Ricerca qualitativa e sociologia - Metodologia della ricerca sociale

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Ricerca qualitativa e sociologia - Metodologia della ricerca sociale
Ricerca qualitativa e sociologia
in Fabio Dovigo (a cura di), La qualità plurale. Sguardi
transdisciplinari sulla ricerca qualitativa, Milano, Angeli,
2005.
La ricerca qualitativa ha dato un contributo rilevante alla sociologia. Tant’è
che gran parte delle teorie sociologiche tuttora utilizzate provengono da
ricerche condotte proprio con metodi qualitativi da parte di sociologi come
Isaac Thomas, Erving Goffman, Howard Becker, William Foote Whyte, Alvin
Gouldner, Melvin Dalton, Jan Myrdal, Herbert Blumer, John Gusfield, Harold
Garfinkel, Aaron Cicourel, Randall Collins, John Van Maanen, David Bloor,
Hanry Collins, Karin Knorr-Cetina, Steve Woolgar e molti altri.
1. Stereotipi
Sebbene in sociologia la ricerca qualitativa abbia più di un secolo di storia1,
esiste uno stereotipo diffuso (in verità più al di fuori della disciplina che al suo
interno) che identifica la sociologia con l’inchiesta (survey) e il sondaggio
(poll). In altre parole il sociologo sarebbe colui che costruisce, somministra ed
elabora questionari, con l’obiettivo di fornire dati statistici. Questa
rappresentazione sociale è probabilmente influenzata dalla crescente presenza
sui mass media di sondaggisti politici (che rilevano il gradimento degli elettori
nei confronti dei partiti), di esperti che presentano l’ultimo sondaggio su un
qualsiasi argomento di natura sociale, di sondaggi televisivi pret-a-porter in
trasmissioni di intrattenimento o sportive.
Tuttavia questo è solo un metodo (seppur il più rilevante) tra i tanti usati dai
sociologi nelle loro ricerche. Infatti essi raccolgono informazioni anche
attraverso altri metodi o tecniche qualitative come le interviste discorsive, i
focus group, le osservazioni etnografiche, l’analisi di documenti, l’analisi dei
discorsi e delle conversazioni quotidiane. In sociologia la dialettica tra metodi
qualitativi e metodi quantitativi comincia all’inizio degli anni Venti e si
protrae, talvolta con tensioni o furiose contrapposizioni, fino ai giorni nostri.
Ad esempio Eduard C. Lindeman, nel suo libro Social Discovery (1924)
polemizzava con (ma non soltanto) i sondaggi che, nella comprensione dei
fenomeni sociali, si affidavano esclusivamente alle risposte verbali dei
soggetti intervistati trascurando ogni altra forma di indagine parallela. Pur non
1
Lo studio di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, basato
sull’analisi di documenti storici, fu pubblicato nel 1904.
essendo un comportamentista, Lindeman però condivideva la loro diffidenza
nei confronti della validità delle risposte:
se, dicono i behavioristi, desiderate sapere cosa stia facendo una persona, astenetevi ad ogni
costo dal chiederlo alla persona stessa. La sua risposta sarà sicuramente sbagliata non tanto
perché non sa ciò che sta facendo, quanto perché sta rispondendo a una domanda e quindi
risponderà relativamente a voi, non relativamente alla cosa oggettiva che sta facendo [...]
Se volete sapere ciò che una persona fa realmente, statela a osservare (non fatele domande)
(1924, p. 182-3, cit. in Converse, 1987, p. 54).
Lindeman riteneva l’osservazione di gran lunga il miglior metodo fra quelli
disponibili a quel tempo. L’autore inoltre distingueva tra «osservazione
obiettiva» (o «dall’esterno») di un fenomeno e «osservazione partecipante» o
«dall’interno», quando cioè il ricercatore viene coinvolto attivamente nelle
attività dei soggetti che osserva. La distinzione non assegnava alcuna priorità
ai due tipi di osservazione considerandoli complementari.
