Umanesimo e Rinascimento - UNITER
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Umanesimo e Rinascimento - UNITER
UNI TER – Arese Appunti di storia dell’Arte di Maria Garbini Fustinoni per i partecipanti al corso su Umanesimo e Rinascimento Pag. 2……………………..Umanesimo e Rinascimento Pag. 9…….….Il volto nuovo delle città del XV secolo Pag. 13……………………..………………La prospettiva Pag. 15…………..…………..La scultura nel XV secolo Pag. 23………..…………..L’architettura nel XV secolo Pag. 34…………………………La pittura nel XV secolo Pag. 39………………………………...…………Masaccio Pag. 48……………………………Piero della Francesca Pag. 56………………………………….Sandro Botticelli 1 UMANESIMO E RINASCIMENTO Il RINASCIMENTO, uno dei periodi culturalmente più ricchi nella storia del pensiero occidentale, durante il quale maturano parecchie novità, si concretizzano ed affermano alcuni concetti già presenti nel Medioevo, è un fenomeno tipicamente italiano. 1- L'Italia, per la sua posizione al centro del Mediterraneo (che favorisce i commerci tra l'Oriente e l'Europa centrale), per la spinta ideale che naturalmente le viene dal fatto di essere la sede della Chiesa e della religione cattolica, con tutta la tradizione di cultura e filosofia che ciò porta con sé, precede l'Europa sul piano dello sviluppo economico e sociale. Dopo la metà del 1500, con l'intensificarsi dei rapporti con l'America, da poco scoperta, l'asse geopolitico si sposterà verso i paesi che si affacciano sull'Atlantico: Spagna, Olanda, Inghilterra. Ma per ora l'Italia continua a godere i frutti della sua politica culturale ed economica. Qui erano nate le prime banche, che avevano finanziato le crociate (promosse per la liberazione dei luoghi santi, ma che erano risultate estremamente importanti per il controllo delle vie di comunicazione e di commercio con l'Estremo Oriente) e che avevano offerto l'occasione per farsi avanti alle città mercantili italiane ed alle repubbliche marinare. Qui gli imprenditori italiani che si erano occupati della organizzazione dei trasporti, del commercio delle merci importate, della lavorazione delle merci grezze e della esportazione del manufatto finito, si erano arricchiti ed erano pronti alla scalata politica. 2- È un momento magico per l'arte e per la moda. L'alta moda, la moda-arte, è un fenomeno di sempre, ma diviene importante nell'Umanesimo e nel Rinascimento, quando l'artista ne diventa testimone, promotore e creatore in opere in cui al ritratto astratto del Medioevo succede una rappresentazione naturale, reale, anche se idealizzata, dell'uomo. 3- Ha caratteristiche simili a quelle del nostro secolo (soprattutto della seconda metà del nostro secolo), sia dal punto di vista culturale che da quello economico e sociale. Il nostro è infatti uno dei secoli più neri nella storia dell'umanità (due guerre mondiali, il nazismo, vari genocidi, la carestia e la fame in vaste zone dell'Africa), ma è anche uno dei più ricchi. Si stanno riscoprendo l'uomo con i suoi diritti, la democrazia, l'ecologia... Umanesimo e Rinascimento abbracciano il periodo culturale che va dal 1380 circa al 1580. È un periodo culturalmente unitario e, benché i due termini "umanistico" e "rinascimentale" esprimano caratteri diversi, il Rinascimento è il complemento, l'evoluzione naturale dell'Umanesimo, che a sua volta non è una rivoluzione, un'improvvisa reazione al Medioevo, ma il punto di arrivo di un processo evolutivo di laicizzazione della cultura che si caratterizza con un ritorno ideale all'antichità classica, riscoperta attraverso lo studio dei testi greci e latini e delle opere classiche, soprattutto di scultura e di architettura. Lo studio diretto degli antichi più che la causa del nuovo modo di pensare ne è stato la conseguenza. I nuovi ideali hanno infatti spinto gli umanisti a rileggere con spirito 2 nuovo le opere del passato ed a ricercare in esse le giustificazioni teoriche della nuova filosofia. La nuova cultura era stata preannunciata dall'interesse per il naturale che si era andato sviluppando presso le corti europee, dove, già nel Trecento, la riproduzione della realtà nelle opere di pittura e scultura era andata assumendo sempre più una giustificazione artistica, cioè espressiva, terrena, non più subordinata solo all'intento dottrinale. Era già presente in Italia nella letteratura in volgare, nell'opera di Dante, così ricca di passioni umane, nel Petrarca e nel suo amore per Laura, amore terreno per una donna vera, non "angelo venuto di cielo in terra...", nel Decamerone, nel quale Boccaccio presenta, divertito e per divertire, un mondo laico e borghese. La conquista del pensiero greco fornisce una valida risposta all'esigenza di collocare la conoscenza dell'uomo al centro dell'indagine filosofica e scientifica. Marsilio Ficino (1433-1499) sente la grandezza dell'essere umano, che nel suo complesso tende a diventare il tutto, perchè è la vita del tutto (Marsilio Ficino: Theologia Platonica). Questo concetto veramente moderno ed antimedioevale dell'uomo viene ripreso da Pico della Mirandola (1463-1494) per il quale l'uomo è il centro dell'universo, il compendio di tutto il creato, il libero artefice e costruttore di se stesso. (Pico della Mirandola. De hominis dignitate). Contemporaneamente alle forme letterarie si rinnovano quelle politiche; decadono le istituzioni universali e nascono gli stati moderni; fioriscono le attività economiche, le invenzioni, le esplorazioni geografiche e si rinnovano le arti. ELEMENTI CARATTERISTICI dell'UMANESIMO. Naturalismo e centralità dell'uomo. La tendenza al naturalismo ed alla centralità dell'uomo che già nell'arte gotica si era manifestata in alcune statue delle cattedrali (per esempio "L'ange qui rit" nella cattedrale di Chartres) che non sono più simboli, ma rappresentazione delle cose sensibili così come esse sono, da fatto occasionale nell'Umanesimo diventa un principio, un metodo: La natura e il reale hanno valore in sé e per sé, non sono più in rapporto di soggezione con la religione. L'uomo del Quattrocento non diventa né laico, né ateo, si pone però in rapporto con la natura e con se stesso in maniera spontanea, realistica: Dio è il creatore, ma l'uomo è il centro del creato, è misura di se stesso, e la terra è il suo regno. Crede nella vita futura, nel peccato originale e nella redenzione, ma queste idee non sono più il punto di riferimento della sua vita e del suo pensiero: È lui il centro dell'Universo e la sua ragione è in grado di capire e spiegare tutto. Individualismo. 3 La bottega rispecchiava l'ideale comunitario di vita nel Medioevo, il prodotto artistico era quindi frutto del lavoro della comunità (anche se i veri artisti ne erano i maestri) ed artigiani ed artisti non firmavano le loro opere. Il rapporto che Brunelleschi instaura con le maestranze durante la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore pone fine a questo momento, la comunità cede il posto all'individuo. Frutto e conseguenza di questo nuovo individualismo è, tra l'altro, la visione sensuale ed edonistica della vita: "Chi vuol essere lieto sia..." canta il Magnifico. L'arte medioevale era pervasa dalle voci che le venivano dalla Bibbia e dal Vangelo: "Tutta la natura soffre la maledizione del peccato" (Genesi). "Cristo redime l'umanità. L'umanità partecipa al processo di riscatto di sé e della natura, attraverso il lavoro e le vicissitudini della vita" (San Paolo. Lettere). Ora che non si sente più responsabile degli altri, l'uomo vive per sé e crea per sé (edonismo- estetismo). Razionalismo. Sia l'aristotelismo che, e soprattutto, il platonismo localizzano nella ragione dell'uomo la forza che astraendosi dalla realtà giunge alla conoscenza, base indispensabile per il controllo ed il dominio sulla natura e sulle sue forze: L'ignoranza genera soggezione, paura; la conoscenza rende liberi. Nel Quattrocento viene studiata e rivalorizzata la filosofia platonica, in contrapposizione alla filosofia aristotelico-tomista che aveva caratterizzato il pensiero medioevale e che era stata, appunto attraverso l'opera filosofico-teologica di Tommaso d'Aquino, assunta come filosofia ufficiale della Chiesa Cattolica. Per Platone la conoscenza non è risultato dell'esperienza (empirismo aristotelico) per la quale la mente sintetizza ed "estrae" le idee dal reale (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu). L'esperienza del mondo reale, per il platonismo, serve solo a stimolare il processo conoscitivo che si completa nella riscoperta, nella mente, delle idee in essa preesistenti (innate). Per Aristotele la mente è una "tabula rasa" che viene riempita astraendo, attraverso l'esperienza sensibile, le idee dalla realtà. Per Platone le idee, che esistono da sempre nell'Iperuranio, vengono imprigionate nella materia (originariamente informe) dando origine alla realtà sensibile. L'anima (la mente) è un'idea superiore incarnata che plasma la materia Uomo in essere intelligente e che porta in sè il bagaglio del mondo ipersensibile. La conoscenza è riscoperta della realtà ideale che è già in noi, da sempre. L’atto conoscitivo così realizzato rivela un mondo perfetto, ideale, dove ogni cosa trova il suo posto, nella giusta proporzione, nella giusta misura e collocazione, un mondo al cui centro c'è l'uomo. Estetismo e libertà di espressione. L'Umanesimo vuole riprodurre nel mondo reale l'ideale bellezza del mondo razionale, con libertà e scioltezza dei modi espressivi, grazia, eleganza, vitalità, linea ampia e chiara. Nel mondo reale, naturale, ma riscoperto e riordinato dalla ragione, tutto è chiaro, sereno, ritmico, melodico. I caratteri essenziali dell'arte in questo periodo sono dunque la misura, l'ordine, le proporzioni, la saldezza costruttiva, la luminosità. È l'ideale classico, che nel secolo successivo giungerà a maturazione e arriverà all'apice della sua parabola: il Quattrocento è tensione e ricerca, il Cinquecento è perfezionamento e completamento dell'ideale classico. 4 Unitarietà. L'arte gotica si era espressa attraverso il racconto; le storie bibliche erano state presentate a cicli, gli eventi si svolgevano davanti agli occhi dei fruitori in scene messe insieme a creare la grande storia. Il principio fondamentale dello stile ideale umanistico è invece l'unitarietà, che viene conseguita nella produzione artistica grazie alla nuova tecnica compositiva, alla piramide prospettica, che determina un solo punto di vista. Il gotico medioevale richiedeva certo maggior fantasia anche da parte dell'osservatore che doveva ricomporre le storie in unità di discorso; l'umanista è invece razionale: tutto è al suo posto, collocato esattamente dove deve essere. CARATTERI del RINASCIMENTO. Quando il nuovo ideale, che è nello stesso tempo novità e continuità, un nascere ed un rinnovarsi, diviene norma di vita di tutta la civiltà, non solo italiana, ma europea, abbiamo il passaggio dall'Umanesimo al Rinascimento. Nel Quattrocento l'arte di Donatello, Brunelleschi, Piero della Francesca, Mantegna è quella di una società in lotta per conquistarsi il dominio sulla natura. È ottimista ma essenziale, severa, rigorosa. Le figure sono forme solide, massicce. Si muovono nello spazio, libere e naturali, sono eleganti e leggiadre, ma esprimono nello stesso tempo forza, energia, serietà, dignità. È l'arte che ben s'addice all'ambiente storico e culturale in cui opera Cosimo dè Medici (Cosimo il Vecchio), uomo d'affari che si circonda di dotti e di artisti, ma che mette ancora al centro della sua vita la banca e l'ufficio. ll tardo Quattrocento è la cultura della seconda generazione, dei figli e nipoti che godono quanto è stato fatto dai padri. Dal naturalismo realistico al naturalismo ideale. Dal naturalismo realistico di Donatello, attraverso Botticelli, si giunge al naturalismo ideale di Raffaello: L'uomo non è quello che è, ma quello che dovrebbe essere. La perfezione cui tendeva il Quattrocento si realizza nel Cinquecento. È un fenomeno brevissimo, dura forse dieci, quindici anni. Leonardo, Raffaello, Michelangelo ci danno opere "perfette". Il loro entusiasmo per l'Uomo ideale è vero, sentito, ma proprio per questo dura pochissimo. La realtà è ben altra... Leonardo e Raffaello muoiono intorno al 1520, ma già nelle sue ultime opere (Incendio di Borgo) Raffaello supera la sua idealizzazione della realtà. L'attività artistica di Michelangelo culminerà nella Pietà Rondanini, opera tutt'altro che "classica"...L'idealismo è sentito e vissuto lo spazio di una breve illusione. Dall'Uomo centro dell'Universo all'Uomo divinizzato. L'uomo, da centro del creato, ma sempre reale, diventa perfetto, dominatore dei propri sentimenti, colto, raffinato (Baldassarre Castiglione, La Velata, Ginevra Benci, La Gioconda). 5 È l'uomo divinizzato, tanto perfetto che viene accusato di formalismo l'artista che ce lo propone, ma l'artista crede in quella perfezione: Raffaello, con Leonardo e Michelangelo, vive con sincerità questo momento ideale del classico, questa forza e bellezza e armonia dell'uomo e della natura. È un momento dello spirito lontano dal nostro sentire attuale, ma rimane per noi punto di riferimento, fonte di ispirazione. L'angoscia di Van Gogh è più vicina alle immagini che ci sono tristemente familiari di Dachau, o a quelle della fame nel terzo mondo o degli orrori del Vietnam; è più scioccante, forse più reale, ma alla bellezza ideale, al mondo perfetto propostoci dai classici, irreale anche ai loro tempi, ma vissuto come illusione, desiderio, speranza, dobbiamo accostarci non foss'altro che per trarre ispirazione e conforto. Dall'individualismo al concetto di genio. Scoperta la "dignitas hominis", il valore autonomo dell'uomo e della vita, senza preoccupazioni ultraterrene, l'uomo celebra l'umanità come libertà, come vita interiore. Vede nel mondo che lo circonda il suo dominio, scopre nell'esperienza diretta e nella ragione la chiave per intenderne i segreti. Dio ha creato il mondo, l'uomo lo conosce e perciò lo domina. Tutto il Rinascimento insiste sullo stesso tema. "L'uomo è simile a Dio." E Tommaso Campanella dice che all'uomo "poca è la terra...." e poi ancora che l'uomo non è solo conoscitore, ma anche "fabbro del cielo". Non più dunque solo "faber fortunae suae"...Sono espressioni di orgoglio infinito. L'uomo del Rinascimento ha la religione dell'azione; la sua prima qualità è la virtus classica, un insieme di doti fisiche e morali che lo spingono ad agire e lo portano al successo, gli fanno conseguire ricchezza, gloria, onori, rendono immortale il suo nome. Ne deriva il desiderio di farsi costruire grandi palazzi e di commissionare ritratti che tramandino ai posteri il suo volto. Questo attivismo è espressione di quella generazione di artigiani, mercanti, banchieri, che avevano arricchito ed ingrandito lo stato cittadino. È la borghesia che con operosità, parsimonia e cautela costruisce la sua ricchezza e quella dello stato. Nasce una nobiltà non più legata al sangue o al titolo, ma, come dice l'Alberti, "nasce solo da te e non riceve reputazione da chi che sia". Il "principe nuovo" è creazione del mondo borghese; può venire da una famiglia di mercanti (Medici), condottieri (Sforza, Montefeltro), e si costruisce, secondo la sua volontà, come un'opera d'arte, il suo stato, che è il primo stato moderno, organizzato secondo la sua propria ragione, con la sua moralità ed il suo fine (Machiavelli). Naturalmente alla generazione che ha dato vita a tutto ciò con la sua forza, ma anche con la sua serietà ed onestà, succede quella dei figli, più impegnati a cogliere il piacere ed i frutti di quanto fatto che a cambiare una situazione che appare ideale. A Firenze Lorenzo dei Medici non si preoccupa di produrre. Vive la vita di corte. È il Principe, fa il poeta e il mecenate. È più libero, meno vincolato, più idealmente perfetto; si circonda di artisti, commissiona loro opere (Battistero, Porte) ma non li impegna con vincoli precisi. Da sempre le Arti e le congregazioni religiose, che agivano nel nome e nell'interesse della comunità, avevano commissionato la maggior parte delle opere, promosso concorsi, imposto, anche se parzialmente, soggetti e modi. Ora sono i principi che ordinano e pagano gli artisti. E diventano collezionisti. Le opere che prima erano per 6 lo più richieste per abbellire i luoghi pubblici ora ornano anche i palazzi privati, e l'artista, che aveva dovuto rispettare nel soggetto, anche se non nella forma, i desideri del committente, ora si sente più libero. Quando i Signori prendono il potere, devono, all'inizio, tenere nascosto il loro interesse personale e così commissionano opere che sono aperte al pubblico (Cappella dei Pazzi) o che vengono esposte in luoghi pubblici, all'interno di chiese (Cappella Brancacci, in Santa Maria del Carmine...). Dopo la metà del Quattrocento è tutto un fiorire di opere profane; vengono costruiti a Firenze i palazzi delle grandi famiglie (Rucellai, Pitti, Medici, Tornabuoni, Strozzi...) ed i palazzi ducali a Ferrara, Mantova, Urbino. L'artista nuovo. Durante il Medioevo l'artista è artigiano, esecutore, ed appartiene alla modesta classe dei lavoratori manuali. I giovani aspiranti vanno a bottega, fanno i garzoni, s'impratichiscono nel lavoro e poi cominciano a produrre. Provengono spesso da famiglie modeste e nelle botteghe si formano culturalmente, mentre fanno il loro tirocinio pratico. Durante l'Umanesimo l'artista deve invece essere colto e raffinato; è un intellettuale. Molti degli apprendisti provengono da famiglie agiate. A bottega, mentre fanno pratica, coltivano la mente, leggono i classici, studiano filosofia e storia. La formazione teorica, culturale, prevale sull'apprendistato manuale. Lo spirito, da collettivo, diventa individuale. La bottega non produce più opere in comune, il maestro avvia alla pratica dell'arte, ma poi lascia che l'allievo si esprima liberamente. E spesso scopre che l'allievo "sa già di più", ha in sé l'ispirazione, la capacità innata, la genialità. Possono così fiorire aneddoti come quello su Verrocchio e Leonardo. Nella bottega quattrocentesca, che si evolve rispetto a quella artigiana, anonima, dei secoli precedenti, si continuano però a produrre, accanto alle opere di arte maggiore, anche lavori di terracotta, gonfaloni, stemmi, disegni per arazzi e insegne, per stoffe e broccati, per ricami, commissioni che non sono disdegnate nemmeno da pittori destinati a diventare famosi (Botticelli, Squarcione...). Nel Cinquecento, con Michelangelo, tramonta definitivamente la bottega e nasce l'artista creatore. I pittori del passato erano per lo più salariati, pagati a mese; i migliori di loro percepivano anche notevoli somme, ma non erano mai compensate le opere singole. Verso la fine del Quattrocento, ma soprattutto nel Cinquecento, Leonardo, Michelangelo, Sebastiano del Piombo, Tiziano si fanno pagare le loro opere. Fanno quadri a loro "talento" e ne pattuiscono il prezzo. Finiscono le corporazioni artigiane e nasce l'Artista che, anziché frequentare la bottega, frequenta i circoli, dove gli intellettuali, gli umanisti, gli uomini di cultura si incontrano, discutono e scambiano la loro scienza. Alla scuola pratica si sostituisce l'Accademia, al solo esempio del maestro succedono i libri di teoria: geometria, prospettiva, calcolo, anatomia. Gli artisti cominciano a firmare le loro opere e le città erigono monumenti ai loro artisti più famosi. (Firenze fa erigere in Duomo un monumento sepolcrale al Brunelleschi). 7 Si cominciano a scrivere le prime autobiografie (Ghiberti). All'interesse per l'opera si accompagna l'interesse per l'artista, mentre cominciano a farsi strada i concetti di personalità, stile, genialità. Leonardo diventa così famoso che re e principi se lo contendono; Raffaello è il beniamino della corte papale che gli mette a disposizione un palazzo; Tiziano è nominato Conte palatino da Carlo V ed è sepolto in Santa Maria dei Frari. E Michelangelo è chiamato "il divino". È il primo artista "solitario", scontroso, posseduto dal demone, dal genio, da una forza che è superiore alla sua stessa volontà e che gli s'impone. In nome di questa genialità all'artista nuovo viene permesso tutto. È al di sopra degli stessi re (Carlo V s'inchina a raccogliere il pennello caduto a Tiziano). L'opera d'arte è creazione autonoma del genio, che è senza vincolo, e l'artista è lo strumento tramite il quale il divino si esprime. Acquistano perciò grande valore il bozzetto, il disegno, l'incompiuto che già esprime in sé l'idea, l'intuizione del genio dell'artista al suo primo rivelarsi ed essere documentata. L'Arte si svincola dalla Teologia, non è più ancella della Filosofia o della Scienza. Si fa Arte per il piacere estetico, perchè l'Arte sia gustata. I soggetti possono essere religiosi o mitologici, ma sulla storia da raccontare prevale lo stile dell'artista, la forma, il colore. L'Arte da mezzo diventa fine, da strumento che deve rendere dilettevole l'utile, diventa diletto ed è considerata l'espressione più alta della cultura, il piacere più elevato dello spirito. L'artista mette il fruitore in rapporto con il bello, il divino, l'ideale. Il naturalismo diviene fittizio; il mondo rappresentato è ideale. Lo spazio sembra reale, ma è mentale, è unità, equilibrio, perfezione, espressione dell'intuizione della mente dell'artista, che è l'eroe intellettuale che concretizza nella sua opera l'ideale perfezione del creato, che è il medium tra il banale e l'assoluto, tra il buono e il bene. 8 IL VOLTO NUOVO DELLE CITTÀ DEL XV SECOLO L'Italia è la prima in Europa che, raccolta l'evoluzione verso il naturalismo ed il razionalismo, si accosta agli antichi, allo studio delle opere classiche, alla romanità, le cui vestigia sono a portata di mano. Centro di questo fervore di vita e di sviluppo economico è la città, verso la quale si spostano industria, commercio e servizi e nella quale il potere passa nelle mani dei ricchi commercianti e banchieri. Della città cambia anche l'aspetto esteriore. Per apprezzare il profondo significato della sua trasformazione è opportuno confrontare la struttura architettonica ed i palazzi di Urbino con quelli di San Gimignano, città che, malgrado gli inevitabili mutamenti apportati nei secoli, sono fortunatamente giunte sino a noi nel loro aspetto quasi originale ed hanno mantenuto intatto il carattere e la peculiarità dell'epoca in cui avevano raggiunto il loro massimo splendore artistico ed il vertice della loro importanza politica e culturale, che coincidono per San Gimignano con il XIII e XIV e per Urbino con il XV e XVI secolo. La loro posizione geografica, un po’ al di fuori delle grandi vie di comunicazione, la situazione logistica, alla sommità di due colline, e la straordinaria unità artistica della loro struttura urbanistica hanno contribuito a salvarle dai "barbari" rifacimenti che nei secoli successivi hanno distrutto o modificato tante opere architettoniche medioevali e rinascimentali. (Famoso è rimasto a Roma il detto popolare "Quod non fecerunt barbari faciunt Barberini" a significare le distruzioni di opere classiche romane e post-romane operate per edificare barocche case e chiese in voga soprattutto all'epoca in cui la famiglia Barberini godeva a Roma dei favori della Fortuna). Il raffronto ideale tra le due città (la realtà ha dovuto tener conto delle costruzioni preesistenti e della natura del terreno su cui edificare) si può fare accostando il dipinto trecentesco di Taddeo di Bartolo, riproducente San Gimignano che sorregge un modellino della città turrita, alla tavola della scuola di Piero della Francesca, raffigurante la città "ideale", come concepita dagli artisti del Rinascimento. La città medievale è chiusa fra le mura che la dividono dalla campagna e dal resto del mondo. Le viuzze strette, le case piccole, pur susseguendosi in mirabile armonia e aprendosi su piazze suggestive, rappresentano il senso limitato degli orizzonti culturali propri del Medioevo: la Chiesa, il Palazzo Comunale e la Torre del Podestà si impongono con la loro autorevole struttura sul resto della città. Diversi sono gli spazi e le proporzioni della nuova città rinascimentale. Il Palazzo della Signoria e la Cattedrale, pur mantenendo tutte le loro prerogative di eccellenza e simbolo del potere di chi le abita, non dominano più le costruzioni circostanti. L'armonia non viene dal gusto innato nell'accostare tante piccole, diverse costruzioni, ma dalla perfetta prospettiva che allinea i palazzi intorno a strade e piazze luminose, dove linee rette, cerchi, archi e portici disegnano spazi razionalmente esatti. (Vedi Perugino: Consegna delle chiavi. Roma. Cappella Sistina e Raffaello: Sposalizio della Vergine. Milano. Brera). Le città reali non hanno chiaramente queste caratteristiche ideali, di sicuro però l'attenta analisi delle opere rimaste rivela quanto diverso sia stato lo spirito animatore delle due filosofie e dei due modi di concepire la vita, e nello stesso tempo evidenzia quanto la realizzazione architettonica superi con la sua viva imponenza la fredda scrittura del progetto. 