Mangiamo alla giudia?

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Mangiamo alla giudia?
Mangiamo alla giudia?
Dalla storia e dalla religione le regole del mercato kosher,
una opportunità per le aziende lombarde.
Mangiamo
alla giudia?
Dalla storia e dalla religione le regole del mercato kosher,
una opportunità per le aziende lombarde.
A Cura della
Federazione Strade dei Vini
e dei Sapori di Lombardia
testi di
Luciano Sassi
Graziano Rubes
Daniele Cohenca
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Il BonTà, il Salone delle eccellenze enogastronomiche artigianali della Fiera di Cremona, è da oltre 10 anni la sintesi delle tipicità e dei tesori della cucina italiana. Una cucina
che, come tutto il nostro Paese, è il risultato di una ricca fusione di culture e di tradizioni, che insieme hanno contribuito a creare un settore agroalimentare che ci invidiano in
tutto il mondo.
Realizzare questi seminari dedicati al kosher a il BonTà ha quindi un significato che va
ben oltre l’aneddotica e la raccolta di ricette: questo volume vuole essere uno strumento
per dare una spinta alla diffusione di un patrimonio culinario che ha molto influenzato
la cucina tipica italiana e padana in particolare, contribuendo in modo importante alla
creazione di ricette ormai entrate a far parte, appunto, dei tesori della nostra cucina. Ricette che potranno varcare l’oceano e dare la possibilità alle aziende lombarde di aprire
su nuovi mercati.
Uno strumento di lavoro, quindi, per tutte le aziende e al contempo una raccolta di
informazioni e di notizie interessanti che ci possono aiutare a comprendere meglio le
radici di un popolo così vicino, ma al contempo così distante dalla nostra cultura.
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Presidente di CremonaFiere
Antonio Piva
Questa pubblicazione è il risultato dell’attività di valorizzazione della cultura ebraica,
tra quelle promosse nell’ambito della prima rete regionale dedicata ai percorsi ebraici
di Lombardia, rappresentata dal progetto Rimon. Il progetto coinvolge la Comunità
Ebraica di Milano (capofila), il GAL Oglio Po terre d’acqua, l’Associazione Federazione
Strada del Vino e dei Sapori di Lombardia, l’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, i Comuni di Mantova, Viadana e Piadena, il Distretto Culturale Le Regge dei
Gonzaga, la Fondazione Sanguanini, la Fondazione Arvedi Buschini, la Comunità Montana di Valle Camonica. Un partenariato che crede nell’incontro tra comunità diverse
quale occasione di sviluppo socio-economico delle piccole e grandi realtà del territorio
Lombardo e che sta investendo per favorire l’integrazione tra tracce culturali nascoste,
eccellenze agro-alimentari, turismo sostenibile e cooperazione europea. Un invito ad
approfondire rivolgendoci al passato e al futuro, insieme come i chicchi del melograno
(Rimon, in lingua ebraica).
GAL Oglio Po terre d’acqua
(Coordinatore territoriale del progetto)
Il Presidente
On. Giuseppe Torchio
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La Federazione delle Strade dei vini e dei sapori di Lombardia opera da anni nella promozione della cucina e dei prodotti a marchio di qualità della Regione facendo riferimento
anche alla tradizione delle tecniche di produzione e di lavorazione. Ma la tradizione,
dove le nostre origini dovrebbero essere conservate, deve tenere conto anche dell’eredità
orale, tramandata di generazione in generazione, di casa in casa. Se poi consideriamo le
nostre terre anche dal punto di vista delle conquiste, allora le reciproche contaminazioni
necessitano di un percorso diverso di conoscenza. È questo il caso delle possibili contaminazioni tra due culture vicine e interconnesse come quella ebraica e quella dei gentili
(i non ebrei). Con questo lavoro proveremo a capire i punti di contatto tra queste due
culture per scoprire un modo diverso di leggere la nostra cucina.
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Federazione Strade dei vini
e dei sapori di Lombardia
Il Presidente
Gianni Boselli
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Le influenze gastronomiche fra due popoli vicini ed
interconnessi, gli ebrei e i gentili in Lombardia.
di Luciano Sassi
Storico
L’identità si manifesta nelle specifiche ricorrenze o celebrazioni durante l’anno anche attraverso un cibo che solo in quel momento specifico viene preparato. Il ricordo dell’appartenenza o il collegamento ad un luogo o ad un gruppo sociale, si rafforza in qualsiasi
parte del mondo si stia in quel momento anche attraverso il cibo, simbolo di quella
celebrazione e nel modo in cui quel gruppo sociale lo prepara. Così tutto acquista un
valore diverso.
Perché allora domandarsi se quello che mangiamo ha qualche origine ebraica? In effetti
questa è la proposta per osservare le relazioni fra ebrei e cristiani da un punto di vista
diverso.
Forse potrebbe apparire di poco conto ma sicuramente cucinare è un mezzo materialmente quotidiano che mostra come l’appartenenza espressa attraverso il cibo sia un
grande punto di partenza per rompere le barriere imposte. Per gli ebrei una strada difficoltosa, piena di cambiamenti e mortificazioni, per i molti cristiani incontrati nella
quotidianità sicuro, anche se spesso non dichiarato, arricchimento. La presenza ebraica
in Italia è un fatto scontato appartenente alla nostra storia. Uomini e donne con un altro
credo, con la stessa fame e con la stessa golosità, con la voglia di ridere, di ricordare e di
raccontare, magari attorno ad un tavolo con un buon bicchiere di vino ed un dolce.
Nel percorso di indagine sui punti di contatto gastronomici non possiamo non considerare la difficoltà se non l’impossibilità per gli ebrei di appartenere ad una città o ad un
luogo dove finalmente stabilirsi. L’assenza di una tutela identitaria data in un territorio
definito, diviene probabilmente l’handicap più grave rispetto alle popolazioni di religione
cristiana. Anche se il legame con una città poteva essere solido e di carattere affettivo,
una famiglia di ebrei raramente riusciva a rimanere nella stessa città se non per il tempo
di alcune generazioni, salvo rari casi. Questa precarietà veniva combattuta attraverso un
forte sentimento di unità di gruppo, dato dalle professioni e dal fondamentale collante
religioso. La religione ovunque stabilisce ritmi, calendari, modi di essere, tradizioni; celebrazioni che sono il ricordo di fatti storici, taumaturgici, comunque sacri, che grazie alla
loro valenza trascendentale acquisiscono un significato che dura nel tempo, in eterno.
La celebrazione, momento fondamentale della professione di fede, ha bisogno di simboli e riti, che abbiano un carattere sia spirituale che concreto; la regola stabilita attribuisce al gesto tangibile o materiale un alto valore morale e ne stabilisce la scansione temporale del rito durante l’anno. In questo modo l’atto concreto diventa sacro e la tradizione acquista un valore superiore a quello consueto e diviene ritualità.
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Il caso del confronto tra due popoli conviventi come quello ebraico e quello cattolico
non può tralasciare il percorso storico in cui si svolge. L’area padano-lombarda ha visto
il succedersi di tre stati, quello visconteo, quello gonzaghesco, e quello veneziano in un
primo momento e successivamente tutte le altre dominazioni, le quali hanno lasciato
tracce nella tradizione gastronomica locale e che a loro volta sono state modificate da
usi e costumi presi in loco. Possiamo riconoscere un fenomeno curioso e ricchissimo di
risvolti culturali all’interno di queste numerose variabili, date dalla presenza di realtà che
per storia, provenienza, simbolo ma soprattutto per religione, hanno convissuto strettamente nel tessuto sociale di molte comunità, contaminando e lasciandosi contaminare
senza snaturare la propria identità e che hanno prosaicamente lasciato che il gusto si
facesse tesoro delle “esclusive” alimentari reciproche. È necessario prestare molta attenzione nell’esaminare l’argomento delicato della cucina ebraica nel suo sviluppo in Italia,
soprattutto nel caso in cui non siamo preparati a distinguere quello che ha una radice
religiosa storica – di lungo tempo – da quello che è nato da usi e abitudini familiari.
Altra considerazione va fatta per il mondo cristiano, o meglio per l’ambito cattolico italiano. Vi è infatti anche la consuetudine di rappresentare un momento del calendario religioso, attraverso un elaborato gastronomico tipico che spesso ha poco a che fare con il
rito o il fatto religioso in sè. Le simbologie religiose rappresentate attraverso determinati
prodotti alimentari, diffusi commercialmente in maniera intensiva hanno oggi perso
quasi completamente la loro valenza religiosa, trasformandosi semplicemente in consuetudine folclorica e laddove hanno mantenuto un legame con l’originale simbologia
sacra, difficilmente si trova nelle persone la consapevolezza dell’origine o del significato.
Il tutto si esaurisce ad un uso legato ad una tradizione da perpetrare. Questa situazione
viene facilitata dal fatto che i cattolici a differenza della diaspora ebraica, una casa ce
l’avevano e ce l’hanno e che quindi non c’era bisogno di manifestare l’appartenenza alla
religione e quindi ad una patria religiosa, già manifesta peraltro dai numerosi edifici
religiosi.
Nello specifico del sistema di regole cattoliche, le regole alimentari si “limitavano” al digiuno o magro quaresimale unito a tutti gli altri giorni comandati (circa 160 gg l’anno
sottostavano al precetto di magro o digiuno), contrapposti ai giorni di festa sottolineati
dalla abbondanza come la Pasqua, il Natale o il periodo di carnevale. Queste giornate
stabilite erano rigidamente codificate nella loro scansione tanto da processare per esempio nel primo rinascimento, chi si fosse fatto cogliere nel non rispetto del precetto del
digiuno.
Per gli ebrei i numerosi precetti limitanti non sono solo divieto, ma esaltazione di una
origine di un legame, quella derivante dalla parola di D-o (Dio) nella Torah. Il cibo
come radice, come essenza dell’essere; spesso sino a non moltissimi anni fa si parlava di
cibo da ebrei, a volte non senza un velato disprezzo, ma spesso otteneva il risultato di
rimarcarne ancora di più il carattere identitario.
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L’inizio di questo percorso di ricerca e di scoperta sta proprio nella convivenza di due
popoli che dopo essersi lontanamente separati hanno avuto destini così diversi. Due
popoli spesso costretti a convivere, ma che molte volte hanno trovato il modo di coabitare anche se in spazi distinti, scambiandosi non solo merci e denaro – le sole iniziative
commerciali permesse agli ebrei oltre la medicina e poco altro – ma anche quello che
difficilmente riesce ad essere confinato in cucina, il profumo, il colore e poi il sapore.
Tutto ciò spesso infastidiva i molti cristiani che si ponevano a difesa della vera fede, perché segno di minaccia, di segreta trama e quindi tutto quello che sapeva di armonia fra
le parti era il simbolo di una latente induzione all’apostasia.1
La difficoltà di impedire quello che è umano, la non infrequente convivialità, che si
era diffusa come consuetudine tra ebrei e cristiani conviventi negli stessi quartieri delle
città – “obbligava” molti governanti a cercare di porre argine a questo deprecabile fenomeno.
Un esempio eloquente è l’ordinanza del comune di Gubbio nel 1483, suggerita dal sollecito francescano minorita Andrea da Faenza <<affinché sia posto fine alla amichevole
consuetudine dei cristiani con gli ebrei nella conversazione come nel mangiare>>2.
Come potevano due popoli conviventi come quello ebraico ed i “gentili” italiani non
influenzarsi a vicenda? I primi presenti con forti comunità in alcuni degli antichi stati,
comunità incrementate dopo la fuga dalle persecuzioni avvenute nelle varie città d’Europa che sostenevano con più forza le crociate, facendo divenire tutti gli ebrei “indebiti
occupanti dei sacri luoghi della vera fede”, oppure dopo la cacciata dalla Spagna degli
ebrei sefarditi3 nel 1492.
La parallela produzione alimentare in questa particolare convivenza non poteva esprimere nulla di manifesto, e tanto meno scuole di cucina.
Soprattutto nelle aree del nord Italia così scarse d’olio e dove il maiale era veramente
considerato una dispensa ambulante, diventa esemplare il riconoscersi ed il riconoscere
nei simboli gastronomici distinti di questi due mondi paralleli ma distanti (maiale - oca,
lardo-olio 4).
La differenza nell’alimentazione, data dal consumo specifico e distinto della carne e dei
grassi derivati, ha avuto un solo verso nel percorso di contaminazione reciproca, quello
che parte dagli ebrei verso i gentili e non il contrario. Altro particolare da considerare,
in questa ricerca è la presenza di differenze e peculiarità alimentari anche tra le varie comunità ebraiche, differenze apparentemente velate ma importanti e distintive. Pensiamo
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AAVV Storia di Italia. Annali 11, Gli ebrei in Italia, Giulio Einaudi Editore 1996, pag. 216 - 217.
Einaudi, cit. pag 253.
Ebrei provenienti dalla Spagna chiamata in ebraico Sefarad.
Agli ebrei è proibito mangiare animali che non hanno l’unghia fessa e non ruminano, quindi il maiale e i suoi
derivati non è kashér – idoneo,appropriato, adatto.
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agli ebrei provenienti dalla penisola iberica, quelli provenienti dal nord e dall’est Europa5
o da quelli del nord Africa, dell’Asia minore e dell’area ellenica o invece dagli ebrei di
Roma presenti da oltre 2000 anni.
In questo piccolo ma vasto – a causa della diaspora6 - mondo, l’identità e l’influenza delle
aree di provenienza faceva preferire un cibo o una preparazione piuttosto che un’altra.
La costrizione per gli ebrei di vivere tutti in uno spazio limitato ed individuato a prescindere dalla loro provenienza, anche se ritenuti dai “gentili” tutti uguali a motivo della
stessa fede, non ha come risultante, come si può ben comprendere, un solo ed unico
prodotto gastronomico omologato. Spesso all’interno delle comunità, lingue diverse si
incontravano avendo in comune una quota più o meno estesa di lingua ebraica, ma non
sempre così sufficiente a rendere la comunità un crogiolo da cui far uscire un unicum
omogeneo.
In questo percorso di scoperta sulla contaminazione alimentare fra ebrei e cattolici si
può partire da un atto non alimentare e nello specifico da un rito, perché è di questo
che si tratta, quello delle pulizie di pasqua che ogni famiglia mette in atto all’inizio della
primavera – coincidente appunto con il periodo di pasqua. Spesso siamo inconsapevoli
che derivi da una prescrizione della pasqua ebraica che impone: prima che sia celebrata
Pesach7 ogni traccia di cibo lievitato sia accuratamente tolta dalla casa e quindi la si ripulisca in ogni suo angolo.
Allo stesso modo considerando le azzime – mazzah - il simbolo più conosciuto della pasqua ebraica – il pane dell’afflizione, ma anche della fretta, quando non c’era il tempo di
permettere al lievito di fare la sua parte, quanto possano risultare simili, a quelle schiacciate nella loro laicità, come le antiche piade, chissoule, fugassini impastati con farina
tipici della pianura lombarda ed emiliana, acqua e magari un grasso – spesso strutto e
cotte immediatamente senza lievitazione.
Sembra un percorso semplice, preparazioni simili si trovano da entrambe le parti ed alle
quali vengono attribuiti significati diversi, ma qui interessa relativamente il significato:
desta interesse il processo di creazione o variazione di un preparato gastronomico. Ma
chi ha creato per primo una ricetta?