2. La nascita dei metodi qualitativi
In sociologia l’impiego dei metodi qualitativi venne introdotto alla fine degli
anni Dieci per opera di alcuni docenti e ricercatori che lavoravano presso il
Dipartimento di Sociologia dell’Università di Chicago. In particolare
l’impulso per la ricerca empirica nacque sotto la guida dei sociologi William
Isaac Thomas e Robert Ezra Park. Nel Dipartimento si respirava una generale
insoddisfazione verso i dati statistici forniti dai sondaggi commissionati dagli
enti governativi. Da una parte essi descrivevano troppo superficialmente i
fenomeni senza coglierne la complessità, dall’altra non coprivano alcuni temi
fondamentali per comprendere la vita di una città. Sotto l’impulso di Park
nacque così un vasto programma di ricerche con l’intento di studiare «in
diretta» i fenomeni urbani, osservandoli nei luoghi dove nascevano e si
svolgevano (Park, 1916). Secondo Park le tecniche di indagine più adatte a
indagare questi fenomeni erano quelle di tipo antropologico, ma i ricercatori
impiegarono metodi e tecniche diverse quali:
• l’uso di informatori (assistenti sociali, poliziotti, politici, portieri d’albergo,
affittacamere)
• l’osservazione diretta, l’osservazione partecipante e le visite casa per casa
• l’intervista discorsiva e i resoconti autobiografici dei soggetti
• l’analisi di documenti «primari» (lettere, messaggi, temi scolastici)
• l’acquisizione di documenti «secondari» (articoli di giornale, archivi
ufficiali, dati censuali, archivi di associazioni benefiche e di volontariato,
rapporti di assistenti sociali, documenti federali sulle infrazioni, registri dei
tribunali, cartelle cliniche sulle diverse malattie).
Inoltre i ricercatori iniziarono così a costruire delle mappe sociologiche della
città, andando nei quartieri a raccogliere informazioni di prima mano sulla
composizione sociale, le etnie e le classi sociali che li abitavano. I loro
approccio fu definito «ecologico» nel senso che cercava connessioni tra i
vincoli ambientali (nei suoi aspetti geografici e spaziali) e la struttura sociale,
quasi una sorta di etologia umana. Ernest Burgess, uno dei principali
animatori intellettuali del Dipartimento, era convinto che la morfologia del
territorio urbano (fiumi, strade principali, ponti, binari ferroviari) tendesse a
dividere la città in zone relativamente isolate con proprie strutture economiche
e sociali (chiamate aree naturali). L’intuizione «ecologica» di Burgess fu il
principale criterio-guida degli studi della Scuola di Chicago nella sua prima
fase.
L’approccio ecologico prevedeva la creazione di carte topografiche dei
luoghi studiati. Chicago veniva rappresentata con un diagramma, i cui cerchi
concentrici riflettevano le varie zone della città: il centro (luogo degli affari)
con attorno l’area residenziale, a sua volta circondata dagli slums, «zone di
transizione» nel passaggio all’area dei bungalows e alle zone extra-urbane
abitate dai pendolari. Attraverso l’analisi della carte topografiche i ricercatori
misero in luce come i fenomeni sociali fossero solo all’apparenza caotici
presentando invece, a uno sguardo più attento, regolarità piuttosto evidenti: ad
esempio, i tassi di suicidio erano elevati nell’area delle camere ammobiliate, i
crimini erano localizzati in particolari zone (definite da Thrasher «aree
delinquenziali»), la prostituzione si riversava in determinate aree così come le
malattie mentali. Le descrizioni e la ricostruzione geografica erano, non senza
qualche eccesso, molto minuziose tant’è che molte di queste ricerche
richiesero parecchi anni di lavoro sul campo.
Park e i suoi collaboratori erano interessati a ricostruire il profilo
sociologico e la dimensione percentuale di coloro che dimoravano in alberghi,
camere ammobiliate, appartamenti in affitto, case di proprietà e di coloro che
erano senza fissa dimora. Essi raccoglievano informazioni, a quel tempo quasi
del tutto inesistenti, sulle professioni; in particolare chi erano e che cosa
facevano quotidianamente la commessa di negozio, il poliziotto, il venditore
ambulante, il guardiano notturno, l’attore di varietà. Attraverso queste indagini
gli autori descrivevano i mutamenti che stavano investendo la città e la società
americana, e la disgregazione sociale che essi producevano. Ad esempio la
progressiva sostituzione delle pensioni, che seppur flebilmente riproducevano
ancora i rituali della vita famigliare, a favore delle camere ammobiliate e delle
stanze d’albergo avevano accentuato in ogni individuo, indipendentemente
dallo status di appartenenza, la rottura dei legami famigliari e dei codici
culturali, introducendo una crescente anomia, spersonalizzazione e
commercializzazione delle relazioni sociali.
