XXVII. DdP - centro Duns Scoto

Transcript

XXVII. DdP - centro Duns Scoto
XXVII. DdP
La liturgia della Parola di questa XXVII domenica del TO, tra le tante letture possibili, tre sono
quelle più sicure tranquille e autonome: quella proposta dal R: “Ascoltate oggi la voce del Signore”;
quella offerta dalla 2L: “ti ricordo di ravvivare il dono di Dio”; e la terza presentata dalla richiesta
del V: “Accresci in noi la fede”. Ogni percorso può terminare con la stessa conclusione del V.
Brevemente di ogni pista.
La prima pista gravita intorno al concetto di “ascoltare”. Bellissima e delicatissima, l’esperienza
del profeta Elia che ascolta come Dio parla al cuore. Quando Elia andò sulla montagna per ascoltare
la presenza del Signore, si accorse che Dio non era né nel forte vento che schiantava i monti e
spezzava le rocce, né nel terremoto e né nel fuoco, ma nel “mormorio di un vento leggero” (1Re 19,
11-12): docile sottile carezzevole e penetrante fin nel cuore. Per ascoltare un simile “mormorio”
occorre fare silenzio e molto silenzio. Silenzio da altri e silenzio di sé.
Condizione indispensabile per ascoltare la voce del Signore è il silenzio-da e il silenzio-di sé.
Così sembra trovare conferma in Giacomo: “ogni uomo sia pronto ad ascoltare e lento a parlare”
(Gc 1,19); nella sapienza d’Israele: “Non essere precipitoso nel parlare...” (Qo 5, 1); nell’imperativo
fondante la fede del popolo ebraico: “Ascolta Israele!” (Dt 6, 3); e soprattutto in Paolo: “La fede
viene da ciò che si ascolta e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo” (Rm 10,17).
Ascoltare e amare sono sinonimi: si ascolta volentieri chi si ama, e si ama solo chi si ascolta.
L’esempio è sempre Cristo: ascolta alla voce del Padre, che si traduce in una ubbidienza totale e
incondizionata, perché ama Dio fino in fondo; e ascolta il cuore di ogni uomo, perché ama il
prossimo fino in fondo. Così: può esserci ascolto senz’amore, ma non c’è amore senz’ascolto. Se
dal livello teologico si passa a quello psicologico, si deve notare che la capacità di ascolto spesso è
selettiva, cioè si ascolta più volentieri chi la pensa allo stesso modo. Gesù invece ascolta tutti,
perché ama tutti. Di conseguenza, per poter amare l’altro bisogna imparare ad ascoltarlo.
La propensione all’ascolto tuttavia non sembra qualcosa di connaturale all’uomo. Comunque, si
può stabile l’analogia: come l’amore è personale, nel senso che non lo si può insegnare, così anche
l’ascolto o il silenzio per ascoltare. Diversi sono i livelli di ascolto. I principali: quello conoscitivo
che si basa semplicemente sul ricevere le informazioni che vengono dall’altro; quello emotivo che
cerca di sentire le emozioni, gli stati d’animo e i sentimenti che l’altro trasmette mentre comunica;
quello esistenziale che tenda di sentire la condizione esistenziale in cui l’interlocutore si trova.
Modernamente questi sparsi pensieri sono stati magistralmente tradotti da Bonhoeffer così: “Il
primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto. L’amore per
Dio comincia con l’ascolto della sua Parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con
l’imparare ad ascoltarlo”.
La seconda pista di lettura si basa sull’affermazione di Paolo a Timoteo: “ricordati di ravvivare il
dono di Dio”. Sullo sfondo del ricordo personale della famiglia cristiana di Timoteo, si colloca
l’invito pressante di Paolo: “ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante
l’imposizione delle mie mani”. L’esortazione a “ravvivare il dono di Dio”, evoca l’antica immagine
agreste del camino a legna, che consumandosi forma la cenere che copre il fuoco vivo, dando
l’impressione che sia spento. Onde il verbo “ravvivare” o “attizzare” per riportare il fuoco nel suo
vivo splendore, perché sprigioni di nuovo la fiamma per illuminare e riscaldare. Analogicamente:
come il fuoco del focolare deve essere continuamente ravvivato e riattizzato per conservare la sua
specifica funzione illuminante e riscaldante, così anche il “dono di Dio” va “ravvivato”, perché
possa produrre i suoi effetti per cui è stato donato.