9 In ogni epoca la filosofia, intesa come concezione totale della vita dell'uomo, come sustrato ideale della realtà in cui egli vive, come principio metafisico e logico che ne condiziona l'agire quotidiano, ha dato un'impronta unitaria alle espressioni artistiche che in essa sono fiorite. In nessuna epoca, come nel XV e XVI secolo, tale unità è cosi viva ed immediata da permettere quasi di conoscerne e gustarne in un'unica opera d'arte l'intera gamma delle espressioni culturali. Così attraverso la pittura di Piero della Francesca o del Beato Angelico o di Masaccio o di Botticelli o di Paolo Uccello è possibile gustare l'architettura del Brunelleschi o di Leon Battista Alberti o le sculture di Donatello e Luca della Robbia. La vita che si svolgeva nei quartieri alti delle città nuove del XV secolo ci si propone con incredibile realismo. La moda, i costumi, le calzature, le acconciature ci vengono tramandati insieme con i mobili, i tendaggi e le altre opere minori di artigianato, elementi che spesso nemmeno notiamo quando ammiriamo i capolavori dei grandi maestri dell'arte, ma che sono testimonianze non secondarie dello spirito dell'epoca. San GIMIGNANO: La porta San Giovanni Ci appare severa, con l'arco ribassato, solida ed imponente costruzione che lascia intravedere attraverso la piccola apertura uno scorcio della viuzza stretta su cui si affacciano le variopinte botteghe degli artigiani. Sono il clima e l'atmosfera particolarissimi del Medioevo. URBINO: Porta di Valbona L'ampia porta si apre su una strada larghissima (se consideriamo l'epoca in cui fu costruita). Più che una chiusura essa è un ornamento, un arco di trionfo sotto il quale dare il benvenuto agli ospiti illustri della città. San GIMIGNANO: Piazza del Duomo La semplicissima Basilica in stile romanico, la severa facciata del Palazzo Comunale, l'imponente Torre del Podestà simboleggiano il potere e l'autorità non solo sulla vita sociale, ma anche sullo spirito dei cittadini. URBINO: Il Palazzo Ducale Il Palazzo Ducale, opera del Laurana, ha perso la severità medioevale per dare spazio ai balconi, alle luminose aperture, all'eleganza delle proporzioni. San GIMIGNANO: Il cortile del Palazzo Comunale Ci appare come un suggestivo, severo, chiuso luogo di meditazione o spazio di raccolta per il piccolo esercito comunale. URBINO: Cortile del Palazzo Ducale L'armonia, gli spazi equilibrati, gli archi e i colonnati dei portici ricordano la città ideale della scuola di Piero della Francesca. Sono luogo luminoso ed aperto di ideali incontri tra letterati, filosofi ed artisti. Il confronto tra Urbino e S.Gimignano ci ha permesso di farci una modesta, incompleta idea del profondo cambiamento culturale che prende al suo inizio il nome di Umanesimo e che culmina nel Rinascimento. Urbino, nella sua singolare unicità, ci ha permesso nel breve escurso fotografico (e lo permette tuttora al visitatore preparato) di fare un salto indietro nel tempo, di 10 immergerci nella vita del XV secolo. Non è difficile, con un minimo sforzo di fantasia, immaginare per le sue vie snodarsi il dramma del "Riconoscimento della Vera Croce" di Piero della Francesca. La "Flagellazione di Cristo" dello stesso Piero ha luogo idealmente nel cortile del Palazzo Ducale. La vita nel Rinascimento non era certamente tutta idillica e perfetta come potrebbe apparire da queste pagine. La concentrazione della ricchezza presso poche famiglie toglieva alla stragrande maggioranza la possibilità di una vita non dico agiata ma almeno comoda. Una certa miopia diffusa tra i detentori del potere avrebbe presto portato l'Italia alla recessione politica ed economica nel contesto europeo. Ma il nostro studio si limita ad analizzare le opere d'arte di quel periodo; ed è noto che nella produzione artistica, soprattutto delle epoche cosiddette classiche, le testimonianze di vita tramandateci sono quelle della parte elitaria della società. L'idealismo umanistico induceva a rappresentare solo forme perfette: architettonicamente (archi e colonne, per esempio, geometricamente proporzionati) e figurativamente (uomini ideali o idealizzati). Farà ancora scandalo, oltre un secolo dopo, la pittura del Caravaggio, che metterà sulle tele la realtà reale: uomini e donne del popolo, come quelli che vivevano e morivano per le strade di Roma. L'obiettivo delle nostre analisi, dopo aver cercato di comprendere e gustare l'arte del XV e XVI secolo, è proprio quello di soffermarci su questi particolari, abiti soprattutto ed acconciature, calzature e copricapi, ma anche accessori minori come spille e bottoni, che possono definirsi in una parola riassuntiva e semplificatrice come Moda, che però inquadrata nell'insieme della cultura e dell'arte oltrepassa e quasi sconfigge l'alone di effimero che troppo spesso viene associato a questa espressione della vita, per assurgere a manifestazione culturale, rilevante testimonianza dei valori e dello spirito di un'epoca. FIRENZE CENTRO DELLE BELLE ARTI Le lotte tra le grandi famiglie per il controllo sul papato e soprattutto la cattività avignonese dei Papi hanno determinato un lungo periodo di abbandono e decadenza della Città Eterna. Le antiche costruzioni vengono lasciate andare in rovina o, peggio ancora, sono preda di saccheggi. Solo alla fine del Quattrocento, con l'inizio del Rinascimento, il riaffermarsi dello splendore del papato riporterà a Roma grandi architetti e pittori (Michelangelo, Bramante, Raffaello...) e rifioriranno quindi le belle opere monumentali. Il Quattrocento è il secolo di Firenze che già dall'inizio del XV secolo aveva finalmente assoggettato o attratto nell'orbita del suo potere economico e culturale Pisa, Arezzo, Cortona, Prato e Pistoia e che già nel Trecento si era arricchita delle opere d'arte di Arnolfo da Cambio e di Giotto ed aveva visto fiorire tutto intorno a sé il talento degli scultori toscani sotto la guida di Nicola Pisano. Su questo terreno fertile nasce la cultura nuova, rivoluzionaria. È nuova la matrice filosofica, è nuova la matrice sociale. Tramonta la città comunale, si afferma la ricca borghesia che, impadronitasi del potere prima economico e poi anche politico, soppianta l'antica aristocrazia. Il potere religioso, prima dominante, per poter mantenere la sua posizione si aggrega al potere economico-politico. Vescovi e papi vengono imposti dalle grandi famiglie borghesi. 11 L'artista assume un risalto sconosciuto nel Medioevo: da capo-mastro, vertice della piramide, ma pur sempre artigiano facitore delle sue opere, diventa ideatore, creatore, disegnatore, filosofo, scrittore. Gli artisti di questo secolo non sono per la maggior parte "specialisti": basti per tutti pensare a Brunelleschi: orafo, scultore, architetto, o ancor più a Leonardo, che oltre al resto è scienziato, e non per desiderio di dimostrare capacità realizzatrici eclettiche, ma per confermare ed esprimere il carattere ideale e creativo dell'artista, che può poi collaborare manualmente alla realizzazione delle proprie opere o lasciarle indifferentemente ad altri da realizzare. 12 LA PROSPETTIVA Durante il Medio Evo gli elementi fondanti dell’Arte Classica, proporzione, simmetria… che avevano dato origine al concetto di “bello classico”, vengono trascurati e sostituiti da un espressionismo che non si cura di forme classiche, di proporzioni, ma è spontaneo e diretto. Già dal Trecento si avverte però un nuovo interesse per l’età classica, che porta nel secolo successivo alla riscoperta del pensiero antico, attraverso lo studio diretto dei documenti e delle fonti letterarie. I nuovi fermenti sono già evidenti ad Assisi, nell’opera del “Maestro di Isacco”, di Giotto, di Duccio. Giotto, coma già abbiamo visto, è impegnato in quella che Longhi definisce “ spaziosità”. La realizza, e con lui altri pittori trecenteschi, empiricamente: a) i volumi architettonici sono presentati come parallelepipedi, visti in posizione obliqua: Storie di Isacco (1291/1295). b) L’artista dispone sulla scena più punti focali: ne deriva una profondità suggestiva, ma del tutto approssimativa (Giotto: Annuncio a Anna. Cappella Scrovegni.) In tutto il periodo tardo-gotico si continua a cercare una rappresentazione realistica dello spazio, ma esperienze e risultati sono personali, dipendono dalle esperienze solitarie degli artisti. Nessuno ne scrive o, se succede, il risultato è poco chiaro e illuminante. (Giusto de’ Menabuoni: Nozze di Cana. Scrovegni). Nel 1344 Ambrogio Lorenzetti impiega per la prima volta nella sua Annunciazione il punto di fuga prospettico: Se osserviamo il pavimento, vediamo che le piastrelle convergono verso un unico punto nascosto da una colonnina, che divide in due lo spazio pittorico. E’ una buona intuizione, ma relativa, infatti, se osserviamo bene la colonnina, vediamo che nel punto da cui parte, in basso, è in primo piano, segna bene la distanza dal pavimento, Poi, però, alzandosi, si schiaccia contro la parete di fondo, annullando quindi la profondità della stanza. Ben diverso il risultato che otterrà ad Arezzo, un secolo dopo, Piero della Francesca nella sua Annunciazione: la sua colonna ci dà dello spazio una consistenza fisica realistica. La prospettiva, come conquista, non riguarda solo l’Arte ed i problemi ad essa connessi: è figlia di un mondo nuovo. Secondo la cultura umanistica l’Arte è processo di conoscenza, non tanto di conoscenza della “cosa” quanto dell’intelletto umano, della sua facoltà di conoscere. Nel suo “Trattato sulla pittura” Leon Battista Alberti dice che “l’artista si occupa solo di ciò che si vede e non di ciò che (eventualmente) si nasconde dietro l’apparenza; afferma che “il valore non è nella cosa come fenomeno (fenomeno = tutto ciò che può essere osservato e studiato attraverso una conoscenza diretta), ma in ciò che l’intelletto costruisce sul fenomeno. Una società che crede nel valore dei fenomeni reali e presenti è una società che crede nella capacità umana di produrre fatti e valori, una società attiva in cui ognuno vale per ciò che fa e non per misteriose investiture tramandate, una società che ha al vertice non più il sovrano, ma il borghese che ha conquistato la signoria per meriti propri (pacifici o violenti che siano). Questa società è interessata a conoscere 13 - la Natura, che è il luogo della vita e la fonte di ogni attività umana - l’Uomo, che è il soggetto del conoscere e dell’agire. Il conoscere dell’Arte è insieme conoscere e fare, conoscere facendo, producendo opere. Per quanto riguarda la Prospettiva si verifica il passaggio dalla Perspectiva Naturalis (o communis) dei pittori medioevali, alla Perspectiva artificialis solo nel Quattrocento, ad opera di Filippo Brunelleschi, architetto, orafo, scultore. Ma non era un letterato e non scrisse nulla sull’argomento. Ne scrisse invece Leon Battista Alberti (come abbiamo visto) nel suo Trattato. Il termine Prospettiva non è nuovo nell’Arte, è classico, è usato anche nei trattati antichi per l’Architettura e per il Rilievo illusionistico. Nel Rinascimento la Prospettiva viene presentata - come scoperta, non come invenzione: è dunque parte della scienza antica, rinata nella cultura umanistica - come sistema unico, non come insieme di sistemi: Se identifichiamo la prospettiva come “ottica”, abbiamo un’infinità di prospettive: per vedere ci si può mettere sopra, davanti, al centro delle cose; si possono guardare le cose secondo angoli e inclinazioni diverse. La prospettiva del Quattrocento vuole ridurre all’unità tutti i possibili modi di visione. La teoria dell’Alberti è all’origine un’applicazione delle leggi della geometria euclidea alla visione: “Se lo spazio è una forma unitaria e omogenea, è anche una forma in cui tutte le parti si distribuiscono simmetricamente rispetto a una linea mediana o centrica.” Chi guarda vede le linee di profondità convergere in un punto (punto di fuga) = una piramide i cui lati sono triangoli, una piramide vista in profondità. Con la prospettiva non vediamo più le cose come sono in sé, vediamo tutto secondo rapporti proporzionali: la realtà non si presenta più come un inventario di cose, ma come un sistema di relazioni metriche. 14 LA SCULTURA NEL XV SECOLO Il rinnovamento che ha investito l'architettura si afferma anche nella scultura, ma più gradualmente; la tradizione gotica di Andrea e Nicola Pisano sopravvive infatti a lungo nelle opere di alcuni scultori del Quattrocento, compreso il primo Ghiberti. I caratteri peculiari della scultura trecentesca si possono riassumere in tre concetti fondamentali: a) La naturalezza (da non confondere con il naturalismo quattrocentesco): le figure sono copie fedeli della realtà, ma non vivono nello spazio reale; sono collocate nell'assoluto, al di fuori dei fatti e della storia. (Vedi il Pulpito di Nicola Pisano - Battistero di Pisa e L'Angelo che ride - Cattedrale di Reims). b) Il cortese: è l'estetismo puro, rappresentazione idealizzata della vita di corte (L'adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano). c) Il movimento mistico: la posizione delle persone e le pieghe delle vesti danno sempre l'impressione del movimento della spirale che spinge il tutto verso l'alto. (Madonna col Bambino di Nicola Pisano). Le caratteristiche della nuova scultura quattrocentesca che si ritrovano in diversa misura nei vari autori, ma che sono sintetizzate compiutamente nell'opera di Donatello, possono così riassumersi: a) L'individualismo: la personalità dell'artista, che si afferma come unico ideatore creatore ed esecutore dell'opera d'arte, si impone in contrapposizione alla tradizione della bottega o delle scuole d'arte proprie del secolo precedente. b) Il naturale: le figure e i personaggi sono calati nella realtà spaziale e temporale. Anche quando sono statue singole hanno sempre i piedi saldamente piantati per terra, fanno parte di questo mondo, sono creature che vivono nella storia che si svolge nella loro città (S.Giorgio e Davide di Donatello). c) Lo stiacciato: nei loro bassorilievi i nuovi scultori reinventano la prospettiva, ottenuta sia attraverso il susseguirsi dei piani della piramide prospettica, sia attraverso la nuova tecnica dello "stiacciato". Le figure, che possono essere a tutto tondo nel primo piano, si appiattiscono man mano che si allontanano dal punto di vista, pur mantenendo sempre un'incredibile nitidezza di particolari e plasticità di rappresentazione. LORENZO GHIBERTI Firenze -1378/1455 Lorenzo Ghiberti, pur rappresentando a pieno titolo la nuova scultura quattrocentesca, può essere considerato, soprattutto per le sue prime opere, l'ideale anello di congiunzione tra il mondo artistico gotico e quello dell'Umanesimo. 15 Fu artista fecondo e partecipò alla vita culturale ed artistica di Firenze un po’ in tutti i settori, la sua fama rimane però legata soprattutto alle porte del Battistero di Firenze: sono le sue opere più importanti, capolavori d'arte in assoluto, che meritano perciò un'analisi attenta e particolareggiata. Nel 1401 viene indetto in Firenze, per la realizzazione della seconda porta del Battistero (la prima, quella Sud era già stata realizzata nel 1336 da Andrea Pisano), un concorso cui partecipano scultori già noti, come Jacopo della Quercia, Brunelleschi, Ghiberti. Il tema del concorso è obbligato: il sacrificio di Isacco. Probabilmente anche le figure da inserire nella formella, come la cornice stessa della formella, sono imposte dalla giuria. Al vincitore verrà assegnato l'incarico di ornare la porta Est, quella più importante perchè di fronte alla facciata del Duomo. Vince Ghiberti che, successivamente, grazie al risultato eccellente del primo impegno, ottiene l'incarico della fusione anche della terza ed ultima porta, quella Nord. Quest'ultimo lavoro è così straordinario da far meritare alla porta il posto d'onore, di fronte al Duomo, mentre l'altra, quella del concorso del 1401, viene spostata a Nord. Vasari racconta nelle sue Vite che Michelangelo, passando davanti al Battistero e ammirando il pregevole lavoro del Ghiberti, abbia esclamato: "Queste opere sono tanto belle...che starebbon bene alle porte del Paradiso". A tanto illustre critico risale dunque la denominazione che ancor oggi contraddistingue la porta Est del Battistero di Firenze come “Porta del Paradiso”. Ritorniamo al concorso e confrontiamo le formelle dei due principali contendenti, formelle che si possono ora ammirare al museo del Bargello a Firenze. Quella che ha consentito al Ghiberti di vincere è sicuramente perfetta come fattura (Ghiberti è anche orafo), ma rivela ancora il suo legame con il Gotico: il taglio delle figure, il nudo di Isacco, l'altare, la posizione ieratica di Abramo, l'ariete sul monte, il monte stesso, schematizzato, che serve a dividere in due la scena, richiamano insieme la solennità e la ieraticità fuori dal tempo, e la classicità, rievocata con grammaticale esattezza. Molto più drammatica è la scena propostaci dal Brunelleschi, più rigorosa la scansione volumetrica, più forte il realismo. Tutti gli elementi riconducono all'istante del sacrificio: l'ariete che si volge con raccapriccio quasi umano, Abramo che sta vibrando il colpo, Isacco che resiste al padre, l'angelo che irrompe e ferma il braccio di Abramo. Chi è il migliore? Sicuramente la perfezione tecnica della fusione indusse i giudici a preferire Ghiberti. Con quasi altrettanta sicurezza si può affermare che Brunelleschi ha colto, ed è riuscito a rappresentare nella scultura, lo spirito ed il senso del dramma con maggiore intensità. La giuria di allora assegnò al Ghiberti la realizzazione della porta Est. Essa è suddivisa in 28 riquadri: Venti raccontano storie della vita di Cristo, dall'Annunciazione alla Resurrezione; quattro rappresentano gli evangelisti e quattro i maggiori Padri della Chiesa. La realizzazione dell'opera che impegnò il Ghiberti per diversi anni testimonia l'evoluzione stilistica dell'autore: dal decorativismo garbato del sacrificio di Isacco, verso l'ampliamento degli spazi compositivi (come nella resurrezione di Lazzaro e nella salita al calvario) che segnano la nascita di un nuovo linguaggio artistico di più ampio respiro e grande incanto poetico, che introduce direttamente al suo capolavoro: 16 La porta del Paradiso "Mi fu chiesto (1425) di fare l'altra porta, cioè la terza porta di San Giovanni, e fui lasciato libero di seguire in essa qualsiasi disegno ritenessi più perfetto, più ornato, più ricco.... Le scene hanno abbondanza di figure. Ho fatto del mio meglio per osservare le corrette proporzioni, ed ho cercato di imitare nei limiti del possibile la natura, con quanti più dettagli e figure possibili. In alcune scene ha incluso anche cento figure. Ho eseguito questo lavoro con cura e amore. Le scene sono dieci, tutti gli edifici sono stati eseguiti con esatte proporzioni, così che essi appaiono alla vista tanto veri che, a dovuta distanza, sembrano essere in rilievo. Le figure in primo piano sono più grandi, quelle distanti più piccole, proprio come avviene nella realtà. Ho eseguito tutto il lavoro con le proporzioni che ho detto." (Lorenzo Ghiberti. I Commentari) Oggetto della rappresentazione sono questa volta storie tratte dall'Antico Testamento, da illustrare in formelle lobate, ma Ghiberti decide di sottrarsi a questo schema limitativo e divide la porta in dieci riquadri entro i quali racchiude le sue storie. Per alcune di esse torna al racconto; grazie alle nuove tecniche della prospettiva e dello stiacciato riesce mirabilmente a isolare diversi episodi dello stesso fatto all'interno dello stesso riquadro. La scelta della formella quadrata, al di là della cui cornice la composizione può spaziare all'infinito, ricorda l'Alberti e la sua definizione di rappresentazione prospettica come finestra sull'infinito. I personaggi in primo piano sono in genere quasi a tutto tondo; a mano a mano che la scena si allontana, lo spessore del bassorilievo si assottiglia fino a diventare poco più di una scalfittura. Nell'uso del "quasi" tutto tondo, l'Alberti è in contrasto con Donatello: per Donatello lo "spazio plastico" è una realtà a sé, senza alcun rapporto con lo spazio naturale. Per il Ghiberti invece lo "spazio plastico" è una funzione dello spazio naturale: il bello è in natura, anche una figurazione storica deve avere "naturalezza". La pittoricità, i giochi di luce, la prospettiva, l'eleganza compositiva, la raffinatezza del lavoro di oreficeria fanno di questa porta uno dei capolavori più ammirati del Quattrocento fiorentino. Gli stipiti sono arricchiti da finissimi ornamenti floreali. Ministatue di profeti e profetesse inquadrano le dieci formelle. Piccole teste, a tutto tondo, escono da numerosi medaglioni. Il tutto a cornice delle stupende dieci storie: La creazione di Adamo ed Eva Caino ed Abele L'ebbrezza di Noè La storia di Isacco Esaù vende la Primogenitura La storia di Giuseppe Mosè riceve le tavole della legge La Storia di Giosuè. Le mura di Gerico Davide e Golia L'incontro della Regina di Saba con Salomone 17 Nelle storie di Giuseppe, in primo piano viene ricordata la vendita di Giuseppe alla carovana di mercanti; a metà sulla sinistra è rappresentato l'incontro di Giuseppe con il Padre, in alto a destra l'episodio del pozzo. Nella storia di Giosuè, l'arca passa sotto le mura di Gerico, che crolleranno al suono delle trombe. Ammiriamo la finezza dei particolari nei vestimenti delle donne e nelle armature dei soldati, i piani prospettici dei cavalli, il corteo con l'arca, le tende dell'accampamento, le mura e le case della città. Nell'incontro della Regina di Saba con Re Salomone, l'illusione della profondità spaziale è esaltata dalla splendida architettura classicheggiante del tempio. L'effetto plastico e il pittoricismo, accentuato dalla luce che si riflette sulle varie figure, si fondono in un'armonia insuperabile. Questa porta rappresenta nel senso più pieno ciò che si definisce "classico": un'opera di cui è difficile immaginare qualcosa di più armonioso ed equilibrato. DONATELLO. Donato di Niccolò di Betto Bardi (FIRENZE. 