Mariano Fresta STRUTTURA E CONTENUTO DEI PROVERBI Brevi
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Mariano Fresta STRUTTURA E CONTENUTO DEI PROVERBI Brevi
Mariano Fresta STRUTTURA E CONTENUTO DEI PROVERBI Brevi considerazioni su un gruppo di proverbi raccolti nelle campagne della Valdichiana senese Innanzi tutto debbo dire di essere un po' imbarazzato, perché ero venuto a sentire il Professore Franceschi ed invece mi tocca sostituirlo. Io, infatti, non sono uno specialista di paremiologia: me ne sono occupato solo una volta e solo per alcune brevi riflessioni su un gruppo di circa duecento proverbi, raccolti dagli alunni della Scuola Media di Torrita di Siena[1]. Si tratta, dunque, di proverbi della Val di Chiana e non della Valle dell'Amo, come vorrebbe l'occasione per la quale ci troviamo qui; ma, poiché i proverbi appartengono al mondo contadino, che è identico sotto tutte le latitudini, credo che parlando dei proverbi di Torrita, anziché di quelli di Terranuova, non mi allontanerò molto dal tema di questo incontro. Debbo premettere ancora che non mi sono occupato dei proverbi dal punto di vista dialettologicolinguistico, ma dal punto di vista della loro utilizzazione didattica; anche per questo il mio intervento risulterà alquanto estravagante rispetto alle relazioni che qui sono state svolte stamattina. Dovendo lavorare con ragazzi, ho creduto opportuno per prima cosa dare ad essi la definizione di proverbio per far capire loro cosa esso sia. Nel Dizionario del Devoto-Oli ho trovato la seguente definizione: «Detto popolare che condensa un insegnamento tratto dall'esperienza di secoli». La definizione è troppo sintetica e per questo poco precisa, in quanto l'aggettivo popolare riunisce due concetti che andrebbero meglio esplicitati. Gli studi demologici più seri, quelli che vanno dal Santoli a Cirese[2], ci dicono che il concetto di popolo e quello di popolare possono indicare cose diversissime tra loro; con il concetto di popolare, infatti, indichiamo comunemente la conoscenza diffusa a livello di popolo di una persona o di un fatto (per es.: "il calcio è uno sport popolare"; "è un cantante molto popolare"; ecc); con "popolare" indichiamo altresì la caratteristica di "tradizione orale" di una credenza o di una qualsiasi forma espressiva (per es. diciamo "canto popolare" quel canto che è tradizionale e che è stato tramandato oralmente per generazioni fino a noi). Ora, poiché il proverbio appartiene all'espressività orale tradizionale e nello stesso tempo ha una larghissima diffusione presso tutti i ceti sociali, possiamo riscrivere la definizione del Devoto-Oli nel seguente modo: «Detto molto conosciuto e diffuso, tradizionale, tramandato oralmente nel corso dei secoli, che condensa un insegnamento tratto dall'esperienza millenaria degli uomini». Tale definizione, seppure più articolata, non si discosta nel significato da quell'altra che, a sua volta, è diventata proverbiale: «i proverbi sono la sapienza dei popoli». Ma i proverbi possono davvero essere considerati come pilastri della sapienza, ovverosia il più alto grado di conoscenza delle cose? Credo proprio di no, se per "sapienza" si intende anche la capacità di esprimere un giudizio universale e coerente su ogni cosa. E questo non capita ai proverbi, che invece sono incoerenti e contraddittori fra di loro. Perché se è vero che chi non risica non rosica, è anche vero che è meglio un uovo oggi che una gallina domani; se è vero che l'unione fa la forza, è altrettanto vero che chi fa da sé fa per tre; e potremmo continuare all'infinito: perché, mi sembra di poter dire, che la metà dei proverbi ha il suo contrario nell'altra metà. E allora anziché tentare di dare una definizione assoluta dei proverbi, sarà il caso di far proprie le considerazioni, relativistiche e più vicine alla realtà, che Francesco Guicciardini dettò nel XII dei suoi Ricordi a proposito di queste espressioni