio.
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L'interesse di Masaccio, come saranno poi quelli di Leonardo e Michelangelo, è
troppo rivolto alle idee, ai sentimenti, alle passioni perchè egli si soffermi a descrivere
minuziosamente abiti o fogge del vestire.
Per Masaccio l'abito è puro complemento dell'immagine, troveremo perciò nei suoi
quadri molti abiti aulici indossati dai personaggi della storia ed abiti "moderni" per i
suoi contemporanei, che vivono e si muovono per le strade e le piazze di Firenze,
dove sono ambientati i fatti biblici da lui raccontati.
Gli abiti indossati dai suoi personaggi, siano essi nobili o popolani, hanno una linea
semplice, severa, come il loro carattere, tutto compreso nell'interpretare il dramma
solenne della vita e sono quindi privi di qualsiasi ornamento o idealizzazione.
Così nel "Martirio di Giovanni Battista" il boia porta una semplice veste corta sopra
una camicia, mentre il funzionario del Re, che ordina l'esecuzione, porta calze solate
ed indossa un corto tabarro. Una gonnella, o meglio cotta d'armi, è indossata anche
dal soldato in primo piano.
"Nell'Adorazione dei Magi" del polittico di Pisa, intervengono due figure prese
direttamente dall'ambiente fiorentino. Indossano il corto mantello, indumento che
viene portato fuori dalle mura domestiche sopra tutte le altre vesti, e che conferisce
dignità ed eleganza sia quando, allacciato davanti, ricade in morbide pieghe, sia
quando è drappeggiato con un lembo sulla spalla. I due giovani portano il cappuccio
trattenuto da un mazzocchio di notevoli dimensioni.
Anche nella "Trinità" (Firenze. Santa Maria Novella) i donatori indossano mantelli
con cappuccio, come si conveniva a persone di una certa età e di un certo rango.
Nella scena del "Tributo" San Pietro indossa un abito aulico, mentre l'esattore delle
tasse indossa una corta gonnella sulle gambe nude.
Nell'episodio di "Pietro che risana con la sua ombra", il primo degli
accompagnatori, in abiti "moderni" (con ogni probabilità Masolino da Panicale) porta
un cappuccio acconciato sulla sommità del capo in modo nuovo: non è infilato e
foggia e becchetto diventano elementi ornamentali. Porta una berretta anche l'uomo
sullo sfondo (Donatello secondo alcuni).
Una corta veste, tipico abbigliamento popolare, è indossata dal primo miracolato, in
piedi con le mani giunte.
Anche la donna con il bimbo in braccio, al centro della scena della "Distribuzione dei
beni", è vestita in modo semplicissimo, come usavano le popolane.
Nella "Resurrezione del figlio di Teofilo", la figura di spalle, inginocchiata davanti a
San Pietro, porta invece un indumento importante ed elegante, una pellanda, con
maniche lunghe e larghe, e pieghe sul dorso.
Nella prima metà del Quattrocento la pellanda era indossata anche dagli uomini,
lunga fino ai piedi, per gli eventi importanti, corta per le occasioni comuni, quasi
sempre di tessuti preziosi, spesso foderata e bordata di pelliccia. Nell'episodio della
"Resurrezione di Tabita", di cui solo lo sfondo è opera assegnata a Masaccio, mentre
le figure si ritengono dipinte da Masolino, i due giovani al centro ne indossano due
bellissime, una di velluto affigurato, l'altra di panno rosato.
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PIERO DELLA FRANCESCA
1420-1492
Nasce a Borgo San Sepolcro (ora Sansepolcro), nell'alta valle tiberina, presso
Arezzo, in data incerta, tra il 1410 e il 1420, da padre calzolaio e conciapelli. Un
documento del 1439 lo indica come aiutante di Domenico Veneziano. È questo
l'unico legame diretto di Piero con la scuola d'arte fiorentina, ma a Firenze, dove
compie il suo apprendistato, si vive ormai all'ombra dell'ardita cupola del
Brunelleschi, ci si forma secondo le teorie esposte dall'Alberti nel suo trattato sulla
pittura, si ha sotto gli occhi la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella. E così, se
nella pala di Santa Lucia, capolavoro del Veneziano, si riconoscono le tonalità
chiare del rosa e i tenui riflessi del verde che tanta parte avranno nell'opera di Piero,
è la prospettiva brunelleschiana quella che ricorre in tutte le sue opere.
Per comprendere Piero della Francesca, bisogna innanzitutto ricordare che egli è
pittore, ma anche filosofo e matematico, come testimoniano le sue opere scritte, tra
le quali, illuminanti sulla sua pittura, ricordiamo: "De Prospectiva pingendi" e il
"Libellus de quinque corporibus regularibus".
Ripassiamone i concetti fondamentali, come espressi nella teoria prima e poi nella
pratica della sua produzione pittorica:
a) Per Piero della Francesca la perfezione sta nell'identità totale di spazio-tempoluce-forma.
La natura, persone e cose, sono, nella chiarezza dell'intelletto matematico di Piero,
attualizzazioni di ideali forme perfette. Non esistono nelle sue rappresentazioni
dubbi, aneliti, ansie o tensioni: il fenomeno è la realizzazione di un'idea perfetta,
razionale o morale che sia, e come tale È; tra idea e fenomeno c'è identità assoluta.
La poetica di Piero, la sua artisticità, consiste nella rivelazione di queste verità non
attraverso il freddo rigore della logica, ma attraverso "la rosa ineffabile dei colori
pieni, chiariti, come felicitati dalla luce" (Longhi).
b) La realtà è quindi sempre rappresentata sotto forme perfette: il cerchio, la sfera,
l'ovale, il cilindro, il triangolo equilatero, il quadrato, i corpi regolari che costituiscono
l'essenza del reale.
c) La prospettiva stessa è reinterpretata; non è spazio, sia pur perfetto e razionale,
entro il quale collocare le cose; non è schema ottico; è essenza della realtà, perchè
la realtà è ordine assoluto; la prospettiva è lo specchio dell'ordine del reale, non lo
schema entro il quale ordinare il reale: L'ordine è realtà reale, non solo mentale.
d) Il tempo a sua volta non ha più ragione di essere; ogni problema storico è sempre
uguale a se stesso; ogni atto è fisso, eterno, fuori dal divenire.
In quest'ottica la pittura di Piero della Francesca rappresenta l'essenza della
razionalità, il simbolo della certezza, la purezza dei sentimenti, l'assoluto, per cui le
emozioni che prevedono una causa ed un effetto in Piero non esistono. Nel
Battesimo, nella Flagellazione, nella Madonna di Senigallia, per citare solo alcune
opere, le figure, nei loro atti, atteggiamenti, sentimenti, sono immobili, immutabili.
L'arte di Piero ci comunica una serenità solenne, ieratica, perfetta. Egli ci consegna
un mondo in cui regna l'accordo totale tra gli esseri del creato: è l'iperuranio, il riso
dell'universo". Le pose statuarie, i gesti sospesi, il gigantesco, il senso sacrale delle
sue rappresentazioni sono elementi essenziali alla sua poesia.
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La mirabile sintesi di luce, colore, prospettiva fa sì che ogni sentimento, ogni atto,
siano fissati al di fuori del tempo mutevole, in uno spazio razionale, non soggetto ad
alcun turbamento.
La luce, più che dall'esterno a illuminare o evidenziare gli oggetti, sembra provenire
dall'interno delle figure, per sostanziarne meglio la forma e l'essenza. È una luce
solare, totale; luce di cielo aperto, profondissimo, che dà splendore ad ogni cosa.
I colori servono a scandire i volumi; per quanto in genere siano tenui, essi
sottolineano le forme, le separano ed insieme le mettono in relazione, creano
rapporti fra di loro; ogni colore perciò, seppur diverso, è sempre proporzionalmente
composto dai colori dominanti vicini. "Sembrano, in Piero, i colori nascere per la
prima volta, come elementi di una invenzione del mondo... Piero ci rese quel colore
della natura che per la prima volta si tinge all'arrivo del primo raggio di un sole
appena creato." (Longhi). Colori chiari, quindi, puliti, non ancora mescolati a nulla
che li possa inquinare, intrisi della purezza della luce nuova.