1386-1466) Cresce artisticamente nei cantieri fiorentini dell'ultimo Trecento, primo Quattrocento, proprio quando alla poetica gotica cominciano ad affiancarsi le esperienze artistiche di Ghiberti e Brunelleschi. Durante l'apprendistato nella sua bottega, il Ghiberti gli trasmette il suo gusto e la sua tecnica nel trattare armoniosamente la luce sulle superfici scolpite, gli insegna ad ammorbidire i contorni ed a trattare i panneggi in modo elegante. Donatello è però presto portato dall'originalità del suo talento a superare gli schematismi correnti e l'arte figurativa fiorentina si arricchisce di nuovi elementi: L'elemento popolare: la classicità dell'arte di Donatello non ripropone pedissequamente i modi dell'antica Roma, l'artista riscopre lo spirito dell'antichità, ma lo traduce in personaggi presi dalla Firenze del suo tempo. Tutte le sue opere, le sue sculture, rappresentano personaggi veri, attuali, pur nella solennità e nella saldezza della struttura classica (San Giorgio). Il capriccio edonistico: nel suo secondo viaggio a Roma, Donatello scopre aspetti nuovi della classicità: non esiste solo la severa, olimpica, imperturbabile solennità; c'è anche l'inquietudine, la bizzarria, il capriccio, l'edonismo della tarda latinità. La sua Cantoria (Firenze. Opera del Duomo) e l'Annunciazione (Santa Croce) sono la testimonianza di questa nuova scoperta. L'intimismo romantico: la malinconia esistenziale (Davide, Gattamelata) pervade le opere della maturità. Come tutti i grandi, ad un certo stadio della sua storia artistica Donatello supera gli schemi entro i quali si cerca di interpretare la sua opera per diventare assoluto, per collocarsi fuori dal tempo. Lo stiacciato: tecnicamente Donatello è il maestro insuperato dello stiacciato. Critica il Ghiberti, il cui “tutto tondo” dei primi piani esce dalla base della piramide prospettica. Egli riesce invece a mantenere i piani prospettici rigorosamente scanditi, senza far debordare le figure del primo piano, e nello stesso tempo crea una perfetta illusione della profondità (Banchetto di Erode). 18 Opere Donatello visse a lungo e produsse numerosi capolavori che possiamo analizzare divisi nei periodi che segnano l'evolversi e il maturare della sua arte. Primo periodo: 1409-1425 circa. Periodo post-gotico; prevalenza dell'elemento popolare. 1408-1409. David. Firenze. Museo Nazionale. L'avvitatura del corpo è ancora gotica, ma il giovane rivela una baldanza tutta moderna nel volto, nel petto: ampio, spinto in avanti. 1408-1415. San Giovanni. h. cm.210. Firenze. Museo dell'Opera del Duomo. Il nuovo stile popolare di Donatello trova qui la sua prima testimonianza. Non figura aulica (gotica), non reminiscenza classica (ghibertiana), ma figura solida, piantata per terra, senza contorsioni e mistici slanci verso l'alto. Tutto è concentrato sulla massa e sulle variazioni chiaroscurali tendenti ad esprimere il rapporto dell'uomo con se stesso e con i propri sentimenti. 1416. San Giorgio. h. cm.209. Firenze. Museo del Bargello. L'equilibrio classico è qui dominante, ma nessuno potrebbe collocare questa figura al di fuori del XV secolo in Firenze. La reminiscenza classica, evidenziata dalla solidità di impostazione, dalla solennità del porgersi, dalla staticità dell'insieme, è da Donatello reinventata e tradotta nella lingua corrente. Il volto di San Giorgio è inequivocabilmente fiorentino: il volto del "civis", il cittadino guerriero, così come all'epoca Firenze sognava e vedeva i suoi uomini. 1418-1434. Profeti per il campanile di Giotto. h. cm.180. Firenze. Museo dell'Opera del Duomo. Donatello ci dà una visione moderna del profeta, predestinato da Dio a diventare la "voce" di Israele in un determinato momento della sua storia, ma che Donatello vede come uomo, cioè come parte della storia di ogni popolo ed in ogni tempo. 1423-1427. Banchetto di Erode. cm.60X60. rilievo in bronzo. Siena. Battistero. Segna il passaggio verso la nuova tecnica dello stiacciato, che raggiungerà l'espressione più alta nelle storie di Sant'Antonio a Padova. Le masse sono appiattite; le prospettive sono ottenute con una minima ondulazione del fondo. Combinando mirabilmente il disegno prospettico con il minimo di rilievo e sfruttando i giochi di luce, Donatello riesce ad ottenere incredibili effetti di profondità. Il movimento drammatico della scena della presentazione della testa del Battista ai convitati si espande attraverso gli archi, nello spazio retrostante, che la luminosità crescente dilata all'infinito. 1430. David. h. cm.138. Bronzo. Firenze. Museo del Bargello. La certezza e la solidità espresse nel San Giorgio cedono il passo ad un intimismo nuovo. L'artista è più maturo, disincantato. La sicurezza della giovinezza cede il passo al dubbio e alla malinconia o, forse meglio, alla sottile ironia. Dal punto di vista formale, la statua è perfetta. Il gioco di ombre e di luci del bronzo ne ravviva i sentimenti, rendendoli quasi palpabili. Secondo periodo:1430-1445 circa. Periodo tardo-classico influenzato dalla seconda visita a Roma. Tornato a Firenze, dopo la sua seconda esperienza a Roma nel 1432, Donatello mette in produzione un ciclo di opere in cui è evidente l'influenza ellenistica ed orientale che ha caratterizzato la tarda romanità. 19 1435. L'Annunciazione. cm.420X248. Firenze. Santa Croce. Leggiamo nell'atteggiamento della Vergine lo sgomento ed il dubbio della giovane di fronte alla grandezza del mistero che le viene annunciato; forse però Donatello, invece di fissare l'atto solenne del mistero dell'Incarnazione, sembra abbia voluto cogliere l'attimo di sorpresa della fanciulla all'improvvisa apparizione di un estraneo. Gli ornamenti dello sfondo, le maschere al posto dei capitelli, le colonne ornate di foglie, i ricami sui vestiti, il movimento dell'Angelo che arriva e della Vergine in atto di fuggire poco si accordano con la compostezza classica tradizionale. 1433-1439: La tarda classicità è presente negli elementi ornamentali della Cantoria (cm.348X570. marmo mosaico e bronzo) conservata al Museo dell'Opera del Duomo. Le figure degli angeli danzanti ricordano più una sfrenata festa dionisiaca che una sacra scuola di canto. (La si confronti con la Cantoria di Luca della Robbia, nello stesso Museo.) 1440-1433. Le Porte dei Martiri. Ogni pannello cm.31X39. Firenze. Basilica di San Lorenzo (Sacrestia Vecchia). Lo stesso pittoricismo tardo antico, interpretato ed arricchito con fantasia arbitrariamente sfrenata, combina giochi di luce, movimenti ed espressioni di vitalità che dissipano il ricordo dell'austero umanesimo religioso e civile del primo Quattrocento fiorentino. Terzo Periodo: la maturità. Dal 1446 al 1450 Donatello è a Padova dove lavora all'altare del Santo. Purtroppo durante il secolo scorso l'altare è stato totalmente ricostruito e le sculture di Donatello sono state arbitrariamente ricollocate, cosi che si è perso l'impianto originale voluto dal Maestro. Anche così disperse, però, le singole opere rivelano la maturità raggiunta dall'artista e possono considerarsi il meglio della produzione di Donatello. La Madonna con il Bambino. h. cm.160. Particolarissimo è l'impianto di questa opera: Il bimbo è al centro della composizione, quasi nell'atto di essere dato alla luce; la Vergine è ritratta nell'atto inconsueto di alzarsi e porgere il figlio al mondo. Il vibrato della luce, la compostezza della figura creano un senso di drammatica tensione e mettono in evidenza il gesto solenne della Madre. Il Crocefisso h. cm.176. Lo stesso sentimento e lo stesso senso dell'assoluto si leggono nel Crocefisso, quasi ideale continuazione e compimento dell'offerta del suo unico Figlio che la Vergine fa al mondo. Le Storie di Sant'Antonio. cm.57X123. In questi brani, vibranti di luce, carichi di effetti drammatici, Donatello sembra distruggere il mito dell'uomo rinascimentale, mito che egli aveva contribuito a creare con le sue opere precedenti (San Giorgio, San Giovanni, Davide...) Il dramma della storia non è più dominato e neppure vissuto dal singolo. Sono le masse che si muovono: la storia inghiotte gli individui. Questo sentimento anticlassico si esprime concretamente nelle ultime due realizzazioni importanti del Maestro. 1446-1450. Il Gattamelata Gruppo equestre cm.340X390. bronzo. Padova. Piazza del Santo. 20 Più che opera tesa ad esaltare la forza di un condottiero vittorioso, questa scultura sembra un monumento funerario. Il basamento, che riproduce un sacello, richiama l'immagine della morte; il cavallo, pur nella sua solenne imponenza, non esprime l'alterigia del condottiero vincente. Il volto stesso del Gattamelata non ha nulla di eroico; esprime piuttosto un chiuso riserbo, una melanconica riflessione su una realtà e una storia che non sono più e che non interessano più. 1453-1455. La Maddalena. h. cm.188. legno. Firenze. Museo dell'Opera del Duomo. È l'immagine dell'angoscia esistenziale "ante litteram", del dissolversi della forma umana nella materia inanimata, che a sua volta "si disgrega in una luce senza raggio, morta". (Argan-Storia dell'Arte-vol.2 pag.133) 1455-1460. Giudittta e Oloferne. h. cm.236. bronzo. Firenze. Piazza della Signoria. Oltre a Ghiberti e Donatello, in tutta l'Italia, ma soprattutto in Toscana ed in particolare a Firenze, numerosi altri scultori hanno arricchito delle loro opere chiese, piazze e palazzi. LUCIANO LAURANA. 1420-1479. Lo abbiamo conosciuto come architetto del Palazzo Ducale di Urbino, ma è anche uno scultore raffinatissimo. Le sue due opere più famose sono i busti di ISABELLA D'ARAGONA (Palermo-Museo Nazionale) e di BATTISTA SFORZA (Firenze-Museo del Bargello). Rappresentano l'idealizzazione della femminilità secondo lo spirito del Quattrocento. Possono considerarsi la sintesi della perfetta geometria di Piero della Francesca e della vibrante vitalità del primo Donatello. IACOPO DELLA QUERCIA. 1371-1438. La sua opera rappresenta un ideale ponte tra la tradizione gotica ed il classicismo rinascimentale. Nella tomba di ILARIA DEL CARRETTO lo stile gotico prevale, ma la serenità e vitalità del volto testimoniano l'influenza della nuova cultura. Nelle due figure della Sapienza e della Pietà, che fanno parte della FONTE GAIA di Siena, e nel PORTALE di SAN PETRONIO a Bologna, la drammaticità dei sentimenti espressi e la plasticità delle forme anticipano la grande scultura di Michelangelo. ANDREA del VERROCCHIO. 1435-1488. È il tipico scultore quattrocentesco. Le sue opere si possono accostare a quelle di Donatello dell'epoca di mezzo. Il suo DAVID, garbato giovinetto, è un pezzo sublime di oreficeria, dove i vibranti giuochi di luce sovrastano ogni altro sentimento. Più profondi sono lo spiritualismo e la liricità di LUCREZIA DONATI, conosciuta anche come la Dama delle Primule, il cui sorriso e, soprattutto, le cui mani ricordano la Gioconda di Leonardo. 21 Nell'INCREDULITÀ di San TOMMASO, il tipico pittoricismo del Verrocchio si arricchisce di una tonalità di verismo donatelliano. La statua equestre del COLLEONI infine esprime con solare chiarezza i sentimenti tipici dell'uomo nuovo: sicurezza, fierezza, solennità del portamento, positiva fiducia nelle proprie umane capacità. LUCA DELLA ROBBIA. 1400-1482. La sua opera maggiore può essere considerata la CANTORIA che nel Duomo di Firenze fronteggiava quella di Donatello e che ora è stata ricomposta quasi integralmente nel Museo dell'Opera del Duomo. I dieci rilievi sono inquadrati in una nitida architettura di tipo brunelleschiano; i fanciulli che suonano e cantano, nella serena compostezza del loro atteggiamento (contrastante con la sfrenata vitalità di quelli di Donatello) testimoniano la piena adesione di Luca alla scuola rinascimentale. Lo schiacciato è più di tipo ghibertiano che donatelliano. Luca della Robbia è maestro in una bottega che produce numerosissime opere in terracotta vetriata policroma, in cui sono dominanti il bianco e il blu. La finezza dei lineamenti dei suoi personaggi e l'accuratezza dei particolari lo hanno reso giustamente famoso, anche se la mancanza di originalità pone un limite alla sua arte. Andrea (nipote di Luca) e Giovanni (figlio di Andrea) ne hanno continuato l'opera. La loro produzione si è però progressivamente impoverita di contenuti e di originalità. Degni di nota sono comunque i Putti della Loggia degli Innocenti, opera di Andrea. ANTONIO BENCI detto il POLLAJOLO. 1432-1498. È una delle maggiori personalità della seconda generazione del Rinascimento fiorentino. ERCOLE ed ANTEO testimoniano dei suoi studi approfonditi sull'anatomia umana, oltre che della sua tecnica raffinata e della sua sensibilità profonda agli effetti di luce. 22 L'ARCHITETTURA DEL XV SECOLO FILIPPO BRUNELLESCHI (Firenze. 1377/1446) Figlio di ser Brunellesco, notaio e diplomatico, vive e muore in casa Brunelleschi (distrutta nel 1800). Dapprima è orefice e scultore. Come tale partecipa insieme con altri famosi artisti al concorso per la porta del Battistero di Firenze. L'incarico viene assegnato al Ghiberti e Brunelleschi cambia indirizzo, rivolge i suoi interessi all'architettura. Va a Roma per studiare le "proporzioni", le idee guida dell'architettura classica. Non copia dettagli (fregi o capitelli); indaga invece le planimetrie, cerca di scoprire le armonie musicali dei chiaroscuri, dei pieni e dei vuoti, delle ombre e delle luci delle antiche costruzioni. Studia le opere di ingegneria, i metodi e le soluzioni tecniche che poi applicherà nella realizzazione delle sue idee. Quando torna a Firenze mette mano quasi contemporaneamente a diversi progetti: l'Ospedale degli Innocenti (1419-1444), il Duomo e la cappella di San Lorenzo (1419-1429), la Cupola di Santa Maria del Fiore (1419-1445), la cappella dei Pazzi (1430), la chiesa di Santo Spirito (1436-1446). Quando a Firenze dà inizio alla sua attività di architetto, Brunelleschi si trova di fronte ad un contesto urbano già ben definito nella sua fisionomia e nel suo stile, ma lo affronta con il suo spirito nuovo e Firenze, città medioevale, la cui architettura si era però sviluppata tenendo conto di una costante ispirazione classica, diventerà la città ideale del Rinascimento, una città concepita secondo il nuovo ordine razionale e geometrico che avrebbe guidato (o avrebbe dovuto guidare) la nascita e lo sviluppo delle nuove città. La città come progetto razionale La nuova città non deve più crescere spontaneamente intorno alla cattedrale e al palazzo del Comune, rispondendo ad una logica di sviluppo aderente alle necessità della vita quotidiana: lavoro, produzione (botteghe artigiane) e difesa (mura). Deve essere il risultato di un progetto, la realizzazione di un'idea. La piazza non è più il cuore della vita comunitaria, ma l'estensione del palazzo dei Signori, una corte d'onore. Il palazzo non è più fortificato, non deve imporsi con l'aspetto minaccioso e cupo delle mura senza finestre verso l'esterno, non è più circondato da un vallo e chiuso dal ponte levatoio. Deve invece farsi ammirare per l'armonia delle proporzioni, la bellezza della forma architettonica e dei fregi che lo ornano e aprirsi con grandi balconi e finestre verso l'esterno. Al suo interno i consiglieri militari e i soldati sono sostituiti dai letterati e dagli artisti, dai filosofi e dai maestri dell'arte del vivere. La prospettiva 23 È rappresentazione razionale e definizione dello spazio che viene diviso in piani che vanno progressivamente rimpiccolendosi. Viene schematizzata con una piramide, la cui base è il primo piano immaginario davanti ai nostri occhi; il vertice è il punto di fuga all'altezza del punto di vista (cioè dell'occhio dell'osservatore). Lo spazio prospettico è uno spazio vero, ma idealizzato, luogo dove nulla è lasciato al caso, dove tutto, fatti e cose, è razionalmente ordinato. La prospettiva non è dunque un fenomeno o una legge ottica naturale, ma una categoria dello spirito che organizza tutte le cose a seconda della ragione dell'uomo. Essa permette all'artista "la rappresentazione finita della realtà, la cui estensione è infinita. Il punto d'incontro delle linee prospettiche è il limite ed insieme il tramite tra il finito prospettico e la infinita realtà." (Argan. Storia dell'arte italiana. Vol.II.) In senso umanistico essa serve ancora a definire il rapporto dell'uomo con la natura, a creare intorno all'uomo dominatore lo spazio infinito che egli domina. La teoria della proporzioni. Anche questa, apparentemente ereditata dal Medioevo (San Tommaso e Dante), quando si cercava attraverso la perfezione dei numeri di vedere nel creato l'immagine della perfezione divina, è una concezione nuova, totalmente contraria a quella medievale. Le proporzioni non traggono origine dal divino per riflettersi nel reale, ma dalla bellezza della realtà ideale che ha origine nella mente dell'uomo e si riflettono, attraverso la creazione artistica, nella bellezza ideale della realtà ricreata attraverso l'opera d'arte. In architettura la proporzione definisce e commisura le entità di spazio espresse dai singoli elementi; vi è un rapporto ideale tra l'altezza di una colonna, l'ampiezza dell'arco, lo spazio tra le finestre, l'altezza dei piani dell'edificio: l'insieme armonico di queste parti proporzionalmente accostate produce la perfetta opera d'arte. Anche il corpo umano nel Quattrocento è studiato in base a perfette misure proporzionali. I canoni di queste proporzioni non sono tuttavia rigidi; attraverso la loro flessibilità l'artista di volta in volta crea opere diverse e diversamente belle: i pieni che alternativamente dominano o sono dominati dai vuoti ed il susseguirsi più o meno incalzante degli archi, vari per le loro ampiezze, danno in diversa misura il senso della solennità o della leggerezza, della staticità o del movimento. Caratteristiche comuni e dominanti in maniera diversa nelle varie opere del Brunelleschi sono: - La genialità ingegneristica, che si esprime ai massimi livelli nella cupola di Santa Maria del Fiore - L'eleganza formale: Ospedale degli Innocenti (facciata, portico e cortile interno) - L'armonia delle proporzioni: facciata della Cappella dei Pazzi, Sacrestia di San Lorenzo, Basilica di Santo Spirito - La delicatezza del colore: le pareti sono sempre in intonaco chiaro, con gli spazi delimitati da colonne e cornicioni in pietra serena: interno della Cappella dei Pazzi - La luminosità: Basilica di Santo Spirito - Il movimento e la leggerezza delle forme: Ospedale degli Innocenti. 24 Opere. 1). La cupola di Santa Maria del Fiore. Firenze. h. m.105,50; l. m.51,70. "erta sopra i cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti i popoli toscani" (Leon Battista Alberti: dedica a Brunelleschi nel trattato "Della Pittura"). Nel 1296 Arnolfo da Cambio aveva progettato e dato inizio alla costruzione della cattedrale di Firenze, dedicata dapprima a Santa Reparata, poi, nel 1412, alla Vergine e chiamata Santa Maria del Fiore (il fiore è il giglio, emblema di Firenze). L'opera si era protratta, modificata rispetto al progetto originale di Arnolfo, per tutto il Trecento. Nel 1334 era stato dato a Giotto l'incarico di progettare il bel campanile (che porta il suo nome) e l'artista ne aveva gettato le fondamenta. Non era stata invece edificata la cupola della chiesa. Essa sarebbe stata il capolavoro del Brunelleschi. Per poter dar mano all'impresa l'artista deve partecipare ad un pubblico concorso (1418) che lo pone di nuovo a confronto con il Ghiberti. Non c'è un vincitore e nel 1424 Brunelleschi e Ghiberti vengono nominati assieme al capomastro Battista D'Antonio provveditori sulla costruzione della cupola. Il compito è arduo: il primo problema che Brunelleschi deve risolvere è quello di scegliere se completare l'opera secondo il progetto originario del Trecento di Arnolfo da Cambio o studiare qualcosa di completamente nuovo. Decide per la seconda alternativa. Disegna una cupola nuova, originale, che interpreta la nuova cultura, ma la cui realizzazione presenta subito ardui problemi tecnici. La costruzione, secondo le procedure in uso nei secoli precedenti, dovrebbe essere sostenuta da centine lignee, fino al completamento dell'opera, non esistono però più carpentieri esperti, capaci di armare strutture così grandi. Brunelleschi inventa allora una tecnica nuova che offre la possibilità alla cupola di autosostenersi mentre cresce. La ha dedotta dallo studio delle costruzioni romane (Pantheon, Terme di Caracalla), ma la applica in modo diverso. Non costruisce una cupola rotonda, ma ogivale, per accordarsi alle strutture gotiche preesistenti; la divide in spicchi, la arricchisce di nervature. La cupola poggia direttamente su un tamburo e termina con un lanterna. Perché possa resistere alle spinte esterne, Brunelleschi la "incatena" inserendo nel suo spessore una serie di travi di legno tenute insieme da barre di ferro, precorrendo l'uso del ferro nel cemento armato e fornendo la soluzione per la costruzione di tutte le cupole del Rinascimento prima, del Barocco poi. La novità delle soluzioni presuppone un nuovo rapporto di lavoro, così che l'architetto deve sovraintendere personalmente all'esecuzione dei lavori di cui viene ad assumere tutte le responsabilità, mentre le maestranze devono solo eseguire. In questo nuovo rapporto va cercata la ragione dei contrasti sorti tra Brunelleschi e Ghiberti e tra Brunelleschi e le maestranze nel corso dell'esecuzione dell'opera. Il risultato estetico cambia totalmente l'aspetto originale del disegno di Arnolfo. La cupola non solo chiude l'edificio, ma lo domina, lo sovrasta con l'imponenza della sua mole e della sua altezza, senza però appesantirlo, anzi lo innalza e lo libra nell'aria. Il tamburo su cui si erge la cupola la collega al resto della costruzione e nello stesso tempo la isola. 25 La città ora gravita e si raccoglie intorno a questa struttura, che ne diventa centro ed ancora. Questa immagine nuova è in contrasto con il principio secondo il quale erano state erette tutte le preesistenti strutture gotiche, nelle quali la guglia raccoglieva tutte le forze convergenti verso l'alto e cercava nello slancio il punto d'incontro con l'infinito. 2). L'Ospedale degli Innocenti (1419-1424), costruito sulla Piazza della SS. Annunziata, per conto dell'Arte della Seta. Il portico dell'ospedale è l'esempio classico della nuova teoria delle proporzioni. L'altezza delle colonne è uguale sia al diametro degli archi della facciata, sia alla larghezza del portico. I cornicioni che tagliano la facciata sopra le colonne danno l'impressione della profondità del piano delle finestre, che è invece la continuazione del piano della facciata. Anche questa impresa testimonia l'innovazione totale, la creazione da parte di Brunelleschi di un'opera nuova, anche se ispirata a modelli romani. L'arco, le colonne, i capitelli segnano il punto di contatto con la romanità classica, ma la loro realizzazione, il disegno originale, la proporzione nuova degli spazi e i materiali usati danno immediatamente il senso della novità dell'arte dell'architetto. In nessuna delle opere del Brunelleschi (così come in quelle degli altri grandi architetti del Rinascimento) possiamo vedere una semplice copia del modello classico. Nessun edificio della romanità ha inoltre mai posseduto tanta raffinata eleganza e tanta leggerezza. Il portico era presente anche nelle piazze dell'antichità e, come loggia, possiamo ancora vederlo nelle strutture architettoniche del Trecento (Palazzo della Signoria, Orsanmichele...), la novità del Portico progettato dal Brunelleschi consiste nel fatto che esso non è un elemento indipendente, staccato dal contesto urbano in cui è costruito, ma diventa elemento determinante della unitarietà del progetto. 3). Sagrestia della chiesa di San Lorenzo (La Sacrestia Vecchia) (1418-1428). Nasce come cappella gentilizia dei Medici. È costituita da un vano cubico (lato m. 11,60, cioè 10 braccia) coperto da una cupola emisferica; al centro di una parete si affaccia la cappella, che ripete in scala ridotta la struttura del vano della sacrestia. Anche qui l'architettura esprime con chiarezza dimostrativa, attraverso il rapporto dimensionale dei due vani, i concetti fondamentali della prospettiva e delle proporzioni. Lo spazio cubico della cappellina è pensato come la proiezione in lontananza della sacrestia, una estensione dello spazio verso l'infinito prospettico. Le colonne e le lesene che delimitano gli spazi tra le due strutture sono in pietra serena ed accentuano i contrasti cromatici con l'intonaco chiaro, conferendo movimento e leggerezza alla costruzione. 