Il maratoneta Aronofsky, cantore del martirio

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Il maratoneta Aronofsky, cantore del martirio
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Il maratoneta Aronofsky, cantore del martirio
Inviato da Maurizio Ermisino
È stato un maratoneta, da ragazzo, Darren Aronofsky. E questa sua antica passione ha inciso sul suo modo di fare
cinema, come ammette lui stesso. “Mi piace molto il cinema come sfida fisica, come sforzo, come fatica, come prova
atletica da superare”. La maratona è due cose. Uno sforzo fisico massacrante, estremo, la corsa più lunga che esista a
livello sportivo. E, a livello mentale, l’ossessione per qualcosa, per un obiettivo da raggiungere: finire la gara, prima
ancora che vincerla, raggiungere il traguardo. Non a caso è nata dalla corsa di un soldato ateniese, Fidippide, che
percorse la distanza tra Maratona e Atene con un’ossessione, un unico obiettivo in testa, quello di comunicare la vittoria
degli ateniesi nella famosa battaglia. La maratona è la ricerca ossessiva della perfezione. Ed è questo a cui aspira Nina,
la protagonista de Il cigno nero, l’ultimo film di Darren Aronofsky. Nina, una vita dedicata alla danza, una “vita in rosa”,
quella in cui la rinchiude la madre che la crede ancora una bambina, viene scelta per il ruolo di Odette ne Il lago dei
cigni. Dovrà interpretare i due ruoli: il cigno bianco, la grazia, la purezza, e il cigno nero, l’invidia, la tentazione. Per il primo
ruolo è già perfetta. Per il secondo non ancora, è troppo bambina. Lily, la ballerina rivale, invece sembra essere un cigno
nero ideale: ha già le ali nere tatuate sulla schiena, è sfrontata, libera, donna. Per diventare cigno nero anche Nina dovrà
scoprire il sesso, la vita, perdere il controllo. “L’unico ostacolo al tuo successo sei tu. Liberati, perditi, Nina” le dice il
coreografo Thomas Leroy. Una corsa prima di tutto contro se stessi. La maratona è anche questo.
La danza come il wrestling. Per Aronofsky la vita è sforzo, rincorsa. Ed è così che Aronofsky rappresenta il balletto ne Il
cigno nero. Piedi sanguinanti, martoriati, sfiniti. Le unghia rotte, le ossa che scricchiolano, che fanno male. E poi i graffi
sulla schiena, i segni sulla pelle, punizioni autoinferte, sfoghi a pulsioni che non riescono ad uscire in altro modo, scarico
di tensioni che non danno tregua. Come The Wrestler, anche Il cigno nero è un film di tumefazioni, di lacerazioni, di ferite
aperte, di pelle che muore e si stacca. Quello di Aronofsky è un cinema di corpi spinti al limite, di corpi in mutazione. In
questo senso Aronofsky sembra essere adepto e seguace della poetica di David Cronenberg. Ma con un discorso molto
personale, che si discosta da quello del maestro canadese. Se Cronenberg sembra interessato alle mutazioni che la
tecnologia, la scienza, la società apportano al nostro corpo, Aronofsky guarda alla disgregazione del corpo, alla sua
caducità, alla sua decadenza, al martirio che noi stessi, con le nostre ossessioni e con il nostro istinto di autodistruzione,
gli infliggiamo. Corpi in cancrena, mutilati dall’uso di droghe, o stuprati per i soldi necessari a procurarsela (Requiem For
A Dream). Corpi gonfiati dagli steroidi, e poi sbattuti, tumefatti, trafitti in nome di un sogno, quello di rimanere sulla cresta
dell’onda (The Wrestler). Corpi morenti, malati, sconfitti dal cancro (The Fountain – L’albero della vita).
