politica economica

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ESAM
COLLANA
TIMONE
ELEMENTI di
POLITICA
ECONOMICA
V Edizione
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Teorie a confronto
Fallimento del mercato e intervento pubblico
Politiche monetarie e fiscali
Politiche dell’Unione Europea
Istituzioni internazionali
SIMONE
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Esselibri - Simone
Estratto
pubblicazione
200/1
Estratto della pubblicazione
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Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Esselibri S.p.A.
(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Di particolare interesse per i lettori di questo volume:
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Scienza delle finanze e diritto finanziario
Compendio di economia politica
Prepararsi per l’esame di economia politica
Esercizi svolti per la prova scritta di microeconomia
Compendio di microeconomia
Compendio di macroeconomia
Compendio di politica economica
Manuale di economia politica
Elementi di economia politica
Elementi di scienza delle finanze
Dizionario di economia politica
Le parole della microeconomia
Le parole della macroeconomia
Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito Internet: www.simone.it
ove è anche possibile scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati
In copertina: Conferenza di Bretton Woods, 1944
Edizione a cura di Giuseppe Milano
Finito di stampare nel mese di settembre 2009
dalla «Officina Grafica Iride» - Via Prov.le Arzano Casandrino, VII Trav., 24 - Arzano (NA)
per conto della ESSELIBRI S.p. A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 - Napoli
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
Estratto della pubblicazione
PREMESSA
Il presente volume intende fornire al lettore un quadro sintetico ma esauriente delle modalità e degli strumenti attraverso i quali l’operatore pubblico interviene nel sistema economico al fine di raggiungere determinati obiettivi.
Il testo è suddiviso in tre parti:
— la prima descrive le principali teorie di politica economica (teoria classica e neoclassica, Keynes e la finanza congiunturale, il modello IS-LM,
il monetarismo, il modello di domanda e offerta aggregata);
— la seconda analizza gli obiettivi e gli strumenti dell’operatore pubblico
in un’economia chiusa (la lotta all’inflazione e alla disoccupazione attraverso la politica monetaria e la politica fiscale);
— la terza si sofferma sulle caratteristiche peculiari dell’intervento pubblico in un’economia aperta, affrontando tematiche di grande attualità quali, ad esempio, l’equilibrio dei conti con l’estero, il dibattito protezionismo-libero scambio, la politica monetaria dell’Unione Europea e il ruolo delle istituzioni internazionali.
Come tutti i volumi della collana Last Minute, gli Elementi di politica
economica si caratterizzano per l’utilizzo di un linguaggio semplice e per
la presenza di brevi glossari e di risposte ai quesiti più ricorrenti sull’argomento, risultando un importante strumento per chi deve affrontare l’esame universitario o partecipare a concorsi pubblici.
PARTE PRIMA
LA POLITICA ECONOMICA:
TEORIE A CONFRONTO
Estratto della pubblicazione
INTRODUZIONE
Sommario: 1. La politica economica. - 2. Gli obiettivi della politica economica. - 3. Forme di intervento statale.
1. LA POLITICA ECONOMICA
Una definizione universalmente accettata del concetto di «politica economica» non esiste, ma in genere si è soliti suddividere la scienza economica in due rami: un ramo positivo (l’economia politica) ed un ramo normativo (la politica economica, appunto); mentre l’economia politica studia i fenomeni economici così come si presentano all’osservazione, cercando di
individuare delle regolarità o delle leggi economiche, vale a dire dei comportamenti che si ripetono ogni volta che si presentano talune circostanze,
la politica economica studia gli strumenti più adatti ad influenzare i fenomeni economici al fine di raggiungere determinati obiettivi.
I soggetti attivi della politica economica sono i soggetti pubblici (Stato,
Enti locali etc.), ai quali spetta il compito di pianificare l’economia nel suo
complesso, di fissare degli obiettivi prioritari e di effettuare delle scelte fra
obiettivi spesso conflittuali. In un’economia di mercato, però, le decisioni
di governo avranno soltanto una funzione di indirizzo poiché dovranno sempre confrontarsi con il comportamento dei soggetti privati e con le loro aspettative (solo in parte prevedibili).
Rientrano, inoltre, fra i soggetti attivi della politica economica, sebbene
con compiti meno incisivi, gli organismi internazionali, che esercitano delle
funzioni sovranazionali di indirizzo sia politico che economico: ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), FMI (Fondo Monetario Internazionale),
Banca Mondiale e, per quanto attiene più direttamente agli interessi europei, la CE (Comunità Europea).
2. GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA ECONOMICA
Gli obiettivi ai quali gli interventi di politica economica devono mirare
sono molteplici e tutti ugualmente inerenti al progresso civile, economico e
sociale della nazione.