4). La chiesa di San Lorenzo (1419-1442) Ha pianta basilicale (a forma di T, tre navate che sboccano in un transetto con cinque cappelle). Colonne, archi, cornici, modanature sono in pietra serena al fine di sottolineare con il colore grigio chiaro il loro ruolo di cornice alle superfici, di accentuare il movimento prospettico dei piani che si susseguono, di delimitare armonicamente gli spazi, disegnare e permettere di confrontare proporzionalmente gli elementi compositivi della costruzione. 26 La navata centrale ripete i motivi della Loggia degli Innocenti: archi e finestre sovrapposte al centro dell'arco, stesse proporzioni dei cubi sovrapposti. L'abbondante luce che proviene dalle numerose finestre dà il senso dello spazio all'aperto (la piazza), mentre le navate laterali che prendono luce da piccole finestre rotonde danno la sensazione del portico. Le cappelle che si aprono con grandi archi sulle navate laterali ripropongono l'immagine della prospettiva e delle proporzioni già presenti nella sacrestia. Il rincorrersi di archi e colonne su piani prospettici e contrapposti trova la sua naturale conclusione nel cerchio su cui posa la cupola. Elemento particolare di questa costruzione è la comparsa, per la prima volta, dei dadi brunelleschiani, segmenti di architrave posti al disopra dei capitelli, che ricordano i pulvini bizantino-romanici e servono a spingere verso l'alto gli archi ed a rendere la costruzione più aerea e leggiadra. 5). Basilica di Santo Spirito. Firenze I dadi, questo elemento elevante, si ripetono nella Basilica di Santo Spirito. Apparentemente simile alla chiesa di San Lorenzo, essa traduce nella realtà un altro dei principi fondamentali dell'architettura quattrocentesca in generale e di quella brunelleschiana in particolare. In San Lorenzo l'elemento caratterizzante era la prospettiva: i diversi piani prospettici longitudinali (le colonne) e quelli laterali (navate e cappelle laterali) riproducevano la piramide prospettica. Qui sono soprattutto le proporzioni a dare il senso della perfezione formale. L'altezza della navata centrale è esattamente doppia della sua larghezza. La larghezza della navata è uguale all'altezza degli archi. La parte sovrastante gli archi è di conseguenza uguale alla loro altezza. La larghezza delle navate laterali è la metà di quella della navata centrale; la loro altezza è doppia della larghezza. Le cappelle laterali sono nicchie racchiuse in archi che hanno le stesse dimensioni di tutti gli archi della chiesa. Un elemento che la differenzia da San Lorenzo è costituito dalle colonne che definiscono le cappelle laterali: non sono semplici lesene, quadrate e scanalate, che hanno lo scopo di definire i piani della piramide prospettica, ma sono rotonde (semicolonne) come quelle della navata. Il risultato è quello di imprimere dinamicità alla struttura. Anzichè delimitare lo spazio, esse danno l'impressione che un'altra navata si debba aprire sui lati, in un ritmo espansivo illimitato. È l'apertura verso il nuovo concetto dello spazio rinascimentale (Leonardo, Michelangelo) non scandito da piani prospettici rigorosi, ma armoniosamente aperto verso l'infinito. L'impressione finale è quella di una meravigliosa sinfonia di semicerchi, cui fa da contrappunto la forte semplicità delle colonne. Brunelleschi progettò (ma non realizzò) anche due chiese a pianta circolare, la linea che comunque i committenti scelsero e che si affermò nell'architettura rinascimentale (e proseguì per secoli nell'arte occidentale) è quella a croce latina. La basilicale, che era stata già adottata nell'arte gotica, sembrava la più rispondente allo spirito medioevale, la più adatta cioè a spingere l'uomo verso i più remoti misteri di Dio, mentre la pianta centralizzata dovrebbe essere quella tipica del Rinascimento, in quanto risponde all'idea dell'uomo centro dell'universo. Secondo Leon Battista Alberti, teorico oltre che architetto, era invece la pianta centralizzata 27 quella che rispondeva meglio di qualunque altra all'idea della divinità, infatti, secondo la filosofia neoplatonica, il cerchio è la forma perfetta, quindi divina. In pratica possiamo pensare che la scelta da parte dei committenti della croce latina sia stata determinata da particolari necessità delle funzioni liturgiche. Abbiamo comunque nel Rinascimento italiano notevoli esempi di chiese a pianta centralizzata La Cappella dei Pazzi (Brunelleschi), La Sacrestia Nuova in San Lorenzo (Michelangelo), il Tempietto di San Pietro in Montorio (Bramante). 6). Cappella dei Pazzi (1429-1444, probabile data del completamento dell'interno) Il concetto di base, soprattutto per quanto riguarda l'interno, riprende i motivi della sacrestia di San Lorenzo, ma con alcune differenze fondamentali. La pianta è rettangolare, anziché quadrata. La copertura perciò richiede sul lato più lungo, ai due estremi, due segmenti a botte, entro i quali si erge la cupola. La decorazione raffinatissima include, nei pennacchi della cupola, quattro medaglioni in terracotta policroma, opera del Brunelleschi, che rappresentano i quattro evangelisti, e medaglioni in terracotta smaltata bianco azzurra, opera di Luca della Robbia, negli specchi tra le lesene. L'illuminazione dello spazio è perfetta. Le finestre che si affacciano sul portico anteriore, il lucernario e le finestrelle che si aprono alla base della cupola diffondono all'interno una luce metafisica, senza ombre, assoluta, come lo spazio geometricamente perfetto dell'edificio che la cattura. Nell'armonia e proporzione della facciata, nello spazio e nella prospettiva, nell'eleganza ritmica dei pieni e dei vuoti si riassumono tutti gli elementi dell'architettura brunelleschiana. La facciata e il portico hanno la funzione di concentrare la mente, raccogliere lo spirito e quindi creare insieme un ponte e un diaframma tra lo spazio mutevole esterno e la razionale chiarezza e serenità dell'interno. Brunelleschi fu anche il creatore del tipico palazzo rinascimentale. Lo spirito laico e secolare del Rinascimento favorì a metà del XV secolo la nascita del palazzo cittadino. A Firenze tutte le grandi famiglie, Medici, Pitti, Strozzi, Pandolfini..., vollero il loro palazzo, diverso dagli altri nei dettagli, ma simile nella tipologia. Ognuno infatti occupava un intero isolato, sorgeva (e sorge) direttamente sulla strada, sulla quale presentava la facciata principale, possente e severa nel suo bugnato più o meno rustico, più o meno levigato, alleggerita dalle file delle finestre che si aprivano sui tre piani. Ogni palazzo aveva al suo interno un cortile circondato da portici colonnati e in ognuno di essi il piano terreno era riservato agli uffici, alle stalle, alle cucine ed alle sale del corpo di guardia. Le finestre di queste stanze che si affacciavano sulla strada erano in genere piccole ed ornate da grate di protezione, che talvolta erano piccole opere d'arte. Al primo piano, il piano nobile, c'erano gli appartamenti dei proprietari. Con la costruzione del palazzo rinascimentale nasceva il nuovo tipo di architettura urbana, non più commissionata dal potere religioso o dal feudatario, ma dal ricco uomo d'affari, commerciante o banchiere. Brunelleschi disegnò e fece costruire per Luca Pitti l'omonimo palazzo, ora sede di una delle maggiori gallerie d'arte di Firenze e del mondo. Gli stessi concetti di proporzionalità rigorosa, (spazi razionalmente scanditi, numero e altezza dei piani, 28 numero delle finestre...) di eleganza formale e armonia che hanno caratterizzato le opere religiose del Brunelleschi, vengono applicati anche nella realizzazione di quest'opera civile. Il palazzo fu successivamente ampliato dall'Ammannati e da Alfonso Parigi per volontà dei Medici che ne divennero proprietari nel 1549. Gli interventi successivi ne hanno modificato profondamente l'aspetto originale, di cui resta testimonianza in un quadro di Giusto Utens. Se però, osservando l'attuale Palazzo Pitti, si isolano idealmente le sette finestre centrali che si aprono sopra il portone dell'ingresso principale, si riesce ancora ad avere un'idea della facciata così come era stata concepita dal Brunelleschi. LEON BATTISTA ALBERTI (1404/1472) Nasce a Genova, dove la famiglia si trova in esilio, studia latino e greco a Padova, scienze matematiche e fisiche a Bologna, si apre all'arte a Firenze, dove diventa discepolo e amico del Brunelleschi. È cavaliere ed atleta, abile conversatore, commediografo, linguista, compositore, matematico. Elegante letterato, manca della genialità del Brunelleschi e degli architetti del secolo successivo (Michelangelo e Bramante), è tuttavia il vero "uomo del Rinascimento", versatile e completo. Scrive tre trattati sull'arte: De Pictura, De Statua, De Re Aedificatoria. Nel primo, che è il manuale della pittura toscana del Quattrocento, l'Alberti enuncia in modo sistematico la concezione prospettica brunelleschiana applicata alla pittura. Scrive l'ultimo, sull'architettura, a Roma, dove è addetto alla cancelleria pontificia e dove, dopo il ritorno dei Papi, una schiera di artisti e letterati inizia la ricostruzione della Città Eterna, che raggiungerà il suo massimo splendore nel secolo successivo, quando Bramante, Michelangelo e, verso fine secolo, Bernini e Borromini presteranno la loro opera a favore di Papi e Principi. In questo trattato (dieci volumi) cerca di formulare le leggi che erano state applicate dai Greci nelle loro opere architettoniche, partendo dal principio che i Greci avevano concepito i loro templi in termini matematici. Come Brunelleschi è l'architetto quattrocentesco che ha lasciato la sua impronta ed ha dato un volto nuovo a Firenze, così l'Alberti ha lasciato la sua impronta soprattutto a Rimini ed a Mantova. Le caratteristiche, o gli elementi, fondamentali della sua architettura possono riassumersi in: - Solennità e classicità, contrapposti all'eleganza e alla leggerezza del Brunelleschi. Il suo classicismo è talvolta più copiato che interpretato (Fianco del Tempio Malatestiano), le sue teorie, però, interpretate da grandi architetti, eserciteranno un'ampia influenza nel secolo successivo. - Plasticità: lo spazio non è più solo ritmo scandito in infiniti piani prospettici, razionalmente chiari e luminosi, ma diventa elemento mobile, ricco di chiaroscuri; non superficie lineare, ma insieme di masse aggettanti (Mantova: facciata di S.Andrea). - Dinamicità: in contrasto con la metafisica statica brunelleschiana, l'architettura diventa monumentale, espressione di valori ideologici, oltre che di razionalità pura (Monumentalità della facciata del Tempio Malatestiano, monumento all'orgoglio del committente). 29 Opere 1). La prima opera architettonica di Leon Battista Alberti è il Palazzo Rucellai, edificato per il mercante fiorentino Giovanni Rucellai tra il 1447 e il 1451. In quest'opera l'elemento proporzionale proprio del Quattrocento ha il sopravvento sulle altre caratteristiche: esso è definito da tre piani a bugnato liscio, scanditi da cornicioni via via più marcati ed ornati, in senso orizzontale, con finestre ritmicamente inquadrate da paraste (lesene) doriche al primo piano, ioniche al secondo e corinzie al terzo. 2). Anche nella facciata della chiesa di S.Maria Novella a Firenze prevale il motivo geometrico della modularità. Il progetto è basato su un modulo, rappresentato da ciascuno dei quadrati neri disegnati sotto il rosone. Le semplici tarsie geometriche in marmo policromo (la rivestitura in marmo è eredità dell'antica Roma), inquadrate nelle colonne doriche e ioniche della parte superiore, servono a raccordare il tutto con la parte inferiore (dorica) della facciata medievale preesistente. Le colonne corinzie che inquadrano le tarsie e gli archi in marmo policromo nella parte intermedia servono a ricondurre tutta la facciata alla solenne classicità del portale. L'artista completò la facciata nel 1456 introducendo il motivo delle larghe volute che collegano la navata centrale e quelle laterali, motivo che godette di grande fortuna nei secoli, dopo essere stato adottato dal Vignola nella Chiesa del Gesù, a Roma. 3). La chiesa di S.Francesco a Rimini (1447-1450), detta anche Tempio Malatestiano perché sarebbe dovuta diventare il mausoleo di Sigismondo Malatesta e della sua famiglia, segna il passaggio verso la più nuova e tipica architettura albertiana e può essere considerata la trasposizione pratica delle sue teorie. Il tempio, che è rimasto incompiuto, avrebbe dovuto costituire una specie di scatola racchiudente la preesistente chiesa gotica. La facciata ed il fianco (l'unico che è stato completato) vanno analizzati separatamente. Il fianco ripropone, visivamente, quasi in copia la solennità degli acquedotti romani; in pratica le nicchie profonde, nello spessore del muro di pietra, erano destinate a diventare tombe per i Malatesta e la loro corte. La facciata richiama gli antichi archi di trionfo romani (sembra che l'artista si sia ispirato ad un arco romano di Rimini). In ambedue i casi, la classicità è più copiata che reinventata. L'elemento plastico è evidente nelle semicolonne aggettanti, negli archi e nei cornicioni. Il podio su cui poggiano le colonne serve ad accrescere la monumentalità dell'opera, oltre che a rafforzare il contrasto tra le parti piane (il podio stesso) e le parti aggettanti, aumentando l'effetto di movimento e di plasticità. 4). A Mantova l'Alberti progettò la chiesa di San Sebastiano (1460) e quella di Sant'Andrea (ca. 1470). Ambedue si alzano su una grande piattaforma o podio. La chiesa di Sant'Andrea a Mantova è la più completa delle opere albertiane, perché ne riproduce tutti gli elementi caratteristici. 30 All'esterno, la facciata è un forte organismo plastico, un'incalzante contrapposizione di pieni e vuoti la monumentalità dell'arco centrale è enfatizzata dagli archi laterali più piccoli. NOTA: Modulo è il termine usato nell'architettura moderna, per indicare una unità di misura convenzionale (10 centimetri) dalla quale derivano tutte le altre misure di un edificio. All'interno la modularità cubica (5 cubi in lunghezza 3 in larghezza) ripropone la teoria delle proporzioni. L'estremità ad est è disegnata come una chiesa a pianta centralizzata, con transetto e coro di uguale lunghezza. Le navate laterali sono sostituite da cappelle (alternativamente grandi e piccole) scavate nel muro spesso. Il susseguirsi dei pieni che si intervallano alle cappelle laterali ripropone la plasticità solenne degli archi trionfali. La volta a botte rinnova la solennità delle terme romane. 5). San Sebastiano. La chiesa ha pianta centralizzata, basata però sul quadrato e non sul cerchio "divino". Per apprezzarne gli elementi classici della modularità, dell'armonia, delle proporzioni e della solennità è bene studiare il disegno originale della facciata, poiché i rifacimenti successivi ne hanno alterata profondamente la fisionomia. MICHELOZZO MICHELOZZI (1396/1472) Fa parte della scuola del Brunelleschi e combina scrupolosamente le eleganti proporzioni del maestro con la plasticità dell'Alberti, che egli però ingentilisce profondamente. Le sue opere più famose sono: 1). Libreria del Convento di S.Marco in Firenze. Il preesistente convento domenicano fu restaurato da Michelozzo per ordine di Cosimo il Vecchio, tra il 1437 e il 1452. Nella Libreria l'esempio e lo stile brunelleschiani sono copiati; manca la geniale creatività del maestro. L'eleganza è formale, le proporzioni fredde; la perfetta razionalità della teoria di archi e colonne sembra uscita più da un libro di logica che dalla fantasia di un poeta. 2). Il palazzo Medici-Riccardi. Firenze. Via Larga. Michelozzo si esprime con maggiore originalità e genialità nelle costruzioni civili. Qui il confronto con i maestri è meno immediato, i risultati sono più accattivanti. In questo palazzo Michelozzo combina gradevolmente il bugnato brunelleschiano di palazzo Pitti con quello di tipo albertiano di palazzo Rucellai, sfumando dal basso verso l'alto la rusticità di questo stile ornamentale, che si conclude nel paramento liscio del terzo piano. La delicata eleganza delle bifore contribuisce ulteriormente ad alleggerire i piani superiori, chiusi da un solenne cornicione, che richiama la solidità del bugnato del piano terra. Su questo si aprono cinque portali (tre dei quali successivamente chiusi da finestre inginocchiate) che immettono nel cortile quadrato, circondato da un elegante portico di chiara ispirazione brunelleschiana (vedi Ospedale degli Innocenti). 31 La notorietà dei personaggi che lo hanno abitato e delle storie che si sono svolte all'interno delle sue mura contribuisce ad accrescerne la fama anche al di là dei meriti artistici, che pure sono notevoli. La perfezione formale della realizzazione, la posizione in cui sorge (nel cuore di Firenze, a fianco del Duomo, sede del potere religioso) ne hanno fatto il simbolo della Firenze rinascimentale, esempio tipico di palazzo quattrocentesco e modello per l'architettura civile fiorentina dei secoli successivi. 3). Cappella Portinari, nella chiesa di Sant'Eustorgio a Milano Michelozzo è presente anche a Milano. Sua è la Cappella Portinari nella chiesa di Sant'Eustorgio (presso la porta Ticinese). L'imitazione della Sacrestia di San Lorenzo del Brunelleschi è evidente sia nella pianta quadrata della cappella sia nella continuazione prospettica della cappellina. Anche qui l'eleganza semplice e raffinata di Brunelleschi cede il passo a ornamenti, cornicioni e dipinti che appesantiscono la purezza formale del maestro. BENEDETTO DA MAIANO (1442 – 1497) Sua opera principale è il Palazzo Strozzi a Firenze. In bugnato rustico, si ispira al Palazzo Pitti di Brunelleschi, anche se nelle finestre, eleganti bifore, ricorda molto di più il palazzo Medici-Riccardi di Michelozzo. I motivi chiaroscurali accentuati ricordano l'origine dell'autore, che è soprattutto scultore. L'idea di forza, di potere, data dalla massiccia facciata è enfatizzata dall'ombra profonda che getta l'ampio cornicione. Tutte le stanze guardano verso il cortile interno. L'imponenza della costruzione, i richiami formali insistenti rivelano nel committente l'intenzione di una sfida alla rivale famiglia Medici. Le due famiglie e i due palazzi furono allora, e rimangono tuttora, i simboli della Firenze del XV secolo. GIULIANO DA SANGALLO (1445 – 1516) Sua opera principale è la Villa Medici di Poggio a Caiano. Gli uomini nuovi del XV secolo riscoprono la natura anche come luogo di svago raffinato e meditazione nella solitudine agreste. Ad imitazione della romanità rinasce la villa di campagna, di classica memoria (Casale di Piazza Armerina, ad esempio). Nella Villa di Poggio a Caiano (1480-1485) i vari elementi architettonici (archi come acquedotti, tempio con frontone) si inseriscono, non sempre armonicamente, nella elegante facciata. In seguito l'ispirazione formale classica sparirà e, nel secolo successivo, la villa costituirà elemento originale e caratterizzante del Rinascimento italiano. LUCIANO LAURANA (1420 - 1479) 32 La più imponente, inimitata perché inimitabile opera di architettura civile del XV secolo è il Palazzo Ducale di Urbino del dalmata Luciano Laurana. Giunto ad Urbino nel 1466, probabilmente dopo aver lavorato a Firenze nella Scuola del Brunelleschi (Vasari: Vite) si mette al servizio dei Montefeltro. Il duca Federico gli assegna il difficile compito di organizzare in un complesso armonico due costruzioni preesistenti, l'antico palazzo ducale e il castelletto. Il palazzo non si presenta quindi come una mole compatta, ma come un articolato susseguirsi di costruzioni, cortili e giardini che si fondono in mirabile unità. La natura del terreno, collinare e scosceso, pone continuamente all'architetto ardui problemi da risolvere. Il risultato è il mirabile Palazzo Ducale. La facciata che guarda verso la valle evoca certamente il ricordo dei castelli tardo gotici francesi, ma esprime un concetto tipicamente umanistico. "È un'architettura militare che si trasforma, a vista, in civile, alludendo insieme alle virtù guerriere e al saggio pacifico governo del Signore" (Argan-Storia dell'arte - vol.II pag.269). Il richiamo ai castelli medioevali è servito a raccordare il palazzo al castelletto; le ampie finestre, i balconi e le logge della facciata e del cortile, mirabilmente inseriti tra i torricini, testimoniano il nuovo spirito aperto dell'Umanesimo. Il cortile interno, di tipica ispirazione fiorentina, introduce nelle sale luminose, tra le quali è famoso lo studiolo del duca, completamente rivestito con eleganti intarsi lignei. 33 LA PITTURA NEL XV SECOLO Benchè la pittura del XV secolo muova dalla stessa poetica e dalla stessa rivoluzione culturale e filosofica che ha caratterizzato la scultura e l'architettura, l'elevato numero di pittori, la provenienza da esperienze, origini, scuole molto diverse, l'abbondanza della loro produzione rendono difficile parlare di "elementi comuni" a tutti o almeno alla maggior parte degli artisti del Quattrocento. Si possono tuttavia identificare alcune idee guida che costituiscono l'invisibile filo conduttore di tutta la pittura del secolo. La prospettiva È l'elemento dominante in tutte e tre le arti figurative del XV secolo; testimonia dell'unità culturale dell'epoca; quando si passerà dalla rigorosa sequenza dei piani prospettici alla larghezza spaziale dello sfumato leonardesco, sarà segno che questo periodo si è chiuso definitivamente. L'uomo centro dell'universo È l'uomo, così come lo hanno idealizzato gli umanisti, che riempie i primi piani delle tele dei pittori del XV secolo. Gli sfondi, i paesaggi, la natura, sono spazi ideali, che servono a mettere in evidenza l'uomo e i suoi sentimenti, la sua bellezza e la sua sicurezza, la sua armonia e la sua perfezione. La chiarezza e la compostezza classica Anche nelle scene più movimentate (le battaglie di Paolo Uccello o le Storie di Nastagio degli Onesti di Botticelli, per citare un artista dell'inizio e uno della fine del secolo) le figure assumono un aspetto solenne e definito, quasi statuario, dai contorni netti. Quando Leonardo introdurrà lo sfumato, sarà la fine del Primo Rinascimento. I motivi per cui le opere venivano prodotte Potevano essere celebrativi (Le battaglie di Paolo Uccello), illustrativi (tutta la iconografia religiosa), documentari (la ritrattistica); o poteva essere, finalmente, la semplice ispirazione dell'artista (vedi gli schizzi di Leonardo) a stimolare la creazione di opere pittoriche. Artisti veri e mestieranti accettavano commissioni. Spesso gli stessi grandi artisti ripetevano se stessi (soprattutto verso fine secolo, per esempio il Botticelli) per soddisfare le richieste dei mecenati. PAOLO UCCELLO 1397-1475 1397. Paolo nasce a Firenze da Dono di Paolo, barbiere e chirurgo. 1404. Figura come garzone di bottega in una lista dei dipendenti del Ghiberti. È addetto alla pulitura della prima porta eseguita dal Maestro per il Battistero di Firenze. Lavora con lui anche il giovane Donatello. 1415. Risulta iscritto all' "arte" dei medici e degli speziali. 1424. È iscritto alla "compagnia" dei pittori di San Luca. 1425-30ca. Lavora a Venezia come mosaicista nella basilica di San Marco. 1432. Tornato a Firenze nel 31, lavora per il duomo. 34 1436. Esegue per il duomo l'affresco che rappresenta Giovanni Acuto. 1445. A Padova (secondo il Vasari) lavora assieme a Donatello. 1453. Dalla moglie, Tommasa di Benedetto Malifici, ha un figlio, Donato. 