In tutti i tre periodi della sua attività sono evidenti queste caratteristiche essenziali
che sono il fondamento della pittura di Piero della Francesca; ogni periodo ha però
qualche peculiarità sua propria.
Le prime opere riflettono con maggior puntualità e rigore le teorie metafisiche di
Piero.
Nel periodo di mezzo, quello delle Storie della Vera Croce, l'effetto drammatico del
racconto e degli eventi che si succedono offre materia a qualche indagine
psicologica, avvicina un po’ l'assoluto al reale: la vita, con i suoi drammi e
sentimenti, pur non intaccando le certezze di Piero, lascia qualche traccia sui volti di
alcuni protagonisti.
Il terzo periodo infine risente dei rapporti con l'arte fiamminga. Per la prima volta si
nota una certa attenzione alle piccole cose (gioielli, cestino sulla destra nella
Madonna di Senigallia), agli ornamenti, descritti nei minimi particolari (tappeto nella
Pala di Brera).
La forma mentis razionale e matematica di Piero ha trovato nell'artisticità e nel suo
senso pittorico il filtro magico, la pietra filosofale, che la ha trasformata in poesia.
La riscoperta di Piero, dopo lunghi secoli di dimenticanza, si ricollega all'apparire
sulla scena dell'arte dei nuovi movimenti, del cubismo, dell'esistenzialismo, del
surrealismo e dell'astrattismo. Tutti questi movimenti hanno trovato in lui dei
riferimenti che ci sembrano accettabili non in quanto egli possa essere considerato il
padre di tutte queste correnti, ma solo in quanto la sua arte già conteneva in sé
messaggi che sono stati, a distanza di secoli, riscoperti e approfonditi.
Le opere
Polittico della Misericordia. Probabile inizio dell'opera anno 1448. (Ventitre
tavole). Tavola centrale. La Madonna della Misericordia. 1460(?) cm.134X91.
Pinacoteca Comunale di San Sepolcro.
Il concetto essenziale espresso in quest'opera è la fiducia dei fedeli nella protezione
della Vergine. L'assoluta razionalità dell'impostazione è evidenziata dalle forme
geometriche: il cilindro centrale del corpo della Madonna che termina nel perfetto
ovale del volto; il semicerchio (la cupola, quasi si direbbe, o l'abside) costituita dal
mantello; la perfetta disposizione simmetrica degli oranti, a loro volta configurati in
due semicerchi.
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La definizione delle figure è chiara; non esistono zone d'ombra; i colori e i volumi
risentono ancora della forte personalità di Masaccio. L'oro del fondo (requisito
imposto dai committenti nel contratto, in cui si dice: "palam deauratam de auro fino
et coloratam de finis coloribus") accentua il senso della sacralità.
Il volto di scorcio, sulla destra, viene comunemente indicato come un autoritratto di
Piero.
Battesimo di Cristo. 1448-50. cm.167X116. Londra. National Gallery.
Si riscontrano in quest'opera gli elementi fondamentali della pittura di Piero:
L'immobilità, la mancanza di azione, la mancanza del divenire, la mancanza di
emozioni. La luce totale esprime la certezza nella chiarezza della ragione. Le forme
sono ideali, pure; gli esseri (fiume, albero, uomini) incarnano le forme geometriche
ideali.
Umanità e natura sono riportate all'ideale mondo platonico dell'iperuranio dove tutto
è perfetto, per cui nulla deve cambiare, muoversi o agitarsi; tutto deve solo essere.
Il colore è esso stesso essenza di luce, chiaro e luminoso, senza ombre o
gradazioni.
Nelle forme domina l'elemento cilindrico. L'albero sulla sinistra dà alla composizione
il motivo che si ripete nel Cristo, nei tre angeli, negli alberi dello sfondo. Il
battezzando, incurvato, che si spoglia, accompagna le curve regolari delle anse del
fiume.
La flagellazione. 1455. cm.58X81,5. Urbino. Galleria Nazionale delle Marche.
È una delle opere più complete: ogni figura è chiara e definita sia in primo piano che
nel fondo, prende luce da se stessa, sta con le altre, ma in sé e per sé,
nell'immobilità del proprio essere.
Lo spazio è scandito con il massimo rigore prospettico, senz'ombre né luci, fisso e
immutabile come l'istante e l'eternità.
I toni dei colori sono perfettamente proporzionati e mediati, senza fragore, senza
toni squillanti.
Le forme perfette, riprodotte nell'architettura, si rivelano nelle figure umane, nei corpi
(cilindri) e nei volti (cerchio e ovale).
La corte di Urbino, idealizzata, è l'ambiente perfetto in cui si collocano i protagonisti
di un fatto che non accade. I personaggi sembrano insensibili, senza alcuna
espressione eccetto quella essenziale della coscienza dell'essere: Piero sa
mettere sulla tela i concetti più astratti, filosofici e matematici: l'essenza dell'essere,
la purezza del colore, la luminosità della luce. Egli scrive in versi pittorici le rigorose
leggi matematiche e le astratte definizioni filosofiche. La purezza delle idee e
l'armonia delle leggi della scienza si realizzano nell'eterna bellezza e armonia del
creato in cui l'uomo, centro e dominatore, è ritratto con lo stesso amore con cui
vengono ritratti il mondo vegetale e la natura inanimata.
L'indagine filologica ha cercato di identificare i diversi personaggi della scena,
soprattutto i tre in primo piano sulla destra. Il giovane al centro, secondo alcuni,
dovrebbe essere Oddantonio da Montefeltro, fratellastro di Federico. Ai suoi lati
sono Manfredo del Pio e Tommaso dell'Agnello, due cattivi consiglieri che portarono
Oddantonio a decisioni impopolari che causarono la congiura dei Serafini e la morte
del giovane Principe. Altri accanto a Oddantonio vedono i suoi due assassini, il
Serafini appunto e il Ricciareli. Secondo altri i tre sarebbero principi predecessori di
Federico nel governo di Urbino.
La storia della vera Croce. 1452-1460. Abside della Chiesa di San Francesco in
Arezzo.
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Val la pena ricordare la leggenda che ha impegnato Piero della Francesca per circa
otto anni in quest'opera grandiosa:
Su una parete dell'abside vediamo Adamo morente che ordina al figlio Seth di
chiedere all'angelo guardiano del giardino dell'Eden l'olio di salvazione che gli era
stato promesso al momento della cacciata. Seth ottiene solo tre semi da porre in
bocca al padre ormai morto. Da quei semi germoglierà l'albero destinato a fornire il
legno per la Croce del Salvatore dell'umanità. L'albero cresciuto è tagliato ed usato
per fare un ponticello, a Gerusalemme, sul laghetto di Siloe.
Durante il suo viaggio a Gerusalemme per incontrare re Salomone, la Regina di
Saba ha un'ispirazione e riconosce il Legno. Si inginocchia e lo adora.
Quando viene a conoscenza dei fatti, Salomone ordina che il legno sia rimosso e
nascosto, perchè non venga usato come strumento di morte per il Messia.
Sulla parete opposta sono illustrati fatti che sono ricordati nel Nuovo Testamento e
che hanno inizio con L'Annunciazione della nascita di Cristo.
La narrazione pittorica continua con il sogno di Costantino e la sua vittoria su
Massenzio, sul ponte Milvio, nel segno della Croce.
Secondo la leggenda, Elena, madre di Costantino, nella sua ricerca della vera
Croce, si imbatte in un Ebreo, che sa dove la croce è sepolta, ma non vuole rivelare
il luogo e viene quindi torturato ed abbandonato in un pozzo per sette giorni. Alla
fine l'Ebreo si converte ed aiuta nella ricerca.
Vengono ritrovate tutte tre le croci che erano state alzate sul Calvario e si riconosce
quella su cui era stato sacrificato il Cristo perchè al suo contatto un morto viene
resuscitato.