Il programma di ricerche del Dipartimento condusse i ricercatori a occuparsi
dei problemi sociali della metropoli e delle subculture urbane quali le
minoranze etniche, delle categorie emarginate come i lavoratori stagionali
senza fissa dimora, delle prostitute, dei giovani criminali, delle bande di
delinquenti.
3. Ricerca qualitativa e metodologia: un rapporto controverso
Sebbene la ricerca qualitativa abbia più di un secolo di storia, il primo testo
che cercò di definirne la metodologia apparve soltanto ottant’anni più tardi,
alla fine degli anni sessanta. The Discovery of Grounded Theory: Strategies
for Qualitative Research di Glaser e Strauss (1967) è infatti comunemente
riconosciuto come il primo contributo articolato sulla metodologia qualitativa.
Per quale ragione si attese così tanto? Le ragioni di questo ritardo sono
molteplici, complesse e contraddittorie. In primo luogo è probabile che il
termine “metodologia” sia stato per lungo tempo considerato, almeno fino
all’inizio degli anni cinquanta, un'esclusiva prerogativa del metodo
sperimentale e, successivamente, dell’inchiesta campionaria (survey); quasi un
loro sinonimo. In altre parole era abbastanza comune identificare le particolari
procedure in uso nei laboratori e negli istituti di sondaggio come gli unici
metodi scientifici disponibili. Questa saldatura concettuale, da un lato tra
metodologia ed esperimento e dall'altro tra metodologia e inchiesta
campionaria, fu favorita dal clima intellettuale positivista (e poi
neopositivista) dei primi decenni del Novecento, in cui si sosteneva l’esistenza
(oltre che la necessità) di un unico metodo, formalizzato e universale, per tutte
le scienze. Peraltro gli empiristi logici furono, più di ogni altro, strenui
difensori della necessità di un metodo per la scienza. Fino alla fine degli anni
cinquanta, nelle scienze sociali, il metodologo era un particolare tipo di
studioso, votato a migliorare il metodo del sondaggio e dell’inchiesta. Forse
era l’unico a credere nella necessità di dedicarsi anche alla forma delle
conoscenze e non solo alla loro sostanza (teoria) come invece fecero
prevalentemente, per mezzo secolo, i più autorevoli personaggi della
disciplina.
Di fatto fino alla fine degli anni cinquanta i metodologi erano prevalentemente
studiosi esperti in sondaggi e inchieste. Non che essi non utilizzassero
l’osservazione partecipante, l’analisi dei documenti o l’intervista discorsiva;
ad esempio Lazarsfeld impiegò più volte questi metodi. Ma la riflessione
metodologica su di essi era generalmente estemporanea, marginale, non
sistematica. Forse perché ritenevano (a torto) che questi metodi fossero per
loro natura poco sistematici o incanalabili in regole. Oppure perché (cosa ben
più grave) li concepivano esclusivamente come mezzi utili a migliorare il
questionario, cioè strumenti da utilizzare prima oppure dopo l’inchiesta
campionaria, come supporti a quella che rimaneva la forma per eccellenza di
raccolta delle informazioni. Per cui i metodi qualitativi continuarono a
ricoprire un ruolo meramente ancillare.
Date queste premesse si può comprendere (anche se non giustificare) la
diffidenza dei ricercatori qualitativi nei confronti della metodologia, che era
ormai diventata sinonimo di metodi quantitativi.
In secondo luogo non furono mai scritti manuali semplicemente perché non si
sentiva la necessità di codificare delle pratiche di ricerca. Mentre la statistica
appariva come un argomento più esoterico e quindi sembrava richiedere un
addestramento speciale, il lavoro sul campo sembrava essere qualcosa che si
imparava solo facendolo. D'altra parte fino a 10-15 anni fa nei dipartimenti di
antropologia non si insegnavano i metodi di ricerca sul campo. Si pensava che
bastasse mandare le persone sul campo e li avrebbero imparati provando e
sbagliando.
In terzo luogo i ricercatori qualitativi sembravano concepire il metodo
semplicemente come un mezzo per raggiungere uno scopo (la conoscenza) e
non come un fine in sé, un’area indipendente di ricerca su cui addirittura
costruire una disciplina autonoma, cosa che avvenne con la progressiva
emancipazione della metodologia dalla sociologia. In altri termini, mentre si
faceva strada la tendenza a una ricerca anche esclusivamente metodologica, i
ricercatori qualitativi continuarono a condurre solamente ricerche sostantive,
con l’obiettivo precipuo di fare teoria sociologica. Se il fine primario è
raggiungere conoscenze sostantive e/o fare teoria, le regole (specie se
puntigliose e pignole come sono tipicamente quelle metodologiche) diventano
un ostacolo e distraggono dall’obiettivo primario. Così dovevano pensare a
quel tempo i ricercatori qualitativi.