1475. Muore il 10 dicembre. Nelle "Vite" il Vasari lo presenta come "solitario, strano, povero e malanconico", "senza molte pratiche" (ossia con pochi amici), e così egli fu probabilmente, tutto dedito alla pittura, affrontata con il rigore con il quale si affrontano le scienze, ma sicuramente, spesso, anche con un pizzico di ironia e con la gioia che deriva dall'osservazione costante della natura e dallo studio dei colori. Fu poi davvero così povero come le lamentele della moglie o i vari aneddoti che su lui si raccontano potrebbero far credere? In realtà i committenti delle sue opere e le opere realizzate farebbero pensare ad una vita non misera; il testamento, inoltre, dimostra che la sua situazione economica non era disastrosa. Ad una prima lettura la sua opera è "difficile" da capire. Nel contesto del Rinascimento anche il Vasari lo critica; ma nella descrizione dello storico, che vorrebbe essere negativa, si possono leggere invece i valori positivi, essenziali della sua pittura. Paolo Uccello -dice infatti il Vasari nel libro II delle sue Vite- sarebbe stato il "più leggiadro e capriccioso ingegno....se si fosse affaticato tanto nelle figure ed animali, quanto si affaticò e perse tempo nelle cose di Prospettiva, le quali affaticano la natura, e se ne cava -chi più attende a lei prospettiva che alle figure- la maniera secca, piena di proffili...." Paolo Uccello, infatti, più che alle figure, che tanti altri artisti sapevano ben disegnare copiando la natura, ebbe "leggiadro e capriccioso ingegno". Andò oltre la natura, a scoprire nelle cose, animali, persone le forme geometriche fondamentali (rette, curve, archi, cerchi...) e si divertì a riprodurle in razionali e chiari spazi prospettici arricchendole di colori leggiadri e capricciosi: cavalli bianchi, rossi, neri, con finimenti degli stessi colori, e armi, lance e spade fantasiosamente colorate. 1). Storie del Duomo di Prato (Cappella dell'Assunta). 1435-40. Natività della Vergine. cm.302X361. Affresco trasferito su tela. È opera importante per l'ampiezza prospettica e per l'uso raffinato dei colori, vivi ed antinaturalistici (notevole l'uso di una base di colore verde per dare maggiore vivezza agli incarnati), che trasferiscono la scena, ricca di quotidianità, in un sfera fantastica. Come avviene anche in altre opere di Paolo, le soluzioni prospettiche sono varie e non concorrono in un solo punto di fuga. 2). Ritratto equestre di Giovanni Acuto. 1436 (data della conclusione dell'opera). cm.820X515. Firenze. Duomo. È un affresco trasferito su tela, dipinto sulla parete sinistra (per chi entra) del duomo di Firenze, cui si affianca quello di Andrea del Castagno, che ritrae Niccolò da Tolentino. L'impostazione delle due opere è molto simile, ma le caratteristiche dei due artisti le rendono profondamente diverse. Ambedue gli affreschi indicano che ormai la teoria brunelleschiana della prospettiva è diventata un canone fisso per tutti i pittori. In Paolo Uccello essa è senz'altro rigorosa, anche se quello della prospettiva in quest'opera è stato uno dei problemi più dibattuti dai critici. Esiste infatti una contraddizione prospettica tra il gruppo equestre ed il 35 basamento, rappresentati secondo due punti di vista differenti: il basamento è stato eseguito per essere visto dal basso, mentre il cavallo è allo stesso livello dell'osservatore. Andrea del Castagno, che ha dipinto la sua opera dopo che quella di Paolo Uccello era stata completata, ha fatto in modo che l'osservatore, ponendosi di fronte al suo affresco, potesse osservare anche quello di Paolo con la perfetta illusione del rilievo e con il giusto angolo prospettico, senza doversi spostare. La differenza di stile e la personalità dei due pittori si rilevano osservando attentamente le figure dipinte, il cavallo e il cavaliere. Andrea del Castagno è più concreto, realista, naturale. Sia il cavallo che, e soprattutto, il cavaliere, pur nella solennità monumentale della rappresentazione, sono figure vive, reali. Il cavallo avanza (idealmente in trionfo tra la folla) con imponente solennità, il cavaliere sembra accogliere superbamente l'ovazione dei concittadini e il riconoscimento della storia. In Paolo Uccello dominano le geometrie formali: il disegno del cavallo (posteriore, collo), la compostezza dei suoi passi geometricamente scanditi e ritmati (al contrario del nervoso, quasi scomposto incedere di quello di Andrea del Castagno); le linee stesse della figura del cavaliere (bastone del comando che si incrocia con la linea della gamba, rotondità della spalla, linea del mantello, gamba del cavaliere che si inserisce mediamente nel movimento delle gambe del cavallo, figura del cavaliere che tende a formare una piramide equilibratrice al centro della composizione) denotano l'interesse alla figurazione geometrica prospettica oltre che all'espressione di sentimenti e alla semplice rappresentazione di "uomini". In quest'opera, che rappresenta il momento culminante della prima fase della sua attività, Paolo Uccello, fedele alla nuove teorie del Brunelleschi e di Masaccio, ci presenta l'ideale di "Humana dignitas" secondo il suo spirito geometrico. Per il Vasari: "Paolo fa i campi azzurri, le città rosse, perchè per lui i colori sono una qualità dei piani prospettici o dello spazio, non delle cose." È il mondo fantastico dei tre quadri in cui vengono raffigurati tre episodi della battaglia di San Romano. Nei tre pannelli dipinti per ornare un salone nel palazzo dei Medici viene esaltata la vittoria riportata da Niccolò da Tolentino, amico ed alleato di Cosimo, sui Senesi nel 1432 (era abbastanza comune all'epoca presentare in grandi dipinti battaglie, eventi storici e biblici, episodi tratti dalla mitologia). 3). Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini. cm.182X320. 1456. Tempera a uovo su pioppo. Londra. National Gallery. A differenza degli artisti fiorentini contemporanei, Paolo Uccello non si propone di rendere con la prospettiva la realtà, nè si propone di raccontare un fatto. Anche qui abbiamo una doppia prospettiva, una fuggente in primo piano, una a comparti, ancora medievale, sul fondo. Nel primo piano l'impostazione prospettica è sottolineata dalle lance sparse per terra e dalla posizione del soldato morto. I piani prospettici sono segnati dai cavalli (che si ripetono in ritmi geometrici e temporali perfettamente sincronizzati) e dalle lance alzate dei due eserciti che si scontrano. 36 Tutto assume la monumentale sembianza dell'immobilità, pur nell'apparenza del moto, grazie all'impostazione scenica: Paolo Uccello sembra avere ideato un palcoscenico sul quale si recita una battaglia non cruenta, all'insegna del bello. Sullo sfondo sono dipinti campi e colline, su cui si muovono minute figure: alcune di esse stanno combattendo, altre preparandosi alla battaglia. L'azione principale avviene in primo piano, dove Niccolò, che impugna il bastone del comando, avanza sul suo cavallo bianco. Lo seguono i suoi cavalieri che, chiusi in pesanti armature di ferro, alzano aste luminose. È una festa di colori, colori smaglianti, puramente fantasiosi, che obbediscono solo al gusto del pittore: il cappello di Niccolò, rosso ed oro come la corta gonnella che il comandante indossa sull'armatura, i finimenti dei cavalli, gli aranceti ed i roseti che fanno da spalliera e sfondo alla scena di battaglia. 2). Il Disarcionamento di Bernardino della Ciarda (particolare). cm.182X323. 1456. Firenze. Galleria degli Uffizi. Si ripetono in questo quadro gli stessi motivi osservati nell'opera precedente; oltre alla prospettiva segnata dalle armi e ai piani prospettici indicati dai cavalli che si allineano con regolare cadenza, vale la pena osservare le forme geometriche, in particolare le curve, che si susseguono quasi ossessivamente. 4). Intervento di Michelotto da Cotignola. 1456. cm.180X316. Parigi. Louvre. Delle tre, è la tavola meglio conservata. Si può ancora notare in essa l'argentatura delle corazze (importante per la struttura dell'opera) che doveva probabilmente riflettere le immagini. 5). San Giorgio libera la Principessa. Londra. National Gallery. Anche qui la composizione è intessuta di sottili geometrie e di artifici prospettici che creano uno spazio e un'atmosfera irreale simile a quella delle battaglie. Le figure sono calate in quest'atmosfera a metà tra l'incubo e il sogno, che i colori freddi e brillanti insieme accentuano. L'insistenza sul ripetersi di motivi geometrici sacrifica la realtà al gioco della fantasia (osserviamo l'esasperata curva del collo del cavallo, l'eccessiva rotondità della figura di San Giorgio, il disegno della parte sinistra della caverna, che accompagna le morbide curve dell'abito della principessa, e della destra che riprende la linea del drago e delle sue ali), ma il sentimento della natura di Paolo Uccello, la sua forma, il suo stile stanno appunto nell'armonia delle forme geometriche. La geometria e il colore negli abiti di Paolo Uccello. Paolo Uccello vive dunque la sua esperienza artistica nel cuore del XV secolo, ma si distingue nettamente dagli altri pittori per "capriccio ed originalita". La sua moda sembra rimanere fedele al linearismo gotico del Trecento, ma le apparenze non devono trarci in inganno. Non la veste lunga o corta, con cintura alta o bassa, ma l'immagine interessa Paolo Uccello, un'immagine originale, caratterizzata da un geometrismo esasperato e da colori accesi. La sua donna ideale è alta, slanciata, ha un viso chiaro, aperto, luminoso. I capelli, ben raccolti sulla nuca, mettono in evidenza la fronte ampliata da una rasatura, che 37 accentua la forma ovale del viso e quella cilindrica del collo lungo e delicato. Le forme geometriche che si ripetono insistentemente costituiscono il motivo unificante di tutti gli elementi delle sue composizioni. Così nella "Natività della Vergine" (PratoDuomo) la bella pellanda con le maniche ampie della prima visitatrice, indossata su una veste rossa con abbottonatura sulla manica, secondo lo stile trecentesco, combina e contrasta una linea alta e slanciata con le curve che accompagnano l'arco disegnato dalla Sant'Anna e dalla donna che l'assiste. I colori degli abiti, rosa, verde, rosso, giallo, e quelli poco naturali dei volti danno all'immagine il particolare senso del fiabesco che è proprio dello stile di Paolo. Il soggetto del dipinto, che è comune a molti artisti contemporanei (vedi Pollaiolo, Ghirlandaio...) ci offre uno spaccato di vita italiana all'inizio del Quattrocento. In un ambiente ancora povero di mobili campeggia il letto, dotato di una pedana, su cui possono sedere le visitatrici, e di un capace cassetto-guardaroba. Alla puerpera, che indossa una bianca camicia da notte e il velo, fanno visita le amiche che portano doni su piatti dipinti con scene di vita contemporanea (deschi da parto). L'iconografia tradizionale è rispettata: la giovane visitatrice è accompagnata da donne più anziane che coprono le vesti con un mantello. Lo stesso linearismo raffinato si riscontra nella principessa che San Giorgio libera dal drago (1456. Londra. National Gallery). I colori sono forti, brillanti, contrastanti; la figura della principessa, esile, ma forte e decisa, è incarnazione di forme geometriche pure: ellissi, cilindro, cono. Anche qui la fronte è depilata, i capelli sono raccolti sulla nuca, il collo è lungo. Tutto contribuisce a dare slancio alla figura: le larghissime maniche della gamurra, la vita alta, lo strascico. Lo strascico, che conferisce alle donne un portamento aggraziato e solenne, è un elemento importante dell'abbigliamento del Quattrocento; in Italia viene però abbandonato verso la fine del secolo, quando è ancora in voga nel resto d'Europa. Si accompagna in genere alle ampie maniche ad ala, ma lo si trova anche con maniche aderenti. Nella versione di "San Giorgio e il drago", attualmente al Musee Jacquemart Andrè, a Parigi, in cui ricorrono tutti gli elementi della prima, è particolarmente notevole la cura posta nella definizione dei particolari della gamurra: la manica spaccata è ornata di perle e ricami, il tessuto è arricchito da stupendi disegni. Nelle figure maschili il geometrismo è ancora più accentuato. Il voluminoso cappello di Giovanni Acuto, rotondo e ottagonale, è ottenuto grazie alla sovrapposizione di anelli concentrici perfetti: cerchi a tutto tondo o prospettici si ripetono in tutta la figura. Ornamenti del cavallo, finimenti, collo del cavallo, particolari vari dell'armatura denotano il forte interesse dell'artista alla figurazione geometrica. Nell'adorazione dei Magi, i colori forti e contrastanti -rosso, blu, giallo, verderavvivano abiti dal taglio originale. Le maniche delle vestine e le stesse gonnelle del paggio e del primo Re Magio sono artificiosamente gonfiate sul petto e sulle spalle per disegnare la figura ideale di uomo propria di Paolo Uccello, che enfatizza così facendo la tendenza della moda trecentesca ad arrotondare il petto degli abiti maschili. 38 Il Re Magio a sinistra porta sotto il cappuccio una berretta dottorale ed indossa un lucco ad indicare il suo status; quello in mezzo indossa una veste corta ed elegante. Anche nella famosa "Caccia di Oxford" (Oxford. Ashmolean Museum) il cacciatore indossa una coloratissima gonnella con le ampie spalle arrotondate, la cui linea sinuosa il pittore riprende nelle slanciate figure arcuate dei suoi levrieri. MASACCIO 1401-1428 "È costume della natura, quando ella fa una persona molto eccellente in alcuna professione, molte volte non la far sola, ma in quel tempo medesimo, e vicino a quella, farne un'altra a sua concorrenza, a cagione che esse possino giovare l'una all'altra, nelle virtù e nell'emulazione" (Vasari. Vite). È il Vasari che, nelle Vite", ci dà notizia del quasi contemporaneo apparire sulla scena dell'Arte italiana di tre grandi, Brunelleschi, Donatello, Masaccio. Siamo di fronte ad un fatto non unico (si pensi alla Grecia del V sec. a.C., al mondo poetico fiorentino del Trecento): in un certo momento ed in un certo luogo appaiono contemporaneamente figure destinate non solo a lasciare ricordo di sè, ma addirittura ad improntare di sè un'epoca e a segnare agli altri la strada da seguire. Con Donatello e Brunelleschi, Masaccio è infatti il simbolo del XV secolo, ma la sua arte travalica i confini del Quattrocento. Lo stesso Vasari, per il quale la "perfezione dell'arte" era stata raggiunta nel Cinquecento da Raffaello, Michelangelo..., afferma che lo stile di Masaccio era così "evoluto" da poter reggere il confronto con qualsiasi disegnatore o colorista "moderno" (e per moderni s'intendevano appunto Michelangelo e Raffaello). In verità nelle sue opere la collaborazione delle tre arti sorelle (architettura, pittura, scultura), la severità della costruzione e il rapporto facile e naturale tra tutte le figure testimoniano la padronanza dei mezzi e la profondità dell'indagine. Fu molto attivo nel brevissimo periodo in cui gli fu dato di operare. Collaborò soprattutto con Masolino da Panicale; lasciò incompiute alcune opere che altri portarono a termine, ma nelle quali la sua impronta è notevole. Molti artisti hanno cercato di imitarlo e per questo motivo si è dovuto molto discutere sulle opere che gli si possono decisamente attribuire e su quelle di imitazione. 1401- Il 21 Dicembre, festa di san Tommaso, in una casa tuttora identificata in San Giovanni in Valdarno, Firenze, nasce Tommaso (Maso, Masaccio) Cassai. Il nonno Simone fa il falegname (Cassai=costruttori di casse, falegnami); il padre Giovanni è notaio, sposato ad Jacopa, figlia di un oste di Barberino nel Mugello. 1406- Muore Giovanni, padre di Tommaso; subito dopo nasce il fratello di Tommaso, cui viene imposto il nome del padre e che, con il soprannome di Scheggia, si dedicherà alla pittura e lascerà opere di discreto valore. 1408- La madre si risposa con un vecchio speziale benestante, Tedesco di Feo, che la aiuta a far crescere abbastanza agiatamente i figli. 39 1417- Muore il patrigno e la famiglia si trasferisce a Firenze, dove Masaccio frequenta la bottega di Brunelleschi e conosce Donatello. 1422- Masaccio si iscrive all'Ordine degli Speziali e può così diventare pittore autonomo, non legato, cioè ad alcuna bottega. Dipinge Sant'Anna Metterza, per la chiesa di Sant'Ambrogio. 1424- S'iscrive alla Compagnia di San Luca, in Firenze, ed inizia la sua collaborazione con Masolino da Panicale, che nel frattempo si è iscritto all'Arte dei Medici ed è lui pure diventato pittore autonomo. 1426- In Novembre, a Pisa, nella Chiesa del Carmine, per la Cappella del notaio Giuliano di Colino degli Scarsi, dipinge la pala nota come il Trittico di Pisa, pala che comprende la "Crocefissione". Nello stesso anno lavora alla Cappella Brancacci, nella Chiesa del Carmine a Firenze, ed inizia la "Trinità" in Santa Maria Novella. 1426- Completa il Polittico di Pisa; lavora alla Trinità; sospende i lavori alla Cappella Brancacci. 1427- Riprende a dipingere la Cappella Brancacci. Completa la Trinità. 1428- Va a Roma, chiamato dall'amico Masolino, e probabilmente collabora alla "Crocefissione" in San Clemente. Dipinge per Santa Maria Maggiore un Trittico, di cui rimangono i Santi Girolamo e Giovanni Battista (Londra. National Gallery), l'Assunta (Napoli. Capodimonte), la Fondazione di Santa Maria Maggiore, anch'essa a Napoli, e vari Santi, piccoli riquadri del Trittico, sparsi in varie collezioni. 1428. Muore improvvisamente a Roma (Vasari: "è si morì nel bel del fiorire". A Firenze la notizia si diffonde in questi termini: "Dicesi morto a Roma per veleno"). Il nome, derivato da Tommaso, è certamente indicativo del carattere difficile e scontroso di questo pittore. Rimane orfano a cinque anni ed "è da ritenere che la sua infanzia sia stata poco felice, piuttosto gravida di ombre e carenze, tutta interiore, secondo la logica del dolore infantile, anche se la cronaca accenna alla benevolenza del patrigno" (Paolo Volponi: Masaccio. Classici dell'Arte. Rizzoli. 1968). L'immagine del bambino chiuso, scontroso, meditabondo, ribelle, accompagna la sua breve storia di pittore. L'episodio de "La distribuzione dei beni", nella Cappella Brancacci, sembra un brano di partecipata autobiografia. La giovane donna dai lineamenti bellissimi è la Madre, il bimbo scontroso ed agitato che con una mano si gratta la testa e con l'altra si aggrappa alle vesti materne è Masaccio. Il corpo di un morto che occupa tutto il primo piano della scena, chiaro riferimento ad un miracolo di San Pietro, potrebbe ricordare il padre morto. 40 La dura realtà che ha conosciuto nella sua infanzia lo porta alla riflessione, all'introspezione, alla ricerca del perchè delle cose, del senso dell'uomo e della sua vita, a scrutare il creato, l'uomo alle sue radici, a scoprire quell'umanità eroica ma vera che combatte per affermare il suo dominio sulle cose, ma che non è meno eroica quando lotta per vivere. L'Umanesimo pone al centro del creato l'Uomo. Ma quale Uomo? Quello di Paolo Uccello, quello di Piero della Francesca, un essere ideale, astratto, perfetto. L'Uomo di Masaccio è invece un individuo reale, con i suoi pensieri, le sue ansie i suoi problemi, le sue miserie, che fa parte dell'umanità che l'artista aveva conosciuto da bambino per le strade del suo paese e che avrebbe ritrovato a Firenze, a Roma. Nel secolo della prospettiva geometrica, che rappresenta l'ordine della ragione in cui tutto si colloca, la prospettiva di Masaccio è più aerea; è spazio e tempo in cui si svolge il dramma dell'uomo, ritmato non secondo le scansioni geometriche della ragione, ma secondo i tempi e le pulsazioni della vita. Elementi caratterizzanti il suo stile. 1- La modernità. Masaccio fu considerato moderno dai critici di tutti i tempi, a cominciare dagli Umanisti (Leon Battista Alberti) e poi dai classicisti (Leonardo e Vasari), dagli Illuministi (Reynolds), dai romantici (Stendhal, Delacroix), dai moderni (Berenson, Longhi, Salvini)... È questo un indice della genialità ed universalità del suo messaggio. Ognuno lo legge e lo interpreta secondo il suo linguaggio, perchè Masaccio si è espresso ai massimi livelli dell'artisticità. I classicisti hanno visto in lui la perfezione della forma, le proporzioni, la riscoperta dell'antico; i romantici il senso del mistero, l'indagine psicologica. Masaccio è "il bono pittore" ideale di Leonardo, colui che sa rappresentare la natura, ma soprattutto sa rendere i "sentimenti delle cose". 2- Naturalismo e realismo. Naturalismo e realismo sono qui intesi non come pura copia della realtà, ma come ispirazione diretta dalla realtà, dalla vita. Non vi sono memorie erudite, mitologiche reminiscenze, nella sua opera; c'è la vita. L'artista non ci racconta la storia passata, ci parla del presente. È ancora il Vasari che ci dice che la sua arte è "viva, realistica, naturale". Ed è "nuova, innovativa", ma le novità che egli porta nell'arte non sono di carattere tecnico: sia nei dipinti su tavola che negli affreschi egli usa metodi e materiali tradizionali; la novità consiste nel suo interesse per la natura, che eredita da Giotto, che rafforza tramite l'amoroso studio delle opere di Brunelleschi e Donatello, suoi amici, e che personalizza grazie alla sua profonda analisi della luce. 3- Classicismo formale. La sua pittura si stacca completamente dalla ancora diffusa tradizione gotica di Gentile da Fabriano. Il suo stile è puro, senza ornato; le sue figure s'impongono come a sbalzo, sostenute da una massa solenne, in contrasto con la linea melodica ed il volume sfumato dell'atmosfera astratta, propria dello stile tardo gotico. 41 Al decorativismo si sostituisce la sostanza, le figure vagamente sognanti dell'iconografia precedente rivelano ora un forte senso di responsabilità, una profonda coscienza morale. Lo stile è sobrio, deciso, vitale, robusto, "terribile nel disegno", lo stile adatto a sostenere e sottolineare i caratteri, i sentimenti, la forza d'animo che i personaggi esprimono. 4- Forte carica psicologica. I primi estimatori di Masaccio furono Leonardo e Michelangelo, che riconobbero in lui due caratteri che li contraddistinguono: Leonardo ne ammirò la capacità di rendere i sentimenti: "mostrò con opra perfetta la natura, maestra dei maestri". Michelangelo lodò molto il suo trittico in Santa Maria Maggiore e disse: "coloro (le figure rappresentate) devono essere stati vivi nei tempi di Masaccio" (Vasari- Vite). "Le figure di Masaccio posano vivamente e perfettamente... L'espressione è così acconcia che gli animi non son dipinti men vivamente dei corpi." (Lanzi- Storia pittorica d'Italia. 1781). Le opere La cronologia dell'opera pittorica di Masaccio, che si concentra nel breve arco di sei anni, non è certa. La successione è suggerita dall'analisi critica dei suoi dipinti, oltre che da alcuni documenti. 1). 1422. Pala di San Giovenale. Opera in tre parti (trittico): al centro è la Madonna con il Bambino e due angeli; a destra (sinistra di chi guarda) sono i santi Bartolomeo e Biagio; a sinistra i santi Giovenale e Antonio Abate. L'opera è datata: 23/4/1422. Scoperta nella Chiesa di San Giovenale a Cascia, presso Reggello, Firenze, è ora sotto restauro alle Belle Arti di Firenze. Fu probabilmente completata in un periodo di tempo piuttosto lungo (due, tre anni), lo stile infatti non è costante: giottesco e tradizionale nei santi Bartolomeo e Biagio, si fa più naturale in Giovenale, per rivelare appieno i caratteri del Nostro nella Madonna con il Bambino. 2). 1424/1425. Sant'Anna Metterza (cioè messa terza, con la Madonna ed il Bambino). cm.175X103. Tempera su tavola. Dipinta per la Chiesa di Sant'Ambrogio, Firenze, è attualmente agli Uffizi. Per lungo tempo fu accettata l'attribuzione del Vasari di tutta l'opera a Masaccio. Determinante fu poi l'esame del Longhi (1940) che attribuì a Masaccio soltanto la Madonna con il Bambino e l'angelo reggicortina di destra e tutto il resto a Masolino, ma critici altrettanto autorevoli (Salmi, 1947, Procacci, 1951, Salvini, 1952) avanzano l'ipotesi che sia di Masaccio anche la Sant'Anna. Nella parte sicuramente di sua mano, Masolino, malgrado sia stato influenzato dalla forte personalità del discepolo e collaboratore, rimane legato agli schemi del tardogotico, dai quali si stacca invece con prepotenza la Madonna con il Bambino: la 42 saldezza della costruzione, la materialità delle figure, la naturalezza dei volti, danno la prima testimonianza della nuova umanità che popolerà le tavole degli artisti del Quattrocento, in contrasto con le auliche, anche se naturali, figure della pittura precedente. La concretezza delle immmagini, nella loro ravvicinata presenza fisica, è quasi urtante: "Molto più si dimostrano vive che contraffatte" (Vasari: Vite). Concorre a dare plasticità al gruppo compatto la luce che proviene da sinistra e che dà origine a forti ombre e ad un trascoloramento delle tinte. 