Successivamente (605 d.c.) il re persiano Cosroe si impossessa della vera Croce e
la pone a ornamento del suo trono. L'imperatore cristiano Eraclio affronta Cosroe e
lo vince. Gli chiede di convertirsi al Cristianesimo e al suo rifiuto lo uccide, quindi
riporta la croce a Gerusalemme, alle cui porte l'attende un gruppo di dignitari in
ginocchio.
Tutto ciò che è stato detto su Piero e la sua poetica trova riscontro in quest'opera, la
cui vastità, anche temporale, è tale da non permettere che lo stile si mantenga
costante. Nell'ultima parte, quella che va dal sogno di Costantino alle battaglie, i
colori si fanno più vivaci (è evidente il contatto con la pittura fiamminga), l'assoluta
staticità e certezza si incrinano talvolta per lasciare spazio al movimento e
all'emozione.
Sicuramente la struttura e la parte essenziale dell'opera, inclusa l'esecuzione, sono
di Piero, ma alcuni particolari risentono della collaborazione di altri artisti.
Il ciclo ci propone in sintesi estrema la storia dell'umanità da Adamo ai giorni di
Piero; nobili e contadini, dame e cavalieri, guerrieri e sacerdoti in abiti antichi
(immaginati) e contemporanei. Ogni personaggio È nell'essenza e solennità del suo
esistere; i suoi gesti sono fissati nell'immutabile staticità del mondo delle idee pure,
incarnazione delle forme elementari, archetipo del creato.
Adorazione del Sacro Legno e Incontro di Salomone con la Regina di Saba.
cm.336X747.
Nell'episodio della regina di Saba e le sue ancelle, osserviamo:
- le forme geometriche essenziali: le figure sono praticamente uguali per sottolineare
l'elemento volumetrico delle loro forme e presenze, più che la loro individualità.
- la chiarezza: tutte le figure, benché siano poste su piani diversi, ricevono la
stessa luce e sono oggetto della stessa accurata descrizione.
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i colori: sono tenui e delicati; domina il tipico, inconfondibile rosa di Piero
della
Francesca, ma sono notevoli anche il marrone-terra bruciata e il verde.
Nel particolare della Regina di Saba. Sono notevoli:
- l'armonia del movimento delle mani che disegnano un quadrato la cui
diagonale è
tracciata dal collo e dalla testa della Regina.
- la luce, che pare uscire dall'interno del perfetto ovale del volto e dal tronco di
cono
del collo.
Nel particolare del seguito della Regina osserviamo:
la mirabile armonia dei colori.
la perfetta simmetria delle linee (cappello e volto; collo del cavallo e
avambraccio
del cavaliere).
la solenne immobilità dei protagonisti.
L'incontro di Salomone e della Regina di Saba
La solenne figura del Re (un quasi perfetto parallelepipedo) fa da fulcro alla
scena,
racchiusa nella tipica prospettiva di Piero della Francesca.
Il gruppo delle ancelle del seguito della Regina e quello dei dignitari del Re
ripetono
nelle forme, luce e colori, i caratteri essenziali della pittura di Piero.
L'Annunciazione. cm.329X193.
Si svolge nello stesso ambiente della Flagellazione.
La colonna centrale, assieme agli architravi, scandisce gli spazi, creando quattro
rettangoli compositivi entro i quali si collocano tre figure e una finestra. Non esistono
angoli d'ombra.
È notevole la perfezione delle linee nel particolare della Vergine: l'ovale del volto, gli
occhi, il collo, la scollatura del vestito e del mantello.
La Maddalena. 1460. cm.190X180. Arezzo. Duomo.
I colori sono puri, alti, brillanti, senza alcuna sfumatura.
Possentemente costruita come "un'architettura umana", questa figura che si staglia
contro un cielo terso appare immersa in una luce nitida che ne modella i volumi.
Battista Sforza e Federico da Montefeltro. 1465. cm.47X33. Firenze- Uffizi.
Si avverte l'influenza della minuziosa ritrattistica fiamminga, nei particolari dei
gioielli, degli ornamenti degli abiti, dell'acconciatura. Mirabile e accurata è la
descrizione della natura sia nello sfondo dei ritratti sia nei particolari dei trionfi dei
due personaggi che ornano il retro della tavola.
Madonna di Sinigallia. 1470. cm.61X53,5. Urbino. Galleria Nazionale.
Il dettaglio, la cura dei particolari, la doppia luce (una luce frontale ed una che
proviene dalla finestra posteriore) indicano anche qui le nuove aperture di Piero; ma
la solennità delle figure, le "proporzioni" coloristiche, la saldezza dei volumi, la
geometricità delle linee testimoniano come non sia stata intaccata la poetica del
maestro che trova in quest'opera una delle sue più alte espressioni.
Pala di Brera. 1472-74. cm.248X170. Milano. Accademia di Brera.
È il riassunto finale dell'opera di Piero della Francesca.
52
Tutti i motivi della sua arte sono riproposti in quest'opera, in cui tuttavia si nota
qualche concessione al figurativo realistico, rispetto all'assolutezza razionale delle
sue opere migliori. Le figure riproducono esattamente lo schema dell'abside per
sottolineare l'unità tempo-spazio-luce. L'uovo sospeso al centro è il motivo
volumetrico formale della composizione (come lo fu il cilindro nel Battesimo).
È questa l'ultima opera nota di Piero, che, divenuto cieco (Vasari: Vite), abbandonò
la pittura e si dedicò alla speculazione filosofica e matematica. Essa testimonia "con
segni d'arte pittorica" le idee fondamentali dell'Umanesimo e del Rinascimento: la
suprema convergenza di idea e realtà, fisica e metafisica, fenomeno e sostanza e la
perfetta armonia del creato, di cui l'uomo è centro.
Colori intrisi di luce e forme di purezza esemplare per le sfilate di
Piero della Francesca.
La moda di Piero presenta le stesse caratteristiche della sua arte.
Le forme geometriche assolute sono trasfigurate in altissima poesia dalla purezza
dei colori. Alle sognate donzelle di Paolo Uccello, Piero sostituisce delle figure
femminili solide, solenni, ma assolutamente ideali. I loro volti, le spalle, il corpo si
piegano alle forme geometriche, - cilindro, tronco di cono, sfera,- fino quasi a
sfiorare l'innaturale, l'inverosimile. Gli abiti, di linea semplice, senza orpelli ed
ornamenti, si accompagnano a queste forme, le sottolineano e le ravvivano.
Polittico della Misericordia.
La Madonna indossa una veste semplice di un bel rosso corallo, le cui pieghe sono
trattenute da una leggera cintura alta che segna appena appena la vita, per non
interrompere la forma geometrica regolare del corpo Un ampio mantello, dallo scollo
perfettamente ovale, si apre a riprodurre lo spaccato di una cupola.
I mantelli, le vesti, le pellande dei supplicanti ripetono le stesse forme regolari.
I tre enigmatici personaggi in primo piano a destra nella "Flagellazione di Cristo"
presentano abiti che sono comunemente indossati nelle tre diverse età della vita di
un uomo: il giovane indossa un semplice guarnello, la persona di mezza età un
leggero mantello, il terzo personaggio una preziosa sopravveste lunga, in broccato,
rivestita di pelliccia. Compaiono qui i tre elementi solitamente indossati uno
sull'altro: la camicia, la veste e la sopravveste.
La Madonna del parto (Monterchi- Arezzo. Cappella del Cimitero), i cui capelli sono
come al solito ben raccolti per evidenziare l'ovale del volto, indossa una gamurra
con aperture laterali e frontali che permettono all'abito di adeguarsi alle forme
anatomiche che mutano con il progredire della maternità. Le aperture, dalle quali
traspare il bianco della camicia, presentano fori per i laccetti di chiusura; sono gli
stessi fori e laccetti che compaiono nelle pettorine e nelle maniche delle normali
gamurre.
Le chiusure con laccetti sono comuni nel Quattrocento, quando è passata di moda la
bottoniera, così frequente nel secolo precedente.