Introduzione
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Primo fra questi per importanza è, senza dubbio, quello inerente la massimizzazione del prodotto nazionale, la sua razionale ripartizione fra i diversi impieghi e il suo massimo tasso di crescita.
Le forze di mercato, se abbandonate a se stesse, non sono infatti sufficienti ad accrescere il prodotto nazionale, sia nel breve che nel lungo periodo.
Per tali ragioni le autorità statali che governano l’economia devono intervenire attraverso investimenti, potenziamento delle strutture tecniche ed
incentivi per favorire un incremento del prodotto nazionale.
Il secondo obiettivo che si può tentare di raggiungere attraverso gli interventi di politica economica è la piena occupazione delle forze di lavoro.
Questo obiettivo, particolarmente sentito ai nostri giorni, è anch’esso molto
importante in quanto la disoccupazione è causa di malessere acuto nella
società, oltre ad essere ostacolo allo sviluppo della capacità produttiva del
paese ed al pieno utilizzo delle sue risorse.
Un altro obiettivo della politica economica concerne la stabilità dei
prezzi, necessaria a contrastare gli effetti deleteri del processo inflazionistico. Infatti, fenomeni inflattivi possono creare disparità nella distribuzione
del reddito fra percettori di salari e percettori di reddito variabile, nonché
distorcere l’allocazione delle risorse.
Un altro fondamentale obiettivo della politica economica è rappresentato dalla equa distribuzione, personale e territoriale, del reddito.
Attraverso la redistribuzione del reddito si arriva ad attivare anche la
produzione di settori meno favoriti, il che può fungere da stimolo all’offerta
nel lungo periodo.
Ancora un altro obiettivo della politica economica è il pareggio della
bilancia dei pagamenti, ovvero l’eliminazione degli scompensi che inducono un paese ad indebitarsi o ad accumulare crediti verso l’estero.
L’affermarsi di una più diffusa attenzione alla cosiddetta qualità della
vita, ha portato prepotentemente alla ribalta un ulteriore obiettivo della politica economica, la tutela dell’ambiente, che richiede, però, rispetto agli
obiettivi «classici», un maggiore coordinamento (a livello planetario, e non
più solo regionale) degli interventi ed una maggiore attenzione agli impatti
qualitativi di ogni scelta pubblica.
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Introduzione
3. FORME DI INTERVENTO STATALE
Nel perseguimento degli obiettivi che si è prefissato, lo Stato può scegliere fra
forme di intervento indirette e forme di intervento dirette. Con l’intervento diretto
esso si affianca o si sostituisce all’iniziativa privata in determinati settori e diventa
imprenditore a sua volta, creando in prima persona nuove imprese. In caso di
intervento indiretto, invece, lo Stato lascia la produzione all’iniziativa privata ma
si riserva la facoltà di disciplinarla e di indirizzarla verso determinati fini.
Così, ad esempio, in un’economia che presenta sintomi di recessione il
governo può decidere una riduzione delle aliquote fiscali (sostenendo indirettamente la domanda globale) o un aumento della spesa pubblica. Altre
volte gli sgravi fiscali non sono indiscriminati, ma specifici per i soggetti
che operano in un determinato settore o in una determinata area geografica
di cui si vuol favorire lo sviluppo.
In determinati casi può essere conveniente proteggere l’economia nazionale della concorrenza estera: si possono allora imporre dazi all’importazione o contingentamenti che rendano meno competitivi i prodotti stranieri.
Anche la politica monetaria (manovre sul tasso d’interesse, variazioni
della base monetaria o del tasso ufficiale di sconto), stimolando o deprimendo
gli investimenti, rientra fra gli strumenti indiretti di intervento statale.
Una forma particolare di intervento statale indiretto è la programmazione economica, con cui lo Stato, pur lasciando ai privati l’attività produttiva, regola il funzionamento del sistema mediante la stesura di un programma economico organico che coordina, attraverso una serie di incentivi e
disincentivi, le iniziative economiche dei privati.
I primi tentativi organici di programmazione economica delle economie capitalistiche risalgono ai primi anni ’60 (Francia, Italia, paesi scandinavi). Le difficoltà incontrate e la scarsa
efficacia dei diversi piani, nonché la generale ventata di deregulation, hanno ormai portato,
praticamente, all’abbandono di ogni forma seria di programmazione economica.
In Italia l’ultimo tentativo di programmazione economica è costituito dal «piano Pandolfi
1978-1980» che però, a causa della crisi di governo, non entrò mai in vigore.
La programmazione, per le sue finalità e caratteristiche, rientra fra gli
interventi di politica economica di lungo periodo: di essa ci occuperemo
nella Parte Terza di questo volume. La Parte Prima sarà invece dedicata alle
diverse teorie economiche ed ai loro rapporti con l’economia normativa. La
Parte Seconda, invece, analizzerà obiettivi, strumenti e modelli della politica economica di breve periodo.