3). 1424/1425. Sagra. Già nel Chiostro del Carmine, Firenze, fu distrutta durante un rifacimento architettonico tra il 1598 ed il 1600. Ricordava la consacrazione della Chiesa, avvenuta nel 1422, e rappresentava la processione del popolo fiorentino, attraverso la piazza, verso la chiesa. Ce ne rimangono purtroppo solo alcuni disegni, di cui uno di Michelangelo, che testimoniano l'impressione che questo affresco, rappresentazione di un evento reale di vita fiorentina, aveva fatto sulla cittadinanza. 4). 1425/1426. Polittico di Pisa. Dipinto nella Chiesa del Carmine, Pisa, per la cappella di famiglia da poco acquistata dal notaio Giuliano di Colino degli Scarsi. Dei 19 quadri di cui era composto ne sono stati rintracciati solo 11 che sono attualmente sparsi in varie pinacoteche. Alcune delle parti fondamentali che sono rimaste sono: La Crocefissione. Napoli. Capodimonte. La Madonna in trono. Londra. National Gallery. L'Adorazione dei Magi. Berlino. Museo di Stato. Martirio di San Pietro e di San Giovanni Battista. Berlino. Museo di Stato. La Crocefissione. 1426. cm.83X63. Legno su tavola. Napoli. Gallerie Nazionali di Capodimonte. In questa sua opera Masaccio ci presenta prepotentemente i caratteri della nuova pittura assieme agli elementi specifici ed unici della sua personalità di massimo pittore: -la mirabile maestria nell'uso del colore. Il mantello della Maddalena in primo piano è, da solo, una sinfonia in tono elevatissimo sul rosso, che si sfuma ed attenua nel mantello di San Giovanni, la cui tunica blu riporta ai toni freddi ma palpitanti del mantello della Madre. - la profondità espressiva dei sentimenti: La serenità del Cristo, lo smarrimento di Giovanni, la disperazione della Maddalena, sottolineata dal gesto drammatico delle braccia, e l'incontenibile dolore della Madre sono espressi con sublime naturalezza. Non è frequente, e non succede a tutti i pittori, che queste due qualità raggiungano tale grado di perfezione. La Vergine e il Bambino. cm.136X73. Tempera su tavola. Londra. National Gallery. Seduta su un trono imponente, nelle cui colonne sono riportati i tre ordini classici, maestosa come una statua romana, la Vergine rivela sotto l'ampio mantello il corpo di una creatura terrena, non lascia indovinare l'immagine idealizzata di una divinità. Il Bambino è nudo come lo vuole la tradizione cristiana, che ne rivela la natura umana, mentre ne afferma quella divina. 43 La base del trono ricorda una sarcofago romano, evidente richiamo alla morte, come il grappolo d'uva che il Bambino sta mangiando, simbolo del sangue che il Cristo verserà sulla Croce per la redenzione dell'umanità. Come gli altri pittori italiani suoi contemporanei, Masaccio usa ancora la tempera ad uovo, mezzo che si è rivelato in questo, come in molti altri casi, delicato, ed ha fatto perdere all'opera molta della vivacità originale dei colori. I delicati ricami della veste e del mantello della Vergine si sono opacizzati; il rosso della veste si è scurito ed il carnato rivela la base verde. Ma la grandiosità dell'opera, la tenera mestizia del volto della madre che presente il triste destino del figlio non perdono valore, se parte degli elementi decorativi sono andati perduti. Non era il decorativismo che interessava a Masaccio! 5). 1425/1427. Affreschi della Cappella Brancacci. Firenze. Chiesa del Carmine. Furono commissionati dalla famiglia Brancacci (Felice Brancacci), che possedeva la Cappella fin dal 1386; furono dipinti probabilmente tra il 1425 ed il 1428 da Masaccio e Masolino e lasciati non finiti a causa della partenza dei due artisti per Roma, dove Masaccio morì improvvisamente nel 1428. L'esilio di Felice, caduto in disgrazia nel 1435 e dichiarato "ribelle" da Cosimo dè Medici impedì che la famiglia Brancacci continuasse ad impegnarsi nella decorazione della cappella; la "damnatio memoriae" da parte dei Medici portò addirittura all'abrasione delle figure rappresentanti personaggi della famiglia Brancacci, dipinte da Masaccio nell'episodio della "Resurrezione del figlio di Teofilo". L'opera pittorica fu completata cinquant'anni dopo da Filippino Lippi, che con rispetto e cura cercò di adottare, per quanto gli fu possibile, i colori dei maestri che lo avevano preceduto, riuscendo così a non alterare l'effetto cromatico). Dopo un primo restauro nel 1670, la cappella corse il serio pericolo di essere distrutta per essere rifatta quando, nel 1690, il marchese Ferrari volle acquistarla per rinnovarla sull'esempio di quella dei Corsini. Vi si oppose la granduchessa Madre, Vittoria della Rovere, su consiglio degli Intenditori dell'Accademia del Disegno di Firenze. Ed i dipinti furono salvi. Nel 1746/1748, la volta ed i lunettoni furono rifatti e se ne persero gli affreschi, opera di Masolino. Il fumo ed il calore sprigionatisi in seguito ad un incendio scoppiato nel 1771 alterarono in alcuni punti le cromie originali; un restauro del 1904, che si proponeva con un composto di uova e caseina di restituire la brillantezza dei colori, provocò la comparsa di muffe che nei decenni seguenti hanno "mangiato" in alcuni punti i colori stessi. I lavori per il restauro del tabernacolo barocco di cui era stata arricchita la cappella tra il 1670 ed il 1674 hanno riportato alla luce alcune decorazioni originali a racemi e due medaglioni con figure, una maschile ed una femminile, che, protette dal marmo, non avevano subito nè le ingiurie atmosferiche nè i danni provocati dall'incendio del 1771 e dai relativi restauri e che quindi hanno permesso di conoscere nella loro realtà originale la vivacità dei colori ed hanno permesso ai restauratori di renderci la Cappella così come essa era cinquecento anni fa. Sono opera di Masaccio: La cacciata dal Paradiso terrestre Il Battesimo dei neofiti 44 Lo sfondo della Resurrezione di Tabita (il resto è di Masolino) Il tributo (ad eccezione del volto di Cristo) Pietro guarisce con la sua ombra La distribuzione dei beni La Resurrezione del figlio di Teofilo San Pietro in cattedra. (Le figure in secondo piano sono in buona parte di Flippino Lippi). Questi affreschi sono l'opera più significativa di Masaccio, che in essi raggiunge i vertici della sua arte, anzi, forse dell'arte pittorica. La sua morte precoce non ci permette di verificare l'esattezza di questa affermazione, ma non si riesce ad immaginare come Masaccio avrebbe potuto eventualmente superarsi. Gli affreschi principali raccontano la vita di San Pietro, con fatti tratti dal Vangelo, dagli Atti degli Apostoli, dalla tradizione; sono inseriti all'interno di una grande "gabbia architettonica", una loggia aperta da tutti i lati, entro la quale gli episodi si succedono secondo un preciso programma. In trasparenza, attraverso gli episodi narrati, si leggono riferimenti alla storia della Firenze del Quattrocento, all'importanza politica della famiglia Brancacci, alla funzione salvifica della Chiesa. a). La distribuzione dei beni. L'intensità dei volti e la forza dei sentimenti (pietà sul volto di Pietro, riconoscenza attonita della donna che riceve, meraviglia interrogante dello storpio) sono sottolineate e scandite dalla solennità del portamento di tutti i protagonisti e dalla naturalezza dell'accadimento. Il fatto avviene nella Firenze del Quattrocento e Masaccio ci mostra la città così come essa doveva essere allora, le strade che egli usava percorrere, sulle quali si affacciavano edifici di stili vari. L'episodio si arricchisce però di problematiche religiose e di problematiche politiche dell'epoca: negli Atti degli Apostoli Pi tro e Giovanni distribuiscono i beni secondo il principio per cui la prima comunità dei cristiani era fondata sull'uguaglianza, la fratellanza e l'amore: a nessuno era permesso possedere più di quanto gli fosse necessario e comunque più degli altri. Anania aveva mentito su quanto aveva percepito dalla vendita del suo podere e così era caduto morto ai piedi di Pietro: la falsa dichiarazione riceve la punizione divina. Accanto alla legge divina c'è però anche quella terrena, l'episodio allude quindi dal punto di vista politico-economico al principio dell'equità fiscale proposta con l'istituzone del catasto. b). San Pietro guarisce con la sua ombra. Il cromatismo è più tenue, in armonia con la discrezione dell'atto. Il contrasto tra gli abiti aulici degli apostoli e quelli dell'epoca, dello storpio e dei malati, così come lo sfondo, con le tipiche case medievali fiorentine dagli sporti aggettanti, con le finestre arricchite dal bugnato, riportano il fatto miracoloso tra le vie di Firenze. Anche i protagonisti ci propongono personaggi dell'epoca: il Vasari premise alla "Vita" di Masolino il ritratto dell'uomo con il cappuccio; forse l'uomo con la berretta blu e la barba bianca è Donatello ed il san Giovanni potrebbe essere un ritratto del fratello minore di Masaccio, pittore lui pure, conosciuto con il soprannome di Scheggia. 45 Con grande sintesi ed efficacia i volti esprimono i sentimenti dei vari protagonisti: di Pietro, conscio della forza risanatrice che sprigiona, dei malati, rassegnati ma fiduciosi, pieni di una speranza mista a stupore e curiosità. Le vesti, bandita ogni ricercatezza dell'ornamento, presentano poche e naturali pieghe; il colore è vero, variato, stupendamente accordato. c). La cacciata dal Paradiso Terrestre. La scena è altamente drammatica. Un'improvvisa maledizione ha colpito ed incurvato Adamo ed Eva, i cui volti esprimono la costernazione. I loro corpi, di un carnato livido, testimoniano la perdita dello stato di grazia. Il nudo non ha più la tensione gotica, ma sembra ispirarsi direttamente agli antichi; la nudità di Masaccio non è però naturalisticamente dettagliata come in Van Eyck o in Botticelli. Il suo procedimento è sempre quello della sintesi e dell'indagine interiore, psicologica e morale, più che del compiacimento nelle perfette forme naturalistiche. 6). 1426/1428? La Trinità. Firenze. Santa Maria Novella. Lo sfondo ripete gli elementi classici di una cappella brunelleschiana, ma le figure hanno i caratteri propri della pittura di Masaccio, per cui non vi sono dubbi sull'attribuzione dell'opera. L'amicizia e la collaborazione con il Brunelleschi lasciano, comunque sia, la loro impronta non solo sull'architettura dello sfondo, ma anche sulla rigorosa scansione dei piani prospettici: - La base dell'altare - Le due figure dei donatori - L'arco della cappella - La Vergine e San Giovanni - Il Crocefisso - Il Padre - La seconda serie di colonne con arco. Il triangolo, simbolo della Trinità, viene adottato nella disposizione totale delle figure, dai donatori al Cristo e, dietro, in prospettiva, al Padre. Archiviati gli aspetti formali, vale la pena di concentrarci sul valore artistico di Masaccio in quest'opera. L'elemento coloristico, malgrado le condizioni non ottimali di conservazione dell'affresco, si presenta ancora con forza: i rossi ed i blu si alternano ritmicamente. Non sono espressi drammatici sentimenti come nella Crocefissione di Napoli; solo la solenne calma della meditazione del massimo mistero della Cristianità, dove Dio Uno e Trino, l'Uomo-Dio, Gesù Cristo, l'Umanità santa e l'Umanità attuale dei donatori, su piani separati ma comunicanti, sono offerti alla meditazione dei fedeli. Forma e sostanza dell'espressione artistica si fondono qui mirabilmente senza sopraffarsi o disturbarsi, nell'essenza del capolavoro, che, per essere tale, non può essere solo forma, ma che è sostanza che si presenta ed offre in forma perfetta. La linea essenziale e severa di Masaccio. 46 L'interesse di Masaccio, come saranno poi quelli di Leonardo e Michelangelo, è troppo rivolto alle idee, ai sentimenti, alle passioni perchè egli si soffermi a descrivere minuziosamente abiti o fogge del vestire. Per Masaccio l'abito è puro complemento dell'immagine, troveremo perciò nei suoi quadri molti abiti aulici indossati dai personaggi della storia ed abiti "moderni" per i suoi contemporanei, che vivono e si muovono per le strade e le piazze di Firenze, dove sono ambientati i fatti biblici da lui raccontati. Gli abiti indossati dai suoi personaggi, siano essi nobili o popolani, hanno una linea semplice, severa, come il loro carattere, tutto compreso nell'interpretare il dramma solenne della vita e sono quindi privi di qualsiasi ornamento o idealizzazione. Così nel "Martirio di Giovanni Battista" il boia porta una semplice veste corta sopra una camicia, mentre il funzionario del Re, che ordina l'esecuzione, porta calze solate ed indossa un corto tabarro. Una gonnella, o meglio cotta d'armi, è indossata anche dal soldato in primo piano. "Nell'Adorazione dei Magi" del polittico di Pisa, intervengono due figure prese direttamente dall'ambiente fiorentino. Indossano il corto mantello, indumento che viene portato fuori dalle mura domestiche sopra tutte le altre vesti, e che conferisce dignità ed eleganza sia quando, allacciato davanti, ricade in morbide pieghe, sia quando è drappeggiato con un lembo sulla spalla. I due giovani portano il cappuccio trattenuto da un mazzocchio di notevoli dimensioni. Anche nella "Trinità" (Firenze. Santa Maria Novella) i donatori indossano mantelli con cappuccio, come si conveniva a persone di una certa età e di un certo rango. Nella scena del "Tributo" San Pietro indossa un abito aulico, mentre l'esattore delle tasse indossa una corta gonnella sulle gambe nude. Nell'episodio di "Pietro che risana con la sua ombra", il primo degli accompagnatori, in abiti "moderni" (con ogni probabilità Masolino da Panicale) porta un cappuccio acconciato sulla sommità del capo in modo nuovo: non è infilato e foggia e becchetto diventano elementi ornamentali. Porta una berretta anche l'uomo sullo sfondo (Donatello secondo alcuni). Una corta veste, tipico abbigliamento popolare, è indossata dal primo miracolato, in piedi con le mani giunte. Anche la donna con il bimbo in braccio, al centro della scena della "Distribuzione dei beni", è vestita in modo semplicissimo, come usavano le popolane. Nella "Resurrezione del figlio di Teofilo", la figura di spalle, inginocchiata davanti a San Pietro, porta invece un indumento importante ed elegante, una pellanda, con maniche lunghe e larghe, e pieghe sul dorso. Nella prima metà del Quattrocento la pellanda era indossata anche dagli uomini, lunga fino ai piedi, per gli eventi importanti, corta per le occasioni comuni, quasi sempre di tessuti preziosi, spesso foderata e bordata di pelliccia. Nell'episodio della "Resurrezione di Tabita", di cui solo lo sfondo è opera assegnata a Masaccio, mentre le figure si ritengono dipinte da Masolino, i due giovani al centro ne indossano due bellissime, una di velluto affigurato, l'altra di panno rosato. 47 PIERO DELLA FRANCESCA 1420-1492 Nasce a Borgo San Sepolcro (ora Sansepolcro), nell'alta valle tiberina, presso Arezzo, in data incerta, tra il 1410 e il 1420, da padre calzolaio e conciapelli. Un documento del 1439 lo indica come aiutante di Domenico Veneziano. È questo l'unico legame diretto di Piero con la scuola d'arte fiorentina, ma a Firenze, dove compie il suo apprendistato, si vive ormai all'ombra dell'ardita cupola del Brunelleschi, ci si forma secondo le teorie esposte dall'Alberti nel suo trattato sulla pittura, si ha sotto gli occhi la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella. E così, se nella pala di Santa Lucia, capolavoro del Veneziano, si riconoscono le tonalità chiare del rosa e i tenui riflessi del verde che tanta parte avranno nell'opera di Piero, è la prospettiva brunelleschiana quella che ricorre in tutte le sue opere. Per comprendere Piero della Francesca, bisogna innanzitutto ricordare che egli è pittore, ma anche filosofo e matematico, come testimoniano le sue opere scritte, tra le quali, illuminanti sulla sua pittura, ricordiamo: "De Prospectiva pingendi" e il "Libellus de quinque corporibus regularibus". Ripassiamone i concetti fondamentali, come espressi nella teoria prima e poi nella pratica della sua produzione pittorica: a) Per Piero della Francesca la perfezione sta nell'identità totale di spazio-tempoluce-forma. La natura, persone e cose, sono, nella chiarezza dell'intelletto matematico di Piero, attualizzazioni di ideali forme perfette. Non esistono nelle sue rappresentazioni dubbi, aneliti, ansie o tensioni: il fenomeno è la realizzazione di un'idea perfetta, razionale o morale che sia, e come tale È; tra idea e fenomeno c'è identità assoluta. La poetica di Piero, la sua artisticità, consiste nella rivelazione di queste verità non attraverso il freddo rigore della logica, ma attraverso "la rosa ineffabile dei colori pieni, chiariti, come felicitati dalla luce" (Longhi). b) La realtà è quindi sempre rappresentata sotto forme perfette: il cerchio, la sfera, l'ovale, il cilindro, il triangolo equilatero, il quadrato, i corpi regolari che costituiscono l'essenza del reale. c) La prospettiva stessa è reinterpretata; non è spazio, sia pur perfetto e razionale, entro il quale collocare le cose; non è schema ottico; è essenza della realtà, perchè la realtà è ordine assoluto; la prospettiva è lo specchio dell'ordine del reale, non lo schema entro il quale ordinare il reale: L'ordine è realtà reale, non solo mentale. d) Il tempo a sua volta non ha più ragione di essere; ogni problema storico è sempre uguale a se stesso; ogni atto è fisso, eterno, fuori dal divenire. In quest'ottica la pittura di Piero della Francesca rappresenta l'essenza della razionalità, il simbolo della certezza, la purezza dei sentimenti, l'assoluto, per cui le emozioni che prevedono una causa ed un effetto in Piero non esistono. Nel Battesimo, nella Flagellazione, nella Madonna di Senigallia, per citare solo alcune opere, le figure, nei loro atti, atteggiamenti, sentimenti, sono immobili, immutabili. L'arte di Piero ci comunica una serenità solenne, ieratica, perfetta. Egli ci consegna un mondo in cui regna l'accordo totale tra gli esseri del creato: è l'iperuranio, il riso dell'universo". Le pose statuarie, i gesti sospesi, il gigantesco, il senso sacrale delle sue rappresentazioni sono elementi essenziali alla sua poesia. 48 La mirabile sintesi di luce, colore, prospettiva fa sì che ogni sentimento, ogni atto, siano fissati al di fuori del tempo mutevole, in uno spazio razionale, non soggetto ad alcun turbamento. La luce, più che dall'esterno a illuminare o evidenziare gli oggetti, sembra provenire dall'interno delle figure, per sostanziarne meglio la forma e l'essenza. È una luce solare, totale; luce di cielo aperto, profondissimo, che dà splendore ad ogni cosa. I colori servono a scandire i volumi; per quanto in genere siano tenui, essi sottolineano le forme, le separano ed insieme le mettono in relazione, creano rapporti fra di loro; ogni colore perciò, seppur diverso, è sempre proporzionalmente composto dai colori dominanti vicini. "Sembrano, in Piero, i colori nascere per la prima volta, come elementi di una invenzione del mondo... Piero ci rese quel colore della natura che per la prima volta si tinge all'arrivo del primo raggio di un sole appena creato." (Longhi). Colori chiari, quindi, puliti, non ancora mescolati a nulla che li possa inquinare, intrisi della purezza della luce nuova. In tutti i tre periodi della sua attività sono evidenti queste caratteristiche essenziali che sono il fondamento della pittura di Piero della Francesca; ogni periodo ha però qualche peculiarità sua propria. Le prime opere riflettono con maggior puntualità e rigore le teorie metafisiche di Piero. Nel periodo di mezzo, quello delle Storie della Vera Croce, l'effetto drammatico del racconto e degli eventi che si succedono offre materia a qualche indagine psicologica, avvicina un po’ l'assoluto al reale: la vita, con i suoi drammi e sentimenti, pur non intaccando le certezze di Piero, lascia qualche traccia sui volti di alcuni protagonisti. Il terzo periodo infine risente dei rapporti con l'arte fiamminga. Per la prima volta si nota una certa attenzione alle piccole cose (gioielli, cestino sulla destra nella Madonna di Senigallia), agli ornamenti, descritti nei minimi particolari (tappeto nella Pala di Brera). La forma mentis razionale e matematica di Piero ha trovato nell'artisticità e nel suo senso pittorico il filtro magico, la pietra filosofale, che la ha trasformata in poesia. La riscoperta di Piero, dopo lunghi secoli di dimenticanza, si ricollega all'apparire sulla scena dell'arte dei nuovi movimenti, del cubismo, dell'esistenzialismo, del surrealismo e dell'astrattismo. Tutti questi movimenti hanno trovato in lui dei riferimenti che ci sembrano accettabili non in quanto egli possa essere considerato il padre di tutte queste correnti, ma solo in quanto la sua arte già conteneva in sé messaggi che sono stati, a distanza di secoli, riscoperti e approfonditi. Le opere Polittico della Misericordia. Probabile inizio dell'opera anno 1448. (Ventitre tavole). Tavola centrale. La Madonna della Misericordia. 1460(?) cm.134X91. Pinacoteca Comunale di San Sepolcro. Il concetto essenziale espresso in quest'opera è la fiducia dei fedeli nella protezione della Vergine. L'assoluta razionalità dell'impostazione è evidenziata dalle forme geometriche: il cilindro centrale del corpo della Madonna che termina nel perfetto ovale del volto; il semicerchio (la cupola, quasi si direbbe, o l'abside) costituita dal mantello; la perfetta disposizione simmetrica degli oranti, a loro volta configurati in due semicerchi. 49 La definizione delle figure è chiara; non esistono zone d'ombra; i colori e i volumi risentono ancora della forte personalità di Masaccio. L'oro del fondo (requisito imposto dai committenti nel contratto, in cui si dice: "palam deauratam de auro fino et coloratam de finis coloribus") accentua il senso della sacralità. Il volto di scorcio, sulla destra, viene comunemente indicato come un autoritratto di Piero. Battesimo di Cristo. 1448-50. cm.167X116. Londra. National Gallery. Si riscontrano in quest'opera gli elementi fondamentali della pittura di Piero: L'immobilità, la mancanza di azione, la mancanza del divenire, la mancanza di emozioni. La luce totale esprime la certezza nella chiarezza della ragione. Le forme sono ideali, pure; gli esseri (fiume, albero, uomini) incarnano le forme geometriche ideali. Umanità e natura sono riportate all'ideale mondo platonico dell'iperuranio dove tutto è perfetto, per cui nulla deve cambiare, muoversi o agitarsi; tutto deve solo essere. Il colore è esso stesso essenza di luce, chiaro e luminoso, senza ombre o gradazioni. Nelle forme domina l'elemento cilindrico. L'albero sulla sinistra dà alla composizione il motivo che si ripete nel Cristo, nei tre angeli, negli alberi dello sfondo. Il battezzando, incurvato, che si spoglia, accompagna le curve regolari delle anse del fiume. La flagellazione. 