La difficoltà di trovare le fonti su cui operare un esame e quindi poter riproporre questo
cammino da un punto di vista “gentile8” ci ha piacevolmente obbligato ad utilizzare lo
5 Definiti con il termine ashkenaziti – in ebraico ashkenazim - da Ashkenaz che nella letteratura rabbinica
medievale indicava la Germania e parte delle regioni ad est dell’Europa dove dopo alcune persecuzioni si
erano dispersi molti ebrei.
6 dispersione
7 La Pasqua ebraica.
8 Gentile è una parola che identifica i non ebrei e nello specifico i Cristiani, deriva dal latino gentes. Gli ebrei
invece chiamano abitualmente i non ebrei goyim.
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studio di Ariel Toaff9 che nel suo percorso di analisi cerca di arrivare alla radice della
questione principale ma comune al resto della gastronomia, prima che alcuni ingredienti come i pomodori, le patate, il mais o perfino il couscous influenzassero o variassero
“menù” o preparazioni sino a quel momento veramente identitarie e significative di un
momento storico, di un territorio, di un popolo.
Il percorso di avvicinamento e confronto con la gastronomia ebraica e quindi con le
ricette non è stato facile perché, a differenza dei cattolici, il mondo ebraico ha scritto
molto poco sulla cucina della quotidianità e poco, se non per le prescrizioni rituali legate ai momenti strettamente religiosi, gli unici documenti a disposizione sono ricettari
quasi tutti apparsi alla fine dell’ottocento e nel novecento.
In aggiunta al citato testo di Toaff, il quale affronta la questione attraverso una pura
analisi storica della materia, ci siamo avvalsi di altri tre pubblicazioni: la prima riguarda
un’analisi della produzione gastronomica ai tempi della bibbia10, la seconda è un testo
base della gastronomia ebraica scritto da Giuliana Ascoli Vitali Norsa11, alla quale si deve
un tentativo più ampio di comporre il panorama gastronomico attuale della diaspora
ebraica, con un occhio più attento alla presenza ebraica in Italia, poi una pubblicazione
più recente – Cucina Ebraica12 – una ricognizione sui piatti più significativi, per concludere un libro divulgativo con notizie sulle abitudini e sul mondo ebraico13. Nel mondo
dei gentili invece il problema del reperimento delle fonti non si pone se partiamo dalla
numerosa e qualificata editoria. Definire solo gastronomico Il piacere onesto e la buona salute di Bartolomeo Sacchi detto il Platina14 è riduttivo. Che dire poi del libro di
Cristoforo Messisbugo scalco15 al servizio del Duca di Ferrara che scrive nel 1545 il ricettario Banchetti ( un termine peraltro troppo stretto) e poi ancora Bartolomeo Scappi
– cuoco segreto16 di papa Pio V che scrive non senza immodestia L’Opera – dell’arte del
cucinare - stampato a Venezia nel 1570, oppure il mantovano Bartolomeo Stefani, sino
all’Artusi nelle sue edizioni della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene pubblicato la
prima volta nel 1895 ed altre centinaia di pubblicazioni.
Questa è una piccola ricerca delle influenze e delle buone contaminazioni alimentari fra
i due gruppi religiosi, uno spunto per riflettere. Ragionare sull’alimentazione prima che i
prodotti provenienti dalle americhe influenzassero profondamente la gastronomia vuol
dire anche andare oltre. Un percorso di scoperta che parte da lontano, una gastronomia
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Ariel Toaff, Mangiare alla giudia, Società editrice il Mulino - Bologna 2000 – biblioteca storica.
Phillis Glazer, Mense e cibi ai tempi della Bibbia - Piemme 1995
Giuliana Ascoli Vitali Norsa - La cucina nella tradizione ebraica – edizione dell’Adei Wizo – Padova 1970
Roberta Anau, Elena Lowenthal – Cucina ebraica – Fabbri editori 2000.
Claudio Aita - Viaggio illustrato nella cucina ebraica – Nardini editore 2007
Titolo originale - De honesta volptate et valetitudine pubblicato forse a Roma nel 1474. Libro scritto partendo dal manoscritto di mastro Martino de Rossi ( detto da Como) coquo del patriarca di Aquileja.
15 Lo scalco era la persona che aveva tutta la responsabilità e la gestione dell’alimentazione e quindi dei pasti,
ma anche delle feste per conto, in questo caso del Duca.
16 Personale.
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quasi integra per secoli sino a quando le scoperte geografiche non hanno proposto altri
ingredienti fino a quel momento sconosciuti. Nuovi ingredienti peraltro entrati molto
lentamente e molto dopo la data di arrivo in Europa. Alla base comunque c’è sempre
la sapienza messa in campo da chi crea una preparazione, eseguita con quello che c’è e
soprattutto con quello che la stagione concede, nei luoghi che davano quello e solo
quello.
È chiaro che nella cucina ebraica anche se la tradizione gastronomica è un bene comune
fortemente custodito, la provenienza delle comunità, sefardite o askenazita o nord’africane porta con se piatti caratteristici di quell’area geografica – al di fuori di una nazionediversi ma comunque identificativi di queste realtà.
Non si può non fare riferimento anche ad una chiara differenza nell’approccio alle arti
culinarie, quella di genere che vede nel mondo dei gentili, dalla fine del medioevo sino al
XIX secolo, la presenza quasi esclusiva “nell’alta” cucina di figure maschili. Nel mondo
ebraico la cucina è affidata in toto alle donne, ovviamente non è vietato agli uomini esercitare, ma qui emerge quel genere di donna che nel mondo ebraico viene indicata come
la jiddish17 mame, una donna attenta alla casa, alla famiglia, all’educazione dei figli, alla
tradizione ed alla trasmissione dei valori, una donna che gestisce l’universo domestico
senza rivali ed alla quale è riconosciuta questa autorità . E’ quindi alla donna che viene
affidata la custodia e la prosecuzione della tradizione gastronomica ebraica.
Il nuovo e l’Antico Testamento sono costellati di fatti che hanno nell’azione alimentare
il simbolo dell’atto di fede o taumaturgico. Basti ricordare l’antico sacrificio a Dio di un
agnello immolato sull’altare e bruciato - l’olocausto – come per il sacrificio di Isacco,
da parte del padre, Abramo; le offerte a Dio dei prodotti della terra di Caino e Abele; la
manna caduta dal cielo per nutrire il popolo ebraico nel deserto; il pane azzimo; il vino
della Pasqua ed ancora la pesca miracolosa, la moltiplicazione dei pani e dei pesci; la trasformazione di acqua in vino nelle nozze di Canaan e tanto altro ancora. La tangibilità
resa tale per la debolezza degli uomini che hanno bisogno di segni forti per sorreggere
la fede e cosa c’è di più importante da chiedere a Dio se non la salute fisica e la certezza
della sazietà?
La comune radice biblica fa spesso riferimento alla terra promessa “in cui scorrono latte
e miele, una terra piena di ruscelli e fontane e sorgenti che nascono nella valli e nelle
colline”, l’abbondanza e la qualità del cibo, sono da sempre il mito ed il traguardo che
tentano perlomeno nel sogno, di combattere la paura della mancanza. Il mito è anche
l’immaginario frutto della speranza che si possa godere nel paese dell’abbondanza, dove
i frutti della terra non sono così faticosi da far crescere ed il raccolto è sempre abbondante e dove la sentenza emessa dopo la cacciata dal paradiso terrestre: “ ti guadagnerai
il pane col sudore della fronte” si vorrebbe divenisse solo un ricordo lontano.
17 Dal tedesco judisch giudaico designante la lingua parlata dagli Ashkenaziti e formata da una base di ebraico
con elementi linguistici tedeschi e slavi.
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Il paese di cuccagna dei gentili, più prosaico e godereccio mito dell’abbondanza tout
court, dell’esagerazione, dell’eterna lotta alla fame che vede il sogno realizzare nel paese
di Bengodi descritto da Boccaccio nella III novella dell'ottava giornata del Decamerone
dove << "si legano le vigne con le salsicce, ed avevasi un'oca a denaio ed un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattuggiato, sopra la quale
stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in
brodo di capponi">>.
Questo continuo confronto e passaggio da una parte all’altra fa emergere i punti di
congiunzione o meglio di contaminazione, dove con questo termine che di norma si
usa con il significato negativo di “inquinamento” in questo caso ha invece una accezione
positiva, quella di apporto di nuovi metodi, sapori, colori, profumi.
Nel percorso di avvicinamento durante una esplorazione sull’alimentazione ai tempi
della Bibbia ci ha incuriosito la trascrizione di una tavoletta di pietra scritta in caratteri
arcaici nel X sec. e.v.18 dove erano elencati alcuni degli alimenti base dell’epoca: orzo,
frumento, spelta, miglio, olive, uva fichi, melagrane, sesamo e diverse verdure di stagione. Un elenco rimasto quasi invariato nel bacino del mediterraneo, Italia compresa,
per quasi 2500 anni. Praticamente immutati, gli stessi ingredienti (la farina e l’acqua),
mescolati e cotti in modo diverso sono diventati così inequivocabili nella loro semplicità
identificativi per cui è difficile non legare le azzime all’ebreo o la pasta ad un italiano.
Non si può ignorare che il cibo e la sua accessibilità rappresentano anche uno status,
segno esplicito di benessere o meglio di ricchezza. A tal proposito uno tra i casi più
eclatanti di esibizione nonché di gola (un peccato capitale per i cristiani) lo possiamo
trovare nella descrizione di Marco Gavio detto Apicio, un gourmant dell’antica Roma
del I secolo e.v. il quale, come racconta Seneca, si uccise perché gli erano rimasti “solo”
dieci milioni di sesterzi ed aveva paura di non poter organizzare i grandi banchetti a cui
era abituato e quindi morire di fame!
A parte i paradossi di Apicio possiamo dire che esistono diverse cucine, quelle che naturalmente possono accedere ad ingredienti rari e sofisticati e quelle che devono accontentarsi di molto poco, entrambe palestre per la creatività.
Per i gentili, salvo le astinenze indicate dal calendario religioso non vi sono limiti alimentari se non quelli imposti dalla decenza. Tuttavia, vi sono state nel tempo alcune
prescrizioni, peraltro mai scritte, che rendevano ostico il consumo di alcuni alimenti,
come per la melanzana – la mela insana – scura, piena di sospetto, arrivata attraverso gli
arabi che la chiamavano al bandigian, nome rimasto peraltro nell’emiliano petonciano,
che con il nome ebraico sefardita di berenjena ebbe una tale diffusione nelle comunità
giudaiche italiane del seicento da venire definito come mangiare da ebrei. La stessa cosa
18
E.v. significa era volgare, indicante la convenzione cristiana di far partire la conta degli anni dalla nascita
di Cristo – ridefinita dal calendario Gregoriano - non riconosciuta dagli Ebrei e quindi di conseguenza non
si utilizza l’acronimo avanti Cristo a.C. o dopo Cristo d.C.
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è capitata per i finocchi definiti da Pellegrino Artusi, insieme alle melanzane, appunto
mangiare da ebrei19: “Petonciani e finocchi, trent’anni oro sono, si vendevano appena sul
mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei, i quali dimostrerebbero in
questo, come altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre avuto buon naso più de’
cristiani.”
Nella società cristiana vi erano alimenti ritenuti adatti per i ceti elevati ed alimenti adatti
per i ceti inferiori: fave, fagioli, cipolle ed aglio in primis. Note sono le vicende del Bertoldo di Giulio Cesare Croce che nel XVI secolo descrive paradossalmente le fortune e
le disgrazie di un contadino, che essendo molto saggio, venne obbligato a vivere presso la
corte, come consigliere del re, costretto così a rinunciare ai suoi amati e necessari fagioli
e trovandovi di conseguenza la morte per la forzata astinenza.
Nelle comunità ebraiche residenti nelle città italiane esisteva una riconosciuta cucina
all’hebrea, che portava con se anche l’usanza di riunire nello stesso piatto sia carne che
verdure e anche di aprire il pasto, con una verdura. Usanza quest’ultima già ampiamente
diffusa in Italia dalla fine del medioevo dove l’insalata, magari condita con succo di
limone, serviva da aperitivo – appunto per aprire lo stomaco e favorire l’appetito.
La presenza ebraica nelle città italiane più o meno grandi, era regolata soprattutto dopo
il concilio di Trento dalla tolleranza della chiesa e dalla generosità dei signori regnanti.
All’ebreo era consentito commerciare e prestare denaro ad un tasso di interesse prestabilito, quest’ultima occupazione non era consentita ai cristiani, anche se si ha notizia di
qualche prestatore cristiano. Quindi, possiamo considerare il prestatore ebreo una figura
importante per l’economia dei territori, in cui il credito veniva regolato attraverso gli
accordi che il signore prendeva con gli ebrei chiamandoli nel proprio stato. Un esempio
significativo di queste attività è Livorno arricchita dalla immigrazione di ebrei sefarditi
scacciati dalla Spagna di Filippo II, ma anche Mantova, Ferrara, Venezia, Ancona, in cui
troviamo testimonianza di comunità ebraiche fiorenti ed “integrate” nel tessuto cittadino anche se sempre e comunque considerate di rango inferiore.
Nonostante l’accoglienza erano comunque consueti i segni distintivi che permettessero
un rapido riconoscimento dell’ebreo con una precisa collocazione all’interno della città
in luoghi definiti con uno scopo di circoscrizione e controllo, negando spesso agli ebrei
la possibilità di possedere la casa o il negozio dove abitavano ed operavano. Dal medioevo l’obbligo per i li giudij di essere riconoscibili portando per gli uomini un cappello a
punta e per tutti una pezzuola gialla cucita sul vestito, era ed è stata fino a tempi tragicamente recenti il modo per controllare e limitare. Questi piccoli quartieri ebraici divenuti
poi ghetti chiusi con porte e mura, permettevano comunque che la non infrequente
socialità umana riuscisse talvolta o spesso a superare le barriere fisiche.
La necessità per i gli ebrei di rifornirsi di alimenti ed ingredienti kasher quindi mani-
19 Artusi, cit. edizione 1896 pag. 266.
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polati solo da ebrei o controllati da ebrei se prodotti da terzi20, aveva creato un tessuto
commerciale e produttivo interno dove fornai, venditori di vino, verdure e carni avevano il loro ambito commerciale specifico, ma non solo.
Le fragranti sfoglie di azima – mazzah – vengono prodotte anche oltre il loro periodo
rituale e confezionate in vario modo, più o meno ricche, così da essere richieste anche al
di fuori della comunità . A. Toaff riassume bene questa pratica in uno stralcio eloquente
del suo Mangiare alla giudia21: << Ad esserne ghiotti (di azime n.d.a.) non erano solo
gli ebrei,…ma anche i cristiani che non solo in tempo di pasqua , affollavano i forni del
ghetto per far provvista delle tonde pizze lievitate… [Non] servivano a frenare il consumo le censure degli inquisitori e i ripetuti divieti delle autorità ecclesiastiche, che proibivano agli ebrei di venderle ai cristiani ed a questi ultimi di cibarsene liberamente. In una
grida di Modena del 1620 si vietava espressamente agli ebrei della città di “dispensare né
somministrare a Chiristiani o Christiane cibi cotti all’usanza Hebraica e con osservazioni
Hebraiche, come gli azimi loro e simili”>> . Come si legge, se c’è la necessità di emanare
un divieto vuol dire che ci sono molti che hanno già contravvenuto abbondantemente.