CAPITOLO PRIMO
LE TEORIE ECONOMICHE DEI
CLASSICI E DEI NEOCLASSICI
Sommario: 1. Premessa. - 2. Adam Smith e la nascita del liberismo economico. - 3.
Ricardo ed il finanziamento del debito pubblico. - 4. John Stuart Mill e la teoria del
sacrificio uguale. - 5. I neoclassici e l’economia del benessere. - 6. L’economia del
benessere. - 7. La «nuova economia del benessere». - 8. La legge di Say.
1. PREMESSA
L’obiettivo dell’attività economica pubblica e, di conseguenza, l’evoluzione della stessa scienza economica, sono direttamente correlate allo sviluppo del pensiero economico.
È evidente, infatti, che le diverse teorie economiche, a seconda della
valenza dalle stesse assegnate alla libertà economica dei cittadini, hanno di
volta in volta ampliato o contenuto i compiti dell’attività finanziaria.
Dunque, attraverso una breve disamina dell’evoluzione del pensiero economico è possibile risalire alle origini ed all’evoluzione della materia da noi
trattata.
2. ADAM SMITH E LA NASCITA DEL LIBERISMO ECONOMICO
La prima fase dell’evoluzione della politica economica è legata alla figura dell’economista inglese A. Smith (1723-1790) ed agli economisti classici più in generale.
Nella sua opera «Ricerca sulla natura e le cause delle ricchezza delle
nazioni», pubblicata nel 1776, Smith pone le basi di tutta l’economia politica.
Partendo dalla considerazione che ogni ricchezza è prodotta dal lavoro e che
ogni individuo è il miglior giudice del proprio interesse, Smith elabora la
teoria della mano invisibile, secondo cui, attraverso il meccanismo degli scambi, gli interessi dei diversi individui, e quindi della società in quanto somma
di individui, sono realizzati con la massima efficienza possibile. Se ciascun
soggetto è libero di decidere il suo comportamento, se a ciascuna merce si
applica il medesimo prezzo (se cioè si opera in un mercato concorrenziale),
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
ogni individuo troverà l’impiego più vantaggioso per il capitale di cui dispone
e, pur perseguendo solo il proprio interesse, egli (come spinto da una «mano
invisibile») accrescerà contemporaneamente il benessere collettivo.
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Qual è la principale implicazione della teoria della mano invisibile di
Smith?
Se il mercato, lasciato libero da impedimenti e costrizioni, è in grado di raggiungere risultati
ottimali per l’intera società, compito dello Stato è quello di giocare un ruolo il più possibile
neutrale in campo economico. Smith è consapevole che lo Stato ha il compito di assicurare
quei servizi pubblici essenziali allo sviluppo della società (difesa, giustizia, opere pubbliche)
che non potrebbero essere affidati ai privati cittadini poiché questi non sarebbero in grado di
porvi mano, o per mancanza di mezzi o perché il profitto che si prevede ne derivi è troppo
esiguo. Ma l’economista inglese è altresì convinto che la finanza pubblica dovrebbe ridurre al
minimo i «turbamenti della vita economica connessi all’attività di prelievo e di erogazione, e
non alterare le posizioni relative dei soggetti economici» (STEVE).
Anche da questa sintetica esposizione del pensiero finanziario del padre degli economisti classici, appare chiaro come la teoria di Smith avesse un contenuto esplicitamente normativo (PICA):
questa impostazione influenzerà a lungo le analisi di economica pubblica.
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L’adempimento di questi compiti presuppone necessariamente delle spese e
queste, a loro volta, richiedono necessariamente delle entrate per essere sostenute. Le analisi di Smith, così come quelle degli altri autori classici a proposito
dell’«ottima imposta», hanno costituito la base di ogni teoria dell’incidenza.
3. RICARDO ED IL FINANZIAMENTO DEL DEBITO PUBBLICO
Mantenendo l’impostazione normativa che già era stata propria di Smith, un altro economista inglese, D. Ricardo (1772-1823), approfondì gli studi di economia pubblica. A differenza di quella di Smith, la concezione
ricardiana degli obiettivi di politica appare però molto più vicina alle idee
di molti economisti teorici moderni, anche se sembra tanto semplice da potersi considerare riduttiva. La produzione massima o accumulazione massima, infatti, costituisce per tale autore l’obiettivo economico supremo, che
ha carattere unificatore rispetto ad altri possibili obiettivi specifici.
È in dipendenza dell’assunzione di questo obiettivo che l’analisi ricardiana viene accentrata sulla distribuzione del prodotto globale tra le categorie sociali compartecipi alla sua formazione: proprietari terrieri, lavoratori
salariati, capitalisti-imprenditori.