In realtà, il chárisma toû Theoû è il dono che proviene da Dio, e che ora è presente anche in
Timoteo, grazie al gesto d’imposizione delle mani da parte di Paolo, e ora dimora sia nell’apostolo
sia nel discepolo. E per incoraggiare Timoteo a condividere la sua testimonianza al Signore e le sue
sofferenze nell’annuncio del Vangelo, Paolo rimanda allo Spirito che Dio “ci ha dato”, cioè non
“uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”. Dono dello Spirito che praticamente
si alimenta con l’esercizio delle tre virtù teologali.
L’Apostolo chiede a Timoteo di “ravvivare” il dono divino, che fondamentalmente significa
accoglierlo senza mai perdere di vista quella “novità permanente” che è propria di ogni dono di Dio,
che fa nuove tutte le cose (Ap 21, 5), e di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza
originaria. Significa anche riaccenderlo come si fa per il fuoco sotto le ceneri. Difatti, benché
appaia quasi spento, privo di fiamme, di visibilità esteriore il “dono divino” può essere sempre
ravvivato e attizzato al soffio dello Spirito, che spira sempre per di nuovo ripartire, ricominciare da
capo, in qualunque situazione ci si trovi.
A ben considerare, il ravvivare il “dono di Dio” è l’effetto di un dinamismo di grazia intrinseco
al dono: è Dio stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la
straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa. All’uomo è chiesto solo
di aver fede e di non stancarsi di invocarlo nella preghiera, in ogni istante della vita: “Signore,
aumenta la mia fede”! (Lc 17, 6). In breve, il “dono di Dio” comporta: la recezione o l’accoglienza
come vocazione, la custodia personale e gelosa di un bene prezioso, e il mantenimento con il
settenario delle virtù infuse dallo Spirito nel battesimo.
La terza pista di lettura ha come punto di riferimento la richiesta degli apostoli al Signore:
“Accresci in noi la fede”. Più volte Gesù si lamenta della scarsa fede. Esplicito è il richiamo rivolto
alla folla, accorsa per ascoltarlo: “Gente di poca fede” (Mt 6,30; Lc 12,2). Analogo rimprovero è
rivolto a Pietro che, impaurito per il forte vento e poco fiducioso nell’aiuto del Signore, teme di
essere sommerso dalle acque: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14,31). Prima di
salire al cielo Gesù apparve agli undici e “li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore,
perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).
La maturità della fede è sempre un traguardo al quale continuamente tendere. Come i cristiani di
Corinto sovente anche noi siamo ancora dei principianti nella fede e bisognosi di latte (1Cor 3,1-2;
Eb 5,12). Consapevoli della nostra fragilità, come gli apostoli dell’odierno V chiediamo al Signore:
“Accresci in noi la fede” (Lc 17, 6).
La crescita nella fede, fondata sul dono dall’Alto, impegna ciascuno in una risposta libera e
volontaria, per andare oltre alla ripetitività, a qualche pratica religiosa, o all’osservanza di limitate
norme morali. L’atto di fede è principalmente una relazione personale con il Signore, capace di
orientare la nostra vita, i nostri rapporti con le persone e le cose. Esso si caratterizza per una triplice
dimensione: fiducioso abbandono a Dio, conformità a Cristo nel modo di pensare e di agire, piena
disponibilità a servire i fratelli. Un cammino così impegnativo si realizza principalmente con l’aiuto
del Signore.
Al termine di ogni cammino di perfezione, che ha visto impegnato tutte le forze di ognuno, è
bello concludere con le stesse parole di Gesù: “quando avrete fatto tutto quello che vi è stato
ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare“.
Grazie , Gesù che riporti l’uomo alla sua giusta esatta e concreta realtà!