In questa prospettiva appare comprensibile (anche se non giustificabile, è bene
ripeterlo) l’atteggiamento antimetodologico, recalcitrante alle regole,
romantico, che ha caratterizzato una fase storica della ricerca qualitativa.
Sfortunatamente tutto ciò ha comportato, da parte dei sociologi che
continuavano a usare il metodo dell’inchiesta campionaria, il rafforzarsi di un
pregiudizio che con il tempo si era diffusamente consolidato: la ricerca
qualitativa produceva risultati dalla validità incerta perché ottenuti attraverso
metodi e tecniche la cui attendibilità non era provata.
E qui, forse, sta la ragione principale della latitanza della manualistica
qualitativa: per più di ottant'anni non furono scritti manuali perché i ricercatori
qualitativi non si sentivano minacciati o messi in discussione dai loro colleghi
quantitativi. Infatti secondo Barry A. Turner (1988, p. 112) la ragione
principale che spinse Glaser e Strauss a scrivere il loro libro fu
prevalentemente di tipo politico: fornire agli studenti e ai ricercatori un testo
metodologico da citare ogni qualvolta avessero presentato un progetto di
ricerca a organismi istituzionali, solitamente prevenuti nei confronti della
ricerca qualitativa. Il loro testo nacque quindi in un clima particolare (ora
assente in quanto i metodi quantitativi sono stati legittimati), dato dalla
necessità di difendersi dagli attacchi dei sociologi quantitativi e di fornire loro
risposte adeguate e ragionevoli.
4. Il ritorno dei metodi qualitativi
Gli anni recenti hanno visto un prepotente ritorno dei metodi qualitativi al
centro della ricerca sociologica. Questo nuovo rinascimento, iniziato sul finire
degli anni Settanta e diversamente dagli anni Venti e Trenta (Scuola di
Chicago) e degli anni Sessanta (Interazionismo Simbolico ed
Etnometodologia), ha prodotto anche una letteratura metodologica a cui sono
seguiti i primi manuali sull’osservazione partecipante, l’intervista discorsiva,
l’analisi del discorso e della conversazione, l’analisi testuale dei documenti e,
più recentemente, il focus group. Questa tendenza si è rafforzata nel corso
degli anni Novanta che hanno visto un’autentica esplosione di testi di
metodologia qualitativa. Se ad esempio consultiamo il catalogo della Sage,
una delle più note e diffuse case editrici internazionali, possiamo notare la
seguente distribuzione: nel periodo 1980-1987 sono usciti dieci manuali; nel
1988-1994 sono stati pubblicati trentatre manuali; nel 1995-2002 ben
centoventisette.
Le ragioni del fatto che proprio negli anni Ottanta e Novanta i metodi
qualitativi siano tornati di moda non sono del tutto chiare e facili da spiegare.
Tuttavia focalizzarsi sul rapporto tra scienza e società può rappresentare
un’interessante chiave di lettura). Infatti, come ricorda Melucci (1998, 21) non
si può non notare che proprio in quegli anni nell’aziende e nelle tecniche
manageriali il concetto di ‘qualità’, con tutti i suoi derivati (qualità totale,
controlli di qualità, la qualità nei servizi, ecc.), è diventato fondamentale
modificando radicalmente i tradizionali processi produttivi, gestionali e
commerciali. Probabilmente il successo della qualità e della flessibilità sulla
quantità e standardizzazione (due cardini fondamentali sia del sondaggio che
del modello fordista di produzione) ha avuto ripercussioni anche nella
sociologia, disciplina più di ogni altra sensibile ai cambiamenti nella società.
Tuttavia mentre abbiamo avuto un declino del modello fordista, questo non è
avvenuto per il sondaggio, anche se ne è stata ridimensionata la sua
supremazia.
5. Il futuro dei metodi qualitativi
Quali sono le prospettive future della ricerca qualitativa? Con la clemenza che
solitamente si accorda a chi costruisce scenari, possiamo individuare almeno
cinque direzioni: (a) una maggior formalizzazione dei metodi; (b) lo sviluppo
dell’analisi dei dati; (c) il matrimonio tra computer e ricerca qualitativa; (d) la
necessità dei metodi qualitativi in una società multiculturale; (e) la ricerca
applicata.