Estratto della pubblicazione
Capitolo Primo - Le teorie economiche dei classici e dei neoclassici
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Ricardo si serve, nella sua analisi, dell’esempio di uno Stato che intervenga nell’economia del paese con l’imposizione di dazi doganali all’entrata delle merci provenienti da paesi terzi.
Nel caso di un paese in rapida crescita demografica, gli ostacoli posti
all’importazione di derrate alimentari straniere a costi inferiori rispetto a
quelli interni, determineranno tali conseguenze: progressiva crescita delle
rendite, stazionarietà dei salari reali, declino dei profitti.
Così è presto dimostrato che un intervento statale pregiudica l’accumulazione massima, posto che la fonte principale dei risparmi e, conseguentemente dell’accumulazione, viene individuata da Ricardo appunto nei profitti.
Ne risulta, pertanto, l’indicazione pratica di tendere alla libera importazione (del grano, per l’Inghilterra di quel periodo) destinato a ridurre le
rendite, o ad annullarle del tutto, ma idonea nel contempo ad elevare i profitti e quindi i risparmi e l’accumulazione.
Ricardo approfondì per primo anche un tema che sarebbe divenuto di
grande attualità presso gli studiosi di finanza pubblica: il problema della
scelta tra finanziamento della spesa pubblica con imposta straordinaria o
con debito pubblico.
L’autore affrontò tali problemi in un contesto storico particolare, caratterizzato da un forte incremento del debito pubblico inglese dovuto al finanziamento delle gravose guerre che l’Inghilterra aveva dovuto affrontare negli anni precedenti.
In tale contesto Ricardo giunse alla formulazione del principio di equivalenza tra finanziamento della spesa mediante ricorso al debito e finanziamento con imposte e tale principio fu ritenuto valido sia in relazione ai contribuenti attuali sia rispetto alla generazione futura.
Ricardo affermò, infatti, che per la generazione presente imposta straordinaria e debito pubblico sono equivalenti perché nel primo caso la collettività sopporta la spesa nel momento in cui l’imposta è istituita; nel secondo
caso, invece, il governo dovrà aumentare le imposte future per pagare gli
interessi del debito.
Ma l’autore non era d’accordo neanche con quanti ritenevano che, a
causa degli interessi dovuti sul capitale da rimborsare, il ricorso all’indebitamento trasferisse l’onere della spesa pubblica sulle generazioni future.
Ricardo riteneva infatti che, in caso di ricorso al debito, solo il capitale
viene sottratto alla ricchezza produttiva della nazione e non gli interessi;
negli anni successivi all’emissione del prestito, infatti, vi saranno da un lato
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
persone tenute a pagare tributi per gli interessi, e dall’altro individui che
riceveranno il pagamento di tali interessi (i detentori del debito pubblico):
nel complesso, quindi, le generazioni future non sopporteranno nessun onere aggiuntivo.
4. JOHN STUART MILL E LA TEORIA DEL SACRIFICIO UGUALE
Più che sul piano tecnico (dove segue quasi fedelmente i principi di
Ricardo), l’opera di J. S. Mill (1806-1873) appare rilevante sul piano politico, rappresentando uno dei capisaldi del pensiero riformista.
Con Mill si cominciarono ad approfondire i legami tra l’attività finanziaria e quella economica.
L’autore mitigò il rigore di Smith e le sue concezioni drastiche circa la
neutralità dell’attività finanziaria pubblica, configurando la possibilità di
un intervento pubblico nei casi in cui tale attività venisse a migliorare le
condizioni sociali della collettività.
Soprattutto, però, Mill fu il primo a dare solide basi teoriche alla «teoria
del sacrificio uguale», in base al quale il sacrificio che ogni contribuente
deve affrontare per il pagamento delle imposte deve risultare uguale o
proporzionale per tutti.
Secondo tale orientamento si avrà uguaglianza di carico tributario quando i tributi imposti cagionano ai contribuenti un eguale sacrificio: il prelievo tributario, effettuato in ossequio al principio di decrescenza di utilità
economica della ricchezza, deve perciò pesare sui più abbienti.
In questo modo, sosteneva Mill, oltre a ripartire equamente le imposte,
si sarebbe addossata alla collettività il sacrifio minimo possibile. Tale criterio verrà sviluppato dagli autori neoclassici che, avvalendosi dell’analisi
marginalistica, cercarono di elaborare principi normativi per la ripartizione
delle imposte (BROSIO).