1455. cm.58X81,5. Urbino. Galleria Nazionale delle Marche. È una delle opere più complete: ogni figura è chiara e definita sia in primo piano che nel fondo, prende luce da se stessa, sta con le altre, ma in sé e per sé, nell'immobilità del proprio essere. Lo spazio è scandito con il massimo rigore prospettico, senz'ombre né luci, fisso e immutabile come l'istante e l'eternità. I toni dei colori sono perfettamente proporzionati e mediati, senza fragore, senza toni squillanti. Le forme perfette, riprodotte nell'architettura, si rivelano nelle figure umane, nei corpi (cilindri) e nei volti (cerchio e ovale). La corte di Urbino, idealizzata, è l'ambiente perfetto in cui si collocano i protagonisti di un fatto che non accade. I personaggi sembrano insensibili, senza alcuna espressione eccetto quella essenziale della coscienza dell'essere: Piero sa mettere sulla tela i concetti più astratti, filosofici e matematici: l'essenza dell'essere, la purezza del colore, la luminosità della luce. Egli scrive in versi pittorici le rigorose leggi matematiche e le astratte definizioni filosofiche. La purezza delle idee e l'armonia delle leggi della scienza si realizzano nell'eterna bellezza e armonia del creato in cui l'uomo, centro e dominatore, è ritratto con lo stesso amore con cui vengono ritratti il mondo vegetale e la natura inanimata. L'indagine filologica ha cercato di identificare i diversi personaggi della scena, soprattutto i tre in primo piano sulla destra. Il giovane al centro, secondo alcuni, dovrebbe essere Oddantonio da Montefeltro, fratellastro di Federico. Ai suoi lati sono Manfredo del Pio e Tommaso dell'Agnello, due cattivi consiglieri che portarono Oddantonio a decisioni impopolari che causarono la congiura dei Serafini e la morte del giovane Principe. Altri accanto a Oddantonio vedono i suoi due assassini, il Serafini appunto e il Ricciareli. Secondo altri i tre sarebbero principi predecessori di Federico nel governo di Urbino. La storia della vera Croce. 1452-1460. Abside della Chiesa di San Francesco in Arezzo. 50 Val la pena ricordare la leggenda che ha impegnato Piero della Francesca per circa otto anni in quest'opera grandiosa: Su una parete dell'abside vediamo Adamo morente che ordina al figlio Seth di chiedere all'angelo guardiano del giardino dell'Eden l'olio di salvazione che gli era stato promesso al momento della cacciata. Seth ottiene solo tre semi da porre in bocca al padre ormai morto. Da quei semi germoglierà l'albero destinato a fornire il legno per la Croce del Salvatore dell'umanità. L'albero cresciuto è tagliato ed usato per fare un ponticello, a Gerusalemme, sul laghetto di Siloe. Durante il suo viaggio a Gerusalemme per incontrare re Salomone, la Regina di Saba ha un'ispirazione e riconosce il Legno. Si inginocchia e lo adora. Quando viene a conoscenza dei fatti, Salomone ordina che il legno sia rimosso e nascosto, perchè non venga usato come strumento di morte per il Messia. Sulla parete opposta sono illustrati fatti che sono ricordati nel Nuovo Testamento e che hanno inizio con L'Annunciazione della nascita di Cristo. La narrazione pittorica continua con il sogno di Costantino e la sua vittoria su Massenzio, sul ponte Milvio, nel segno della Croce. Secondo la leggenda, Elena, madre di Costantino, nella sua ricerca della vera Croce, si imbatte in un Ebreo, che sa dove la croce è sepolta, ma non vuole rivelare il luogo e viene quindi torturato ed abbandonato in un pozzo per sette giorni. Alla fine l'Ebreo si converte ed aiuta nella ricerca. Vengono ritrovate tutte tre le croci che erano state alzate sul Calvario e si riconosce quella su cui era stato sacrificato il Cristo perchè al suo contatto un morto viene resuscitato. Successivamente (605 d.c.) il re persiano Cosroe si impossessa della vera Croce e la pone a ornamento del suo trono. L'imperatore cristiano Eraclio affronta Cosroe e lo vince. Gli chiede di convertirsi al Cristianesimo e al suo rifiuto lo uccide, quindi riporta la croce a Gerusalemme, alle cui porte l'attende un gruppo di dignitari in ginocchio. Tutto ciò che è stato detto su Piero e la sua poetica trova riscontro in quest'opera, la cui vastità, anche temporale, è tale da non permettere che lo stile si mantenga costante. Nell'ultima parte, quella che va dal sogno di Costantino alle battaglie, i colori si fanno più vivaci (è evidente il contatto con la pittura fiamminga), l'assoluta staticità e certezza si incrinano talvolta per lasciare spazio al movimento e all'emozione. Sicuramente la struttura e la parte essenziale dell'opera, inclusa l'esecuzione, sono di Piero, ma alcuni particolari risentono della collaborazione di altri artisti. Il ciclo ci propone in sintesi estrema la storia dell'umanità da Adamo ai giorni di Piero; nobili e contadini, dame e cavalieri, guerrieri e sacerdoti in abiti antichi (immaginati) e contemporanei. Ogni personaggio È nell'essenza e solennità del suo esistere; i suoi gesti sono fissati nell'immutabile staticità del mondo delle idee pure, incarnazione delle forme elementari, archetipo del creato. Adorazione del Sacro Legno e Incontro di Salomone con la Regina di Saba. cm.336X747. Nell'episodio della regina di Saba e le sue ancelle, osserviamo: - le forme geometriche essenziali: le figure sono praticamente uguali per sottolineare l'elemento volumetrico delle loro forme e presenze, più che la loro individualità. - la chiarezza: tutte le figure, benché siano poste su piani diversi, ricevono la stessa luce e sono oggetto della stessa accurata descrizione. 51 i colori: sono tenui e delicati; domina il tipico, inconfondibile rosa di Piero della Francesca, ma sono notevoli anche il marrone-terra bruciata e il verde. Nel particolare della Regina di Saba. Sono notevoli: - l'armonia del movimento delle mani che disegnano un quadrato la cui diagonale è tracciata dal collo e dalla testa della Regina. - la luce, che pare uscire dall'interno del perfetto ovale del volto e dal tronco di cono del collo. Nel particolare del seguito della Regina osserviamo: la mirabile armonia dei colori. la perfetta simmetria delle linee (cappello e volto; collo del cavallo e avambraccio del cavaliere). la solenne immobilità dei protagonisti. L'incontro di Salomone e della Regina di Saba La solenne figura del Re (un quasi perfetto parallelepipedo) fa da fulcro alla scena, racchiusa nella tipica prospettiva di Piero della Francesca. Il gruppo delle ancelle del seguito della Regina e quello dei dignitari del Re ripetono nelle forme, luce e colori, i caratteri essenziali della pittura di Piero. L'Annunciazione. cm.329X193. Si svolge nello stesso ambiente della Flagellazione. La colonna centrale, assieme agli architravi, scandisce gli spazi, creando quattro rettangoli compositivi entro i quali si collocano tre figure e una finestra. Non esistono angoli d'ombra. È notevole la perfezione delle linee nel particolare della Vergine: l'ovale del volto, gli occhi, il collo, la scollatura del vestito e del mantello. La Maddalena. 1460. cm.190X180. Arezzo. Duomo. I colori sono puri, alti, brillanti, senza alcuna sfumatura. Possentemente costruita come "un'architettura umana", questa figura che si staglia contro un cielo terso appare immersa in una luce nitida che ne modella i volumi. Battista Sforza e Federico da Montefeltro. 1465. cm.47X33. Firenze- Uffizi. Si avverte l'influenza della minuziosa ritrattistica fiamminga, nei particolari dei gioielli, degli ornamenti degli abiti, dell'acconciatura. Mirabile e accurata è la descrizione della natura sia nello sfondo dei ritratti sia nei particolari dei trionfi dei due personaggi che ornano il retro della tavola. Madonna di Sinigallia. 1470. cm.61X53,5. Urbino. Galleria Nazionale. Il dettaglio, la cura dei particolari, la doppia luce (una luce frontale ed una che proviene dalla finestra posteriore) indicano anche qui le nuove aperture di Piero; ma la solennità delle figure, le "proporzioni" coloristiche, la saldezza dei volumi, la geometricità delle linee testimoniano come non sia stata intaccata la poetica del maestro che trova in quest'opera una delle sue più alte espressioni. Pala di Brera. 1472-74. cm.248X170. Milano. Accademia di Brera. È il riassunto finale dell'opera di Piero della Francesca. 52 Tutti i motivi della sua arte sono riproposti in quest'opera, in cui tuttavia si nota qualche concessione al figurativo realistico, rispetto all'assolutezza razionale delle sue opere migliori. Le figure riproducono esattamente lo schema dell'abside per sottolineare l'unità tempo-spazio-luce. L'uovo sospeso al centro è il motivo volumetrico formale della composizione (come lo fu il cilindro nel Battesimo). È questa l'ultima opera nota di Piero, che, divenuto cieco (Vasari: Vite), abbandonò la pittura e si dedicò alla speculazione filosofica e matematica. Essa testimonia "con segni d'arte pittorica" le idee fondamentali dell'Umanesimo e del Rinascimento: la suprema convergenza di idea e realtà, fisica e metafisica, fenomeno e sostanza e la perfetta armonia del creato, di cui l'uomo è centro. Colori intrisi di luce e forme di purezza esemplare per le sfilate di Piero della Francesca. La moda di Piero presenta le stesse caratteristiche della sua arte. Le forme geometriche assolute sono trasfigurate in altissima poesia dalla purezza dei colori. Alle sognate donzelle di Paolo Uccello, Piero sostituisce delle figure femminili solide, solenni, ma assolutamente ideali. I loro volti, le spalle, il corpo si piegano alle forme geometriche, - cilindro, tronco di cono, sfera,- fino quasi a sfiorare l'innaturale, l'inverosimile. Gli abiti, di linea semplice, senza orpelli ed ornamenti, si accompagnano a queste forme, le sottolineano e le ravvivano. Polittico della Misericordia. La Madonna indossa una veste semplice di un bel rosso corallo, le cui pieghe sono trattenute da una leggera cintura alta che segna appena appena la vita, per non interrompere la forma geometrica regolare del corpo Un ampio mantello, dallo scollo perfettamente ovale, si apre a riprodurre lo spaccato di una cupola. I mantelli, le vesti, le pellande dei supplicanti ripetono le stesse forme regolari. I tre enigmatici personaggi in primo piano a destra nella "Flagellazione di Cristo" presentano abiti che sono comunemente indossati nelle tre diverse età della vita di un uomo: il giovane indossa un semplice guarnello, la persona di mezza età un leggero mantello, il terzo personaggio una preziosa sopravveste lunga, in broccato, rivestita di pelliccia. Compaiono qui i tre elementi solitamente indossati uno sull'altro: la camicia, la veste e la sopravveste. La Madonna del parto (Monterchi- Arezzo. Cappella del Cimitero), i cui capelli sono come al solito ben raccolti per evidenziare l'ovale del volto, indossa una gamurra con aperture laterali e frontali che permettono all'abito di adeguarsi alle forme anatomiche che mutano con il progredire della maternità. Le aperture, dalle quali traspare il bianco della camicia, presentano fori per i laccetti di chiusura; sono gli stessi fori e laccetti che compaiono nelle pettorine e nelle maniche delle normali gamurre. Le chiusure con laccetti sono comuni nel Quattrocento, quando è passata di moda la bottoniera, così frequente nel secolo precedente. Lo stesso desiderio di praticità che notiamo nella gamurra indossata dalle donne che aspettano un bambino guida la mano dei sarti che all'epoca praticano due fessure in corrispondenza dei seni perchè le mamme possano allattare i loro bambini. Si veda Cristoforo Sacco: Madonna con Bambino (fine Quattrocento. Allen Memorial Art Museum. Ohio) e Crivelli: Madonna col Bambino in trono). 53 Forme geometriche essenziali, colori chiari, puri, luminosi danno vita a quella sfilata di Moda che è la Storia della vera Croce. Nella visione d'insieme della "Adorazione del legno" da parte della Regina di Saba ed in quella del suo "Incontro con Salomone" possiamo apprezzare la squisita luminosità dell'immagine, l'ammirabile armonia dei colori, ma anche la varietà degli elementi dell'abbigliamento. Inginocchiata davanti al Sacro Legno, la Regina indossa un mantello azzurro su una semplice veste marrone, al cui scollo si affaccia la bianca camicia, un filino della quale compare anche all'apertura delle maniche, là dove, nel Trecento, eravamo abituati a vedere una fila di bottoncini. Il bianco velo, sulla pettinatura a cono, è fermato da una leggera corona d'oro. In primo piano, al centro della scena, un'ancella indossa su una cotta color morello, una splendida giornea bianca, completamente aperta ai fianchi, “affrappata” ed allungata in un morbido strascico. Morbido e ricco è lo strascico della pellanda rosa dell'altra ancella, dalle cui maniche non infilate, secondo l'uso corrente, escono quelle della gamurra azzurra. La varietà del taglio delle maniche nell'abbigliamento del Quattrocento è testimoniata dalle altre vesti, dove esse sono o lunghe e strette o divise in due parti: una, stretta fino al gomito, s'infila in quella a sboffo dalla spalla al gomito. Varie e raffinate sono le acconciature di tutte le donne, da quella a cono della Regina, a quelle delle ancelle, a sella, a bicorno, a rotoli fermati da nastri. Sulla bianca camicia gli staffieri indossano eleganti sopravvesti corte che le cinture raccolgono in pieghe armoniose; portano cappelli da viaggio e scarpe solate. I loro volti sono completamente sbarbati ed i capelli tagliati corti, come d'uso tra i giovani. Nella scena dell'incontro, mutati i colori, gli indumenti femminili sono gli stessi; si può però notare, nella terza ancella verso destra, un atteggiamento comune all'epoca; ella solleva infatti sul ventre un lembo dell'ampia pellanda, per mettere in evidenza la veste di sotto. La sua posa ci ricorda quella in cui fu ritratta da Van Eyck la sposa di Pandolfini, posa che ha spesso tratto in inganno, facendo pensare a una imminente maternità della giovane donna. (Vale la pena ricordare che nel simbolismo dell'epoca tale atteggiamento della sposa stava ad indicare la sua disponibilità nei confronti dello sposo.) Vari sono gli indumenti degli uomini. Salomone porta uno splendido mantello broccato d'oro. Il giovane in primo piano indossa sulla sopravveste lunga al ginocchio un mantello double face e porta in capo il cappuccio, il solito cappuccio a gote che, come già abbiamo visto altrove, era da un pezzo considerato fuori moda se acconciato secondo l'antica consuetudine e che veniva quindi girato sulla testa in modo vario. Fra gli altri dignitari del Re si nota l'uomo maturo, nella sua veste dottorale foderata di pelliccia, con il berretto dottorale, a falde rivoltate, ornate anch'esse di pelliccia. La linea di tutti gli indumenti, siano essi maschili o femminili, è purissima; assoluta è la mancanza di ornamenti o gioielli di qualsiasi sorta. Nella Madonna dell'"Annunciazione", secondo periodo di Piero, le forme geometriche si attenuano per dare maggiore spazio alla naturalezza; la cintura segna i fianchi, fili di perle impreziosiscono l'orlo del mantello. 54 L'abbigliamento popolare è documentato nel particolare del "Ritrovamento della vera croce". L'indumento più comune indossato dalla gente del popolo era il guarnello, un camicione dal taglio semplicissimo; venivano però indossate anche le gonnelle, come documentato in questo caso dalle due prime figure da sinistra. Una delle gonnelle presenta l’abbottonatura sul petto. L'abbigliamento del terzo personaggio è completo e caratteristico dell'epoca. Il lavoratore indossa un farsetto sulla camicia bianca e porta leggere scarpette su calze solate. Le calze solate, all'epoca, erano ancora di stoffa, aderenti alle gambe ed alle cosce, ed impedivano quindi la scioltezza dei movimenti, così che, per lavorare, venivano slacciate e lasciate ricadere sulle gambe. Rimaneva in vista la camicia (e talvolta, come in questo caso, anche le mutande). Nella tavola seguente, particolare della Battaglia di Eraclio contro Cosroe", è messo chiaramente in evidenza il modo in cui le calze, separate l'una dall'altra, erano allacciate al farsetto. Nel terzo periodo dell'attività di Piero, le figure si allontanano più decisamente dall'esasperato geometrismo: i volti prendono un aspetto più naturale. Permangono la solennità, la chiarezza e soprattutto la luminosità dei colori, puri, forti, complementari, che la luce unifica ed ammorbidisce. Ritratto di Battista Sforza. Alla semplice sopravveste nera danno sfarzo le maniche in panno d'oro, il più ricco di tutti i tessuti, fiore all'occhiello della produzione tessile italiana, largamente esportato all'estero. La ricchezza e potenza della famiglia da cui la donna proviene e di quella in cui è entrata dopo il matrimonio sono attestate dallo splendore dei gioielli: i tre fermagli gemmati che impreziosiscono l'acconciatura complicata, fatta di capelli arrotolati e chiusi da nastri, illeggiadriti da un pannolino arricciato e da ciocche di capelli liberi, la bocchetta gemmata che circonda il collo, il vezzo di perle che finisce con una gioia. Contrasta lo sfarzo di Beatrice la severità dell'abbigliamento di Federico da Montefeltro. La semplicità della veste è addolcita dal bianco colletto della camicia. Federico porta, sui capelli corti, con taglio rotondo intorno alla testa, la berretta alla capitanesca, rossa e tonda, stretta alla base e slargata verso l'alto. È la stessa berretta che portano Francesco Sforza (Maestro Lombardo. 146O. Milano. Brera.) e Ludovico Gonzaga quando riceve il figlio, Cardinale Francesco (Mantegna. Mantova. Camera degli Sposi). 55 SANDRO BOTTICELLI Firenze - 1445/1510 Alessandro Filipepi, detto Botticelli: il cognome con il quale è conosciuto gli deriva dal fratello maggiore, Giovanni, che faceva il sensale e che per la sua corporatura abbondante veniva soprannominato "Botticello" (Giovanni, di 24 anni maggiore di Sandro, portava spesso con sè il fratellino che venne, forse, considerato suo figlio: figlio di Botticello, quindi, alla latina, Botticelli). Si hanno notizie certe di Botticelli da una dichiarazione del padre (Mariano, conciapelli, maestro di bottega) che comunicava al catasto che Sandro, di tredici anni, "sta a leggere ed è malsano". Quasi certamente era delicato di salute; i ragazzi delle classi medie, infatti, a quell'età erano già stati messi a lavorare, per aiutare la famiglia. A 15 anni Botticelli diventa apprendista orafo, poi entra a far parte della bottega di fra Filippo Lippi, protetto prima da Cosimo il Vecchio, poi da Piero il Gottoso e dalla moglie Lucrezia Tornabuoni, i genitori di Lorenzo il Magnifico, i primi forse a riconoscere il genio del giovane Sandro. Dalla bottega del Lippi, passa a quella del Verrocchio (frequentata dai giovani artisti rampanti nella Firenze dei Medici) e, dopo essere stato per un certo periodo socio del Verrocchio, nel 1470 diventa pittore in proprio (tra le prime commissioni ufficiali dell'epoca c'è quella dell'allegoria della Fortezza, per il tribunale della Mercatanzia). A Firenze intanto, morto Piero il Gottoso, il potere passa nelle mani dei suoi due figli, Lorenzo e Giuliano. All'impegno politico Giuliano preferisce gli amori ed i piaceri, che non mancano certo a Firenze; Lorenzo è invece grande politico, intellettuale e mecenate per spirito, per stato d'animo, non per convenienza. Artista e poeta, vuole fare risorgere sulle rive dell'Arno una novella Atene di Pericle; si circonda di artisti e letterati, che si incontrano nei suoi "orti" (giardini) dove trascorrono i giorni impegnati in dotte discussioni e in piacevoli conversari con fanciulle dolci e languidi giovinetti. Anche Botticelli frequenta questo ambiente, ma vive solo per la pittura; ostile al matrimonio, non ha profondi legami sentimentali, canta però gli amori altrui ed in particolare quelli di Giuliano: sullo stendardo che lo precede per la Giostra, Giuliano porta, dipinto da Botticelli, il ritratto di Simonetta Cattaneo Vespucci, il suo amore grande, la donna bellissima ed onesta che tutta Firenze ama e di cui piangerà la morte. Due anni dopo la Giostra Giuliano muore, vittima della congiura dei Pazzi. Lorenzo è ferito, ma si salva; la sua reazione è tremenda: i congiurati (tra cui il vescovo Salviati) vengono impiccati ed al Botticelli tocca l'ingrato compito di dipingere la truce scena dei "penduti". Il Papa condanna l'operato di Lorenzo ma poi perdona, e Sisto IV invita a Roma i pittori fiorentini (Perugino, che è diventato fiorentino di adozione, Botticelli, Ghirlandaio, Rosselli) per dipingere la cappella che da lui prenderà il nome, la Cappella Sistina. 1482: Botticelli torna a Firenze, sono questi per lui anni di gloria, non dipinge in genere ritratti, ma i personaggi dell'epoca sono presenti, ritratti, nelle sue opere. Il clima di Firenze sta però cambiando; gli oppositori dei Medici sono ora Savonarola ed i suoi seguaci; il monaco domenicano si scaglia contro la corruzione, i costumi rilassati della corte medicea e di conseguenza contro l'arte che di quella corte è il 56 prodotto. Firenze si divide tra Palleschi, fautori dei Medici, e Piagnoni, seguaci del Savonarola. 1492: muore Lorenzo e con lui finisce la politica dell'equilibrio che aveva mantenuto in pace gli stati italiani. 1494: Calata in Italia di Carlo VIII. Cacciato l'incapace Piero, che aveva ceduto Firenze a Carlo VIII, la città proclama la Repubblica. Ora Savonarola è arbitro del destino politico di Firenze, ma gli sono nemici gli Arrabbiati. Le lacerazioni della vita cittadina si riflettono nell'animo di Botticelli, già tormentato dal dubbio generato dalle prediche del Savonarola, e avviene in lui (savonaroliano, prima di essere piagnone) una conversione, non religiosa, perchè mai aveva perso la fede, ma artistica. Abbandonati i cantori dell'attimo fuggente, si volge a chi aveva cantato "le cose eterne", e illustra la Divina Commedia. 1498: Il Savonarola, che con le sue accuse e denunce si era reso nemico il potente Alessandro VI Borgia, viene catturato, impiccato ed arso in pubblico in piazza della Signoria. È un momento tragico, terribile: a Botticelli sembra si sia scatenato il diavolo sulla terra. Frutto di questo momento sofferto è la "Natività mistica". Sono gli anni del declino fisico dell'artista; mentre declinano le sue forze, anche le commissioni si fanno meno frequenti; conosce persino qualche problema di carattere economico. 1510: muore all'età di 65 anni. L'artista del Quattrocento è insieme poeta e filosofo e l'opera del pittore è, spesso, la trascrizione in immagini delle sue idee. Questo assioma che aveva dominato la cultura degli artisti dell'epoca non è più valido per tutta l'opera di Botticelli che cresce e si forma culturalmente nel circolo dei Medici (accanto a Pico della Mirandola e Marsilio Ficino), dove si approfondiscono le nuove teorie neoplatoniche. Arte e Filosofia occupano due campi diversi della cultura; devono specializzarsi. La Filosofia studia le Idee, i principi del sapere, i fondamenti della realtà. L'Arte è epressione autonoma: va creata per se stessa; i sentimenti sono modi di essere dello spirito dell'artista; le opere d'arte sono riflesso di questi sentimenti e non mezzo di comunicazione di principi metafisici o morali. In questo senso Botticelli è stato considerato il primo esteta puro: l'arte vive di sè e per sè. In realtà tutta la sua opera è carica di problemi religiosi e morali. Botticelli incontra Leonardo nella bottega del Verrocchio. La differenza d'età è minima, corrono solo sette anni tra i due, ma le personalità sono antitetiche, le poetiche e gli stili sono così lontani da far considerare i due artisti quasi i rappresentanti di due epoche diverse: Botticelli è l'ultimo grande pittore del Quattrocento, Leonardo il primo del Cinquecento. Botticelli rappresenta l'ideale, i sentimenti al di fuori di qualsiasi riferimento e contaminazione con il reale (idealismo neoplatonico) e tende a realizzare nella sua opera il "bello ideale" perchè questo è lo spirito della cerchia neoplatonica presso la quale egli si forma. Leonardo è empirico, antidogmatico: per lui vale solo ciò che l'esperienza del reale ci fa conoscere. Botticelli riprende e reinventa, in chiave di puro estetismo, tutte le esperienze e teorie quattrocentesche. Sente premere una nuova cultura, una nuova filosofia, una 57 nuova concezione del mondo, una nuova pittura. Ma mentre Leonardo prima e Michelangelo e Raffaello poi accolgono le nuove idee (il movimento, la realtà coi suoi chiaroscuri...) Botticelli polemicamente e puntigliosamente si aggrappa alle poetiche quattrocentesche, alla prospettiva, alla chiarezza della linea, all'idealizzazione assoluta delle figure, all'ispirazione classica nei soggetti. Questo contrasto tra il passato e le nuove idee che premono, questa incertezza tra l'assoluto (l'affermazione dell'uomo e della ragione che aveva caratterizzato il Quattrocento) e la variabilità del reale, dell'empirico, che tanto interessa Leonardo, sono forse l'elemento dominante nella pittura di Botticelli. I caratteri fondamentali della sua opera si possono dunque così riassumere: - La malinconia, generata dal dubbio e dall'incertezza. - La perfezione, la purezza formale delle sue figure. - L'idealizzazione totale della natura (il che ci aiuta a comprendere come tante delle sue figure di donna abbiano gli stessi lineamenti. Nel realizzarle, Botticelli si rifà all'idea che sta aldilà di ogni cosa reale). - L'ascetismo allegorico: l'idea religiosa, (il destino come ineluttabile volontà divina che muove il mondo) domina i suoi quadri. I pregi della sua pittura sono: - La purezza dei colori - L'eleganza e la raffinatezza della linea - La poeticità. Tutta la sua opera è lirica pura, descrizione smaterializzata, parola sublimata in versi. La sua produzione fu copiosissima. Fu il pittore ufficiale dei Medici al tempo di Lorenzo il Magnifico e molte delle sue opere ricordano, commentano ed esaltano allegoricamente fatti della vita dei suoi mecenati; altre sono la trasposizione in pittura di testi o allegorie classiche, che i dotti umanisti avevano riscoperto e tradotto. Questa produzione copre il periodo centrale e più fecondo della sua attività. Nell'ultima parte della vita, dopo la morte di Lorenzo e la fine del dominio dei Medici in Firenze, l'influenza del Savonarola si fa più forte; l'ascetismo e il misticismo prevalgono come elementi caratterizzanti della sua pittura. Le opere. 