5.1. Una maggior formalizzazione
In precedenza abbiamo notato che i principali elementi di evoluzione e di
diffusione della ricerca qualitativa sono stati la sua istituzionalizzazione
(attraverso l’introduzione di corsi di metodi qualitativi nelle università) e la
nascita di una copiosa manualistica. Questa tendenza è in continua crescita e
non sembra avere flessioni; lo testimoniano le monumentali (e costosissime)
opere recentemente uscite o in via di pubblicazione: Denzin e Lincoln (1994;
1999), Bryman e Burgess (1999), Titscher, Meyer, Wodak, Vetter (2000),
Atkinson, Coffey, Delamont, Lofland e Lofland (2001), Bryman (2001),
Reason e Bradbury (2001), Gubrium e Holstein (2002), May (2002), Fielding
(2003), Seale, Gobo, Gubrium e Silverman (2004).
Essa però sta prendendo nuove strade e costruendo un “nuovo linguaggio
dell’approccio qualitativo” (Gubrium e Holstein 1997), teso a dialogare con i
metodi quantitativi affrontando al loro livello le critiche e i problemi posti. Si
situano all’interno di questa tendenza le proposte pratiche per migliorare
l’attendibilità degli strumenti e la validità delle risultati delle ricerche
qualitative (Hammerslay 1990, 1992; Silverman 1993 e 2000; Miles e
Huberman 1994; Mason 1996; Peräkylä 1997; Cardano 1997; Seale 1999;
Gobo 2001b), le indicazioni per costruire campioni adeguati (Corsaro 1985,
Strauss e Corbin 1990, Becker 1998), le istruzioni per raccogliere
sistematicamente le note etnografiche (Schatzman e Strauss 1973; Spradley
1980; Emerson, Fretz e Shaw 1995) e per modellizzare dati etnografici
(Corsaro e Heise, 1990), gli inviti a un rigoroso disegno della ricerca
(Marshall e Rossman 1989; LeCompte e Preissle 1993; Mason 1996;
Maxwell 1996; Gobo 1998), i suggerimenti per la comunicazione dei risultati
(Wolcott 1990; Marx 1997; Tota 2001). Sono ambiti in cui si sta introducendo
una maggior formalizzazione, la quale se preservata dagli eccessi della
matematizzazione delle scienze sociali, può coniugarsi con un “metodo
riflessivo” [Gobo 1993, 305ss]. Infatti l’attività di formalizzare invita il
ricercatore a esplicitare i suoi ragionamenti, le intuizioni e le conoscenze
tacite, al fine di fornire al pubblico dei lettori le informazioni per un dialogo
all’interno della comunità scientifica. Una maggior formalizzazione
introdurrebbe quindi una maggior intersoggettività e le ricerche qualitative
potrebbero trarne beneficio sotto il profilo del rigore e della chiarezza
concettuale. Indirettamente questa tendenza si presenta come l’ultima chance
per i settori più retrivi e conservatori della metodologia di riconoscere la
scientificità della ricerca qualitativa.
Ovviamente senza dimenticare che, come ricorda Howard Becker, «se da una
parte ci sono classi generali di problemi che sono le medesime per tutti gli
studi di campo (per esempio, come si accede al luogo che vogliamo studiare),
le soluzioni sono sempre specifiche e relative al tempo, spazio e soggetti di
quel particolare studio» (comunicazione personale) e quindi non
standardizzabili.
5.2. L’attenzione all’analisi dei dati
Fino a qualche anno fa si assisteva a una curioso scambio delle parti: i metodi
quantitativi erano noti per essere fortemente sviluppati sul versante
dell’«analisi dei dati» (tant’è che questa espressione richiamava
immediatamente alla mente le tecniche statistiche), mentre i metodi qualitativi
mostravano grande esperienza sul versante della «raccolta» degli stessi. La
forza degli uni era la debolezza degli altri. E viceversa. Recentemente però le
cose stanno cambiando sia sul piano della raccolta dei dati per i metodi
quantitativi (per prendere ad esempio solo l’Italia, penso a Pitrone 1984;
Marradi 1988; Marradi e Gasperoni 1992, Lanzetti 1993; Gobo 1997,
Giampaglia 2000) sia sul piano dell’analisi dei dati per i metodi qualitativi,
vero tallone d’Achille di questi approcci.