Continua dalla stessa pagina riguardo alla Roma pontificia, ma similmente negli altri
luoghi dov’erano i ghetti o comunità organizzate <<Gli Ebrei non giuochino, né mangino, né bevano con i Cristiani né questi con essi, tanto ne’ Palazzi, Case o Vigne, che
nelle Strade, Osterie, Bettole, Botteghe o altrove; Bettolieri e Bottegai non permettano
la conversazione tra’ Cristiani ed Ebrei… Ma il fascino del proibito, legato al consumo
del pane azzimo, continuava a mietere le sue vittime in campo cristiano, a dispetto dei
divieti e degli interdetti. Cardinali e gente di curia lo mandavano a prendere in ghetto
senza scrupoli eccessivi,…>>.
Si comprende in questo modo come sia stato impossibile bloccare i profumi provenienti
dalle cucine dei ghetti o dalle case ebraiche in genere, specialmente in prossimità dello
shabbat il sabato o nelle feste e ricorrenze, come d'altronde avveniva ugualmente per i
cristiani. Anche i rabbini d’altronde cercavano di arginare l’acquisto di pane non kasher
che con altri alimenti minava l’integrità dell’appartenenza o meglio tentavano di difendere l’identità ebraica22. Tutto ciò portava in questo scambio commerciale uno sdoganamento di molti cibi e preparazioni spesso così diversi dal consueto locale, il che voleva
anche dire che la crescita del rapporto col prossimo dell’altra religione permetteva agli
ebrei di sentirsi spesso come a casa.
Le famiglie ebree dovevano, loro malgrado, spostarsi continuamente quando la città
20 Una delle tante deroghe a cui si doveva sottostare quando tutto non poteva essere prodotto all’interno della
comunità. Ma comunque chiedendo, soprattutto ai fornai, di rispettare un procedimento e una “purezza”
degli ingredienti, specifico e comunque sotto il controllo attento di un “vigile ebreo”.
21 Ibid.pag 145,146
22 Come afferma Kraemer nel suo libro anche se riferito ad un periodo più arcaico è estensibile a tutti i periodi dove si intravedevano pericoli di questa natura.
Kraemer, Jewish eating and identity Through the Ages, Londra –N.Y. 2007
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dove risiedevano decideva che era l’ora che se ne andassero, facendoli diventare di volta
in volta il capro espiatorio di qualche presunta malefatta, o quando i debiti dei governanti erano così alti che l’estinzione del debito era più facile se il creditore veniva scacciato. La continua ricerca di sentirsi un popolo unito nonostante la dispersione passava
anche dall’affidamento al cibo, alla sua preparazione, alla solidarietà tra le famiglie ed
infine in modo determinante, ad una sola fede.
La rete solidaristica fra ebrei permetteva loro di ricevere alimenti e preparazioni non
reperibili in loco sia perché difficilmente kosher sia perché prodotti di altre aree geografiche come per esempio i simbolici cedri necessari per la festa di Sukkoth23. Anche
se il consumo di queste derrate che provenivano da lontano era strettamente relegato
alla famiglia, si è certi che gli echi del gusto raggiungessero le curiose e golose papille di
qualche amico cristiano.
Il simbolo per eccellenza dell’ebraicità alimentare dal rinascimento in poi è l’oca, come
dichiarato anche da documenti espliciti redatti da alcuni gentili. Questo animale molto
spesso veniva allevato negli stretti spazi nelle case dove risiedevano le famiglie ebree, con
notevoli problemi igienici, tanto che alcuni governi cittadini furono costretti ad emanare grida che limitassero ed ordinassero lo smaltimento del guano prodotto dai volatili.
L’oca è un animale versatile, produce il prezioso piumino, con le penne delle ali si ottengono gli strumenti per la scrittura, ingrassate forzatamente, producono il grasso che
sostituisce l’olio quando questo non è reperibile. La sua carne veniva conservata, come
del resto tutte le tipologie di carne, in vario modo: salata, affumicata, arrostita e inserita
in vasi di terracotta ricoperta dal grasso disciolto, conciata sotto forma di salami, così da
poter, al pari del maiale per i gentili, essere utilizzata in ogni sua parte.
La parte più prelibata, il fegato grasso è entrato nel Gotha della gastronomia per la sua
delicatezza e prelibatezza; tutto ciò non lasciava certo insensibili i palati di ogni fede.
In effetti l’oca ha portato con sé una tradizione che nelle abitudini delle popolazioni
rurali padane è difficile dire da dove venga. Chi ha allevato così con tanta cura ed attenzione l’oca: prima gli ebrei o prima i gentili24? Questa domanda seguirà tutte le ipotesi
e gli esempi che qui saranno descritti, anche se è bene specificare che il mondo ebraico
ha sicuramente assorbito tanto dalle tradizioni culinarie dei luoghi che ha abitato, ma
ha anche lasciato diversi spunti nel suo particolare percorso di ricerca gastronomica in
base a quello che i precetti permettevano di cucinare, prendendo, modificando e rinominando.
Nello studio di Toaff si fa riferimento:<< L’origine askenazita del piatto è evidente, dato
23 Sukkoth è la festa delle capanne – che si svolge fra settembre e ottobre – e celebra i quarant’anni di peregrinazione degli ebrei nel deserto.
24 Vengono in mente le famose romane oche del campidoglio oche avvertirono i romani dell’attacco dei galli
di Brenno nel 390 a.C.
16
che la parola deriva dal tedesco griben25 ciccioli di grasso d’oca, ora sappiamo che l’avevano importata in Italia già alla fine del trecento gli ebrei profughi [dall’area germanica]…che avevano valicato le alpi per fondare i loro nuovi centri in Veneto, in Friuli ed
in Lombardia. Nell’inverno del 1380 un ebreo di Treviso, … ricordava infatti il suo
maestro, il celebre rabbino Jacob Mulin Segal, conosciuto come Maharil, - mentre deponeva sul davanzale della finestra una pignatta contenente pezzetti di pelle d’oca chiamati
griben, perché si rapprendessero al freddo e facessero la gelatina.>>26
La cucina quindi è anche il luogo del sentimento, è ricordo, è legame. Chi non ricorda
qualche piatto particolare che nell’infanzia ha lasciato traccia, il cibo della consolazione;
magari una minestrina fatta con quella pastina là, una polpetta, una purea, un pane …
un richiamo alla familiarità in un particolare momento, ad una ricorrenza.
Come già riferito, la maggior parte delle preparazioni gastronomiche nascono e si affinano quando vengono create per sottolineare una celebrazione. Anche per il mondo
ebraico le ricorrenze felici o meno sono sostenute dal simbolo alimentare, nell’ottica di
una necessità di concretizzare la ritualità rendendola fruibile e completandola con un
risvolto piacevole. Principio applicato anche alle celebrazioni più tristi, come capita ad
esempio per i vari dolci dei morti prodotti anche a scopo apotropaico, che in tutt’Italia
vengono confezionati all’inizio di novembre. La festività dei morti è stata elaborata e
diffusa dai monaci di Cluny27 dall’ XI secolo ed è quindi una “festa” introdotta molto
tempo dopo la morte di Cristo.
Due diversi passaggi – questo il significato di Pasqua – Pesach, ma con la medesima
radice. La radice ebraica rimasta immutata e quella cristiana trasformata dalla venuta di
Cristo che proprio in questo periodo svela e poi lascia come segno tangibile la tradizione
celebrativa del pane e del vino. Diversi sono comunque i simboli che le due tradizioni
mantengono comuni: quelli della tradizione ebraica originale dell’agnello sacrificato o
dell’uovo e delle erbe amare. Non bisogna peraltro dimenticare che Cristo era ebreo (che
ad esempio l’Ultima Cena era la tradizionale cena del Seder di Pesach) e quindi non poteva fare altro che celebrare secondo la tradizione giudaica. Nell’accezione tradizionale i
simboli collegati al rito religioso si affidano alle caratteristiche dell’alimento il quale, essendo dolce o amaro, ha la funzione di ricordare i momenti di gioia e quelli drammatici,
in un’ottica di enfatizzazione di tutti i momenti della celebrazione.
Le comunità ebraiche in Lombardia hanno vissuto momenti diversi a seconda delle città in cui hanno risieduto, intendendo qui per Lombardia quella dello stato di Milano,
prima ducato sforzesco e poi dal 1535 anno della morte dell’ultimo duca Francesco II
Sforza inglobato per mancanza di successori da Carlo V nei possedimenti direttamente
25 In yiddish gribene.
26 Toaff, ibid. pag 68.
27 Massimo Montanari,Storia medievale, Laterza 2002; pag 135.
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controllati dall’impero e quindi sotto il controllo diretto degli spagnoli.
Le città ex sforzesche, Milano, Lodi, Cremona, Pavia, ecc… acquisiscono ampia autonomia, ma sempre all’interno degli argini spagnoli e quando viene presa la decisione nel
1597 di espellere tutti gli ebrei dai loro possedimenti questi si vedono costretti ad abbandonare luoghi che per molti di loro sono stati patria per molte decine d’anni. Diversa la
situazione nei territori del bresciano, del bergamasco e di parte dell’attuale mantovano e
cremonese posti sotto il dominio veneziano. Infine da considerare come un percorso a
sé la lombarda signoria gonzaghesca, la quale sino all’inizio della dominazione austriaca
di Maria Teresa d’Austria rimane pressoché indipendente, a parte i problemi subiti per
le lotte di successione al ducato degli anni 1629-30.
Se nello stato di Milano gli ebrei scompariranno quasi del tutto dai primi del seicento a
Mantova la comunità resisterà tanto da essere ancora oggi l’unica comunità in Lombardia che quasi senza interruzione ha mantenuto la sua presenza in città. Nel resto della
regione più o meno le comunità, a volte ridotte ad una sola famiglia, si sono estinte o
trasferite dalla fine dell’ottocento. La furia irrazionale della seconda guerra mondiale
ha spesso cancellato quasi definitivamente la memoria di alcune fiorenti comunità,
concludendo il percorso ritmico di una secolare accoglienza alternata con una religiosa
persecuzione.
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Mangiamo alla giudia? Le influenze tra due popoli
vicini ed interconnessi
di Graziano Giuseppe Rubes
Gastronomo
In questo mondo pieno di messaggi sull’alimentazione, siamo in grado di trovare le origini dei nostri cibi? La ricerca delle radici si orienta spesso verso la rusticità che diventa
poi autenticità. Il contadino, la nonna o il nonno, la cascina od il casale diventano così
i ponti di un legame con il mondo che ormai non c’è più.
Un passato recente avvolto da un velo di romanticismo porta nel suo valore intrinseco
la capacità di rendere buono e genuino quello che si trova in natura o che dalla natura
viene messo a disposizione con astuzie quasi alchemiche. Queste sapienze, in grado di
trasformare erbe e poco altro in quel piacere che andava oltre la necessità alimentare
sono diventate oggigiorno la base per le immense variabili che hanno riempito poi migliaia di ricettari.
Ed è così che arrivano a noi le tipicità delle preparazioni alimentari di una popolazione
che risiede in una precisa area geografica, che ha fatto della propria ricchezza culinaria
un momento fortemente culturale, favorito da specifiche condizioni climatiche, disponibilità di ingredienti e caratteristiche sociali e comportamentali, creando di conseguenza un catalogo vastissimo di preparazioni per tutte le stagioni e per tutti i tempi dell’anno. Proprio in questo modo, si sono create quelle paternità o maternità di preparazioni
culinarie che rappresentano un luogo, un’area geografica o una città. Basti solo pensare
ciò che succede lungo il percorso del Po, come cambiano nome le paste ripiene, a volte
con sole piccole varianti negli ingredienti: agnolotti, casonsei, marubini, agnoli, anolini,
tortellini, cappelletti, ecc… tutto perché ognuno deve avere il suo, riconoscibile nell’ortodossia della ricetta il più delle volte depositata e protetta.
Tuttavia è il cibo inteso come “radice” che lascia una traccia più forte, caparbia, strenua,
quella da difendere ad ogni costo in quanto simbolo dell’identità e della provenienza.
Definire tradizionale un prodotto gastronomico non è facile anche perché non è semplice nella norma ricostruire il processo di creazione e di adozione, soprattutto se posto
in tempi molto lontani, ma è il concetto di tradizione che va definito in questo caso
per renderlo autentico e non improvvisato. Per tradizione si può intendere una consuetudine o una credenza che diviene, per assunzione di una comunità o di una più vasta
area territoriale, identitaria o in altre parole nella quale riconoscersi e farsi riconoscere
rispetto ad altre. La consuetudine a volte nasce in modo del tutto casuale, diffusa in una
comunità da uno o più membri, per sopperire ad una necessità oppure motivata dal
piacere e/o dalla novità, o ancora per festeggiare o ricordare un fatto che ha segnato fortemente la comunità stessa. La consuetudine quindi diviene prassi.
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I Prodotti tradizionali in Lombardia
Per Regione Lombardia che ha stilato un elenco dei prodotti tradizionali, il significato
del termine "tradizionale" indica, per i prodotti agroalimentari quei prodotti che, pur
essendo caratteristici di un determinato territorio, non presentano il vincolo del legame
con l’ambiente ma devono avere requisiti di storicità.
Nel ricordare che il Regolamento Comunitario sui marchi vieta la registrazione di marchi collettivi che contengano al loro interno un nome geografico (sia esso di città, regione, laghi, montagne, località, ecc.), si comprende come sia molto difficile valorizzare le
produzioni locali, nel tentativo di preservare e promuovere la cultura contadina, mantenendo attivi sul territorio gli agricoltori delle aree marginali e più svantaggiate.
Il decreto legislativo 173/98 ha poi stabilito, con le modalità operative di cui al DM 8
settembre 1999, n.350, che, al fine di valorizzare il patrimonio gastronomico, le Regioni
predisponessero il proprio elenco di prodotti tradizionali. Entro il 12 aprile 2000, quindi,
le Regioni hanno elaborato il proprio elenco di prodotti agroalimentari tradizionali che è
confluito in un elenco nazionale pubblicato a cura del Ministero delle Politiche Agricole,
annualmente aggiornato, al fine di promuoverne la conoscenza a livello nazionale ed estero.
La Regione Lombardia ha recepito queste normative con il duplice obiettivo di favorire
e consentire la sopravvivenza dei prodotti tradizionali a base di latte tramite l’accesso alle
deroghe previste dalla regolamentazione comunitaria, e di riconoscere e valorizzare la
ricchezza del patrimonio gastronomico lombardo. Infatti, mentre le deroghe riguardano
esclusivamente i prodotti a base di latte, il patrimonio gastronomico vede protagonisti
anche tutti gli altri alimenti, che vantano metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, per un periodo non inferiore ai 25 anni, praticati in modo
omogeneo e secondo regole tradizionali.
Con provvedimento del 7 aprile 2000 n. VI/49424 la Giunta Regionale ha approvato il
primo elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Lombardia.
Tale elenco è articolato in otto comparti:
- Carne e derivati
- Cereali e farine
- Derivati del latte
- Miele
- Ortaggi e frutta freschi e conservati
- Paste fresche
- Prodotti da forno e da Pasticceria
- Prodotti ittici
L’elenco viene periodicamente aggiornato, consentendo modifiche e integrazioni con
altri prodotti secondo le procedure approvate con provvedimento regionale.
L'ultima revisione ha portato a catalogare 228 prodotti, caratteristici di un ambiente
locale nel quale agricoltori e artigiani hanno elaborato alimenti eccellenti, utilizzando
tecniche molto semplici, spesso familiari, in armonia con la natura dei luoghi.