Lo stesso desiderio di praticità che notiamo nella gamurra indossata dalle donne
che aspettano un bambino guida la mano dei sarti che all'epoca praticano due
fessure in corrispondenza dei seni perchè le mamme possano allattare i loro
bambini. Si veda Cristoforo Sacco: Madonna con Bambino (fine Quattrocento. Allen
Memorial Art Museum. Ohio) e Crivelli: Madonna col Bambino in trono).
53
Forme geometriche essenziali, colori chiari, puri, luminosi danno vita a quella sfilata
di Moda che è la Storia della vera Croce.
Nella visione d'insieme della "Adorazione del legno" da parte della Regina di Saba
ed in quella del suo "Incontro con Salomone" possiamo apprezzare la squisita
luminosità dell'immagine, l'ammirabile armonia dei colori, ma anche la varietà degli
elementi dell'abbigliamento. Inginocchiata davanti al Sacro Legno, la Regina
indossa un mantello azzurro su una semplice veste marrone, al cui scollo si affaccia
la bianca camicia, un filino della quale compare anche all'apertura delle maniche, là
dove, nel Trecento, eravamo abituati a vedere una fila di bottoncini. Il bianco velo,
sulla pettinatura a cono, è fermato da una leggera corona d'oro.
In primo piano, al centro della scena, un'ancella indossa su una cotta color morello,
una splendida giornea bianca, completamente aperta ai fianchi, “affrappata” ed
allungata in un morbido strascico. Morbido e ricco è lo strascico della pellanda rosa
dell'altra ancella, dalle cui maniche non infilate, secondo l'uso corrente, escono
quelle della gamurra azzurra. La varietà del taglio delle maniche nell'abbigliamento
del Quattrocento è testimoniata dalle altre vesti, dove esse sono o lunghe e strette o
divise in due parti: una, stretta fino al gomito, s'infila in quella a sboffo dalla spalla al
gomito.
Varie e raffinate sono le acconciature di tutte le donne, da quella a cono della
Regina, a quelle delle ancelle, a sella, a bicorno, a rotoli fermati da nastri.
Sulla bianca camicia gli staffieri indossano eleganti sopravvesti corte che le cinture
raccolgono in pieghe armoniose; portano cappelli da viaggio e scarpe solate. I loro
volti sono completamente sbarbati ed i capelli tagliati corti, come d'uso tra i giovani.
Nella scena dell'incontro, mutati i colori, gli indumenti femminili sono gli stessi; si
può però notare, nella terza ancella verso destra, un atteggiamento comune
all'epoca; ella solleva infatti sul ventre un lembo dell'ampia pellanda, per mettere in
evidenza la veste di sotto. La sua posa ci ricorda quella in cui fu ritratta da Van Eyck
la sposa di Pandolfini, posa che ha spesso tratto in inganno, facendo pensare a una
imminente maternità della giovane donna. (Vale la pena ricordare che nel
simbolismo dell'epoca tale atteggiamento della sposa stava ad indicare la sua
disponibilità nei confronti dello sposo.)
Vari sono gli indumenti degli uomini. Salomone porta uno splendido mantello
broccato d'oro. Il giovane in primo piano indossa sulla sopravveste lunga al
ginocchio un mantello double face e porta in capo il cappuccio, il solito cappuccio a
gote che, come già abbiamo visto altrove, era da un pezzo considerato fuori moda
se acconciato secondo l'antica consuetudine e che veniva quindi girato sulla testa in
modo vario.
Fra gli altri dignitari del Re si nota l'uomo maturo, nella sua veste dottorale foderata
di pelliccia, con il berretto dottorale, a falde rivoltate, ornate anch'esse di pelliccia.
La linea di tutti gli indumenti, siano essi maschili o femminili, è purissima; assoluta è
la mancanza di ornamenti o gioielli di qualsiasi sorta.
Nella Madonna dell'"Annunciazione", secondo periodo di Piero, le forme
geometriche si attenuano per dare maggiore spazio alla naturalezza; la cintura
segna i fianchi, fili di perle impreziosiscono l'orlo del mantello.
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L'abbigliamento popolare è documentato nel particolare del "Ritrovamento della vera
croce".
L'indumento più comune indossato dalla gente del popolo era il guarnello, un
camicione dal taglio semplicissimo; venivano però indossate anche le gonnelle,
come documentato in questo caso dalle due prime figure da sinistra. Una delle
gonnelle presenta l’abbottonatura sul petto.
L'abbigliamento del terzo personaggio è completo e caratteristico dell'epoca. Il
lavoratore indossa un farsetto sulla camicia bianca e porta leggere scarpette su
calze solate.
Le calze solate, all'epoca, erano ancora di stoffa, aderenti alle gambe ed alle cosce,
ed impedivano quindi la scioltezza dei movimenti, così che, per lavorare, venivano
slacciate e lasciate ricadere sulle gambe. Rimaneva in vista la camicia (e talvolta,
come in questo caso, anche le mutande).
Nella tavola seguente, particolare della Battaglia di Eraclio contro Cosroe", è messo
chiaramente in evidenza il modo in cui le calze, separate l'una dall'altra, erano
allacciate al farsetto.
Nel terzo periodo dell'attività di Piero, le figure si allontanano più decisamente
dall'esasperato geometrismo: i volti prendono un aspetto più naturale. Permangono
la solennità, la chiarezza e soprattutto la luminosità dei colori, puri, forti,
complementari, che la luce unifica ed ammorbidisce.
Ritratto di Battista Sforza.
Alla semplice sopravveste nera danno sfarzo le maniche in panno d'oro, il più ricco
di tutti i tessuti, fiore all'occhiello della produzione tessile italiana, largamente
esportato all'estero.
La ricchezza e potenza della famiglia da cui la donna proviene e di quella in cui è
entrata dopo il matrimonio sono attestate dallo splendore dei gioielli: i tre fermagli
gemmati che impreziosiscono l'acconciatura complicata, fatta di capelli arrotolati e
chiusi da nastri, illeggiadriti da un pannolino arricciato e da ciocche di capelli liberi,
la bocchetta gemmata che circonda il collo, il vezzo di perle che finisce con una
gioia.
Contrasta lo sfarzo di Beatrice la severità dell'abbigliamento di Federico da
Montefeltro. La semplicità della veste è addolcita dal bianco colletto della camicia.
Federico porta, sui capelli corti, con taglio rotondo intorno alla testa, la berretta alla
capitanesca, rossa e tonda, stretta alla base e slargata verso l'alto. È la stessa
berretta che portano Francesco Sforza (Maestro Lombardo. 146O. Milano. Brera.) e
Ludovico Gonzaga quando riceve il figlio, Cardinale Francesco (Mantegna.
Mantova. Camera degli Sposi).
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SANDRO BOTTICELLI
Firenze - 1445/1510
Alessandro Filipepi, detto Botticelli: il cognome con il quale è conosciuto gli deriva
dal fratello maggiore, Giovanni, che faceva il sensale e che per la sua corporatura
abbondante veniva soprannominato "Botticello" (Giovanni, di 24 anni maggiore di
Sandro, portava spesso con sè il fratellino che venne, forse, considerato suo figlio:
figlio di Botticello, quindi, alla latina, Botticelli).
Si hanno notizie certe di Botticelli da una dichiarazione del padre (Mariano,
conciapelli, maestro di bottega) che comunicava al catasto che Sandro, di tredici
anni, "sta a leggere ed è malsano". Quasi certamente era delicato di salute; i ragazzi
delle classi medie, infatti, a quell'età erano già stati messi a lavorare, per aiutare la
famiglia.
A 15 anni Botticelli diventa apprendista orafo, poi entra a far parte della bottega di
fra Filippo Lippi, protetto prima da Cosimo il Vecchio, poi da Piero il Gottoso e dalla
moglie Lucrezia Tornabuoni, i genitori di Lorenzo il Magnifico, i primi forse a
riconoscere il genio del giovane Sandro.
Dalla bottega del Lippi, passa a quella del Verrocchio (frequentata dai giovani artisti
rampanti nella Firenze dei Medici) e, dopo essere stato per un certo periodo socio
del Verrocchio, nel 1470 diventa pittore in proprio (tra le prime commissioni ufficiali
dell'epoca c'è quella dell'allegoria della Fortezza, per il tribunale della Mercatanzia).