Dai primi tentativi degli anni ottanta (gli analisti della conversazione, gli
analisti del discorso) si è passati negli anni novanta a porre l’analisi dei dati
come problema centrale e non più eludibile (Strauss e Corbin 1990; Silverman
1993; Miles e Huberman 1994). Silverman stesso (2000) sottolinea più volte
come l’analisi dei dati sia decisamente più importante della raccolta degli
stessi. Tant’è che, per abbreviare o facilitare questa fase, invita a lavorare su
dati raccolti da altri ricercatori (analisi secondarie) oppure trovati nella sfera
pubblica (i documenti). Una notevole inversione rispetto ai metodi qualitativi
tradizionali che privilegiavano altre fasi dell'indagine con una patetica
adorazione per le ricerche condotte in setting esoterici.
L’attenzione all’analisi dei dati ha già prodotto interessanti procedure per il
controllo/documentazione delle ipotesi e l’analisi dei casi devianti o anomali
(Becker e Geer 1960; Mehan 1979; Fielding e Fielding 1986), per la convalida
da parte degli attori dei risultati della ricerca (Gould, Walker, Lansing e Lidz
1974; Douglas 1976; Schatzman and Strauss 1973; Bloor 1978; Emerson e Pollner 1988; 1991) insieme a procedure sofisticate per l’analisi dei dialoghi
quotidiani (l’analisi della conversazione e l’analisi dei discorso), delle
interviste (Riessman 1992, Leccardi 1997; Rampazi 1997; Bichi 2001) e dei
materiali audiovisivi (Gottdinier 1980; Corsaro 1982; Bauer e Gaskell, 2000).
5.3. Il matrimonio tra computer e ricerca qualitativa
Sembrerebbe un ossimoro, tanto siamo abituati a pensare il calcolatore come il
supporto naturale delle analisi statistiche, eppure recentemente è sbocciato
l’amore tra computer e ricerca qualitativa: esistono decine di programmi
informatici, nati inizialmente per analizzare sia documenti che testi verbali,
che si sono poi sviluppati anche nell’analisi di audiovisivi e testi musicali. Se
la content analysis, dopo un innamoramento iniziale, non ha poi mai giocato
un ruolo da protagonista all’interno dei metodi quantitativi creando non poche
delusioni tra i fans della prim’ora, la textual analysis invece sembra avviata
verso un destino diverso: si stanno moltiplicando i corsi dedicati, le versioni
dei programmi si stanno vorticosamente aggiornando, le case editrici hanno
costruito degli appositi business, sempre più pubblicazioni si basano
sull’impiego di queste tecniche e l’interesse sta crescendo anche nel nostro
Paese (Cipriani 1997; Strati 1997). Sul piano metodologico l’analisi
qualitativa mediante l’uso di programmi informatici aumenta la precisione e
l’attendibilità delle classificazioni del ricercatore, migliora la rigorosità dei
suoi ragionamenti e garantisce l’ispezionabilità dei dati, considerata una delle
carenze storiche della ricerca qualitativa (Ricolfi 1995).
5.4. Metodi qualitativi e società multiculturali
Le società contemporanee si caratterizzano per un’alta concentrazione di etnie
e lingue, e la società italiana non si discosta da questo modello: mentre un
tempo la presenza di “stranieri” era un fenomeno abbastanza raro, oggi anche
in paesi con poche migliaia di abitanti troviamo asiatici, sudamericani,
africani, persone dell’est europeo o balcaniche. Molti di loro non conoscono
bene la lingua italiana, hanno livelli bassi di scolarità, sono diffidenti nei
confronti degli italiani autoctoni, sono competenti in modelli interazionali e
rituali diversi da quelli occidentali. Tutte caratteristiche che rendono
particolarmente difficile l’uso del questionario. Nasce quindi l’esigenza di
trovare metodi e tecniche meno standardizzati, più flessibili, centrati sul
rispondente, cioè capaci di adattarsi all’attore sociale studiato, alle sue
difficoltà linguistiche, culturali e sociali. Strumenti che anziché imporre un
particolare modello interattivo e di risposta siano in grado di adeguarsi
(almeno parzialmente) ai soggetti. Forse è questo uno dei motivi della
crescente diffusione dei metodi qualitativi: la loro flessibilità e capacità di
adattarsi alle situazioni.