E questo cinema di corpi in mutazione, marchio di fabbrica di Darren Aronofsky, non può che cambiare la vita agli attori
scelti per interpretarne i ruoli chiave. In The Wrestler il corpo di Mickey Rourke è il nodo centrale della messinscena, il
vecchio pezzo di carne maciullata: il suo viso gonfio, pieno di rughe e di buchi, tumefatto, è un cortocircuito tra arte e
vita, per lui che ha combattuto veramente sul ring, fino a finire sfigurato e a rifarsi i connotati. Per Rourke quello di The
Wrestler è stato il ruolo della vita. Come quello di Nina ne Il cigno nero per Natalie Portman: “l’espiazione monacale” – come
scrive Maurizio Porro – con cui si è immersa nel suo personaggio è eccezionale (e l’Oscar appena conquistato lo
dimostra). Dimagrita parecchi chili per entrare nel personaggio della ballerina classica, la Portman, che ha davvero
studiato danza fino a tredici anni, si è anche incrinata una costola sul set, si è slogata le spalle, e si è lesa i legamenti,
dopo essersi preparata per un anno lavorando dalle cinque alle otto ore al giorno, e sedici ore al giorno durante le
riprese. La scena in cui la fisioterapista le massaggia le costole è vera. Le mutazioni dei personaggi di Rourke e della
Portman sono avvenute anche nella loro vita e nella loro carriera: per il primo The Wrestler è stata resurrezione e
rilancio, per la seconda è stato il passaggio all’età adulta dell’ex bambina di Leon e della casta principessa Amidala di Star
Wars. Finalmente donna, Natalie Portman è rimasta anche incinta del coreografo che ha conosciuto sul set.
Per Aronofsky la vita è ossessione. La maratona è anche questo: è la testa che comanda lo sforzo fisico immane, che
permette di trascendere i propri limiti. Tutti i personaggi di Aronofsky sono ossessionati da qualcosa. La droga, e i soldi
per procurarsela, per Harry, Tyrone e Marion in Requiem For A Dream, il sogno di apparire nella trasmissione tv per la
madre di Harry, e di aprire un negozio di vestiti per Marion. Lo schema per predire le quotazioni in borsa per Maximillian,
il protagonista di Pi Greco – Il teorema del delirio. La cura per guarire il cancro al cervello della moglie per Tomas in The
Fountain – L’albero della vita. Il ritorno sulle scene, sul ring, nell’unico posto dove si sente se stesso, il ritorno ai momenti di
gloria del passato per Randy “The Ram” Robinson in The Wrestler. E la ricerca della perfezione nell’arte, nel ruolo da etoile
nel balletto di New York per Nina, la protagonista de Il cigno nero. È la nostra ambizione, sono le nostre ossessioni a
portarci alla distruzione, ci suggerisce Aronofsky. Che ne Il cigno nero torna, anche se in maniera molto meno estrema
che nei suoi primi lavori, a quel montaggio che è stato d’animo, quel montaggio ossessivo che rappresenta benissimo la
frenesia di vivere dell’uomo moderno. Il montaggio de Il cigno nero non è così serrato come in Requiem For A Dream,
certo. Ma l’ultimo film di Aronofsky è costellato di apparizioni improvvise, colpi di scena che fanno saltare sulla sedia,
rumori paurosi e disturbanti, allucinazioni, visioni distorte. È un film di sospiri, di un continuo ansimare, quello dell’ansia,
dello sforzo, o quello dell’orgasmo. È un horror interiore, un gioco di specchi straniante, una storia dalla sensualità
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disturbata, di una sessualità negata e poi cercata. È Scarpette rosse o Eva contro Eva nel Dakota Building di Rosemary’s
Baby. “Lo spoglieremo degli orpelli, lo faremo viscerale”, dice il coreografo presentando la sua nuova versione de Il lago
dei cigni. Parla del suo spettacolo, ma sembra che parli del cinema di Aronofsky.
Viscerale, questo è Aronofsky, il cantore del martirio che infliggiamo quotidianamente a noi stessi nella vita moderna. In
Requiem For A Dream, ci sono solo tre capitoli: estate, autunno, inverno. Non c’è la primavera. Non c’è la speranza, la
seconda possibilità che contraddistingue il Sogno Americano, che nel cinema di Aronofsky finisce costantemente al
tappeto, e rivela la sua ipocrisia. Non c’è mai un lieto fine, nel cinema di Aronofsky. In fondo, la corsa di Fidippide da
Maratona ad Atene si concluse con la morte.
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