5. I NEOCLASSICI E L’ECONOMIA DEL BENESSERE
In genere, si è soliti indicare gli anni compresi fra il 1871 ed il 1874
come la data di nascita del pensiero economico neoclassico. A quegli anni,
in effetti, risale la pubblicazione di tre opere fondamentali del pensiero economico: la «Teoria dell’economia politica» di Jevons, gli «Elementi di economia politica» di Walras e i «Principi di economia politica» di Menger. In
meno di dieci anni le nuove teorie si affermarono e, tranne pochi ostinati
Capitolo Primo - Le teorie economiche dei classici e dei neoclassici
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epigoni, il pensiero economico classico fu decisamente ripudiato. In effetti,
pur se il nome sembra sottolineare una certa affinità fra le due scuole, il
nuovo schema analitico aveva ben poco a che vedere con quello di Smith o
di Ricardo.
Il nuovo principio che rese possibile questa operazione era abbastanza
semplice: il valore di un prodotto non era dovuto solo alla quantità di lavoro
in esso incorporato, come avevano affermato i classici, ma risiedeva anche
nell’utilità attribuita dal consumatore all’ultima unità acquistata (la cd. utilità marginale).
Partendo da questi fondamenti teorici, la teoria finanziaria neoclassica
concentra la propria attenzione prevalentemente su due problemi: la ripartizione del carico fiscale, da una parte e, dall’altra, l’ottima allocazione delle
risorse. Va, però, specificato che diverso fu il contributo che le diverse scuole nazionali apportarono alla teoria finanziaria: mentre la scuola neoclassica
inglese appuntò la propria attenzione quasi esclusivamente sulla ripartizione delle imposte, i teorici dell’Europa continentale conservarono un approccio
più globale, non scindendo mai il problema della determinazione delle entrate da quello delle spese.
La causa di tale diversità d’impostazione va ricercata nelle diverse condizioni di sviluppo
economico e sociale che caratterizzavano i paesi europei. Mentre in Inghilterra il processo di
industrializzazione della struttura economica poteva considerarsi concluso, cosicché il ruolo di
propulsione dello Stato poteva essere ridotto al minimo, nell’Europa continentale lo Stato doveva intervenire con vigore a difesa delle nascenti industrie, aumentando in misura rilevante la
spesa pubblica. A questo si aggiunga che l’Inghilterra si era dotata già nel 1866 di un collaudato meccanismo istituzionale per le decisioni di spesa (BROSIO), e che queste condizioni di
stabilità politica e finanziaria erano assenti in gran parte degli Stati del continente europeo.
Con il metodo marginalista le scienze economiche si dotano di nuovi
strumenti, che permettono agli studiosi analisi sempre più sofisticate, ma la
cui rispondenza alla realtà è sotto molti aspetti limitata (PICA). Ciò non
toglie che gran parte degli studi di economia pubblica siano stati profondamente influenzati dall’approccio marginalista: questo discorso vale sia per
la cosiddetta economia del benessere, sia per i successivi sviluppi teorici.
6. L’ECONOMIA DEL BENESSERE
Per economia del benessere si intende quel filone della teoria economica che valuta la desiderabilità sociale di situazioni economiche alternative
(COSCIANI). Grazie ad essa è possibile confrontare situazioni caratterizEstratto della pubblicazione
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
zate dall’intervento o meno dello Stato e ricavarne indicazioni circa l’alternativa che massimizza il benessere della collettività.
Pur derivando il proprio nome da un’opera dell’economista inglese C.
A. Pigou (1877-1959), l’economia del benessere deve la propria impostazione organica all’italiano V. Pareto.
Due sono i criteri fondamentali che permettono all’economia del benessere di valutare situazioni economiche alternative: l’efficienza e l’equità.
Per Pareto un sistema è efficiente se non è possibile aumentare il benessere di un individuo senza diminuire il benessere di qualcun altro.
Finché tale situazione di efficienza non è raggiunta sarà sempre possibile un
miglioramento paretiano, ovvero sarà possibile migliorare la situazione di
un individuo senza danneggiare nessun altro. In una situazione di efficienza
paretiana, quindi, il benessere collettivo raggiunge il suo livello massimo e
qualunque modifica dello status quo determina inevitabilmente una perdita
di benessere. Pareto dimostrò, inoltre, che tale livello massimo di benessere
può essere raggiunto in un mercato perfettamente concorrenziale.
Riprendendo ed approfondendo la teoria dell’equilibrio economico generale di Walras, egli individuò le tre condizioni che garantiscono l’efficienza ottima (corrispondenti, appunto, ad una situazione di concorrenza
perfetta): l’efficiente combinazione dei fattori produttivi, l’efficienza nello
scambio e l’ottima combinazione del prodotto. Verificatesi queste tre condizioni, la società avrà raggiunto la propria frontiera delle possibilità produttive, costituita dalle infinite combinazioni che assicurano l’efficiente allocazione delle risorse a sua disposizione.
Il primo teorema dell’economia del benessere afferma, dunque, che il
mercato, se lasciato libero di agire, raggiunge automaticamente l’ottimo
paretiano.