5.5. La ricerca applicata
In sociologia i metodi qualitativi hanno avuto il loro apprendistato nella
sociologia urbana, delle professioni e della devianza. Coloro che diedero ad
essi un forte impulso furono Robert E. Park e William I. Thomas (i fondatori
della Scuola di Chicago), persone animate da un grande senso pratico.
Possiamo, per certi versi, dire che i metodi qualitativi in sociologia nascano
con una forte vocazione pratica, volta a trovare risposte ai problemi
dell’immigrazione, dell’integrazione e della devianza sociale. Nel secolo
appena trascorso questa vocazione ha preso diverse strade, tra cui la ricerca
applicata o “clinica”. Con questo termine, piuttosto infelice, si designa quel
vasto settore che fornisce consulenze a una vasta gamma di attori: aziende,
istituzioni, servizi, enti, comunità. Anche se la richiesta nasce spesso dalla
necessità di scoprire conoscenze tacite e descrivere, comprendere e spiegare
processi, cioè pratiche più o meno organizzate in culture locali e situate, la
ricerca applicata si pone anche l’obiettivo di indurre negli attori dei
cambiamenti, abbinando così a una finalità conoscitiva un intento operativo.
La ricerca applicata ha così visto la nascita e lo sviluppo di diversi approcci e
tecniche particolari, che sono stati impiegati in una molteplicità di settori:
• la medicina e la marginalità sociale (servizi sociali, AIDS,
tossicodipendenza, ospedali e cliniche, rapporto medico-paziente)
• le aziende (consulenza manageriale)
• i cosiddetti non luoghi (supermercati, stazioni, aeroporti)
• istituzioni (scuole, carceri, tribunali, centrali di polizia)
• le ricerche di mercato (anche se limitatamente alle interviste in profondità
e i focus groups)
• la ricerca valutativa
Nella ricerca applicata accanto ai metodi qualitativi tradizionali sono stati
affiancate anche altre tecniche “attive” con lo scopo di far prendere coscienza
agli attori sociali della situazione al fine di modificarla. Esempi di questo tipo
sono l’approccio sperimentale e psico-sociale della “ricerca-azione” (action
research) di Kurt Lewin e dei suoi collaboratori Leon Festinger e Harold H.
Kelley, che grande influenza ha avuto sulla nascita di altri approcci che a essa
fanno idealmente riferimento, come la “ricerca cooperativa” aziendale di
Ronald Lippitt e Gordon L. Lippitt, la “ricerca partecipativa” di William Foote
Whyte che segue il modello socio-tecnico dell’umanizzazione delle
organizzazioni, l’“action science” di Chris Argyris e colleghi che si situa nella
consulenza di processo, l’“empowerment” di Julian Rappaport che si occupa
del potenziamento delle capacità individuali degli attori, la “ricerca
intervento” (intervention sociologique) di Alain Touraine, il “socio-dramma”
ecc.
La tendenza attuale, in armonia con questi approcci, vede la continua
invenzione di tecniche e procedure ad hoc, che nascono in funzione dei
bisogni di coloro che richiedono la consulenza e dei nuovi problemi posti dai
soggetti o dagli argomenti studiati. A tal fine hanno avuto recente impiego:
• l'etnografia focalizzata (Knoblauch 2001), tecnica che a differenza
dell’etnografia tradizionale prevede soltanto una breve permanenza sul
campo perché l’obiettivo è studiare problemi specifici, circoscritti e
mirati;
• lo shadowing, una tecnica etnografica che consiste nel seguire «come
un'ombra» un soggetto nelle sue attività quotidiane (Wolcott 1973;
Mintzberg 1973; Sclavi 1994; Bruni, Gherardi e Poggio 2002)
• l'accertamento rapido (Fitch, 2003), tecnica in uso nella ricerca
valutativa;
• la ricerca online (Mann e Stewart 2000);
•
•
l'intervista al sosia (Oddone, Re e Briante 1977; Gherardi 1990), in cui si
chiede all’intervistato di immaginare l’intervistatore come il suo sosia, e
di fornirgli tutte le indicazioni utili per essere sostituito sul posto di lavoro
senza che l'intervistatore-sosia venga scoperto dai suoi colleghi.
l'analisi secondaria di dati d'archivio (Corti e Thompson, 2003) oppure di
ricerche precedenti (Åkerström, Jacobsson e Wästerfors 2003).
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