20
Regole e precetti, due mondi a confronto
La ricerca del consueto, della tipicità “di sempre” fa di quella determinata tradizione un prodotto senza tempo, anche se molto spesso risulta difficile se non impossibile dare a questo “sempre” una connotazione temporale precisa.
In questo caso la ricerca dell’origine di un cibo - che nella sua formulazione diviene
per comune accordo ed in un certo momento storico simbolo di una comunità - viene
valorizzata e consolidata da un percorso che affonda in buona parte le radici nei testi
biblici. Un percorso non semplice, da effettuare con piedi leggeri, sia per il significato
che spesso questi cibi si portano dietro sia per il contesto, a volte molto pesante in cui
vennero elaborati o divulgati, specialmente se pensiamo al popolo degli ebrei e della loro convivenze in stati di non appartenenza come l’Italia o le sue singole regioni.
In cucina generalmente ci sono delle regole, quelle che mettono in fila il metodo, la
ricetta, i tempi di cottura. Ci sono però anche altre regole che per il mondo ebraico si
chiamano precetti detti mitzvot, gli argini alimentari in cui si è sviluppata una gastronomia attenta a non andare contro i voleri di Dio in quel novero di prescrizioni che
hanno fatto si che le limitazioni divenissero comunque spinta alla fantasia gastronomica.
Le regole alimentari dispongono per esempio la possibilità di mangiare solo i pesci che
abbiano squame e spine- quindi non crostacei o molluschi, ma neanche anguille oppure
prevedono l’astensione saltuaria da alcuni cibi come il divieto per Pasqua di mangiare
piatti a base di cibi lievitati.
E ancora. La possibilità di mangiare carne di ovini e bovini segue il precetto della macellazione che stabilisce che l’animale deve soffrire il meno possibile che deve essere
perfettamente depurata dal sangue, ma poi cucinata senza poterla mischiare con il latte
o suoi derivati, tanto da evitare di mangiare nello stesso pasto carne con qualsiasi tipo
di latticini; in aggiunta sono macellabili anche oche, polli, tacchini, anatre e fagiani e
comunque gli uccelli non rapaci.
Tutti questi sono precetti che nella loro osservanza hanno insito il segno dell’identità.
La lavorazione di alcuni ingredienti/cibi nella loro fase iniziale, la macellazione, la pigiatura dell’uva e la panificazione ad esempio, debbono essere eseguite solo da ebrei, e per
la macellazione solo da ebrei autorizzati e precisamente istruiti. Per cui non è facile che
un ebreo ortodosso possa mangiare un prodotto preparato da chi non fa parte della sua
religione.
D’altro canto, numerosissime sono le notizie che ci sono giunte dagli antichi atti di
governo che tentavano di impedire che i cristiani comprassero pane e bevessero vino giudio, mangiassero carne macellata – shachtata . In effetti le beccherie ebraiche macellavano essenzialmente per la propria comunità ma non disdegnavano la vendita ai cristiani
i quali gradivano molto sia per la varietà, le migliori condizioni igieniche e l’attenzione
a non macellare animali malati o non di prima qualità. Questa ricerca della qualità fa si
che ai giorni nostri, sia ancor più apprezzata e ricercata perchè assimiliamo i prodotti
kasher ad uno standard qualitativo superiore simile a quello del cibo “biologico“ o ai vari
21
marchi di qualità.
La cucina ebraica ha spesso affascinato curiosi e buongustai desiderosi di apprendere e
soprattutto sperimentare sapori sconosciuti o anche pietanze conosciute, ma rielaborate con ingredienti e aromi meno noti. La caratteristica della cucina ebraica, che è un
po’ anche il suo dono e la sua vera ricchezza, è quella di sapersi fondere e diversificare
allo stesso tempo nella cucina del territorio: ecco quindi far la loro comparsa i bucatini
all’amatriciana preparati con la carne secca anziché col guanciale o il tapulone con macinato di manzo anziché carne d’asino. Quindi non troveremo una cucina ebraica “internazionale”, ma piatti preparati con ingredienti del territorio, realizzati in ottemperanza
alle regole alimentari ebraiche, senza mai perdere il rigore del rispetto delle regole della
“kasheruth” ***.
Consentitemi di affermare che il km 0 che oggi è stato riscoperto da molti gourmet, ha
quindi origini molto lontane.
La necessità di avere piatti pronti per il giorno dello Shabbat, giorno consacrato a D-o
nel quale è vietato fare ogni attività, compreso cucinare e che va dal tramonto del venerdi allo spuntar di 3 stelle nel cielo, il sabato , ha dato lo spunto per nuove ricette che
non si deteriorassero da un giorno all’altro e che potessero essere tenute in caldo sugli
scaldavivande. Ed ecco allora che tra gli ebrei italiani troviamo i timballi di pasta, tra gli
ebrei di origine persiana i risi basmati con uvetta e carne, tra gli ebrei dell’europa orientale, stufati di orzo con legumi e carne (cholent).
Pur rappresentando l’oca, il maiale degli ebrei – così lo definisce Pellegrino Artusi – la
carne più utilizzata è quella di vitello. Considerando l’oca nella sua accezione generica,
basta volgere lo sguardo all’indietro. Sino a cinquant’anni fa le oche nelle corti delle
cascine erano spesso presenti e completavano l’offerta alimentare che aveva come scopo
il superamento dell’inverno. Quindi non solo maiale. L’oca alimentata forzatamente, in
spazi angusti e crudelmente sopperiva alla necessità di far dispensa.
Nella pianura lombarda l’oca in unto arrostita e conservata nei vasi di terracotta ricoperta del suo grasso disciolto non era una rarità nelle cantine delle nostre campagne.
I salami d’oca venivano mescolati ad un po’ di lardo di maiale ed insaccati come nella
tradizione ebraica nella pelle del collo dell’animale.
Chi dunque ha cominciato prima? Non si tratta di un concorso per ottenere il primato.
Le oche sono sempre state presenti nelle corti padane, certamente la presenza degli ebrei
ha favorito una maggiore attenzione su di un volatile per loro essenziale dove invece per i
cristiani rappresentava semplicemente il completamento o una variazione alimentare.
Un’altra particolarità dell’oca è l’uso alimentare della pelle, come avviene per altro per
quella del maiale, sempre per il principio popolare che nulla si butta. La pelle che avan-
*** kasheruth letteralmente adeguatezza, indica, nell'accezione comune, l'idoneità di un cibo a essere consumato dal popolo ebraico. Con il termine kasherut si indicano per l´appunto le regole alimentari della religione
ebraica
22
zava dalla confezione di salami, una volta spiumata e macellata l’oca, tagliata a pezzettini
veniva posta nella pentola e fatta cuocere sino a che friggendo nel suo grasso liquefatto
diventava croccante; successivamente la si faceva diventare gustosissima con l’aggiunta
nella pentola di cipolle tagliate a listarelle e rosmarino. Nella bassa padana questo croccante, stuzzicante, spesso friabile cibo si chiamava e si chiama ancora “gripole”. Non è
difficile incontrare nelle campagne della bassa lombarda qualcuno che si ricordi di aver
mangiato nell’infanzia polenta e gripole d’oca sicuramente migliori e più delicate di
quelle del maiale ma che insieme contribuivano alla sopravvivenza nei lunghi inverni,
con un po’ di gusto e anche con un po’ di fantasia.
Le oche erano affidate ai bambini (non quelli ebrei che mai avrebbero potuto portarle
fuori dai recinti delle loro case) che le accompagnavano nei campi a mangiare l’erba
prima che passassero all’ingrasso forzato. Ancora oggi nei paesi della bassa, appellare
qualcuno come: “essere fuori con le oche” fa riferimento ad un mestiere da niente con
poco cervello ed essere poco presente, anche se poi nella realtà era così necessario per la
sapidità delle preziose ma scarese; non per nulla un altro proverbio sempre della bassa fa
riferimento alla “carne dell’oca che è buona ma è poca”.
L’oca, pur avendo peraltro una lunga presenza nelle basse corti delle cascine, venne nel
tempo surclassata da quel nuovo uccello dalle grandi dimensioni che non amava volare
ma dotato di abbondanti carni: il tacchino, “dindo” nel gergo popolare, derivato dialettale dalla contrazione d’india ossia gallo d’India. Il tacchino era una specie di gallo
arrivato dall’America, le Indie appunto e aveva avuto la possibilità di entrare sulle mense
della nobiltà e dei facoltosi prima e su quelle del popolo poi quando capì che quest’animale si accontentava come tutti gli abitanti della bassa corte, di quello che c’era e che
poteva fornire grandi quantitativi di carne rispetto all’oca la cui qualità non venne mai
davvero surclassata.
Solamente nel XVI secolo, seguendo le orme dei signori cristiani, si presta più attenzione
agli animali da penna, che stanno più in alto e vicini al cielo. Pur non essendo gli ebrei
influenzati dalla teoria degli umori, che governava la salubrità degli alimenti nel mondo
cristiano diffusa dalla fine del medioevo, un’influenza latente è in parte percepibile nelle
scelte alimentari.
La teoria degli umori prevedeva sommariamente che gli alimenti si dividessero in caldi e
secchi; freddi ed umidi e di conseguenza, un alimento caldo e secco doveva essere bilanciato – accompagnato- da un alimento freddo ed umido. Uno degli esempi più longevi
di questa teoria degli umori e del bilanciamento conseguente che ha perso completamente il suo significato è l’abitudine di mangiare l’umido e fresco melone con il secco
e caldo prosciutto, ed in alcuni casi con un pizzico di sale sopra il melone qual’ora non
ci fosse il prosciutto o altra carne salata e stagionata.
Un’adozione di piatti che, seppur inventati dai gentili tanto munifici nella fantasia culinaria e senza limitazioni di sorta, motivati anche dalle richieste di nuovo e di elaborato
che tanti signori e potenti manifestavano, divennero anche spunto di gradimento o di
ispirazione all’interno del panorama alimentare che le comunità ebraiche stavano arric-
23
chendo nel rinascimento italiano.
Una adozione all’ebraica era quella dei maccheroni che sino alla fine del “400 erano
in effetti degli gnocchi fatti con pane grattugiato, farina e acqua magari dell’uovo e
poi bolliti in acqua o in brodo e poi scolati e conditi, al posto del classico ed onnipresente burro fuso e parmigiano , venivano conditi con l’agliata, sorta di salsa a base di
aglio battuto come già consigliava di servire nel 1545 Cristoforo Messisbugo <<sopra
maccheroni>>. Un gusto decisamente forte e caratteristico che trovava fra i migliori
sostenitori gli ebrei di origine aschenazita particolarmente amanti dell’aglio. Gli ebrei
italiani o più meridionali abituati a sapori ed odori diversi indicavano come “mangiatori
d’aglio” i “cugini” aschenaziti, per sottolinearne la presenza. Sta di fatto che un piatto del
medioevo italiano ancora oggi sopravvivente nei Capunsei dell’alto mantovano venne
adottato nella forma consigliata da Messisbugo dalle famiglie ebraiche senza per questo
trasformarlo in un mangiare ebraico.
È eloquente il caso dei vermicelli, gli italianissimi progenitori degli attuali spaghetti, o
le lasagne che vennero adottati insieme ai maccheroni cotti in brodo di carne dagli ebrei
veneziani nel seicento per il capodanno ebraico. I maccheroni, più simili alla nostra
pasta secca attuale, erano venduti dai marinai siciliani (già nel 1725) che arrotondavano così la paga portando dalla Sicilia questo non diffuso e particolare alimento.Come
abbiamo visto in precedenza nel caso dei maccheroni altre composizioni cominciano a
viaggiare in quel parallelo incrociato che è la cucina. Uno dei casi più rappresentativi è
quello che riguarda le paste ripiene, anche se è necessario un chiarimento etimologico:
per tortelli (in alcuni ricettari fra quattro e cinquecento a volte si chiamano ritortelli) si
intende una sfoglia di pasta dove viene posto un ripieno, ricoperto con altra sfoglia o in
alternativa piegata su se stessa in modo da poterlo contenere.
Dalla stessa azione, del torcere e ripiegare, è possibile individuare l’origine del termine torta: dato che le torte sino al seicento inoltrato erano costituite da due sfoglie che
contenevano un ripieno e, considerato che i primi ripieni erano di verdura in foglia che
doveva essere torta, strizzata per fare uscire il liquido di cottura, ecco trovata la trama
che costituisce il termine. La verdura cotta doveva essere “torta” per poterla riporre fra le
sfoglie senza timore di bagnare la pasta; le torte hanno cambiato connotazioni ed ingredienti, ma il nome è rimasto lo stesso.
I ravioli, o raffioli hanno come etimo - peraltro non chiaro- il significato di aggrovigliato, questo per indicare il lavoro di confezionamento della pasta tirata e tagliata in
quadrati che dopo aver avuto depositato il ripieno nel centro veniva ripiegata su se stessa
diagonalmente e poi attorcigliata attorno al dito in un modo particolare che ogni città
ha adottato come proprio. Tortelli e raffioli non nascono subito cotti in acqua o brodo
ma cotti in forno o fritti come i loro consimili più grandi.
Tortelli o raffioli probabilmente si possono assimilare nel mondo ebraico con un esempio eloquente per la loro similitudine ai Buricchi di Purim che nascono come manifestazione di una festa, quella di Purim appunto, il carnevale ebraico che si celebra fra
febbraio e marzo, festa che diversamente da quella cattolica celebra la liberazione degli
24
ebrei da un grave pericolo, ossia il progetto del perfido Aman (o Haman) ministro del re
persiano Assuero, di porre in essere un massacro ai danni degli ebrei.
Questo è il giorno dove il cibo è quasi il segno effettivo della festa ed i buricchi ne
sono una parte importante, composti come un antico tortello salato (ma anche dolce)
vengono fatti cuocere in forno. D’altro canto anche in molte case cristiane durante il
carnevale si cucinavano e si cucinano allo steso modo tortelli dolci ripieni di marmellata
o di crema di castagne. Dato che Purim è la festa della vittoria sui prepotenti, il perfido
Aman si vede canzonato da un altro dolce caratteristico della cucina ebraica: le orecchie
o con altra denominazione le tasche di Amman. Un dolce che potremmo affermare di
carattere più che mai carnevalesco, sfoglie di pasta fritta nell’olio e cosparse di zucchero,
del tutto simili a quelle che nei nostri ricettari locali prendono il nome di chiacchere o
lattughe e che nel resto d’Italia con infinite piccole varianti assumono altri nomi.
L’altra festa per eccellenza è la Pasqua. Anche nel mondo cristiano la Pasqua è una festa
molto importante, nonostante la spinta commerciale ed il folklore abbiano trasferito
l’attenzione popolare verso il Natale. La Pasqua dunque, rimane dal punto di vista religioso un momento fondamentale, in cui per entrambi i popoli si celebrano i temi del
passaggio e della rinascita, dalla sofferenza alla gioia: per gli ebrei il passaggio del mar
Rosso e la sconfitta degli egiziani e per i cristiani la morte e resurrezione di Cristo.
L’atto alimentare in sé, lo scambio, la fusione, la contaminazione positiva, a volte cambiando nome o poco altro ad una sola fase dell’esecuzione di una ricetta tanto da palesare
in maniera evidente che la convivenza è uno scambio ricco laddove un cibo non è solo
sostentamento ma storia, sapienza e socialità.