A Firenze intanto, morto Piero il Gottoso, il potere passa nelle mani dei suoi due
figli, Lorenzo e Giuliano. All'impegno politico Giuliano preferisce gli amori ed i
piaceri, che non mancano certo a Firenze; Lorenzo è invece grande politico,
intellettuale e mecenate per spirito, per stato d'animo, non per convenienza. Artista
e poeta, vuole fare risorgere sulle rive dell'Arno una novella Atene di Pericle; si
circonda di artisti e letterati, che si incontrano nei suoi "orti" (giardini) dove
trascorrono i giorni impegnati in dotte discussioni e in piacevoli conversari con
fanciulle dolci e languidi giovinetti.
Anche Botticelli frequenta questo ambiente, ma vive solo per la pittura; ostile al
matrimonio, non ha profondi legami sentimentali, canta però gli amori altrui ed in
particolare quelli di Giuliano: sullo stendardo che lo precede per la Giostra, Giuliano
porta, dipinto da Botticelli, il ritratto di Simonetta Cattaneo Vespucci, il suo amore
grande, la donna bellissima ed onesta che tutta Firenze ama e di cui piangerà la
morte.
Due anni dopo la Giostra Giuliano muore, vittima della congiura dei Pazzi. Lorenzo è
ferito, ma si salva; la sua reazione è tremenda: i congiurati (tra cui il vescovo
Salviati) vengono impiccati ed al Botticelli tocca l'ingrato compito di dipingere la
truce scena dei "penduti". Il Papa condanna l'operato di Lorenzo ma poi perdona, e
Sisto IV invita a Roma i pittori fiorentini (Perugino, che è diventato fiorentino di
adozione, Botticelli, Ghirlandaio, Rosselli) per dipingere la cappella che da lui
prenderà il nome, la Cappella Sistina.
1482: Botticelli torna a Firenze, sono questi per lui anni di gloria, non dipinge in
genere ritratti, ma i personaggi dell'epoca sono presenti, ritratti, nelle sue opere.
Il clima di Firenze sta però cambiando; gli oppositori dei Medici sono ora Savonarola
ed i suoi seguaci; il monaco domenicano si scaglia contro la corruzione, i costumi
rilassati della corte medicea e di conseguenza contro l'arte che di quella corte è il
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prodotto. Firenze si divide tra Palleschi, fautori dei Medici, e Piagnoni, seguaci del
Savonarola.
1492: muore Lorenzo e con lui finisce la politica dell'equilibrio che aveva mantenuto
in pace gli stati italiani.
1494: Calata in Italia di Carlo VIII. Cacciato l'incapace Piero, che aveva ceduto
Firenze a Carlo VIII, la città proclama la Repubblica. Ora Savonarola è arbitro del
destino politico di Firenze, ma gli sono nemici gli Arrabbiati.
Le lacerazioni della vita cittadina si riflettono nell'animo di Botticelli, già tormentato
dal dubbio generato dalle prediche del Savonarola, e avviene in lui (savonaroliano,
prima di essere piagnone) una conversione, non religiosa, perchè mai aveva perso
la fede, ma artistica. Abbandonati i cantori dell'attimo fuggente, si volge a chi aveva
cantato "le cose eterne", e illustra la Divina Commedia.
1498: Il Savonarola, che con le sue accuse e denunce si era reso nemico il potente
Alessandro VI Borgia, viene catturato, impiccato ed arso in pubblico in piazza della
Signoria.
È un momento tragico, terribile: a Botticelli sembra si sia scatenato il diavolo sulla
terra. Frutto di questo momento sofferto è la "Natività mistica".
Sono gli anni del declino fisico dell'artista; mentre declinano le sue forze, anche le
commissioni si fanno meno frequenti; conosce persino qualche problema di
carattere economico.
1510: muore all'età di 65 anni.
L'artista del Quattrocento è insieme poeta e filosofo e l'opera del pittore è, spesso, la
trascrizione in immagini delle sue idee.
Questo assioma che aveva dominato la cultura degli artisti dell'epoca non è più
valido per tutta l'opera di Botticelli che cresce e si forma culturalmente nel circolo dei
Medici (accanto a Pico della Mirandola e Marsilio Ficino), dove si approfondiscono
le nuove teorie neoplatoniche.
Arte e Filosofia occupano due campi diversi della cultura; devono specializzarsi. La
Filosofia studia le Idee, i principi del sapere, i fondamenti della realtà. L'Arte è
epressione autonoma: va creata per se stessa; i sentimenti sono modi di essere
dello spirito dell'artista; le opere d'arte sono riflesso di questi sentimenti e non
mezzo di comunicazione di principi metafisici o morali.
In questo senso Botticelli è stato considerato il primo esteta puro: l'arte vive di sè e
per sè. In realtà tutta la sua opera è carica di problemi religiosi e morali.
Botticelli incontra Leonardo nella bottega del Verrocchio. La differenza d'età è
minima, corrono solo sette anni tra i due, ma le personalità sono antitetiche, le
poetiche e gli stili sono così lontani da far considerare i due artisti quasi i
rappresentanti di due epoche diverse: Botticelli è l'ultimo grande pittore del
Quattrocento, Leonardo il primo del Cinquecento.
Botticelli rappresenta l'ideale, i sentimenti al di fuori di qualsiasi riferimento e
contaminazione con il reale (idealismo neoplatonico) e tende a realizzare nella sua
opera il "bello ideale" perchè questo è lo spirito della cerchia neoplatonica presso la
quale egli si forma. Leonardo è empirico, antidogmatico: per lui vale solo ciò che
l'esperienza del reale ci fa conoscere.
Botticelli riprende e reinventa, in chiave di puro estetismo, tutte le esperienze e
teorie quattrocentesche. Sente premere una nuova cultura, una nuova filosofia, una
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nuova concezione del mondo, una nuova pittura. Ma mentre Leonardo prima e
Michelangelo e Raffaello poi accolgono le nuove idee (il movimento, la realtà coi
suoi chiaroscuri...) Botticelli polemicamente e puntigliosamente si aggrappa alle
poetiche quattrocentesche, alla prospettiva, alla chiarezza della linea,
all'idealizzazione assoluta delle figure, all'ispirazione classica nei soggetti.
Questo contrasto tra il passato e le nuove idee che premono, questa incertezza tra
l'assoluto (l'affermazione dell'uomo e della ragione che aveva caratterizzato il
Quattrocento) e la variabilità del reale, dell'empirico, che tanto interessa Leonardo,
sono forse l'elemento dominante nella pittura di Botticelli.
I caratteri fondamentali della sua opera si possono dunque così riassumere:
- La malinconia, generata dal dubbio e dall'incertezza.
- La perfezione, la purezza formale delle sue figure.
- L'idealizzazione totale della natura (il che ci aiuta a comprendere come
tante delle sue figure di donna abbiano gli stessi lineamenti. Nel realizzarle,
Botticelli si rifà all'idea che sta aldilà di ogni cosa reale).
- L'ascetismo allegorico: l'idea religiosa, (il destino come ineluttabile volontà
divina che muove il mondo) domina i suoi quadri.
I pregi della sua pittura sono:
- La purezza dei colori
- L'eleganza e la raffinatezza della linea
- La poeticità. Tutta la sua opera è lirica pura, descrizione smaterializzata,
parola sublimata in versi.
La sua produzione fu copiosissima. Fu il pittore ufficiale dei Medici al tempo di
Lorenzo il Magnifico e molte delle sue opere ricordano, commentano ed esaltano
allegoricamente fatti della vita dei suoi mecenati; altre sono la trasposizione in
pittura di testi o allegorie classiche, che i dotti umanisti avevano riscoperto e
tradotto. Questa produzione copre il
periodo centrale e più fecondo della sua attività.
Nell'ultima parte della vita, dopo la morte di Lorenzo e la fine del dominio dei
Medici in Firenze, l'influenza del Savonarola si fa più forte; l'ascetismo e il
misticismo prevalgono come elementi caratterizzanti della sua pittura.