sentenziose: «Quasi tutti e' medesimi proverbi o simili, benché con diverse parole, si truovano in ogni nazione: e la ragione è che i proverbi nascono dalla esperienza o vero osservazione delle cose, le quali in ogni luogo sono le medesime o simili»[3]. Ecco: Guicciardini non parla di "sapienza", ma solo di "esperienza" e di "osservazione" delle cose, cioè di un sapere empirico e pragmatico che sa trovare le risposte opportune a tutte le situazioni contingenti. Questo sapere nato dall'attenta osservazione degli eventi e dei fenomeni è più evidente nei proverbi che riguardano la meteorologia, la scansione calendariale dei lavori agricoli e i rapporti tra stagioni e clima da una parte, e lavoro dei campi dall'altra. Cosicché mentre i proverbi che suggeriscono comportamenti etici generali o stabiliscono norme e regole di vita (ad es.: La parola vincola l'uomo, la fune la bestia; II mulino non macina senza acqua; Chi semina vento raccoglie tempesta, ecc.) danno indicazioni di carattere generalissimo, quelli che si riferiscono al lavoro dei campi e alla successione calendariale sono estremamente categorici (es.: A marzo taglia e pota se non vuoi la botte vuota; Ottobre o molle o asciutto, per San Luca semina tutto, ecc). In questo c'è evidentemente una ragione precisa: in tempi in cui le tecniche agrarie e gli strumenti di lavoro erano molto rudimentali, solo l'osservazione attenta e scrupolosa dell'andamento delle stagioni poteva garantire la sicurezza di ottenere un raccolto sufficiente alla sopravvivenza della propria famiglia. Beninteso, questa sicurezza si poneva più sul piano psicologico che su quello della realtà; in questo senso la ripetizione dello stesso proverbio, con la sua scansione ritmica e i suoi giochi fonici, nello stesso giorno o periodo dell'anno assumeva un carattere rituale e quasi magico: alla consapevolezza che la massima era il frutto dell'esperienza degli antenati si univa, forse, la credenza che il proverbio, recitato come una formula magica, potesse influire positivamente sugli sviluppi delle vicende agrarie. Se io dico che "a settembre maturano quasi tutti i frutti", dico un'ovvietà, mi riferisco ad un'esperienza che è comune a tutti gli abitanti della nostra zona climatica. Se invece dico: Nel bel settembre i frutti - maturan quasi tutti, ecco che ho creato una formula, che oltre a rispecchiare un dato dell'esperienza è anche un augurio, un invito alla stagione a comportarsi come di consueto. Non è forse questa l'atmosfera delle formule di magia? Tra i circa duecento proverbi raccolti dagli alunni della Scuola Media di Torrita ben 148 hanno un riferimento ai mesi {Gennaio polveraio - empie il granaio; Di marzo, ogni baco va scalzo; Aprile, le pecore all'ovile; ecc.) e di questi ben trentatré hanno un riferimento ad una data precisa del mese, indicata con il Santo che in quel giorno si festeggia (o si festeggiava, visto che alcune di queste feste sono scomparse dal calendario romano perché si trattava di santi della cui esistenza si dubita, come sant'Urbano del 25 maggio o santa Caterina del 25 novembre). Queste indicazioni così precise e accurate possono certo essere il frutto di quell'attenta osservazione che il mondo contadino rivolgeva alla natura e ai suoi fenomeni e che io ho poco più sopra ricordato. Ma ho l'impressione che questi proverbi siano di invenzione abbastanza recente, da collocare nel corso del 1800, quando la penetrazione e la diffusione di almanacchi e di lunari nel mondo contadino furono più ampie ed efficaci. Sappiamo, infatti, che per tutto l'Ottocento ci fu il tentativo, almeno qui in Toscana, di mettere al passo con i tempi l'agricoltura e soprattutto il modo toscano di conduzione agricola: la mezzadria. Ma non ci poteva essere rinnovamento dell'agricoltura senza una crescita culturale del mezzadro: così furono aperte scuole (ricordiamoci dell'opera del Lambruschini e della scuola di