Un esempio eloquente di questa commistione spesso inconsapevole può passare dalla
storia di un dolce che contiene in sé numerosi significati e soprattutto la storia di una assunzione simbolica per la frequenza d’uso nella tradizione. La spongata non è definibile
come un dolce lombardo tout court, ma è sicuramente riconducibile a tutta la tradizione
dell’area padano emiliana. Molto simile se non addirittura “archetipo” di questa particolare dolce è il pan spiciato alla cremonesa, la cui ricetta è stata trovata recentemente ed in
modo del tutto casuale in un libretto manoscritto che ha come titolo << De lunaria>>
databile nella seconda metà del XVI secolo e prodotto probabilmente da uno studioso
itinerante, forse bresciano, di medicina alchemica e astrologia. La storia esplicita raccontata da questo anonimo medico erborista che cerca le consimili dell’erba lunaria e poi
scrive - nel suo taccuino di viaggio - di astrologia e di influenze astrali sulla salute e non
solo; il viaggiatore anonimo entrando in Cremona racconta di aver gustato questo dolce
prodotto dagli speziali della città nel periodo di Natale, ricco di spezie (spiciato appunto) e mangiato probabilmente presso qualche locanda della città.
Si tratta di un dolce particolare, che però si può allineare a quei dolci tardo medievali,
come lo è il pan forte e una nutrita schiera di altri dolci, composti di noci, pinoli (dove
era possibile reperirli), fichi secchi, miele, a volte mele, pane grattugiato, spezie, uva passa, il tutto contenuto in una sfoglia di pasta che creava così una sorta di pane schiacciato
che a differenza dei pani dolci lievitati, frequentissimi su tutto il territorio nazionale,
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avevano il ripieno all’interno ben protetto dalla crosta che lo avvolgeva.
Della spongata si ha notizia negli elenchi dei dolci consumati nelle comunità ebraiche
in Venezia e a Livorno << tanto gradita e tanto buona >>. Della spongata/pan spiciato
sicuramente possiamo dire che è una adozione ed una trasformazione. Dolci simili nel
basso medioevo se ne trovavano ovunque in Italia, ma come spesso è accaduto qui, la
spongata si radica si evolve, viene adottato e quindi diventa un dolce giudijo che poi
ritorna ad essere nel caso di Cremona e della bassa emiliana, dolce cristiano. Ma siamo
certi di poter ancora a questo punto ricercare delle origini? Alla fine è come tirare la
giacca da una parte e dall’altra senza lotte di religione e senza paternità o maternità
ostentate, un percorso spesso inconsapevole che quando lo diventa, consapevole, cade
nelle tristi appartenenze di campanile.
Cosa ci sia di particolare in questo dolce, è da ricercarsi nella composizione del ripieno
il quale assomiglia in modo sorprendente al charoset, uno dei simboli della tavola celebrativa di Pesach; quest’ultimo è composto da un impasto di noci, mele, fichi o datteri,
zucchero o miele, ma anche castagne se non si poteva avere altro. Necessari erano comunque ingredienti che ricordassero il colore e la consistenza della malta che gli ebrei
utilizzavano per confezionare i mattoni durante la schiavitù sotto il faraone egiziano.
La differenza col charoset oltre nel significato religioso e che il pan spiciato non sembra
avere, è la pasta che contiene il ripieno che era fatta con farina e burro, qualche tuorlo
d’uovo e veniva tirata sino a poter avvolgere il ripieno modellandolo a forma di pane. Ed
ecco che ritroviamo il metodo delle antiche torte: due sfoglie confezionate in varie fogge
che contengono un ripieno, in questo caso come un pane – ma non lievitato. Il charoset è un alimento che appariva principalmente solo per Pesach ma che naturalmente si
presume non scomparisse dalle abitudini delle cuoche ebree. Altro particolare che attira
ulteriormente attenzione su questo caratteristico dolce è il fatto che in questa ricetta, in
modo sorprendente per l’epoca, abbiamo le dosi, il procedimento preciso, la datazione
desunta dall’analisi del documento ed il luogo di produzione.
Un unicum rarissimo per una preparazione gastronomica, anche se purtroppo il nome
del fantasioso cuoco o cuoca non è a noi pervenuto.
Questo dolce (spongata o pan spiciato che si voglia)oggi è comunemente attribuito ad
una potestà ebraica, ma forse sarebbe meglio dire che è il frutto di una adozione reciproca, ognuno con le sue chiavi di lettura e che comunque alla fine si infrangono sul
gradimento che una preparazione ha o meno, semplicemente persiste nella tradizione
culinaria come per tutti gli altri alimenti, perché è buono.
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Incontri e confronti
Il primo contatto che ogni bambino ha con il mondo, passa attraverso la bocca; acquisisce la conoscenza del nuovo “assaporando” ogni oggetto che incontra. I suoi assaggi sono
senza timore alcuno e spinti solo da desiderio di conoscenza.
Ecco, la cucina è proprio questo, abbattere le barriere e conoscere ogni popolo attraverso
i propri piatti e tradizioni.
Vengono riportate qui di seguito alcune ricette poste una di fronte all’altra per dimostrare la specularità di alcune preparazioni che nel tempo con piccole varianti sono state
adottate dagli ebrei o dai cristiani (i gentili). Anche se nella maggior parte delle ricette
la presenza notificata nei ricettari è anteriore alla presenza ebraica non si può dimostrare
che le varianti seguite nel tempo non possano essere state introdotte dalle comunità che
si formavano man mano, portando con se usanze e consuetudini di altri paesi d’Europa
e non solo. Alcune ricette sono riferite a ricettari molto antichi che segnalano una persistenza ed una resistenza al cambio dei gusti e delle abitudini nel tempo.
Non esiste una ortodossia delle ricette, esiste una traccia più o meno forte che detta
le principali regole di esecuzione e di composizione degli ingredienti principali fino al
punto che le varianti non introducano ad un’altra preparazione. L’elenco dimostrativo
qui di seguito esposto non è esaustivo delle contaminazioni possibili fra comunità e
non vuole neanche stabilire le rispettive “aree di contagio” ma solo dare un’idea o meglio
suggerire una riflessione, su quante somiglianze si possano evincere analizzando i ricettari e la conseguente adozione da parte delle comunità e delle città di una preparazione
o di un’altra o della creazione di una variante adottata da entrambe. Principale fonte del
confronto è in primis Mastro Martino de Rossi, lombardo dell’estremo nord del lago
maggiore, ora appartenente alla Svizzera che attorno al 1460 quando era coquo del Patriarca di Aquileja scrive le sue ricette che ispirarono poi l’importante opera del Platina.
27
Questa ricetta è stata raccolta in Italia
probabilmente nella zona ferrarese o veneta ed è un piatto che si prepara per Rosh
ha-shanà il capodanno ebraico, il nome di
questa festa significa letteralmente - la testa
dell’anno – cade nel mese di settembre e
secondo un’antica tradizione il mondo sarebbe stato creato in questi giorni. A tutti
si offrono fette di mele intinte nel miele
per augurare qualcosa di dolce, cioè di piacevole per tutto l’anno.
La ricetta che ora viene descritta ha una
radice molto antica ed è stato tratta da un
piccolo codice trecentesco di area veneziana. La presenza veneziana come detto solo
dal XV secolo influenzava più o meno stabilmente parte della Lombardia orientale.
Il Libro per cuoco, così è stato chiamato
perché senza titolo riporta la ricetta per il
pesce che potremmo dire essere la progenitrice, perlomeno definita da uno scritto
e non dalla tradizione orale, del pesce in
carpione.
Questa ricetta è molto simile al veneziano
Saor o a Brescia aole sisà e veniva preparata per conservare il pesce che non poteva
essere consumato in giornata. Infatti i pesci
fritti marinati con questa preparazione
agrodolce venivano conservati in vasi di
terracotta invetriata per un breve tempo
tanto da poter comunque godere del cibo
senza sprechi.
La sostituzione delle mandorle con i pinoli,
o dell’aceto con il limone non cambiano la
sostanza agrodolce della preparazione.
Pesce dolce per Rosh
ah-shanà
Per 6 persone
Sei piccole trote o altro pesce di acqua dolce,
farina, pepe rosa e coriandolo, una cipolla,
una carota, 2 cucchiai di uvetta ammollata,
due cucchiai di pinoli, il succo di due limoni
due cucchiai di miele olio e.v.o., sale.
Fare friggere leggermente i pesci dopo averli
infarinati, toglierli dall’olio ed asciugarli
su carta assorbente sistemandoli poi in una
teglia da forno. In una scodella mescolare
l’uvetta la cipolla tagliata a fettine, la carota
anch’essa tagliata a listarelle, il miele, il succo
di limone allungato con un po’ d’acqua, il
coriandolo ed i pinoli. Cospargere i pesci con
questa preparazione e porre in forno riscaldato per 15 min.
Cisame de pesse quale tu voy
Toy lo pesse e frigello, toy zevolle [cipolle] e
lessale un pocho e taiale menude [finemente],
po’ frizzelle ben, poy toli aceto et acqua e
mandole monde intriegi [mandorle spellate
intere], et uva passa, e specie forte, e un pocho
de miele, e fa bollire ogni cossa insema e meti
sopra lo pesse.
Esiste una variante classica che porta in
ebollizione in un piccolo tegame tutti gli ingredienti che vengono poi versati bollenti sui
pesci fritti e lasciati così marinare.
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Nella festa di Purim, il carnevale ebraico
ricco di preparazioni gastronomiche caratteristiche i buricchi (o buricche o burichitas
degli ebrei levantini) occupano un posto di
rappresentanza particolare. I tortelli salati
descritti in seguito ripieni di carne sono
molto simili dell’archetipo dei tortelli e
ravioli poi finiti nel mondo dei gentili, ma
non solo, a cuocere in brodo.
Viene riportata ora una antica ricetta sempre di Mastro Martino de Rossi. Ricetta
che descrive bene il modello gastronomico
sicuramente alle origini di tutte le paste ripiene, anche se nel suo ricettario appaiono
già tortelli e raffioli cotti nel brodo.
La ricetta scelta invece ha come soggetto la
carne di cervo o di capriolo che però sicuramente poteva essere sostituita da quella
di altro animale disponibile. Un particolare
e la cottura preventiva in acqua e sale per
l’eliminazione completa del sangue, tanto
cara alla precettistica ebraica.
Buricchi di Purim
500gr di farina,70 gr di olio e.v.o., grasso
d’oca,olio di mais o di girasole, sale – 500gr
di pancia di manzo tagliata a pezzi, 2 grosse
cipolle, 2 cucchiai di pinoli, 2 cucchiai di
olio e.v.o., sale e pepe.
Per far pastello secco de
cervo o de capriolo
Per far pastello de carne cervo o de capriolo:
in prima taglia la carne in pezi grossi como
due pugna, et fagli fare solamente un buglio
in acqua miscolata con aceto et sale secondo il
bisogno. Dopo cavala fore et ponila in loucho
che l’umore del bruodo esca fuori e si sciucchi
un pocho la ditta carne. Dopo togli pepero
et cannella polverizzata inseme giongendoli
del sale…et togli del buon lardo et fanne
lardoni..et inlarda bene ..la dicta carne. Et
abi de garofoli sani, et piantane molti da
ogni canto in la dicta carne, la quale etiam
dio vole essere ben involtata nelle dicte spetie.
Da poi togli de bona farina et fa la crosta un
poco più grossa che quella dele lasangne. Et
ad ogni pezzo di carne fa la sua spoglia ditale
crosta et ponila accocere nel forno ad agio ad
agio et vole essere ben cotta…
Porre in una casseruola l’olio le cipolle tritate
grossolanamente, la carne a pezzi il sale ed il
pepe. Cuocere per almeno due ore aggiungendo se necessario un po’ d’acqua. A fine cottura
far asciugare il fondo alzando la fiamma.
Impastare in una terrina la farina con l’olio
e.v.o. ed il sale ed un po’ di acqua tiepida e
fare riposare. Stendere la pasta tirandola con
il dorso delle mani sino a che sia sottile, spennellare la superficie con il grasso d’oca o con
olio di semi, arrotolare la pasta sino ad ottenere un cilindro dal quale otterrete tagliandole delle rotelle alte un cm. Stenderle e porre
al centro un po’ di ripieno,piegare su stessa la
pasta e porre in forno su una placca.
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Come descritto in precedenza le gribale o
gribani venivano preparate con la pelle di
oca principalmente ma anche di pollo o di
anatra che avanzava magari dalla salatura
della carne posta in conserva. La preparazione in se semplice, aveva il duplice scopo
di ottenere per fusione un grasso da utilizzare sia per le fritture che come condimento nelle varie composizioni gastronomiche,
grasso che sostituiva l’olio di oliva presente
in abbondanza in altre regioni ma assente
se non per limitate aree del Garda in Lombardia.
La macellazione di un animale era il momento per assumere proteine nel massimo
modo possibile. Essendo l’animale, oca o
maiale che fosse prezioso nella sua essenza
si tentava di non sprecare nulla. L’ottenimento dello strutto, dal grasso del maiale
in eccesso dalle preparazioni salate - restituiva oltre che il grasso disciolto anche le sfiziose gripole, spesso unico accompagno alla
sempre presente – dal XVII secolo- polenta
o al massimo ingrediente caratterizzante di
una focaccia con le gripole in uso nel mantovano.
Gribani o gribale
Gripole o Gripuli o Grepole
Prendere la pelle del pollo o dell’oca e tagliarla a piccoli pezzi, porla in una casseruola sul
fuoco moderato senza coprirla con coperchio,
mescolando spesso. Quando la pelle comincia
a seccare e quindi a divenire quasi croccante
si possono aggiungere rondelle di cipolle o
rametti di rosmarino. Scolare bene il tutto e
porre su carta assorbente. Il grasso liquefatto
si può conservare in un vaso in frigorifero. Se
lo si vuole utilizzare anche per preparazioni
dolci bisogna evitare l’introduzione della cipolla e del rosmarino.
La preparazione segue in modo identico il
metodo applicato per i Gribani o Gribale.
La produzione delle gripole di maiale invece
interessava solo il lardo senza cotenna, che
ridotto in piccoli dadini veniva disciolto per
qualche ora in grandi pentole di rame stagnato. Alla fine si potevano aggiungere a scelta
qualche fetta di mela o cipolle e rosmarino
togliendole poi con lo scopo unico di lasciare
l’aroma. Il trucco per la riuscita di una buona gripola è la cottura lenta stando attenti
che non si bruci il grasso disciolto ottenendo
così uno strutto candido, segno di ottima fattura che veniva anch’esso conservato in vasi
di coccio invetriato e ben chiuso. Le gripole
venivano quindi spremute con forza, raffreddate venivano conservate magari cosparse di
sale all’interno di vasi coperti.
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Un piatto della cucina sefardita, del quale
non si conosce la nascita temporale, come
d’altronde per molte altre preparazioni,
propone una procedura che vede alla fine
della ricetta cospargere la carne cotta con
l’uovo sbattuto acidulato con limone, presente in molte altre ricette ebraiche e che
nella cucina in genere si chiama fricassea.
Il confronto proposto sottolinea quanto
trasversale per latitudine sia la fantasia culinaria che a piccole dosi sublima l’alchimia
gastronomica di parte del vecchio mondo.
Simile per preparazione un piatto della
cucina tardo medievale di Mastro Martino
de Rossi.
Per fare un pastello in una pignatta togli prima de la carne et de bon grasso de vitello, et
tagliala ben menuta et mettila in la pignatta.