Le opere.
1). Ritratto di giovane (forse autoritratto). 1470ca. Tempera su tavola.
cm.51x33,7. Firenze. Pitti.
È tra le prime opere del Botticelli. Risente della accuratezza e della precisione
dell'allievo di bottega, molto dotato e promettente.
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2). Ritratto di donna (Fioretta Gorini, amante di Giuliano? Simonetta Vespucci, la
donna amata da Giuliano dei Medici? O forse Clarice Orsini, moglie di Lorenzo?).
1475. Tempera su tavola. cm.61x40. Firenze. Pitti.
Si nota il grande vigore espressivo, la maestria nell'uso del colore, il sapiente
contrasto del fondo in parte chiaro e in parte scuro, per mettere in risalto i lineamenti
del volto. La luce, che penetra dalla finestra, attenua e smorza il rosso del vestito; i
contorni della figura sono chiari e definiti.
3). Madonna con il Bambino e San Giovannino (Madonna del roseto). Databile
tra il 1469 e il 1470. Tempera su tavola. cm.93x69. Parigi. Louvre.
È una delle opere giovanili del Botticelli. I lineamenti delle figure si ripeteranno
spesso nelle opere successive. Il disegno preciso ma morbido e i colori
armoniosamente fusi contribuiscono a definire la purezza stilistica del linguaggio
botticelliano. La luce dolcissima ammorbidisce le superfici e i volumi.
4). Madonna con il bambino e due Angeli. 1469-70. Tempera su tavola.
cm100x71. Napoli. Galleria Nazionale di Capodimente.
5). La Fortezza. Databile tra il 1469 e il 1470. Tempera su tavola. c.167x87.
Firenze. Uffizi.
Fu eseguita per l'aula del Tribunale civile dell'arte di Mercanzia in Piazza della
Signoria. È evidente l'influsso di Andrea del Castagno (Sibilla Cumana) e del
Pollaiolo, le linee sono però molto più morbide, meno scultoree; l'immagine si
idealizza e spiritualizza. Non c'è senso di forza o sicurezza, come il tema dovrebbe
suggerire, ma di melanconia e pacata dolcezza. (Notevole è l'esasperata
perfezione della prospettiva).
6). La Primavera. 1478. Tempera grassa su tavola. cm.203x314. Firenze. Uffizi.
È un affascinante intreccio di allegorie umanistiche. Una delle ipotesi più seguite
identifica nella composizione il regno di Venere cantato dai poeti antichi e dal
Poliziano: nella dolce penombra di un bosco, Zefiro insegue e possiede Clori, la
terra sterile, e la trasforma con il suo atto di amore in Flora, simbolo della
Primavera stessa, splendida figura dai sinuosi contorni, che sparge fiori sul mondo.
Al centro è Venere che raffigura l'Humanitas, l'essenza delle virtù umane che
arricchiscono il mondo; a sinistra, nude sotto impalpabili veli, danzano le Grazie,
mentre Mercurio, pensoso, addita il cielo: l'amore terreno può sublimarsi e
trascendere il mondo sensoriale, fino al elevarsi e raggiungere le sfere superiori.
A parte il significato allegorico, il dipinto parla alla fantasia con immediatezza
ideale: l'amore si risveglia (Zefiro insegue Clori), i frutti di questo risveglio
arricchiscono il mondo (Fiori nei prati, foglie e frutti sugli alberi).
Fortissima è la suggestione che proviene da questa opera, dove elementi anche
erotici si sollevano ad una spiritualità raffinata e melanconica (le tre Grazie) e
dove, nella penombra del bosco fiorito, le snellissime figure, nel loro linearismo
fluente e lieve, evocano l'impalpabilità e l'inafferrabilità del sogno.
7). La nascita di Venere. 1485. Tempera su tela. cm.172x278. Firenze. Uffizi.
È l'esaltazione della bellezza spirituale, non della bellezza fisica femminile. Tra i
significati allegorici c'è anche quello dell'anima cristiana che rinasce dall'acqua del
battesimo. La nudità significa semplicità, verità, purezza. A farle da corona e
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ornamento sono l'acqua la terra e il vento, rappresentati nella loro simbolica
essenzialità ed idealità (le onde del mare azzurro sono tutte uguali; il vento ravviva
i capelli di Venere...).
Il quadro raffigura tre episodi distinti: La coppia di Zefiri che arriva è bilanciata
dalla massa dell'ancella che porge il mantello; insieme chiudono quasi in una
nicchia la figura di Venere. Il nudo centrale della dea verso cui convergono le
spinte laterali, ma da cui tuttavia si isola, è di una raffinatezza tale che ogni
riferimento materiale appare fuori luogo. La stilizzazione lineare è di una grazia
mirabile.
8). Venere e Marte. dopo il 1480. Tempera e olio su tavola. cm.69x173,5. Londra.
National Gallery.
Si tratta, probabilmente, di una spalliera o del lato di uno dei cassoni nuziali che
contenevano il corredo della sposa. Il soggetto deriva dalla mitologia, ma il modo
con cui è reso è del tutto "moderno", botticelliano.
L'opera allude forse agli amori tra Giuliano dei Medici e Simonetta Vespucci, il
soggetto si presta però a molte interpretazioni: a quella neoplatonica, della
"armonia degli opposti" (Venere, dea dell'Amore, e Marte, dio della Guerra), o a
quella, anch'essa neoplatonica, della "vittoria dell'Armonia sulla Discordia".
Il senso di movimento plastico e di statico linearismo, che contraddistingue la
Primavera e la Nascita di Venere, si ritrova anche in questo quadro. La
contrapposizione delle masse, collegate dai tre satiri sullo sfondo, testimonia della
ricerca di equilibrio che il Botticelli esaspera in tutti i suoi quadri. È, quella della
purezza formale, una delle caratteristiche costanti nell'opera botticelliana, che qui
si sposa con un
colorismo tenue e con la consueta raffinatezza nel disegno.
9). Pallade doma il Centauro. 1482 ca. Tempera su tela. cm.205x147,5. Firenze.
Uffizi.
La Saggezza (Pallade) domina la duplice natura (istintiva e razionale) rappresentata
dal Centauro. Dal punto di vista formale, forza, grazia, sfondi, figure ricalcano gli
elementi comuni già considerati in altri dipinti.
10). La Storia di Nastagio degli Onesti. 1483. Tempera su tavola. cm.83x138.
Madrid. Prado.
La storia è tratta da una novella del Boccaccio (Decamerone, V, 8): Mentre
Nastagio degli Onesti passeggia per la pineta di Ravenna, meditando sul suo
infelice, non ricambiato amore per la figlia di Paolo Traversari, ha la visione di una
donna inseguita da un cavaliere che la uccide, le strappa il cuore e lo dà in pasto
ai cani. Nastagio organizza nel bosco dove ha avuto la visione onirica un
banchetto per i parenti della fanciulla amata. Narra la storia e convince la riluttante
fanciulla a sposarlo.
La serie (il cui disegno è di Botticelli, l'esecuzione è in gran parte opera di aiuti) è
costituita da quattro pannelli, del tipo di quelli che venivano usati come spalliere
nelle camere dei palazzi fiorentini. Fu probabilmente commissionata in occasione
delle nozze di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini, perchè sono presenti nei
pannelli le armi delle due famiglie.
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Nelle due tavolette esposte al Prado la composisizione è perfettamente equilibrata;
la descrizione della natura è accurata, ma idealizzata, come quella di tutti i
protagonisti, che, se anche vestiti come personaggi dell'epoca, hanno le perfette
fattezze di figure ideali.
10). Madonna del Magnificat. Tra il 1483 e il 1487. Tempera su tavola. diametro
cm.115. Firenze. Uffizi.
È una delle opere della piena maturità artistica di Botticelli, che qui rivela la totale
maestria nell'uso delle linee, che si piegano alla forma rotonda del quadro senza
sforzi o distorsioni. Il movimento lieve e contenuto delle figure è sottolineato da
queste linee morbide e precise che delimitano i volumi e arricchiscono i panneggi.