Meleto del Ridolfi), così furono pubblicati riviste e giornali (il "Giornale Agrario Toscano", del Vieusseux, per es.), ma soprattutto furono diffusi nelle campagne Lunari e Almanacchi (come il "Sesto Caio Baccelli" a cui collaborava il poeta aretino Guadagnoli, e che ancora oggi si pubblica). Questo tipo di pubblicazioni popolari o popolareggianti furono usati come veicoli non solo di messaggi riguardanti la moralità, la religiosità, l'attaccamento al lavoro, ma anche di insegnamenti e di suggerimenti relativi alle tecniche e ai tempi di lavoro; scrive infatti la Pietrelli, a proposito dell"Almanacco dei Campagnoli" del 1867: «II calendario tratta dunque le faccende del campagnolo riferendosi mese per mese ai terreni, alle sementi, ai foraggi, al bestiame, ai concimi, all'orto, alle raccolte, ecc. Ogni mese contiene anche una serie di proverbi, legati ai lavori mensili; molti di essi consigliano al contadino ciò che deve fare se vuole che i suoi campi fruttino...» [4]. E' facile dunque ipotizzare che molti proverbi siano stati creati appositamente (richiamando il mese o un santo di un periodo particolare) da coloro che compilavano gli almanacchi e i lunari destinati alla lettura che spesso i contadini facevano durante le veglie invernali. D'altra parte, la creazione di nuovi proverbi non è poi così difficile, basta stare attenti alla loro struttura, cioè al modo in cui sono fatti. Per esempio, si vede quasi a prima lettura che, almeno il 70% dei proverbi raccolti a Torrita sono costruiti con una proposizione condizionale all'indicativo: Se febbraio non ferra Marzo spella; Se non arde luglio e agosto nella tina poco mosto. Spesso il verbo è sottinteso, ma è facile ricostruire la proposizione condizionale: Poco cibo, niente affanno, sanità per tutto l'anno equivale a Se mangi poco cibo, allora non avrai affanno e starai sano tutto l'anno. E' questa una costruzione sintattica molto elementare e semplice che si basa sulla prima parte di una coppia di opposizioni: "se x è così, allora y sarà così; se x non è così allora y non sarà così (la seconda parte non è presente nel proverbio, ma sottintesa). In fondo è l'operazione logica su cui si fonda il linguaggio basic (il più semplice!) dei computer: if …then (se... allora.). Altre costruzioni tipiche dei proverbi sono quelle che si basano sul comparativo di maggioranza ("Meglio un tordo preso che cento al bosco"), o sulla proposizione avente come soggetto una proposizione relativa ("Chi ha carro e buoi fa bene i fatti suoi"), o sulla frase nominale, cioè senza verbo ("In tempo di carestia pane di veccia")[5]. Ma per poter creare nuovi proverbi bisogna conoscere, oltre alla struttura sintattica, anche quella metrica, perché queste frasi sentenziose posseggono un ritmo, una disposizione metrica che le differenzia dal parlato quotidiano. Abbiamo già visto cosa succede se trasformiamo la frase: "a settembre maturano quasi tutti i frutti" in "Nel bel settembre i frutti maturan quasi tutti". La prima, abbiamo visto, è ovvia; la seconda diventa una formula, una norma di legge, addirittura. E ciò perché la frase si è trasformata in un proverbio, cioè in due versi settenari. E così accade per tutti gli altri proverbi, anche se non è necessario che i "versi" abbiano la stessa misura ("La neve marzolina - dura dalla sera alla mattina"). Ma accanto al ritmo e alle ingenue forme metriche c'è anche la rima, come appare dai proverbi fin qui riportati; ci sono massime che sono costruite solo sul ritmo, come "Chi semina in ottobre / miete bene in giugno", nel quale la scansione dei due versetti si caratterizza per il ritmo dattilico di "sémina" nel primo membro e per il ritmo trocaico del secondo; ma la maggior parte dei proverbi si basa su due membri ritmici (versi) uniti fra di loro dalla rima. Quando, però, si parla di metrica "popolare" è bene tener presente che la rima funziona in maniera del tutto diversa da