Et se con la ditta vcarne e grasso ti pare ponervi pollastri, o pippioni [piccioni] fa como
te piace. Et dipoi metti la pignatta longi [lontano] dal focho sopra la brascia. Et quando
comincia a bollire fa che sia ben schiumata,
da poi mittivi un pocha duva passa e togli un
poco de cipolla tagliata menuta et fritta con
un poco di bono lardo, et mittila inseme col
lardo nella pignatta. Et quando te pare quasi
cotta mettevi de bone spetie et dell’agresto40.
Et se te pare poi mettere uno o doi rosci di ova
battuti [sopra]. Et quando il ditto pastello e
cotto mandalo in tavola.
Albondigas
Per 6 persone
500 gr. di carne macinata di manzo, 2 spicchi d’aglio coriandolo, cumino, prezzemolo,
2 uova intere, azzima pesta o pangrattato,
3 cipolle, vino bianco, farina, sale pepe olio
e.v.o. o grasso di oca o gallina. Per la fricassea
2 uova intere succo di un limone i cucchiaio
di prezzemolo tritato.
Mescolare in un recipiente la carne, l’aglio
sbucciato e schiacciato, il prezzemolo, il
coriandolo ed il cumino e mescolare bene.
Aggiungere poi le 2 uova e l’azzima pestata
e formare delle polpettine.infarinare le polpettine e porle poi in una casseruola dove sul
fondo ci sia dell’olio caldo facendole rotolare
per dorarle da ogni parte. Bagnare con il vino
bianco unire le cipolle tritate e fare cuocere
coprendo la casseruola. A cottura ultimata
fare asciugare il liquido in eccesso ed aggiungere le uova sbattute unite al succo di limone
ed al prezzemolo finchè la consistenza del
fondo sia cremosa.
40 Uva acerba schiacciata che ha lo scopo di acidificare le composizioni a cui viene aggiunta. Nel
nostro caso come per il limone
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Questa minestra di chiara origine aschenazita richiama chiaramente gli Knodel
o canederli anche se la presenza della
mandorla la rimanda ad una preparazione
molto antica riportata nell’esempio a fronte
nella quale solo in un secondo tempo si è
aggiunta il prosciutto d’oca
La presenza dello zafferano nel brodo richiama una usanza particolarmente ricercata nell’alta cucina rinascimentale dei gentili
che colorava il brodo con lo zafferano il
quale oltre aggiungere uno spiccato aroma
faceva diventare “d’oro” il brodo della minestra.
Questa ricetta è rimasta nella tradizione
montana della zona che arriva sino al Trentino - alto Adige ma è una preparazione
antica nota come minestra di bocconcini.
La ricetta qui di seguito riportata è tratta
dal manoscritto di Mastro Martino. La
minestra che segue è più simile ai passatelli
ed in alcuni casi porta nella composizione
anche la farina di mandorle.
La farina di mandorle è componente importante di molte ricette fra cui il biancomangiare, il simbolo forse più rappresentativo della cucina del primo rinascimento,
presente anche nella cucina ebraica antica
con il nome di mandel reis che sostituisce
la carne di cappone con del riso.
Minestra di Kneidelach
Per 6 persone
100 gr. di farina di azzime, 2 uova intere,un
cucchiaio di mandorle pelate e tritate
finemente,prosciutto d’oca tagliato finemente
o i alternativa manzo affumicato, i pizzico di
prezzemolo, noce moscata e sale.
Per fare zanzarelli
Per fare dece menestre, togli octo ova et meza
libra de caso grattugiato, et un pane grattato,
et mescola ogni cosa inseme. Dapoi togli una
pignatta con brodo di carne giallo di zafrano
et ponila al focho, et como comincia a bollire… getta detta composizione et sia alquanto
più dura, et togli un cocchiaro piccino. Et
quando il brodo comincia a bollire, fa li sbocconcelli como una fava, et gettagli ad uno ad
uno nel brodo.
Preparate un buon brodo meglio se di gallina
con sedano carota e cipolla. Preparare con
tutti gli ingredienti delle polpettine piccole,
se necessario unire del brodo per impastare.
Farle cuocere nel brodo leggermente sgrassato
e filtrato con l’aggiunta verso la fine cottura
dello zafferano disciolto in un po’ di brodo.
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Un’altro dei piatti simbolici della cucina
ebraica è il frizinsal o fresensal piatto che
ricorda nella sua costituzione ad un altro
piatto storico della cucina italiana: le lasagne o la pasta al forno.
Nelle versioni sia con lasagne o con tagliatelle, la preparazione ricorda chiaramente
l’archetipo medievale quando apparve la
pasta sulle tavole dei gentili.
L’adattamento ebraico con la presenza di
prosciutto d’oca o di salsiccia di vitello –
kasher – sottolinea quanto le preparazioni
gastronomiche alla fine non abbiano una
patria ma molte.
Delle lasagne ne esistono decine di versioni, ma anche per il riutilizzo della pasta
avanzata che rinforzata magari a strati con
altro sugo si poneva in forno o in padella a
soffriggere e per farla diventare dorata.
L’antica ricetta delle lasagne è molto più
semplice, già dal XV secolo la pasta tagliata
a losanghe composta quasi sempre con sola
farina e acqua veniva gustata inframezzata
con botiro et formazo gratato. L’assenza del
pomodoro come per il frizinsal le rende
particolari ed aderenti ad un territorio
come quello lombardo che fece molta più
fatica che le altre regioni del centro sud a
fare entrare la salsa di pomodoro nella sua
cucina.
Frizinsal
Sono le lasagne probabilmente il motivo
principale per cui la forchetta è stata introdotta sulle tavole italiane così abituati
com’erano per ancora molto tempo a mangiare con le mani, un coltello ed un cucchiaio per le preparazioni liquide.
Dapprima con una punta e poi con la forchetta le scivolose e bollenti lasagne entrarono di prepotenza nella cucina regionale
italiana soprattutto nel nord. Piatto della
festa in assoluto per la sua ricchezza suggerì
poi la tecnica per altre preparazioni come
ad esempio la parmigiana di melanzane e
molto altro.
400 gr di farina, 4 uova, sugo di arrosto o
grasso d’oca, 100 gr di uvetta (facoltativa),
100 gr di pinoli pezzetti di salsiccia o prosciutto d’oca.
Impastare le lasagne con farina ed uova e
dopo aver lasciato riposare tirate una sfoglia
sottile e farle cuocere dopo averle tagliate in
acqua salata bollente. Scolatele e disporle
in una pirofila unta con grasso d’oca o sugo
d’arrosto alternate uno strato di pasta (anche
di tagliatelle) ed uno di prosciutto d’oca o salsiccia e un po’ di sugo d’arrosto, fare più strati
e porre in forno sino a che sia completamente
dorato.
In alcuni casi oltre al prosciutto d’oca si alterna con fegato grasso d’oca.
33
Probabilmente copiate dai vicini cattolici
italiani sono le orecchie di Amman che simboleggiano come già detto il perfido ministro di Assuero re assiro.
Lo sberleffo, lo scherno, sono l’anima del
carnevale dove tutto o quasi è permesso nel
segno di quella trasgressione liberatoria che
vedeva gli uomini ebrei quasi impegnati a
bere oltre l’abitudine. Purim il carnevale
ebraico, anche se carnevale non è la parola
giusta ma chiarificatrice di un periodo di
festa e di gioia.
Lattughe o chiacchere oppure con altri
nomi locali, questo dolce è forse il più
rappresentativo del carnevale dove la festa
è dolce. Tante altre ricette del periodo sono
dolci e fritte, dove la dietetica va “ a farsi
benedire” e la festa alimentare è il segno
tangibile prima della mancanza del periodo
di digiuno o magro quaresimale.
Qui riportata una ricetta presa a caso, di
origine mantovana, ma attribuibile ad
ogni provincia lombarda di pianura. Per la
sua diffusione è impossibile stabilire l’origine una ricetta ma tantissime variabili della
stessa.
Anche se già in epoca longobarda strisce o
pezzi pasta fritta erano presenti nella dieta.
Orecchie di Amman
4 uova, un cucchiaino di zucchero, cannella,
un bicchierino di liquore e farina q.b. per
impastare.
Impastare tutti gli ingredienti e tirare una
sfoglia non troppo sottile. Tagliare a strisce o a
quadrati con la rotella e friggerle in olio caldo
e abbondante.
Aggiunta.
A parte in un tegame si fa sciogliere mezzo
kg di zucchero con mezzo bicchiere di acqua
formando uno sciroppo denso. Si passano le
orecchie nello sciroppo bollente e si posano sul
piatto di portata.
Lattughe
3 uova, 3 cucchiai di zucchero, il succo di
una arancia o un bicchierino di liquore o della buccia grattugiata di limone, farina q.b.
per impastare, un pizzico di sale.
Si impastano tutti gli ingredienti e dopo
averla lasciata riposare si fa una sfoglia. Con
la rotella si tagliano dei quadrati tagliati
ulteriormente all’interno con due o tre tagli
trasversali. Si friggono in abbondante olio
bollente, scolate e poste su carta assorbente si
cospargono poi di zucchero a velo.
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Mettiamo ora a confronto, ma solo per
mostrare che quanto viene prodotto ha una
radice gastronomica simile ma significati
completamente diversi anche se entrambi
sono dolci riferiti ad uno momento religioso importante.
Charoset o Haroset è un dolce che vede la
sua funzione all’interno di Pesach per la
sembianza che ha e non necessariamente
per il gusto, comunque molto buono. Il
colore, la pastosità che deve rappresentare
per sembrare la malta dei mattoni costruiti
per gli egiziani ha come base la frutta secca
e comunque la frutta della stagione dove si
celebra la pasqua non ancora entrata – per
l’Italia - nella primavera.
Parente del panforte, ma di molte altre
preparazioni speziate utilizzando come base
una preparazione fatta con miele frutta
secca, pane grattugiato e spezie in abbondanza. Un dolce che rappresenta molto
bene il rinascimento italiano e che trova in
questo caso un luogo di nascita, Cremona
nella seconda metà del “500, nella quale
sino alla loro espulsione avvenuta nel 1597
gli ebrei avevano fatto parte, fra alti e bassi
con una attiva comunità. Che si chiami
spongata o come in questo caso pan spiciato poco cambia, quello che è importante
è questa variante gastronomica un dolce
particolare perché esaltato dall’ostentazione
delle spezie.
Haroset
Pan spiciato alla cremonesa
500 gr di mele, 500gr di pere, 1 kg di datteri
o 500 di castagne secche, 250 gr di zucchero,
un kg di mandorle tritate, 200gr di uvetta
ammollata, scorza di arancio grattugiata o
cannella.
Mettere al fuoco mele e pere sbucciate con i
datteri snocciolati o le castagne ammollate e
fatte cuocere a parte ed il resto degli ingredienti salvo la cannella. A metà cottura passare il tutto o frullare con un mixer e riporre
sul fuoco. La cottura totale sarà di circa due
ore mescolando. Mettere in una terrina dando una forma a cupola dell’impasto raffreddato e cospargere di cannella.
Prendi noci, mandorle, pignuoli, uva appassita, miele bullito, pan pesto e stamegnato
[setacciato]et poi gengevero [zenzero], noce
moscata, pevere pesto, garophani et cinnamomo mescola tutte le cosse insieme e fai massa.
La crostola si fa così prendi farina e sfregala
fra le mani con un poco de acqua aggiungi
rosci d’ova e botiro e poi fai crostola, dentro
metterai la massa in forma come li nostri
pani, et fai cocere.
35
Impastare farina e acqua e farla cuocere è
stato sicuramente il primo atto culinario
insieme alla cottura della carne da quando
l’uomo è sulla terra. Ma se farina ed acqua
cotta immediatamente produce l’azzima –
mazzah - nulla vieta in altri periodi dell’anno però di aggiungere altro come zucchero
o uova e qui si ottiene la matzà ascirà, ma
sicuramente qualcuno l’ha fatta anche nella
versione salata. L’azzima però contiene in
se la velocità della preparazione della non
lievitazione, il segno della fretta che però
come in questo caso non rinnegava il gusto.
Nella cucina padana come d’altronde in
tutto il mondo il pane della fretta era ed è
presente, spesso salato, come le piade o le
chissoule o il fugassin mantovano.
Dolce o salato accompagnava merende o
pasti veloci sino a diventare oggi anche uno
stuzzicante intermezzo arricchito indifferentemente da salumi, creme o confetture.
Un reliquato storico dell’alto mantovano
al confine con il bresciano è il fugasin che
contiene la stessa radice della focaccia, il
focho dove si metteva a cuocere sopra un
testo o su una pietra. A differenza della
matzah ascirà il fugassino come le piade
portano nell’impasto un grasso che le rende
particolarmente friabili.
Matzah ascirà
Fugassin
Non esiste una vera e propria ricetta ma
l’unione di farina, magari vino bianco o
succo d’arancia, qualche uovo e zucchero. Impastando il tutto immediatamente per evitare
che cominci un qualsiasi moto di lievitazione
ed infornando o in forma di focaccine molto
basse o nella forma che più aggrada.
Farina 00, o strutto o olio di oliva, sale o
zucchero poca acqua.
Si impastano gli ingredienti a piacere e dopo
averla fatta riposare per poco si tirano dei
dischi di pasta alta circa mezzo centimetro.
Si fora con i rebbi della forchetta e la si pone
a cuocere anche in una padella antiaderente
molto calda facendo attenzione a girarla con
delicatezza perché si potrebbe spezzare.
36
Il pane dolce è sempre stato una preparazione simbolica che vuole differenziarsi
da quello della quotidianità leggermente
salato. Un pane più ricco, magari con uova
nell’impasto, zucchero ed altri ingredienti
che lo rendono semplicemente speciale anche per chi poco poteva.
Il Bollo o Bolo è un dolce tipico della festa
di Succoth, la festa delle capanne in ricordo
delle capanne che gli ebrei si costruirono
durante i quarant’anni di peregrinazione
nel deserto, ma viene usato a Venezia anche per sdigiunare al termine del digiuno
del giorno di Kippur La sua preparazione
assomiglia molto al bussolano o al bussolà
bresciano.
Dei pani dolci sono piene le feste, pani
impastati con uova, zucchero, uva passa,
spezie in varia quantità rappresentano il periodo natalizio in quasi tutta Italia. Il pan
dolce per eccezione entrato nella cucina
nazionale è il panettone, dolce non semplice da fare perché usa il lievito madre, come
da sempre si è usato e non quello di birra.
Riportiamo qui solo per comparazione gli
ingredienti e sommariamente il procedimento per la sua difficoltà.
Panettone
500 gr farina 00, 500 gr farina manitoba ,
230 gr burro, 6 rossi d’uovo, 2 uova intere,
110 gr di uvetta, 110 gr di scorze d’arancia
candite,240 gr di zucchero, 40 gr di lievito
madre in polvere acqua 310 ml.
Bollo
500gr. di farina,3 uova,5 cucchiai di olio di
oliva, 5 cucchiai di zucchero, 35 gr di lievito
di birra, 50 gr di uva passa, anici, buccia
grattugiata di limone.
Impastare il lievito con 90 ml di acqua tiepida con 100 gr di farina e fare la prima
lievitazione di 2 ore questa operazione si ripete per tre volte aggiungendo. Nel frattempo
sciogliere lo zucchero in 100 ml di acqua a
bagnomaria ottenendo uno sciroppo fluido,
togliere e lasciare intiepidire aggiungendo
poi le uova una alla volta sbattendo bene,
aggiungere i canditi e l’uvetta. Fare un secondo impasto con la restante farina, il burro il
panetto lievitato ed il resto degli ingredienti.