L’efficiente allocazione delle risorse, tuttavia, non comporta necessariamente l’equa distribuzione delle stesse. Tale allocazione, infatti, dipende essenzialmente dalla distribuzione iniziale delle risorse, nel senso che differenti
ripartizioni iniziali delle risorse condurrano a differenti allocazioni Paretoefficienti. Anche in un mercato perfettamente concorrenziale, quindi, non esiste un’unica allocazione efficiente delle risorse ma tante allocazioni possibili
quante sono le possibili distribuzioni iniziali delle risorse stesse.
Ciascuna di queste allocazioni, pur essendo Pareto-efficiente, determina
una diversa distribuzione del benessere tra gli individui; ciò significa che, a
meno di casi fortunati, la distribuzione delle risorse individuata da un’ecoEstratto della pubblicazione
Capitolo Primo - Le teorie economiche dei classici e dei neoclassici
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nomia di mercato difficilmente coinciderà con quella socialmente ottimale
(BOSI). A questo punto si pongono due problemi:
— in primo luogo, occorre capire quale delle infinite situazioni di ottimo
paretiano sia socialmente ottimale, renda cioè massimo il benessere della collettività.
La scelta dipenderà da un giudizio sociale sulla distribuzione (LECCISOTTI), giudizio che verrà espresso tenendo conto della funzione del
benessere sociale, costruita aggregando le preferenze dei singoli riguardo al benessere. In tal modo l’efficienza allocativa viene giudicata sulla
base di due postulati etici generali (BROSIO): l’individualismo (poichè
è il singolo il miglior giudice della propria situazione) e l’aggregazione
delle preferenze individuali (valutata in base al criterio paretiano secondo il quale il benessere della collettività aumenta se aumenta l’utilità di
un individuo senza che si riduca quella di qualcun altro);
— in secondo luogo, se l’allocazione delle risorse determinata automaticamente da un mercato perfettamente concorrenziale non corrisponde necessariamente a quella socialmente ottimale (se, cioè, efficienza ed equità
non coincidono), si rende opportuna una politica redistributiva da parte
dello Stato. Il secondo teorema dell’economia del benessere afferma
che, se un’allocazione è Pareto-efficiente, esiste una distribuzione iniziale delle risorse tale che il libero agire del mercato realizza quell’allocazione. Ne consegue che, modificando in modo opportuno la distribuzione iniziale delle risorse attraverso determinati strumenti (principalmente imposte e sussidi) e lasciando poi al libero agire del mercato la
realizzazione dell’efficienza allocativa, è possibile raggiungere la situazione di ottimo sociale.
Contrariamente alle intenzioni di Pareto (che intendeva riproporre in chiave marginalistica la teoria della mano invisibile di Smith), i due teoremi fondamentali dell’economia del benessere forniscono una fondamentale giustificazione teorica all’intervento pubblico nell’economia, richiedendo che lo Stato:
a) garantisca la concorrenza, facendo fronte a quei fenomeni di fallimento
del mercato di cui si parlerà approfonditamente in seguito (cfr. Parte
Seconda, Capitolo Primo);
b) intervenga preventivamente sulla distribuzione delle risorse, per far sì
che il libero agire delle forze di mercato conduca ad un’allocazione delle risorse che sia, al tempo stesso, efficiente ed equa.
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
7. LA «NUOVA ECONOMIA DEL BENESSERE»
A) Pigou
Numerosi sono stati i contributi che hanno cercato di dare una soluzione
al problema del giudizio su una politica redistributiva.
Uno dei primi tentativi in questo campo fu effettuato dall’economista
inglese A. C. Pigou. Seguendo la tradizione utilitaristica inglese, Pigou riteneva possibile costruire una funzione del benessere basata su funzioni d’utilità cardinali. Poiché per Pigou il benessere sociale coincide, in sostanza,
con il benessere economico (e dunque con il reddito), e poiché il reddito,
così come ogni altro bene economico, ha un’utilità marginale decrescente,
ne consegue che una politica redistributiva, spostando reddito dalle fasce della popolazione più ricche a quelle più povere, accresce necessariamente il benessere sociale, a patto di non produrre inefficienze nell’allocazione delle risorse e di non ridurre il volume del reddito.
B) La compensazione potenziale
Il tentativo di Pigou di esprimere giudizi scientificamente fondati su azioni
redistributive non incontrò il favore degli studiosi. Ciò principalmente per
due ordini di motivi: in primo luogo, il principio dell’utilità marginale del
reddito fu sottoposto a non poche critiche, ma, soprattutto, fu ben presto
abbandonata l’ipotesi di cardinalità delle funzioni di utilità: se non è possibile porre a confronto le variazioni di benessere di individui diversi, ogni
giudizio su una politica redistributiva non può che essere frutto di un giudizio di valore (BROSIO).