come siamo abituati a vederla nei componimenti poetici della letteratura italiana colta. Se infatti è predominante anche nella metrica popolare la cosiddetta "rima perfetta", cioè l'identità assoluta tra la penultima vocale accentata e l'ultima sillaba del primo verso e la penultima vocale accentata e l'ultima sillaba del secondo verso (es.: "Marzo e Aprile son fratèlli / ora brutti ora bèlli"), ci sono altri tipi di rima usati quasi esclusivamente dalla metrica popolare (beninteso, sono usati anche dai poeti dotti, ma sono chiamati altrimenti). Molto frequente è la cosiddetta assonanza, che è meglio chiamare isofonia tonica-postonica, come nei casi: "Natale al sole / Pasqua col carbóne"; "Triste quel rapo / che d'agosto non è nato"; ecc. Tale isofonia richiede solo l'identità della penultima e dell'ultima vocale di ogni verso, a prescindere dalle consonanti che tra queste due vocali si possono trovare. C'è poi l’isofonia tonica, che si ha quando l'identità fonica riguarda solo la penultima vocale accentata dei due versi (es. "Marzo mollo / il grano fa il lòglio", anche se qui potrebbe essere considerata anche l'identità postonica di -llo e -glio). C'è poi l’isofonia postonica, cioè la sola identità dell'ultima vocale dei due versi, come nel caso di "Gennaio secco / massaio ricco" (ma qui c'è da sottolineare che "rimano" le consonanti - cc- dei due aggettivi; c'è da tener di conto che gennaio e massaio rimano fra di loro e che, infine, -ecco e -icco costituiscono un'alternanza vocalica molto presente nella poesia popolare: è evidente che questo proverbio è, dal punto di vista fonico, molto complesso). Infine, un altro modo (e non certo l'ultimo) per caratterizzare un proverbio è quello di ricorrere al bisticcio di parole, alla paronomasia, come nel caso di "Non crè pane senza pena", dove, rimanendo le consonanti nella stessa posizione, c'è un'inversione delle vocali (pane/pena); e ancora, come nel caso di "Giugno pungente / contadin piangente", dove, pure in presenza della rima, si assiste ad un gioco di parole con la sostituzione del suono pun- con quello di pian-. Oppure si può ricorrere ad artifici più complessi, come nel caso di "Quando la terra ha sete, produce "fame", dove, oltre alla costruzione condizionale "se... allora", giocano la contrapposzione tra avere e dare ("produce") e la contrapposizione tra sete e fame (tra l'altro, è qui presente l'isofonia postonica). Tutti questi artifici tecnici (ritmi, rime, isofonie varie, bisticci, ecc.) non sono altro che accorgimenti per aiutare la memoria a ricordare queste sentenze su cui si basavano le conoscenze dei contadini. In una società senza scrittura, in cui l'oralità era il solo strumento di trasmissione della cultura, la memoria era l'unico deposito, l'unico magazzino in cui si potevano conservare le esperienze proprie ed altrui. Per questo essa andava esercitata e stimolata con opportuni accorgimenti quali il ritmo e la rima. Gli antichi poeti sapevano bene queste cose, tanto è vero che quando volevano comporre un'opera che fosse utile alla vita dei loro contemporanei, così come oggi è utile avere in casa un'enciclopedia, adoperavano la versificazione e la rima, perché i concetti espressi nell'opera si esprimessero bene nella memoria della gente. Si pensi, per esempio, allo stile "formulare" dell'Iliade e dell'Odissea di Omero, o alla Divina Commedia di Dante. Ma analizzare i proverbi solo dal punto di vista formale e strutturale, come se fossero dei semplici contenitori, senza vedere cosa ci sta dentro, quali sono i messaggi, i contenuti, le ideologie che veicolano, è un lavoro fatto a metà. Per questa ragione è il caso di rivolgere almeno una breve attenzione a ciò che i proverbi dicono, tenendo presente che si tratta soltanto di duecento esemplari che riguardano quasi esclusivamente la vita dei campi. Abbiamo già visto che i 3/4 dei proverbi raccolti si riferiscono ai mesi