Impastare bene porre nella forma e lasciare
lievitare per almeno 5 ore. Porre in forno a
cuocere.
Sciogliere in una ciotola il lievito con poca
acqua tiepida ed aggiungere poca farina in
modo da ottenere un impasto non troppo
molle, coprire e fare riposare per 2 ore. Aggiungere poi le uova, l’olio, lo zucchero, l’uva
passa ammollata, gli anici, la buccia di limone e ancora un po’ di farina, facendo lievitare
ancora per un ora coprendo la ciotola. Porre
poi la pasta lievitata sul tavolo lavorandola
aggiungendo ancora la restante farina dando
la forma che si vuole, coprire ancora e fare
lievitare. Spennellare con uovo sbattuto e porre in forno caldo.
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Certificazione kosher
di Daniele Cohenca
Responsabile Certificazione Kosher,
rabbinato della comunità Ebraica di Milano
La certificazione Kosher è un servizio offerto alle aziende alimentari orientate al
mercato nazionale ed internazionale. Ottenere il certificato Kosher significa produrre alimenti idonei al consumo e conformi alle norme di alimentazione Kosher.
Kosher è l’insieme delle regole religiose che dominano la nutrizione del popolo ebraico
osservante. La parola “kosher” o “kasher” significa conforme alla legge, adatto, consentito. Le leggi dell’alimentazione ebraica (kasherut) derivano dalla Bibbia, e sono dettagliate nel Talmund (uno dei testi sacri dell’ebraismo) che, insieme ad altri codici delle
tradizioni ebraiche, è considerato trasmissione della Torah. La Bibbia elenca le categorie
di cibi che non sono kosher, tra cui alcuni animali, uccelli e pesci (come il maiale e il
coniglio, l’aquila e la civetta, il pesce gatto e lo storione), la maggior parte degli insetti e
qualsiasi crostaceo o rettile. Il rito di macellazione della carne di manzo e di pollo deve
essere eseguito da un Rabbino, che essendo la guida spirituale della comunità ebraica,
conosce perfettamente le regole ed ha ricevuto la licenza dalla Comunità Ebraica. Il rito
prevede di macellare animali del tutto sani e di privarli subito del loro sangue che non
può essere consumato (poiché contiene la vitalità dell’animale). La macellazione avviene
con un solo taglio alla giugulare ed è eseguita con un coltello senza alcuna imperfezione
sulla lama. Non tutte le parti dell’animale possono essere mangiate (ad esempio è vietato mangiare il nervo sciatico e alcune parti di grasso; inoltre cuore, fegato e polmoni
bisogna renderli kosher ponendoli direttamente sul fuoco). La carne insieme al latte e
i suoi derivati non possono essere consumati e fabbricati insieme, poiché nella Torah è
citato più di una volta “non cuocerai il capretto nel latte di sua madre”. Per questo gli
ebrei fanno si che questi due alimenti non entrino mai in contatto, sia durante i pasti
che nella loro conservazione.
La certificazione kosher è un utile strumento di marketing per le aziende che aspirano a vendere i propri prodotti alla grande distribuzione.
Il mercato dei prodotti certificati kasher non riguarda solo gli Ebrei osservanti, ma
anche Musulmani, e milioni di individui vegetariani o che soffrono di intolleranze.
Le ricerche e le statistiche confermano che con la certificazione kasher i clienti si sentono
tranquilli, perché i prodotti vengono controllati e soddisfano alti standard di qualità.
Ed è per questo motivo che sono sempre più numerose le aziende che scelgono di munirsi di tale certificazione;
In Italia tra i marchi dotati di certificazione kosher ci sono: Barilla, Olio Sasso, Ferrarelle,
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Nutella, Ferrero, Kellogs, De Cecco, Ketchup Heinz,Scotti, Loacker, Cirio, Heineken,
Olio Monini, Rio mare,Nestlé, Longobardi, Algida, Mutti, L’Angelica, Buitoni, Dietorelle, Mulino Bianco, Pavesi, Rigoni d’Asiago, Perugina, Amaretti di Saronno, Bertolli,
Carapelli, Lazzaroni, Lavazza, Kimbo, Santa Rosa, etc…
La OU (Orthodox Union) statunitense, è il piu’ grande ente mondiale per la certificazione kosher di prodotti alimentari. Essa certifica oltre 400.000 prodotti provenienti da
6.000 stabilimenti in ottanta paesi. Oltre a prodotti alimentari per il consumo, la OU
certifica anche ingredienti e attivita’ di food service.
Il logo della OU e’ diventato sinonimo di marchio di qualita’ che certifica che i prodotti
hanno passato ispezioni che garantiscono gli elevati standard dei prodotti.
MATERIE PRIME
Il fornitore di materie prime per l’industria, può accompagnare ai propri prodotti questo prezioso riconoscimento, assicurandosi la fedeltà dei propri clienti. Con la veloce
evoluzione della certificazione Kosher in Italia, il produttore finale sceglie di avvalersi
del proprio riconoscimento Kosher, optando per un fornitore che saprà accompagnare
ai propri prodotti la certificazione Kosher, continuando a risultare nella lista delle mp
approvate dal cliente.
PRODOTTI FINITI
Il conseguimento del certificato Kosher sui prodotti indirizzati al consumo diretto, offre
l’applicazione del marchio Kosher sulle confezioni dei prodotti alimentari, quale efficace
veicolo di classificazione, al fine di incrementare la vendita dei propri prodotti, in tutti i
paesi che già ne fanno largo consumo.
Nei paesi sensibili ai prodotti Kosher, quali la Francia, gli UK, il continente americano,
la Russia, Sud Africa, Australia, come chiaramente l’Israele, si possono trovare una varietà di oltre 40.000 prodotti a disposizione del consumatore.
Questa certificazione risulta essere uno strumento indispensabile per rispecchiare ed
indicare la trasparenza nel prodotto che ha conseguito il Kosher. Il consumatore è informato che il prodotto certificato ha sostenuto e superato con successo le rigide procedure
di ottenimento.
Un prodotto certificato Kosher è quindi, la fase finale di una accurata scelta degli ingredienti utilizzati, con la garanzia della totale assenza di rischi di cross-contamination. Per
questo motivo, i consumatori Kosher sono in continuo aumento, appartenendo a tutti i
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ceti sociali e religiosi, compresi gli intolleranti a diversi alimenti. Un prodotto certificato
KOSHER PARVE, è una garanzia per gli intolleranti al latte ed alla carne, così come
sarà una garanzia per i musulmani. Un prodotto certificato KOSHER PASSOVER, è
una garanzia per i celiaci.
Acquisire il valore aggiunto di cui già si avvantaggiano i migliori Brands italiani ed
internazionali, ed offrire un Servizio Premium a chi continuerà a scegliervi, questo è il
certificato Kosher.
COME OTTENERLA
La certificazione Kosher si ottiene a seguito di un iter di controllo da parte di un ente
rabbinico specializzato in certificazioni Kosher, che supervisiona la produzione di un
alimento al fine di garantire che esso sia kosher, ossia conforme alle regoli alimentari
ebraiche.
In generale, la supervisione si concentra su due aspetti:
gli ingredienti (tutti gli ingredienti e sotto ingredienti impiegati in un prodotto devono
essere kosher) e gli impianti di lavorazione (essi devono essere kosher e non possono
essere impiegati, se non debitamente Kosherizzati).
Un rappresentante del rabbino in questione effettua frequenti e regolari visite nello stabilimento senza preavviso, allo scopo di verificare che non ci siano stati cambiamenti che
possano compromettere il suo stato di kosher.
La certificazione ha una scadenza e va periodicamente ripetuta e può essere inoltre revocata in qualsiasi momento.
La certificazione Kosher si ottiene a seguito di un iter di controllo da parte di un ente
rabbinico specializzato in certificazioni Kosher, che supervisiona la produzione di un
alimento al fine di garantire che esso è kosher, ossia conforme alle regoli alimentari
ebraiche.
In generale, la supervisione si concentra su due aspetti:
Ingredienti: tutti gli ingredienti e sotto ingredienti impiegati in un prodotto devono
essere kosher.
Impianti di lavorazione: essi devono essere kosher e non possono essere impiegati, se
non debitamente Kosherizzati, in caso di lavorazioni alternate.
L'iter di certificazione ha inizio con la creazione di un elenco scritto degli ingredienti
kosher che possono essere impiegati nello stabilimento e prosegue con l'approvazione del
processo di produzione. Un rappresentante del rabbino o dell'ente rabbinico in questione
effettua frequenti e regolari visite nello stabilimento senza preavviso, allo scopo di verificare
che non ci siano stati cambiamenti che possano compromettere il suo stato di kosher.
Il cibo kosher richiede la benedizione di un rabbino? Assolutamente no.
Perché è necessario un rabbino per la supervisione kosher? Le leggi del kosher sono
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basate su migliaia di opere scritte nel corso dei due millenni passati. Un rabbino è per
definizione esperto in questo vastissimo campo di conoscenza ed è opportunamente preparato ad applicare tali antiche tradizioni alle attuali esigenze della moderna tecnologia
alimentare.
Perché non basterebbe che il consumatore legga la lista degli ingredienti stampata sulla
confezione? I vari prodotti alimentari contengono ingredienti che possono essere kosher
o non kosher a seconda dell'origine. Ad esempio, la glicerina può essere sia di origine
animale che vegetale. Inoltre, molti ingredienti contengono componenti che non sono
indicate nell'etichetta. Ad esempio, gli aromi sono composti da decine di ingredienti,
ma solo la parola “AROMI” compare sull'etichetta. Tali ingredienti, che non sono indicati sull'etichetta, possono rendere l'intero prodotto non kosher. Infine, il prodotto può
essere stato fabbricato con attrezzatura non kosher.
Come può il consumatore sapere che un prodotto è stato supervisionato? In generale,
cercando un logo kosher come prova della supervisione. Vi sono diversi simboli impiegati dalle agenzie rabbiniche di supervisione.
REQUISITI
Che si scriva Koscer, Casher o Cascer, la certificazione 'Kosher' dei prodotti alimentari
è ormai riconosciuta e popolare nei 5 continenti. Le oltre 7.000 aziende che la vantano
e ne beneficiano, accrescono in maniera più efficace le vendite, grazie all'offerta di oltre
40.000 prodotti certificati.
Già diffusa dai tempi antichi, la certificazione Kosher attestava la validità alla consumazione da parte dei componenti della comunità ebraica di vini, formaggi ed altri alimenti
trasformati, i quali venivano proposti in località diverse da quelle di produzione.
Il certificato Kosher è emesso da un ente rabbinico riconosciuto e specializzato in certificazioni di prodotti alimentari, e attesta con un documento valido la legittimità di
consumo da parte di chi ne fa richiesta.
Dal 1965, certifichiamo aziende alimentari in Italia. Il servizio che offriamo comprende
un certificato Kosher creato dal portale dinamico DigitalKosher. Esso offre un servizio internazionale che sviluppa un codice identificativo per ogni prodotto certificato,
e consente di averlo sempre aggiornato e visualizzabile semplicemente collegandosi ad
Internet. Tale documento è riconosciuto da tutte le aziende alimentari internazionali e
dai consumatori Kosher, conferendo serietà e prestigio all'immagine delle aziende e dei
prodotti certificati.
In Italia deteniamo l'esclusività di questo servizio innovativo.
È degno di nota il fatto che uno dei primi precetti impartiti agli esseri umani concernesse il cibo, con la proibizione ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita.
Da allora, gli ebrei hanno sempre posto grande enfasi sull’autocontrollo alimentare.
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Le leggi dell’alimentazione ebraica affondano le radici nella Bibbia e vengono osservate
dagli ebrei da più di tremila anni. I principi fondamentali della kashrùt sono illustrati
nel Pentateuco e sono definiti statuti, ossia leggi di cui non ci viene data alcuna motivazione comprensibile dall’intelletto. Tuttavia, i rabbini hanno sempre sottolineato il loro
ruolo essenziale nella preservazione della vita dell’ebreo.
Osservando la kashrùt, i bambini imparano fin dalla più tenera età il concetto di disciplina, distinguendo tra ciò che è permesso e ciò che non lo è. Ma al di là di tale esercizio
di autocontrollo, i rabbini del Talmud forniscono un’idea più mistica: mangiando cibo
non kosher, si riducono le proprie facoltà spirituali, “interferendo la comunicazione con
la propria anima”.
Il pensiero chassidico si spinge oltre, spiegando che tutto ciò che mangiamo diventa
parte integrante del nostro sangue. E poiché, come dice la Bibbia stessa “il sangue è
l’anima”, mangiando cibi vietati, cose che D-o ha creato come impure, diventano parte
della nostra anima rendendo quindi impuri noi stessi.
Così come una dieta salutare è buona per il corpo, la kashrùt lo è quindi per l’anima.
Nella casa ebraica, il tavolo è un altare, la cucina un tabernacolo...
Si tenga presente che quanto segue non è che l’illustrazione dei fondamenti della ben
complessa legislazione che determina l’alimentazione ebraica. Un quadro completo
dell’argomento si può ottenere solo consultando un rabbino o un esperto nel campo.
Il cibo kosher (o kashèr) si classifica in tre diverse categorie in base alla loro origine:
Cibi a base di carne
Cibi a base di latte
Cibi parve.
Parve: i cibi che non contengono ingredienti né di carne né di latte sono definiti parve,
termine che indica il loro stato “neutrale”. Frutta e verdura allo stato naturale sono kosher e parve. Il pesce che ha pinne e squame è kosher e parve. Il cibo parve può diventare di latte se cucinato con latte o derivati, e di carne se invece cucinato con derivati di
carne.
Carne
Le leggi fondamentali che definiscono quali animali, uccelli e pesci sono kosher, sono
illustrate in Levitico, cap. XI.
Due sono le caratteristiche che rendono kosher un animale: Per quanto concerne la
carne bovina, gli animali devono avere lo zoccolo fesso ed essere ruminanti. Esempio di
animali kosher: mucca, capra, pecora ecc. Fra gli animali invece non kosher vi sono, ad
esempio, il maiale, il cammello, il cavallo, il coniglio...
La carne di cervo non è più a portata della tavola kosher poiché, in base a normative
agricole, tale animale deve essere ucciso a colpo di pistola in campi aperti, e non condotto in un mattatoio. Nel XIX secolo, i macellai kosher usavano recarsi alla tenuta
della famiglia Rothschild una volta all’anno per preservare in Inghilterra la tradizione di
sgozzare il cervo.
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Tutti gli animali e i volatili carnivori, il sangue di animali e di volatili e qualunque sostanza da essi derivata non sono kosher.
I rettili, e la maggior parte degli insetti non sono kosher.
Volatili
Alcuni volatili come il pollo, il tacchino e alcuni palmipedi sono kosher. La Torà elenca
soltanto gli uccelli vietati, quali lo struzzo, il gufo e l’avvoltoio. Tuttavia, oggi è difficile
stabilire con assoluta certezza l’identità esatta di tutte le specie. Per tradizione però, mangiamo pollame (pollo, oca, anatra, tacchino...) e anche piccione, fagiano e pernice. Una
tradizione ebraica tedesca permetterebbe anche il passero.
Latte
Latte e latticini (formaggi, crema, burro ecc...) di qualunque animale kosher sono a loro
volta kosher e “di latte”. Essi non possono essere consumati assieme a carne o pollame.