Un tentativo di recuperare qualche margine all’intervento pubblico
(PICA) è stato proposto nel 1939 dai due inglesi Kaldor e Hicks. Pur conservando l’assunto paretiano di non confrontabilità delle utilità, Kaldor e
Hicks elaborarono un criterio secondo cui un intervento redistributivo
può essere giudicato positivamente se chi vede aumentare il proprio
benessere è anche in grado di compensare il danneggiato e ricavare
ancora un vantaggio. Facendo ricorso ad una compensazione puramente
potenziale, i due autori rispettavano il criterio paretiano e, contemporaneamente, rendevano possibile superare la difesa dello status quo implicita nell’analisi dell’italiano.
Anche questo ambizioso ed ingegnoso tentativo (PICA) prestava però il
fianco a numerose critiche, come dimostrò nel 1941 Scitovsky.
Capitolo Primo - Le teorie economiche dei classici e dei neoclassici
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Nella nuova situazione susseguente all’intervento redistributivo, sarebbe possibile applicare il criterio di Kaldor-Hicks anche ad un intervento che
ripristini la situazione originaria, con evidenti effetti paradossali.
Scitovsky proponeva allora il ricorso ad un «doppio criterio»: un intervento redistributivo può dirsi socialmente accettabile se:
1. chi si avvantaggia è in grado di compensare il danneggiato e conservare
un vantaggio residuo (criterio di Kaldor-Hicks) e
2. il danneggiato non è in grado di indurre l’avvantaggiato a non preferire
più tale redistribuzione versandogli del denaro a titolo di compensazione.
In sostanza, però, anche l’applicazione del «doppio criterio» lascia parecchi problemi irrisolti. Ad esempio, se giudice del proprio benessere è (e
deve essere, secondo l’impostazione paretiana) il singolo, i danneggiati potrebbero ingigantire i danni potenziali al fine di accrescere le somme da
ricevere come compenso. Inoltre (COSCIANI, BROSIO), un intervento che
aumenti il benessere di un individuo già ricco a scapito di altri, pur rispettando sia il criterio di Kaldor-Hicks che quello di Scitovsky, aumenterebbe
le disuguaglianze sociali e ben difficilmente potrebbe essere accettato dalla
società.
8. LA LEGGE DI SAY
La politica economica neoclassica, però, fu influenzata soprattutto dalla
legge degli sbocchi o legge di Say, dal nome dell’economista che per primo
ne ha dato una completa esposizione.
La legge afferma che l’offerta dei beni crea la propria domanda, di modo
che non vi può mai essere sovrapproduzione rispetto alla domanda per un
lungo periodo di tempo.
Secondo tale teoria nel sistema economico sussiste una situazione di
equilibrio economico permanente tra domanda globale di beni e servizi e la
relativa offerta globale; a qualsiasi spostamento da questo equilibrio corrisponde un automatico riaggiustamento ad opera delle forze di mercato, fino
al raggiungimento di un reddito nazionale di piena occupazione.
Say dice che su singoli mercati potrebbe esservi una insufficienza di
domanda, ma se ciò si verifica, egli sostiene, bisogna ammettere che su
qualche altro mercato vi sia un’insufficienza dell’offerta, rispetto alla domanda. Questi squilibri parziali possono sempre essere corretti da opportuni movimenti dei relativi prezzi.
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
Se viene accettata la legge di Say, dobbiamo dedurre che tutto ciò che
viene prodotto sarà comunque venduto, qualunque sia il livello globale della produzione. Ogni imprenditore avrà, quindi, interesse a produrre al massimo della capacità del sistema economico. L’unico limite che l’imprenditore potrebbe trovare è dato dalla forza lavoro disponibile.
La teoria neoclassica dell’equilibrio automatico tra domanda e offerta fu criticata già da
Malthus il quale affermò che un crescente volume di produzione pone l’esigenza di trovare
«sbocchi» esterni al mercato e per nulla automatici, come, ad esempio, aumento delle esportazioni, aumento dei consumi delle classi ricche etc.
Altro autore classico che rifiutò la legge Say fu Marx. Egli affermò che
la legge degli sbocchi presuppone che i venditori, in cambio delle merci
vendute, chiedano della moneta solo per poter acquistare a loro volta dei
beni. Ciò non è vero in un sistema capitalistico, dove la moneta non è solo
mezzo di scambio, ma è anche capitale. In tale sistema non tutta la moneta
riscossa viene spesa. Coloro che hanno redditi appena sufficienti ai loro
bisogni spendono subito le monete a loro disposizione. Coloro che hanno
redditi elevati, invece, non spendono subito, ma risparmiano in attesa di
situazioni economiche più vantaggiose. La spesa di questi soggetti viene
così diluita nel tempo. Poiché gli imprenditori acquistano beni strumentali
(investimenti) quando lo ritengono conveniente, ne deriva che non sempre
si verifica la legge del Say, poiché la produzione non trova sbocchi automatici, né l’equilibrio si raggiunge attraverso un processo automatico di aggiustamento dei prezzi.