dell'anno; i mesi meno ricordati sono settembre (cinque proverbi) e dicembre (sei); tutti gli altri si trovano citati in più di nove proverbi ciascuno. L'esiguità del numero dei proverbi dedicati a settembre e a dicembre dipende probabilmente dal fatto che questi due mesi impegnano di meno nei lavori agricoli. Riguardo all'argomento, i proverbi dedicati ai mesi trattano soprattutto della meteorologia, del calendario dei lavori, dei rapporti tra clima e vicende agrarie, dell'alimentazione. Ma vediamoli un po' da vicino. Innanzi tutto c'è da dire che queste massime costituiscono quasi un catechismo sulla necessità del lavoro come unica fonte di vita. Non si tratta, quindi, di una concezione "ideologica" del lavoro, come quella liberale ("il lavoro è la ricchezza delle nazioni") o quella marxista ("il lavoro distingue gli uomini dalle bestie"), ma di una constatazione di fatto che può essere sintetizzata nella frase, anch'essa proverbiale, "chi non lavora non mangia". E, come possiamo vedere, si tratta ancora una volta di quella logica elementare su cui sono costruiti moltissimi proverbi: "se... allora", "se non lavori, allora...". Nella raccolta due sono i proverbi (uno dei quali non rientra nel gruppo dei mesi) che dichiarano in forma, direi, epigrafica questo modo di intendere e di vedere il "lavoro"; uno lo dichiara in maniera molto esplicita: "Se a novembre il contadin riposa / farà di fame piangere la sposa"; l'altro ricorre invece ad una metafora, ma non per questo è meno chiaro: "II caldo delle lenzuola non fa bollir la pentola". Quest'ultimo proverbio è indirizzato in modo particolare ai poltroni, ai pigri; ma per costoro la raccolta riserva altre sentenze: "Non raccoglie né pane né mosto / chi pota di maggio e zappa d'agosto"; "Ottobre, chi non è savio, paziente e forte / si lamenti di sé non della sorte"; "Per san Martino / la semente del pigherino"; ecc. Solo un proverbio consente un po' di quiete: "Chi dorme d'agosto / dorme a suo posto" (ma altrove, una variante dice "Chi dorme d'agosto / dorme a suo costo"![6]). Ma il lavoro, nonostante la consapevolezza della sua necessità, non è sufficiente a garantire un buon raccolto se le stagioni non si alternano in maniera regolare, così come l'esperienza di migliaia di secoli ha insegnato. Ed ecco la moltitudine di proverbi sulla meteorologia, sui rapporti tra clima e vicende agrarie e sui fenomeni celesti, recitati o per riconfermare l'esperienza, o in forma ben augurale: "Se gennaio mette l'erba / nel solaio il grano serba"; "Buona avena nel febbraio / non fa male a nessuno"; "Se marzo non marzeggia / giugno non festeggia"; "Se di maggio rasserena / la spiga sarà piena "; "Per santa Croce / spiga il grano e ingenera la noce"; "Per santa Reparata / ogni oliva inoliata"; "Un dicembre gelato / non va disprezzato". E poi quelli che dettano date precise sui lavori dei campi: "Chi vuole un buon erbaio / lo semini a febbraio"; "O luna o non luna / pota di marzo se vuoi l'uva"; "Per san Pietro / piglia la falce e dagli dietro"; "Per santa Maddalena / il tempo giusto per tagliar l'avena"; "Di ottobre in cantina / sera e mattina"; "Se vuoi un buon raccolto e dopo spènde / semina di novembre", ecc. E c'è anche: "Quando scema la luna / non piantare cosa alcuna", che, se non rientra nel gruppo dei mesi, è comunque uno dei proverbi più seguiti dai contadini, dato che le fasi lunari presiedono a molti lavori dei campi e sono tra gli elementi più importanti delle credenze diffuse nel mondo rurale. L'andamento stagionale suggerisce anche (per quel poco che i proverbi ci dicono) un calendario alimentare: "Gennaio e febbraio / tieniti al pollaio/ marzo aprile / capretto gentile"; "Se vuoi un'oca fina / ingrassala per santa Caterina"; "Mese d'agosto / polenta gialla e colombo arrosto". I proverbi possono farci intravedere quali erano i rapporti sociali di produzione nelle campagne toscane di qualche decennio