Poiché non è possibile distinguere latte kosher (ossia di un animale kosher) da quello
non kosher, i rabbini hanno decretato che esso debba essere controllato dalla mungitura
fino al confezionamento, per garantire che proviene da un animale kosher. In molti paesi
del mondo in cui l’origine del latte in commercio è garantita dalla legge, alcune autorità
rabbiniche avevano a loro tempo sostenuto che il latte è garantito come kosher e per questo non deve essere controllato (dopo la II guerra mondiale, data la difficoltà negli USA
di reperire del latte controllato, una autorità rabbinica aveva permesso ai consumatori
Kosher aventi primaria necessità, come i bambini ecc., l’utilizzo di latte non controllato
affidandosi ai severi controlli e sanzioni governative a chi mescolava latte proveniente
da altri animali). Il latte kosher controllato, detto Chalav Israel, è oggi molto diffuso sul
mercato dei centri di vita ebraica del mondo e quindi facile da reperire.
Formaggio
Per il formaggio la questione si fa un po’ più complessa, in quanto sotto qualunque forma deve essere controllato da un rabbino. Questo perché il caglio è di origine animale,
provenendo in genere dallo stomaco di vitello. I saggi del Talmud hanno perciò decretato
che tutti i formaggi debbano provenire da una fonte controllata, anche qualora il caglio
dovesse essere vegetale, chimico o microbico. Un altro vincolo che autorizza il formaggio
è la produzione della cagliata, che deve avvenire per mano di un ebreo sensibile alle leggi
della Kashrùt, così come per tutti gli alimenti che necessitano cottura.
Burro
Il classico burro da tavola che troviamo negli scaffali frigoriferi dei supermercati è distinguibile tra burro classico e burro extrafine. Il burro classico, o senza altra specificazione,
è nella stragrande maggioranza un sottoprodotto di lavorazione dei formaggi, rilavorato
in burrifici che rilevano dai caseifici. I caseifici infatti usano recuperare il siero che si separa dal formaggio durante la produzione, per farne del burro industriale il quale viene
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venduto ai burrifici che a loro volta miscelano ad altro burro in base alle caratteristiche
desiderate, per farne un commercio ad uso domestico. Il burro extrafine è derivato dalla
panna del latte, e quindi non pone problemi di Kashrùt, se non ché oggi molti produttori di burro extrafine producono anche burro acquistato da caseifici alterando la kashrùt degli impianti produttivi. I consumatori si sono abituati all’idea di utilizzare come
standard solo burro certificato perché ad oggi oltre che garantire la kashrùt generale del
prodotto, dichiara anche un controllo dalla mungitura.
Carne e Latte
Una posizione centrale nell’ambito della kashrùt è occupata dalla separazione fra carne
e latte. I divieti che la riguardano sono molto severi, forse più di ogni altra norma di
kashrùt.
Ad esempio, non si può mangiare carne di coccodrillo perché non è kosher, ma si possono indossare scarpe di pelle di tale animale. Ma dalla mescolanza fra carne e latte non è
consentito trarre alcun beneficio. Così, se è occasionalmente cuoco in un ristorante non
kosher (purché ovviamente non ne assaggi il cibo), l’ebreo può preparare gli hamburger,
ma non i cheeseburger.
Per poter consumare latticini dopo aver mangiato carne o derivati è richiesta un’attesa di
sei ore. Questo stesso arco di tempo è necessario anche tra la consumazione di formaggi
“duri” e carne. Si noti che benché il pesce sia parve, esso non deve essere consumato
assieme alla carne.
Chi convive con animali domestici deve verificare addirittura il cibo che acquista per loro
uso, per assicurarsi che non vi sia mescolanza tra carne e latte fra i loro ingredienti.
La separazione fra carne e latte si applica non solo al cibo stesso, ma anche a tutti gli
utensili impiegati per la sua conservazione, preparazione e consumazione. Tale rigore
nella separazione comporta il possesso e l’uso di set separati di posate, piatti, utensili e
lavandini. Anche la lavastoviglie può essere impiegata o per la carne o per il latte, ma
non per entrambi.
Il cibo che non è né di carne né di latte è definito parve, neutro, e utensili parve come
bicchieri o ciotole per l’insalata possono accompagnare sia i pasti di latte che quelli di
carne. Il vetro non assorbente normale può essere considerato parve per molti pareri.
Bisogna stare invece attenti al pyrex o a qualunque altro utensile di vetro resistente al
calore del forno, che possono essere usati solo o per la carne o per il latte.
La separazione non si limita alla cucina e alla tavola: siamo infatti tenuti ad astenerci
dalla consumazione di latticini dopo la carne finché non sia trascorso un certo numero
di ore. Lo Shulchàn Arùch, il Codice di Legge Ebraica, riporta due tradizioni: una, decisamente poco diffusa oggi, richiede un’attesa di un’ora soltanto (e gli ebrei olandesi vi si
attengono ancora); l’altra, più universalmente accettata, ne richiede invece sei. Viceversa
lo stesso intervallo si applica dopo aver mangiato formaggi detti duri, cioè stagionati,
come ad es. il grana o il parmigiano, poiché richiedono un processo digestivo simile a
quello della carne.
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Infine, per evitare spiacevoli confusioni, il pane deve sempre essere parve, e quindi non
può contenere burro o latte.
Pesce
Gli ebrei hanno sempre avuto un debole per il pesce. I loro antenati si lamentarono per
la sua carenza nel deserto, ricordandosi del pesce mangiato in Egitto!
Mentre vi sono poche varietà di carne e pollame kosher, ciò non vale per quelle di pesce,
che sono numerosissime. Come la televisione, in passato gli scaffali del pescivendolo
erano in bianco e nero. Oggi, grazie alla gran varietà di speci esotiche d’importazione,
viene offerto al consumatore un vero arcobaleno di scelte.
Per essere kosher, il pesce deve avere pinne e squame facili da rimuovere. Ad esempio,
quelle dello storione sono difficilissime da togliere, fatto che lo rende non kosher, come
lo sono automaticamente le sue preziose uova, ossia il caviale.
Esempi di pesci Kosher possono essere il salmone, la trota, la cernia, il nasello, la sogliola
ecc.
Es. di pesci non kosher: l’anguilla, il pesce spada, il pesce gatto, lo squalo...
Tutti i crostacei, i frutti di mare ed i mammiferi acquatici non sono kosher.
Il pesce, sia fresco che surgelato, dovrebbe essere acquistato con la pelle, in modo da
verificarne le squame per riconoscerlo con certezza.
Carne e pesce
Un’altra norma vieta di consumare pesce e carne assieme, ma per un motivo diverso dal
latte. È semplicemente perché i nostri saggi, paladini di una vita salubre, considerano
tale miscuglio nocivo alla salute. Così ci si asterrà dall’accompagnare un buon piatto di
carne con salsa di acciughe...
D’altro canto, non vi è alcun problema nel mangiare carne immediatamente dopo il
pesce, o viceversa.
Si usa però “pulire” prima il palato con del pane o bevendo qualcosa. Questo può spiegare perché molti bevono un goccetto dopo il pesce del Sabato prima di passare alla
portata successiva...
Verdura
Mentre la consumazione di carne di maiale implica una sola trasgressione, quella di un
insetto ne comporta diverse. La Torà e molto esplicita nei divieti concernenti tali creature e quindi la frutta e la verdura potenzialmente esposte a infestazioni devono essere
controllate e pulite accuratamente.
Quella che può sembrare una bella foglia di lattuga, osservata più da vicino può apparire
come un albergo per insetti. Altre “dimore” molto apprezzate da queste bestioline sono
ad esempio il prezzemolo, l’asparago, le verdure di primavera, i broccoli e i cavolfiori.
Tutti gli insetti o vermi visibili a occhio nudo devono essere “sfrattati”, immergendo
la verdure in acqua salata o in aceto, oppure mettendo particolari prodotti esistenti sul
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mercato su un panno e strofinando delicatamente la foglia, il tutto seguito da un accurato controllo visivo. Anche la frutta e la verdura in scatola possono essere problematiche.
Gli insetti vi si presentano come granelli neri, ma fortunatamente possono essere rimossi
con un panno di mussola.
Vino
Vino e succo d’uva devono essere esclusivamente di origine approvata dai rabbini, ma
non per lo stesso motivo del formaggio. I saggi bandirono il vino di produzione non
ebraica essenzialmente per evitare i matrimoni misti, poiché il bere può portare poi
all’incontrarsi e così via. Anche prodotti come il brandy e l’aceto di vino devono portare
il sigillo di un rabbino.
Esso è kosher solo se la sua produzione viene effettuata da un ebreo osservante. La produzione di vino kosher può richiedere un notevole dispendio di tempo e denaro, poiché
richiede la scrupolosa kasherizzazione dell’attrezzatura precedentemente impiegata per
la produzione di vino non kosher e la presenza di un’intera équipe di personale osservante debitamente addestrato.
Come spesso accade, ingredienti non kosher possono infiltrarsi nella produzione di vini
non kosher, ad es. si usava aggiungere sangue di toro per la colorazione o più comunemente un agente di raffinamento proveniente dallo storione.
Si tratta di motivazioni fondamentali che sottolineano l’importanza di un controllo
rabbinico molto accurato.
Pane
I rabbini sconsigliano la consumazione di pane non prodotto da ebrei, benché laddove
non sia disponibile pane di produzione ebraica, o se esso è di qualità inferiore, si può
acquistare pane di produzione commerciale (non fatto intenzionalmente per un consumatore specifico), ma tenendo conto di quanto segue: esso in genere contiene grassi o
emulsionanti di origine animale o non identificata. Vi è anche la possibilità che emulsioni o gelatine vengano spalmati sulla crosta o che le teglie vengano oliate con grassi
non kosher, i quali per legge non comportano l’obbligo di essere riportati e dichiarati
sulla lista degli ingredienti.
Il pane è inoltre esposto al rischio che venga cotto negli stessi forni di pane o dolci non
kosher, il che lo renderebbe automaticamente non kosher.
Di fatto, alcun pane non controllato può essere considerato kosher.
Biscotti
Sono in genere prodotti con margarina non kosher. Anche quelli fatti con il burro (vedi)
possono non essere kosher poiché, come detto sopra, le teglie possono essere ingrassate
con ingredienti vietati, senza che ciò debba essere segnalato al cliente. Ciò vale anche per
le torte. Riguardo ai forni ,è valido lo stesso principio del pane.
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Margarina
La margarina contiene grassi ed emulsionanti che possono essere di origine animale.
Anche i produttori di margarine dette vegetali non sono in grado di garantire che l’origine dei loro emulsionanti sia tale. Di conseguenza, si può impiegare solo la margarina
controllata da un rabbino. Nelle margarine in commercio si addizionano spesso aromi
a base di latte o derivati.
Sostituti del Latte e Sbianca-Caffè
Se non controllati da un rabbino, sono vietati poiché contengono caseinati.
La Shekhità - Macellazione
La carne e il pollame kosher deve essere preparata in base al metodo della shekhità, ossia un taglio rapido alla gola dell’animale con un coltello affilatissimo privo di qualsiasi
imperfezione sulla lama. Si tratta di un metodo indolore, nel rispetto della sofferenza
dell’animale.
Dopo la shekhità, l’animale deve essere sottoposto ad un accurato controllo, detto bedikà, per verificare che non abbia difetti che lo renderebbero non kosher in base alla
legge ebraica. I polmoni di bovini e ovini e gli intestini del pollame vengono sempre
controllati.
È qui che entra in gioco l’espressione glatt kosher. Nel caso del bestiame, se il polmone è
privo di fori o mucose cicatrici, viene definito “glatt”, liscio. Se invece ve ne sono, l’animale può comunque essere kosher anche se non glatt, purché quando vengono rimosse,
tali mucose cicatrici non lascino buchi nei polmoni.
La Melikhà - Salatura
Per essere finalmente portata in tavola, la carne deve essere privata dei resti di sangue, la cui
consumazione è strettamente vietata dalla Torà. Essa deve perciò essere messa a bagno per
un’ora e poi sotto sale grosso e risciacquata tre volte prima di essere cucinata. Oggi, la maggior
parte della carne viene kasherizzata dal macellaio, risparmiando la fatica al consumatore.
Il fegato è un caso particolare: essendo imbevuto di sangue, non può essere kasherizzato
con il normale processo illustrato sopra, ma deve essere preparato “alla griglia”, ossia a
diretto contatto con una fiamma.
Il Nikùr - Purificazione
Prima di raggiungere gli scaffali della macelleria, la carne deve essere sottoposta ad alcuni
procedimenti, detti nikùr, che comportano la rimozione di alcune vene e di grassi vietati. Poiché il nikùr dei quarti posteriori dell’animale è notevolmente complesso, nella
maggior parte delle comunità della Diaspora non viene effettuato del tutto in queste
parti della bestia, che vengono vendute al mercato non ebraico. I quarti posteriori contengono tra l’altro il nervo sciatico, che non può essere mangiato dagli ebrei poiché fu
dove Giacobbe rimase ferito nel suo scontro con l’angelo (Genesi XXXII, 33).
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Uova
A causa dei divieti sul sangue, si devono controllare anche le uova aperte prima di essere
cucinate, per eliminare quelle che contengono macchie di sangue. (N.B. Non ogni piccola macchia di colore rende vietato l’uovo). Non è però necessario controllare le uova
prima di prepararle sode. Le uova bianche hanno in genere meno macchie di quelle marroni, forse per motivi biologici, è quindi più difficile trovare qualche macchia di sangue
rosso vivo o simile nelle uova bianche.
La kasherizzazione
Cibo kosher prodotto con utensili precedentemente impiegati per la cottura di cibo non
kosher, diventa a sua volta non kosher. Il procedimento che rende utensili, pentolame,
piatti, forni, piani di cottura e lavabi kosher viene comunemente chiamato “kasherizzazione”. Essa deve essere effettuata sotto la scrupolosa osservazione di un rabbino esperto,
poiché la sua esecuzione varia in base al genere di oggetto o utensile.
Pessach - La Pasqua Ebraica
Pessach, la ricorrenza di otto giorni in cui si celebra la liberazione del popolo ebraico
dalla schiavitù egizia (ca. 3300 anni fa) implica una serie di norme di kosher molto
particolari. Non vi possono essere consumati cibi lievitati (pane, biscotti e derivati), né
alcuni derivati dai grains, anche se perfettamente kosher durante l’anno. In numerose
comunità ebraiche sono banditi persino i legumi. L’attrezzatura impiegata per la produzione di cibi kosher per Pessach deve essere anch’essa kosher per Pessach.
Casherut
Pessach, la ricorrenza di otto giorni in cui si celebra la liberazione del popolo ebraico
dalla schiavitù egizia (ca. 3300 anni fa) implica una serie di norme di kosher molto
particolari. Non vi possono essere consumati cibi lievitati (pane, biscotti e derivati), né
alcuni derivati dai grains, anche se perfettamente kosher durante l’anno. In numerose
comunità ebraiche sono banditi persino i legumi. L’attrezzatura impiegata per la produzione di cibi kosher per Pessach deve essere anch’essa kosher per Pessach.
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L’ente certificatore Kosher
Orthodox Kosher Union
OK Kosher certification
StarK Kosher certification
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L’ente certificatore Kosher
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“Ecco, o Signore,
ti presento le primizie
dei frutti della terra
che tu mi hai dato”.
Deuteronomio 26, 10
Federazione delle strade dei vini
e dei sapori di Lombardia
c/o CCIAA Mantova
Largo Pradella, 1
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