1). Ritratto di giovane (forse autoritratto). 1470ca. Tempera su tavola. cm.51x33,7. Firenze. Pitti. È tra le prime opere del Botticelli. Risente della accuratezza e della precisione dell'allievo di bottega, molto dotato e promettente. 58 2). Ritratto di donna (Fioretta Gorini, amante di Giuliano? Simonetta Vespucci, la donna amata da Giuliano dei Medici? O forse Clarice Orsini, moglie di Lorenzo?). 1475. Tempera su tavola. cm.61x40. Firenze. Pitti. Si nota il grande vigore espressivo, la maestria nell'uso del colore, il sapiente contrasto del fondo in parte chiaro e in parte scuro, per mettere in risalto i lineamenti del volto. La luce, che penetra dalla finestra, attenua e smorza il rosso del vestito; i contorni della figura sono chiari e definiti. 3). Madonna con il Bambino e San Giovannino (Madonna del roseto). Databile tra il 1469 e il 1470. Tempera su tavola. cm.93x69. Parigi. Louvre. È una delle opere giovanili del Botticelli. I lineamenti delle figure si ripeteranno spesso nelle opere successive. Il disegno preciso ma morbido e i colori armoniosamente fusi contribuiscono a definire la purezza stilistica del linguaggio botticelliano. La luce dolcissima ammorbidisce le superfici e i volumi. 4). Madonna con il bambino e due Angeli. 1469-70. Tempera su tavola. cm100x71. Napoli. Galleria Nazionale di Capodimente. 5). La Fortezza. Databile tra il 1469 e il 1470. Tempera su tavola. c.167x87. Firenze. Uffizi. Fu eseguita per l'aula del Tribunale civile dell'arte di Mercanzia in Piazza della Signoria. È evidente l'influsso di Andrea del Castagno (Sibilla Cumana) e del Pollaiolo, le linee sono però molto più morbide, meno scultoree; l'immagine si idealizza e spiritualizza. Non c'è senso di forza o sicurezza, come il tema dovrebbe suggerire, ma di melanconia e pacata dolcezza. (Notevole è l'esasperata perfezione della prospettiva). 6). La Primavera. 1478. Tempera grassa su tavola. cm.203x314. Firenze. Uffizi. È un affascinante intreccio di allegorie umanistiche. Una delle ipotesi più seguite identifica nella composizione il regno di Venere cantato dai poeti antichi e dal Poliziano: nella dolce penombra di un bosco, Zefiro insegue e possiede Clori, la terra sterile, e la trasforma con il suo atto di amore in Flora, simbolo della Primavera stessa, splendida figura dai sinuosi contorni, che sparge fiori sul mondo. Al centro è Venere che raffigura l'Humanitas, l'essenza delle virtù umane che arricchiscono il mondo; a sinistra, nude sotto impalpabili veli, danzano le Grazie, mentre Mercurio, pensoso, addita il cielo: l'amore terreno può sublimarsi e trascendere il mondo sensoriale, fino al elevarsi e raggiungere le sfere superiori. A parte il significato allegorico, il dipinto parla alla fantasia con immediatezza ideale: l'amore si risveglia (Zefiro insegue Clori), i frutti di questo risveglio arricchiscono il mondo (Fiori nei prati, foglie e frutti sugli alberi). Fortissima è la suggestione che proviene da questa opera, dove elementi anche erotici si sollevano ad una spiritualità raffinata e melanconica (le tre Grazie) e dove, nella penombra del bosco fiorito, le snellissime figure, nel loro linearismo fluente e lieve, evocano l'impalpabilità e l'inafferrabilità del sogno. 7). La nascita di Venere. 1485. Tempera su tela. cm.172x278. Firenze. Uffizi. È l'esaltazione della bellezza spirituale, non della bellezza fisica femminile. Tra i significati allegorici c'è anche quello dell'anima cristiana che rinasce dall'acqua del battesimo. La nudità significa semplicità, verità, purezza. A farle da corona e 59 ornamento sono l'acqua la terra e il vento, rappresentati nella loro simbolica essenzialità ed idealità (le onde del mare azzurro sono tutte uguali; il vento ravviva i capelli di Venere...). Il quadro raffigura tre episodi distinti: La coppia di Zefiri che arriva è bilanciata dalla massa dell'ancella che porge il mantello; insieme chiudono quasi in una nicchia la figura di Venere. Il nudo centrale della dea verso cui convergono le spinte laterali, ma da cui tuttavia si isola, è di una raffinatezza tale che ogni riferimento materiale appare fuori luogo. La stilizzazione lineare è di una grazia mirabile. 8). Venere e Marte. dopo il 1480. Tempera e olio su tavola. cm.69x173,5. Londra. National Gallery. Si tratta, probabilmente, di una spalliera o del lato di uno dei cassoni nuziali che contenevano il corredo della sposa. Il soggetto deriva dalla mitologia, ma il modo con cui è reso è del tutto "moderno", botticelliano. L'opera allude forse agli amori tra Giuliano dei Medici e Simonetta Vespucci, il soggetto si presta però a molte interpretazioni: a quella neoplatonica, della "armonia degli opposti" (Venere, dea dell'Amore, e Marte, dio della Guerra), o a quella, anch'essa neoplatonica, della "vittoria dell'Armonia sulla Discordia". Il senso di movimento plastico e di statico linearismo, che contraddistingue la Primavera e la Nascita di Venere, si ritrova anche in questo quadro. La contrapposizione delle masse, collegate dai tre satiri sullo sfondo, testimonia della ricerca di equilibrio che il Botticelli esaspera in tutti i suoi quadri. È, quella della purezza formale, una delle caratteristiche costanti nell'opera botticelliana, che qui si sposa con un colorismo tenue e con la consueta raffinatezza nel disegno. 9). Pallade doma il Centauro. 1482 ca. Tempera su tela. cm.205x147,5. Firenze. Uffizi. La Saggezza (Pallade) domina la duplice natura (istintiva e razionale) rappresentata dal Centauro. Dal punto di vista formale, forza, grazia, sfondi, figure ricalcano gli elementi comuni già considerati in altri dipinti. 10). La Storia di Nastagio degli Onesti. 1483. Tempera su tavola. cm.83x138. Madrid. Prado. La storia è tratta da una novella del Boccaccio (Decamerone, V, 8): Mentre Nastagio degli Onesti passeggia per la pineta di Ravenna, meditando sul suo infelice, non ricambiato amore per la figlia di Paolo Traversari, ha la visione di una donna inseguita da un cavaliere che la uccide, le strappa il cuore e lo dà in pasto ai cani. Nastagio organizza nel bosco dove ha avuto la visione onirica un banchetto per i parenti della fanciulla amata. Narra la storia e convince la riluttante fanciulla a sposarlo. La serie (il cui disegno è di Botticelli, l'esecuzione è in gran parte opera di aiuti) è costituita da quattro pannelli, del tipo di quelli che venivano usati come spalliere nelle camere dei palazzi fiorentini. Fu probabilmente commissionata in occasione delle nozze di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini, perchè sono presenti nei pannelli le armi delle due famiglie. 60 Nelle due tavolette esposte al Prado la composisizione è perfettamente equilibrata; la descrizione della natura è accurata, ma idealizzata, come quella di tutti i protagonisti, che, se anche vestiti come personaggi dell'epoca, hanno le perfette fattezze di figure ideali. 10). Madonna del Magnificat. Tra il 1483 e il 1487. Tempera su tavola. diametro cm.115. Firenze. Uffizi. È una delle opere della piena maturità artistica di Botticelli, che qui rivela la totale maestria nell'uso delle linee, che si piegano alla forma rotonda del quadro senza sforzi o distorsioni. Il movimento lieve e contenuto delle figure è sottolineato da queste linee morbide e precise che delimitano i volumi e arricchiscono i panneggi. La cura dei particolari, nei veli che svolazzano, nel manto della Vergine, nel libro, non ha la puntigliosa precisione delle opere dei Fiamminghi, ma una delicata perfezione tutta botticelliana. 11). L'Annunciazione. 1489-90. Tempera su tavola. cm.150x156. Firenze. Uffizi. In quest'opera di grande tensione drammatica si hanno le prime avvisaglie del profondo cambiamento stilistico del Botticelli. Il sentimento si fa più severo; la malinconia si trasforma in tristezza; la morbida linea dell'incertezza si contorce nell'ansia e nel dubbio. Le stesse pieghe dei vestiti tradiscono la nuova sensibilità, mentre i colori diventano più violenti. 12). Compianto sul Cristo morto. Tra tavola.cm.110x207. Monaco. Alte Pinakoteke. 1490 e 1495. Tempera su 13). Compianto sul Cristo morto. 1495-500. Tempera su tavola. cm.107x71. Milano. Poldi Pezzoli. Il movimento della scena, la tensione dei personaggi e il concitato linearismo testimoniano il turbamento profondo che la predicazione del Savonarola ha portato nell'animo del Botticelli. 14). La Calunnia. 1494-95. Tempera su tavola. cm.62x91. Firenze. Uffizi. Il soggetto del quadro è ispirato da un'accusa di sodomia diretta al pittore e che lo ha profondamente turbato. Le traversie in cui versano i suoi protettori, i Medici, amplificano il suo pessimismo. Mida (Lorenzo dei Medici) è mal consigliato dall'Ignoranza e dal Sospetto. La bella ma falsa Calunnia, accompagnata dall'Invidia e dalla Frode, trascina un innocente (Botticelli) davanti al Re, mentre il Livore precede il gruppo; seguono e la Penitenza e, ultima, la trascurata, nuda Verità. 15. La Natività (Natività mistica). 1501. Tempera su tela. cm.108x75. Londra. National Gallery. Botticelli dipinse la Natività mistica nel 1501, durante uno di quegli eventi che egli stesso definì "torbidi d'Italia". L'opera è complessa e di non facile interpretazione; il sentimento religioso è profondo ma non liberatorio, lo stile è concitato. Nel secolo in cui i pittori fiorentini si erano proposti di ricreare la natura sulle loro tele, Botticelli sembra volerci dimostrare che l'arte è artificio, che vive di sè e per sè. In polemica con Leonardo che ha portato la scienza nella pittura, egli invita a tornare al passato; in uno spazio assurdo, senza tener conto delle conquiste della 61 prospettiva, delle proporzioni, dell'anatomia, su un unico piano disegna le figure piccole o grandi, secondo la distanza, come avevano fatto i primitivi. Le figure più importanti della composizione sono, come di regola, Maria e il Bambino, ma Maria è gigantesca in confronto al neonato. Mentre Giuseppe è perso in contemplazione, guidati dagli angeli arrivano da destra i pastori, da sinistra i Re Magi. Tutti gli angeli portano in mano rami di olivo, simbolo di pace; alcuni di essi li hanno appena consegnati agli uomini che, in primo piano, stanno abbracciando, mentre i diavoli, a questa vista, si precipitano all'inferno. In alto il cielo si è aperto, per rivelare la luce d'oro del Paradiso; qui gli angeli danzano e cantano, reggono in mano rami di olivo legati da nastri che celebrano la Vergine Maria "Madre di Dio", Sposa di Dio", Regina dell'universo". La moda di Botticelli Slancio, movimento, linea sinuosa per la bellezza ideale di Botticelli, esteta e potenziale designer. Botticelli è il pittore della "linea", del contorno continuo, che anima e ravviva le sue composizioni. Se le sue opere fossero svuotate dei colori e dei particolari, lasciando solo la sinuosa linea del contorno, esse non perderebbero di vitalità e freschezza...avremmo dei mirabili "modelli sartoriali". Pittore di grandissimo talento ed ispirazione, poeta dell'idealismo neoplatonico, è anche pittore ufficiale della corte dei Medici. Non produce però, per lo più, ritratti su commissione, ma arricchisce le sue opere a soggetto civile o religioso dell'immagine idealizzata dei personaggi della corte, ci lascia cioè dei ritratti indiretti dei suoi mecenati o dei più famosi personaggi pubblici della sua Firenze. Quando dipinge ritratti di proposito, l'idealizzazione dei personaggi e` tale che è quasi impossibile identificare il soggetto rappresentato. Solo Giuliano dè Medici (Washington. National Gallery), suo grande mecenate, fu riprodotto fedelmente, ma dopo la sua morte, come testimoniano la porta semiaperta e la tortora sul ramo secco (simboli di morte), che compaiono nel ritratto, e l'occhio socchiuso, che ci suggerisce che l'artista ha preso come modello il calco del viso dello scomparso). La sua figura femminile è alta e slanciata, la capigliatura è fluente, i lineamenti sono regolari. Gli abiti sono per lo più leggeri e morbidi a sottolineare l'eleganza sfuggente della linea. Anche gli abiti maschili sottolineano la figura alta e slanciata del suo modello di giovane. Ritratto presunto di Simonetta Cattaneo. Sotto la pellanda si indossa nel Quattrocento la gamurra, la trecentesca gonnella, che definisce nell'evoluzione della sua linea le tendenze del gusto del secolo. Ai modelli goticheggianti dei primi decenni, documentati da Paolo Uccello e dal 62 Pisanello, succede una linea più severa che prelude alle forme rinascimentali degli ultimi decenni e della prima metà del Cinquecento. Così la scollatura che sale sulla gola ed è appena avvallata dietro la nuca viene sostituita da una scollatura arrotondata, in genere non eccessiva, contro la quale si pronunciano le leggi suntuarie che, a Milano, per esempio, addirittura impongono alle donne di chiudere quelle delle vesti che già possiedono, o almeno di coprirle con un tessuto non trasparente. Non è una novità che le leggi suntuarie sembrino fatte per essere trasgredite, e così le donne continuano ad esibire le loro scollature e, quando le coprono, lo fanno con veli così sottili che sembrano evidenziarle piuttosto che nasconderle. Moderatamente scollata, semplicissima, è la gamurra che indossa la giovane ritratta da Botticelli, sulla cui identità sono state avanzate numerose ipotesi. È Clarice Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico, oppure Fioretta Gorini, amante di Giuliano dei Medici? O è davvero la Simonetta Cattaneo, moglie irreprensibile del fiorentino Vespucci, amata di amore platonico da Giuliano ed esaltata da Lorenzo dei Medici e da tutta la sua corte che in lei raffigurano l'ideale della bellezza e della virtù femminili? Poco somiglia alla Simonetta ritratta secondo le sue reali fattezze da Piero di Cosimo o dallo stesso Botticelli nello stendardo da lui dipinto nel 1475, in occasione della celebrazione dell'alleanza di Firenze con Venezia per contrastare l'avanzata dei Turchi, ma in fondo Botticelli, come dice Yukio Yashiro (Sandro Botticelli. Londra-Boston 1925) " in mezzo ad un culto per il realismo troppo esclusivo... fu capace di realizzare una presentazione artistica libera ed eterea" ed Herbert Percy Horne (Alessandro Filipepy, commonly called Sandro Botticelli. London 1908) "le sue figure, mentre ci attraggono per un sorprendente senso di attualità e di sostanza vitale, sono totalmente svincolate dalla natura, intesa secondo un punto di vista ovvio, fotografico." A noi qui interessa la sua gamurra che, nella sua semplicità, può essere considerata il modello fondamentale di questo indumento nel Quattrocento. È dunque modestamente scollata e moderatamente aperta sul petto, dove, sotto i laccetti probabilmente di tessuto, si affaccia la camicia. Il punto vita, ancora alto nel primo Quattrocento, è qui sceso alla sua posizione naturale. Anche le maniche, che presentano allo scalfo e sotto il gomito i tagli che facilitano i movimenti, mettono graziosamente in vista la camicia. Sui capelli che, divisi in mezzo alla fronte, scendono a bande lisce sulle orecchie, è appoggiata una cuffia dalla linea semplice. Allegoria della Primavera. All'arrivo della bella stagione alla combinazione pellanda gamurra si sostituisce quella giornea-cotta. Sono cotte le chiare vesti che indossano sotto le giornee le donne del Ghirlandaio e lo sono quelle, graziose, che compaiono nei dipinti di Botticelli. La cotta è infatti una veste chiara e giovanile, di linea semplice, ma di tessuto in genere prezioso, chiusa spesso da file di bottoni o da nastrini, impreziosita da ricami. Quella della Venere, nella Primavera, è leggera, quasi trasparente; il punto vita, tornato alto, i ricami in oro e gli ornamenti che definiscono i seni, sottolineano lo slancio verticale della figura, non appesantita neppure dal ventre gonfio che il 63 Nostro deriva, probabilmente assieme alla fragilità ed al languore delle sue figure femminili, dal Trecento. L'addome largo e pronunciato, che compare frequentemente nelle figure del Quattrocento, ripete infatti l'uso invalso negli ultimi decenni del secolo precedente di mettere in evidenza il ventre delle donne, anche con pieghe ed imbottiture, per sottolineare la loro fecondità. Sembra che tale moda possa essere ricollegata allo spopolamento seguito alle guerre ed alle pestilenze del XIV secolo ed all'obbligo morale che avevano le mogli dei governanti di sostenere la campagna demografica. (Maria Luisa Rizzatti. Botticelli- 1976. Mondadori. Milano) Come il mantello cittadino conferisce dignità ai personaggi che compaiono nelle scene di vita fiorentina esaltata nei dipinti del Ghirlandaio, così lo stupendo mantello serico, double face, raccolto in un morbido sinus dalla mano sinistra della dea, conferisce maestà alla Venere di Botticelli. Anche la Flora, simbolo della primavera, indossa una cotta di seta, nella quale Botticelli dipinge giacinti, fiordalisi, mammole e veroniche, gli stessi fiori che colorano il prato, facendo sfoggio della sua abilità di pittore di fiori e rivelando le sue conoscenze scientifiche della botanica. I fiordalisi sono il motivo dominante anche nella veste dell'Ora che porge il mantello a Venere nascente dalle acque, nella tela agli Uffizi. Firenze. Il gusto di ornare le stoffe sia di lino che di seta con motivi di fiori sparsi, documentato da Botticelli nei suoi dipinti, prosegue nel Quattrocento dal Trecento ed è dovuto all'influsso che le sete cinesi ed il loro decorativismo hanno esercitato sull'arte tessile occidentale e italiana in particolare. Secondo una dichiarazione del padre Mariano, rilasciata al catasto fiorentino nel 1458, e secondo quanto ci riferisce il Vasari nelle sue Vite, all'età di circa quindici anni , su consiglio probabilmente del fratello che faceva il battiloro (il doratore), Alessandro venne messo a bottega da un orafo, o forse il fratello stesso lo prese con sè. Non rimase a lungo a bottega dall'orafo, ma vi rimase di sicuro il tempo sufficiente per arricchirsi di quel gusto particolare e di quella dimestichezza con i gioielli che si tradurrà negli ammirevoli particolari che abbelliscono le sue opere. La prima delle tre Grazie, a sinistra, sfoggia un gioiello a forma di cuore, nel cui centro è incastonata una grossa pietra preziosa. La terza Grazia porta, appeso ad una treccia che le fa da girocollo, un gioiello abbastanza diffuso all'epoca, in cui, alla pietra incastonata, fanno da corona tre grosse perle. Le perle tornano, intrecciate ai capelli, ad ornarle il capo. Ghirlande di fiori, preziose e belle come un gioiello, ornano il capo di Flora e le cingono il collo ed i fianchi. Raffinati e non appariscenti, i gioielli costituiscono un elemento molto importante dell'eleganza femminile del Quattrocento e testimoniano nel medesimo tempo la posizione sociale ed economica della famiglia a cui la donna appartiene. Accanto alle pietre preziose ad alle perle che abbiamo visto in varie gioie, compaiono collane di corallo (ne abbiamo vista una nel ritratto a Giovanna Tornabuoni del Ghirlandaio), ricche di simboli ed abbordabili anche dalle famiglie meno ricche. 64 Compaiono anche collane fatte a chicchi di ambra nera, come quella che orna la scollatura della Dama nel ritratto del Boltraffio. (fine XV secolo. Milano. Castello Sforzesco.) La morbida eleganza della linea botticelliana compare anche nell'abbigliamento maschile, indossato da giovani efebi, leggermente effeminati, i cui volti, sbarbati e lisci, sono incorniciati da capelli piuttosto lunghi ed ondulati. I giovani fiorentini che frequentano la sua bottega ed i notabili della corte medicea vengono ritratti mentre indossano tutti gli elementi della moda dell'epoca, nella loro versione più raffinata. Il giovane al centro dell'ADORAZIONE DEI MAGI. (1472. Londra. National Gallery) indossa una corta gonnella con ampi spacchi alle maniche che mettono in vista la rossa veste, ornata allo scollo da un gioiello o da un ricamo d'oro, prezioso come un gioiello. Tutte e due le ipotesi sono valide, potrebbe infatti essere solo un ricamo oppure un gioiello, Botticelli era abile nel disegnare gioielli, ma ben nota è anche la sua abilità di disegnatore di ricami. È sempre il Vasari che ce ne dà notizia: "fu tra i primi che trovasse di lavorare gli stendardi e altre drapperie come si dice, di commesso, perchè i colori non istingano e mostrino da ogni banda il colore del drappo." Nelle sue opere pittoriche l'effetto del gioiello veniva raggiunto facilmente dal Botticelli, che si serviva allo scopo dell'oro, che era solito stendere con un particolare, finissimo pennello. Ben in vista è la cintura, ancora importante nell'abbigliamento maschile del Quattrocento; in questo caso è semplice, una cintura a correggia, ma alcune, e particolarmente quelle dei sovrani, erano preziose, guarnite di fibbie e bottoni d'oro, di passetti d'argento o dorati. Alla cintura si appendeva spesso la scarsella o borsetta, di foggia e materiale diverso, secondo la provenienza. Sulle calze bicolori il giovane porta un paio di stivali di morbido cuoio apparentemente dorato, la cui moda veniva dalla Spagna. L'uso delle calze solate va diminuendo nel corso del Quattrocento, mentre sempre più vengono usate scarpe e stivali di vario tipo. Le scarpette basse, oltre che di morbida pelle, possono essere di stoffa, segnano la linea del piede (vedi giovane con guarnacca azzurra, nell'Adorazione dei Magi. Firenze. Uffizi), sono chiuse da uno spago sostenuto da una setola ed incerato. Per proteggerle dal fango e dai ciottoli della strada gli uomini, come le donne, indossano pianelle o zoccoli. Un ricamo d'oro orna la ricca guarnacca di velluto blu indossata dal giovane nell'Adorazione dei Magi del 1473, Londra. National Gallery. La guarnacca è una delle sopravvesti corte più ricche ed eleganti, in uso già nel Trecento, quando è sicuro indizio di ricchezza e di posizione sociale. Può essere di tessuto vario ed è foderata di stoffa in estate e di pelliccia in inverno e può presentare, oltre ai ricami, ornamenti d'oro e d'argento. Nel Quattrocento ha sempre maniche molto ampie e sfilate. Corte giornee e gonnelle indossate su farsetti e calze a braca compaiono nella novella di Nastagio degli Onesti, divisa nei suoi episodi tra il Museo del Prado. Madrid. e la Collezione Watney. Charlbury. Londra. 65 66