fa; infatti alcuni di essi ci confermano quel che sappiamo sulla mezzadria e cioè che essa era un istituto tale da costringere il contadino ad un lavoro meticoloso e puntuale, se voleva che la metà del prodotto che gli spettava fosse sufficiente per la sopravvivenza sua e della sua famiglia: "Ottobre, beato quel campetto / che ha siepe e fossetto"; "Se in novembre non hai arato / tutto l'anno sarai tribolato". I proverbi ci segnalano in qualche modo anche la lotta che doveva svolgersi tra il padrone e il mezzadro: "Quando il padrone dormiva alla grossa / il contadino gli dava la scossa". Ma quello che è più evidente nei circa 150 proverbi che riguardano i mesi è che ben 48 si riferiscono al grano, sia che si parli di aratura e seminagione, sia che si tratti di mietitura, sia che si tratti di clima. Ciò è dovuto certamente al fatto che nel territorio di Torrita e di tutta la Val di Chiana la coltura più diffusa e più importante era quella del grano. E difatti pochi sono i proverbi che riguardano altre coltivazioni (vite, olivo, rapi); il che significa, appunto, che queste colture erano secondarie o marginali. E poiché costituiva l'unica risorsa e l'unica fonte di sostentamento, il grano necessitava di grandi cure; e per questo i proverbi ne parlano tanto (solo quelli relativi al mese di settembre non ne fanno cenno); ed è anche per questo che i mesi di ottobre, novembre e giugno, come dimostra il numero di proverbi sul grano che contemplano, diventano centrali nel calendario agrario del contadino: "Chi semina in ottobre / miete bene in giugno"; "A san Martino / sta meglio il grano al campo che al mulino"; "Giugno / la falce in pugno"; "In giugno non aver nessuna cura / se non per i campi e la mietitura". II fatto che non si parli di mais o di girasole e nemmeno di tabacco significa che dall’introduzione in Toscana di queste colture "industriali" non sono "nati” più proverbi. Il che vuol dire che con l'introduzione nelle campagne dei processi produttivi capitalistici, un'altra "sapienza" era necessaria, non più quella dei proverbi, ma quella dei periti agrari, dei chimici e dei finanzieri. Oggi se vogliamo trovare ancora qualche espressione proverbiale, dobbiamo rivolgerci alla pubblicità, che ne utilizza, per altri fini, la struttura e la forma: “Chi Vespa mangia la mela”; "Dove c'è Barilla c'è casa". Si veda M. FRESTA, Se a novembre il contadino riposa farà di fame piangere la sposa, in SCUOLA MEDIA G: PARINI, L’agricoltura a Torrita, Ed. Del Grifo, Montepulciano 1985, pp. 90-94. [1] [2] Cfr. V. SANTOLI, I canti popolari italiani, Sansoni, Firenze 1968. [3] F. GUICCIARDINI, Ricordi, Serie seconda n. 12, B.U. Rizzoli, 1951, p. 70. V. PIETRELLI, Il contadino e la città in un Almanacco per il senese: note sulla ideologia del “buon mezzadro” negli scritti educativi per il popolo, in AA.VV. Mezzadri letterati e padroni, [4] Sellerio, Palermo 1980, p. 131. Sulla struttura dei proverbi si veda A.M.CIRESE, Prime annotazioni per un’analisi strutturale dei proverbi. Appunti del corso tenuto all’Università di Cagliari, A.A. 1968/69. Si veda anche T: FRANCESCHI, Il proverbio e l’API, in «Archivio Glottologico Italiano», LXIII, 1-2, 1978, pp. 110-147. [5] Si veda il proverbio 10.2.8.6, n. 1832 dell’ATLANTE PAREMIOLOGICO ITALIANO, Questionario, costruito da T. Franceschi con A.M. Mancini, M.V. Miniati, L.B. Porto, in «Studi urbinati di Storia Filosofia e Letteratura», Univ. degli Studi di Urbino, Suppl. linguistico 3, 198184, p. 312. [6] (Pubblicato per la prima volta in Scuola Media “G. Parini” di Torrita di Siena, L’agricoltura a Torrita, col titolo Se a novembre il contadino riposa – farà di fame piangere la sposa, Editori del Grifo, Montepulciano 1985; ripreso successivamente in un convegno su “Realtà linguistiche in una terra di frontiera”, VI giornata di studio su Poggio Bracciolini, Terranova Bracciolini 1991, da cui il testo è stato ripreso).