La cura dei particolari, nei veli che svolazzano, nel manto della Vergine, nel libro,
non ha la puntigliosa precisione delle opere dei Fiamminghi, ma una delicata
perfezione tutta botticelliana.
11). L'Annunciazione. 1489-90. Tempera su tavola. cm.150x156. Firenze. Uffizi.
In quest'opera di grande tensione drammatica si hanno le prime avvisaglie del
profondo cambiamento stilistico del Botticelli. Il sentimento si fa più severo; la
malinconia si trasforma in tristezza; la morbida linea dell'incertezza si contorce
nell'ansia e nel dubbio. Le stesse pieghe dei vestiti tradiscono la nuova sensibilità,
mentre i colori diventano più violenti.
12). Compianto sul Cristo morto. Tra
tavola.cm.110x207. Monaco. Alte Pinakoteke.
1490
e
1495.
Tempera
su
13). Compianto sul Cristo morto. 1495-500. Tempera su tavola. cm.107x71.
Milano. Poldi Pezzoli.
Il movimento della scena, la tensione dei personaggi e il concitato linearismo
testimoniano il turbamento profondo che la predicazione del Savonarola ha portato
nell'animo del Botticelli.
14). La Calunnia. 1494-95. Tempera su tavola. cm.62x91. Firenze. Uffizi.
Il soggetto del quadro è ispirato da un'accusa di sodomia diretta al pittore e che lo
ha profondamente turbato. Le traversie in cui versano i suoi protettori, i Medici,
amplificano il suo pessimismo. Mida (Lorenzo dei Medici) è mal consigliato
dall'Ignoranza e dal Sospetto. La bella ma falsa Calunnia, accompagnata
dall'Invidia e dalla Frode, trascina un innocente (Botticelli) davanti al Re, mentre il
Livore precede il gruppo; seguono e la Penitenza e, ultima, la trascurata, nuda
Verità.
15. La Natività (Natività mistica). 1501. Tempera su tela. cm.108x75. Londra.
National Gallery.
Botticelli dipinse la Natività mistica nel 1501, durante uno di quegli eventi che egli
stesso definì "torbidi d'Italia". L'opera è complessa e di non facile interpretazione; il
sentimento religioso è profondo ma non liberatorio, lo stile è concitato. Nel secolo
in cui i pittori fiorentini si erano proposti di ricreare la natura sulle loro tele,
Botticelli sembra volerci dimostrare che l'arte è artificio, che vive di sè e per sè. In
polemica con Leonardo che ha portato la scienza nella pittura, egli invita a tornare
al passato; in uno spazio assurdo, senza tener conto delle conquiste della
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prospettiva, delle proporzioni, dell'anatomia, su un unico piano disegna le figure
piccole o grandi, secondo la distanza, come avevano fatto i primitivi.
Le figure più importanti della composizione sono, come di regola, Maria e il
Bambino, ma Maria è gigantesca in confronto al neonato.
Mentre Giuseppe è perso in contemplazione, guidati dagli angeli arrivano da destra
i pastori, da sinistra i Re Magi. Tutti gli angeli portano in mano rami di olivo,
simbolo di pace; alcuni di essi li hanno appena consegnati agli uomini che, in primo
piano, stanno abbracciando, mentre i diavoli, a questa vista, si precipitano
all'inferno.
In alto il cielo si è aperto, per rivelare la luce d'oro del Paradiso; qui gli angeli
danzano e cantano, reggono in mano rami di olivo legati da nastri che celebrano la
Vergine Maria "Madre di Dio", Sposa di Dio", Regina dell'universo".
La moda di Botticelli
Slancio, movimento, linea sinuosa per la bellezza ideale
di Botticelli, esteta e potenziale designer.
Botticelli è il pittore della "linea", del contorno continuo, che anima e ravviva le sue
composizioni. Se le sue opere fossero svuotate dei colori e dei particolari,
lasciando solo la sinuosa linea del contorno, esse non perderebbero di vitalità e
freschezza...avremmo dei mirabili "modelli sartoriali".
Pittore di grandissimo talento ed ispirazione, poeta dell'idealismo neoplatonico, è
anche pittore ufficiale della corte dei Medici. Non produce però, per lo più, ritratti su
commissione, ma arricchisce le sue opere a soggetto civile o religioso
dell'immagine idealizzata dei personaggi della corte, ci lascia cioè dei ritratti
indiretti dei suoi mecenati o dei più famosi personaggi pubblici della sua Firenze.
Quando dipinge ritratti di proposito, l'idealizzazione dei personaggi e` tale che è
quasi impossibile identificare il soggetto rappresentato. Solo Giuliano dè Medici
(Washington. National Gallery), suo grande mecenate, fu riprodotto fedelmente,
ma dopo la sua morte, come testimoniano la porta semiaperta e la tortora sul ramo
secco (simboli di morte), che compaiono nel ritratto, e l'occhio socchiuso, che ci
suggerisce che l'artista ha preso come modello il calco del viso dello scomparso).
La sua figura femminile è alta e slanciata, la capigliatura è fluente, i lineamenti
sono regolari. Gli abiti sono per lo più leggeri e morbidi a sottolineare l'eleganza
sfuggente della linea.
Anche gli abiti maschili sottolineano la figura alta e slanciata del suo modello di
giovane.
Ritratto presunto di Simonetta Cattaneo.
Sotto la pellanda si indossa nel Quattrocento la gamurra, la trecentesca gonnella,
che definisce nell'evoluzione della sua linea le tendenze del gusto del secolo. Ai
modelli goticheggianti dei primi decenni, documentati da Paolo Uccello e dal
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Pisanello, succede una linea più severa che prelude alle forme rinascimentali degli
ultimi decenni e della prima metà del Cinquecento.
Così la scollatura che sale sulla gola ed è appena avvallata dietro la nuca viene
sostituita da una scollatura arrotondata, in genere non eccessiva, contro la quale si
pronunciano le leggi suntuarie che, a Milano, per esempio, addirittura impongono
alle donne di chiudere quelle delle vesti che già possiedono, o almeno di coprirle
con un tessuto non trasparente.
Non è una novità che le leggi suntuarie sembrino fatte per essere trasgredite, e
così le donne continuano ad esibire le loro scollature e, quando le coprono, lo
fanno con veli così sottili che sembrano evidenziarle piuttosto che nasconderle.
Moderatamente scollata, semplicissima, è la gamurra che indossa la giovane
ritratta da Botticelli, sulla cui identità sono state avanzate numerose ipotesi.
È Clarice Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico, oppure Fioretta Gorini, amante di
Giuliano dei Medici? O è davvero la Simonetta Cattaneo, moglie irreprensibile del
fiorentino Vespucci, amata di amore platonico da Giuliano ed esaltata da Lorenzo
dei Medici e da tutta la sua corte che in lei raffigurano l'ideale della bellezza e della
virtù femminili? Poco somiglia alla Simonetta ritratta secondo le sue reali fattezze da
Piero di Cosimo o dallo stesso Botticelli nello stendardo da lui dipinto nel 1475, in
occasione della celebrazione dell'alleanza di Firenze con Venezia per contrastare
l'avanzata dei Turchi, ma in fondo Botticelli, come dice Yukio Yashiro (Sandro
Botticelli. Londra-Boston 1925) " in mezzo ad un culto per il realismo troppo
esclusivo... fu capace di realizzare una presentazione artistica libera ed eterea" ed
Herbert Percy Horne (Alessandro Filipepy, commonly called Sandro Botticelli.
London 1908) "le sue figure, mentre ci attraggono per un sorprendente senso di
attualità e di sostanza vitale, sono totalmente svincolate dalla natura, intesa
secondo un punto di vista ovvio, fotografico."
A noi qui interessa la sua gamurra che, nella sua semplicità, può essere considerata
il modello fondamentale di questo indumento nel Quattrocento. È dunque
modestamente scollata e moderatamente aperta sul petto, dove, sotto i laccetti
probabilmente di tessuto, si affaccia la camicia. Il punto vita, ancora alto nel primo
Quattrocento, è qui sceso alla sua posizione naturale. Anche le maniche, che
presentano allo scalfo e sotto il gomito i tagli che facilitano i movimenti, mettono
graziosamente in vista la camicia.
Sui capelli che, divisi in mezzo alla fronte, scendono a bande lisce sulle orecchie, è
appoggiata una cuffia dalla linea semplice.
Allegoria della Primavera.
All'arrivo della bella stagione alla combinazione pellanda gamurra si sostituisce
quella giornea-cotta.
Sono cotte le chiare vesti che indossano sotto le giornee le donne del Ghirlandaio e
lo sono quelle, graziose, che compaiono nei dipinti di Botticelli.
La cotta è infatti una veste chiara e giovanile, di linea semplice, ma di tessuto in
genere prezioso, chiusa spesso da file di bottoni o da nastrini, impreziosita da
ricami.
Quella della Venere, nella Primavera, è leggera, quasi trasparente; il punto vita,
tornato alto, i ricami in oro e gli ornamenti che definiscono i seni, sottolineano lo
slancio verticale della figura, non appesantita neppure dal ventre gonfio che il
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Nostro deriva, probabilmente assieme alla fragilità ed al languore delle sue figure
femminili, dal Trecento.
L'addome largo e pronunciato, che compare frequentemente nelle figure del
Quattrocento, ripete infatti l'uso invalso negli ultimi decenni del secolo precedente di
mettere in evidenza il ventre delle donne, anche con pieghe ed imbottiture, per
sottolineare la loro fecondità. Sembra che tale moda possa essere ricollegata allo
spopolamento seguito alle guerre ed alle pestilenze del XIV secolo ed all'obbligo
morale che avevano le mogli dei governanti di sostenere la campagna demografica.
(Maria Luisa Rizzatti. Botticelli- 1976. Mondadori. Milano)
Come il mantello cittadino conferisce dignità ai personaggi che compaiono nelle
scene di vita fiorentina esaltata nei dipinti del Ghirlandaio, così lo stupendo mantello
serico, double face, raccolto in un morbido sinus dalla mano sinistra della dea,
conferisce maestà alla Venere di Botticelli.
Anche la Flora, simbolo della primavera, indossa una cotta di seta, nella quale
Botticelli dipinge giacinti, fiordalisi, mammole e veroniche, gli stessi fiori che
colorano il prato, facendo sfoggio della sua abilità di pittore di fiori e rivelando le sue
conoscenze scientifiche della botanica.
I fiordalisi sono il motivo dominante anche nella veste dell'Ora che porge il mantello
a Venere nascente dalle acque, nella tela agli Uffizi. Firenze.
Il gusto di ornare le stoffe sia di lino che di seta con motivi di fiori sparsi,
documentato da Botticelli nei suoi dipinti, prosegue nel Quattrocento dal Trecento ed
è dovuto all'influsso che le sete cinesi ed il loro decorativismo hanno esercitato
sull'arte tessile occidentale e italiana in particolare.
Secondo una dichiarazione del padre Mariano, rilasciata al catasto fiorentino nel
1458, e secondo quanto ci riferisce il Vasari nelle sue Vite, all'età di circa quindici
anni , su consiglio probabilmente del fratello che faceva il battiloro (il doratore),
Alessandro venne messo a bottega da un orafo, o forse il fratello stesso lo prese
con sè. Non rimase a lungo a bottega dall'orafo, ma vi rimase di sicuro il tempo
sufficiente per arricchirsi di quel gusto particolare e di quella dimestichezza con i
gioielli che si tradurrà negli ammirevoli particolari che abbelliscono le sue opere.
La prima delle tre Grazie, a sinistra, sfoggia un gioiello a forma di cuore, nel cui
centro è incastonata una grossa pietra preziosa. La terza Grazia porta, appeso ad
una treccia che le fa da girocollo, un gioiello abbastanza diffuso all'epoca, in cui, alla
pietra incastonata, fanno da corona tre grosse perle. Le perle tornano, intrecciate ai
capelli, ad ornarle il capo.
Ghirlande di fiori, preziose e belle come un gioiello, ornano il capo di Flora e le
cingono il collo ed i fianchi.
Raffinati e non appariscenti, i gioielli costituiscono un elemento molto importante
dell'eleganza femminile del Quattrocento e testimoniano nel medesimo tempo la
posizione sociale ed economica della famiglia a cui la donna appartiene.
Accanto alle pietre preziose ad alle perle che abbiamo visto in varie gioie,
compaiono collane di corallo (ne abbiamo vista una nel ritratto a Giovanna
Tornabuoni del Ghirlandaio), ricche di simboli ed abbordabili anche dalle famiglie
meno ricche.
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Compaiono anche collane fatte a chicchi di ambra nera, come quella che orna la
scollatura della Dama nel ritratto del Boltraffio. (fine XV secolo. Milano. Castello
Sforzesco.)
La morbida eleganza della linea botticelliana compare anche nell'abbigliamento
maschile, indossato da giovani efebi, leggermente effeminati, i cui volti, sbarbati e
lisci, sono incorniciati da capelli piuttosto lunghi ed ondulati.
I giovani fiorentini che frequentano la sua bottega ed i notabili della corte medicea
vengono ritratti mentre indossano tutti gli elementi della moda dell'epoca, nella loro
versione più raffinata.
Il giovane al centro dell'ADORAZIONE DEI MAGI. (1472. Londra. National Gallery)
indossa una corta gonnella con ampi spacchi alle maniche che mettono in vista la
rossa veste, ornata allo scollo da un gioiello o da un ricamo d'oro, prezioso come un
gioiello.
Tutte e due le ipotesi sono valide, potrebbe infatti essere solo un ricamo oppure un
gioiello, Botticelli era abile nel disegnare gioielli, ma ben nota è anche la sua abilità
di disegnatore di ricami. È sempre il Vasari che ce ne dà notizia: "fu tra i primi che
trovasse di lavorare gli stendardi e altre drapperie come si dice, di commesso,
perchè i colori non istingano e mostrino da ogni banda il colore del drappo."
Nelle sue opere pittoriche l'effetto del gioiello veniva raggiunto facilmente dal
Botticelli, che si serviva allo scopo dell'oro, che era solito stendere con un
particolare, finissimo pennello.
Ben in vista è la cintura, ancora importante nell'abbigliamento maschile del
Quattrocento; in questo caso è semplice, una cintura a correggia, ma alcune, e
particolarmente quelle dei sovrani, erano preziose, guarnite di fibbie e bottoni d'oro,
di passetti d'argento o dorati. Alla cintura si appendeva spesso la scarsella o
borsetta, di foggia e materiale diverso, secondo la provenienza.
Sulle calze bicolori il giovane porta un paio di stivali di morbido cuoio
apparentemente dorato, la cui moda veniva dalla Spagna. L'uso delle calze solate
va diminuendo nel corso del Quattrocento, mentre sempre più vengono usate scarpe
e stivali di vario tipo. Le scarpette basse, oltre che di morbida pelle, possono essere
di stoffa, segnano la linea del piede (vedi giovane con guarnacca azzurra,
nell'Adorazione dei Magi. Firenze. Uffizi), sono chiuse da uno spago sostenuto da
una setola ed incerato. Per proteggerle dal fango e dai ciottoli della strada gli
uomini, come le donne, indossano pianelle o zoccoli.
Un ricamo d'oro orna la ricca guarnacca di velluto blu indossata dal giovane
nell'Adorazione dei Magi del 1473, Londra. National Gallery.
La guarnacca è una delle sopravvesti corte più ricche ed eleganti, in uso già nel
Trecento, quando è sicuro indizio di ricchezza e di posizione sociale. Può essere di
tessuto vario ed è foderata di stoffa in estate e di pelliccia in inverno e può
presentare, oltre ai ricami, ornamenti d'oro e d'argento. Nel Quattrocento ha sempre
maniche molto ampie e sfilate.
Corte giornee e gonnelle indossate su farsetti e calze a braca compaiono nella
novella di Nastagio degli Onesti, divisa nei suoi episodi tra il Museo del Prado.
Madrid. e la Collezione Watney. Charlbury. Londra.
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