Ma la critica più convincente alla legge degli sbocchi fu certamente quella
proposta da J.M. Keynes.
Glossario
Benessere: grado di soddisfazione dei bisogni degli individui.
Utilità marginale: utilità che si ottiene dall’utilizzo di un’unità aggiuntiva di un bene. Essa
decresce all’aumentare del numero di unità consumate, in quanto al diminuire del bisogno
diminuisce progressivamente anche il piacere derivante dall’utilizzo di tali unità aggiuntive.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO SECONDO
KEYNES E LA FINANZA CONGIUNTURALE
Sommario: 1. La finanza del reddito nazionale. - 2. Il pensiero keynesiano. - 3. Il
compito dello Stato in Keynes. - 4. L’attività della pubblica amministrazione e il moltiplicatore. - 5. Le politiche di stabilizzazione.
1. LA FINANZA DEL REDDITO NAZIONALE
Le concezioni economiche neoclassiche si rivelarono inadeguate nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, ed in particolare a seguito della
crisi economica del 1929, allorché venne messa in discussione la presunta
capacità dei sistemi economici di riequilibrarsi senza bisogno di interventi
esterni e di assicurare la completa occupazione dei fattori produttivi.
Si affermò allora il pensiero di Keynes (1883-1946), che per primo tentò
di spiegare il fenomeno economico della grande depressione del 1929: crollo dell’economia, invendibilità del prodotto, disoccupazione, stagnazione
(mancanza di investimenti), crolli in borsa, etc.
Le teorie precedenti (neoclassiche) non offrivano una risposta a questi
fenomeni. Esse predicavano la piena occupazione e credevano in un automatismo del sistema economico tendente al riequilibrio.
Keynes cercò, invece, di creare un modello interpretativo in cui non si
partisse da un’ipotesi di piena occupazione: da ciò l’esigenza di un massiccio intervento dello Stato nel sistema economico.
2. IL PENSIERO KEYNESIANO
Volendo sintetizzare al massimo il pensiero abbastanza complesso dell’economista inglese tre sono i fondamenti teorici dell’analisi keynesiana: il
riconoscimento che la moneta in un sistema capitalistico svolge, tra l’altro,
la funzione di fondo di valore; il ripudio della legge di Say (l’offerta crea la
domanda); l’abbandono dell’ipotesi neoclassica di perfetta flessibilità dei
salari. Analizziamo i tre punti separatamente.
Estratto della pubblicazione
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Parte Prima - La politica economica: teorie a confronto
A) La moneta
Per Keynes l’economia capitalistica è un’economia monetaria: in essa
la moneta non svolge soltanto (come per i neoclassici) una funzione di intermediario negli scambi e di unità di misure del valore. Al contrario, essa
svolge anche il ruolo di «fondo di valore»: in determinati momenti di incertezza congiunturale, gli operatori possono ritenere più vantaggioso detenere presso di sé scorte monetarie liquide piuttosto che impiegarle in una qualsiasi forma di investimento. Così facendo essi rinunciano alla remunerazione del capitale preferendo la liquidità tipica della moneta, la capacità, cioè,
di tramutarsi immediatamente in risorse reali. In un mondo come quello
keynesiano, dominato dall’incertezza circa il futuro ed in cui le aspettative
sono mutevoli, in alcuni momenti particolari la liquidità della moneta costituisce un pregio insostituibile. È dunque possibile che questa tesaurizzazione di scorte liquide sottragga al circuito economico risorse, impedendo che
domanda ed offerta aggregate si eguaglino.
B) Il ripudio della legge di Say
Riconoscendo che il sistema economico non tende automaticamente all’equilibrio, Keynes non può che rifiutare uno dei pilastri teorici della costruzione neoclassica: la legge di Say. Per quest’ultimo ogni offerta crea la
propria domanda cosicché a livello macroeconomico non può non esservi
equilibrio fra domanda ed offerta (ovvero, tra investimenti e risparmi). Questa fondamentale uguaglianza è assicurata, nello schema neoclassico, dal
fatto che sia gli investimenti che i risparmi sono funzione della stessa variabile, il saggio d’interesse.
Per Keynes, al contrario, il risparmio non è inteso come offerta di capitali,
ma come reddito non consumato: poiché il consumo è funzione del reddito,
ne consegue che anche il risparmio dipenderà dal reddito; viene così a cadere
l’uguaglianza investimenti-risparmi che per i neoclassici si realizzava automaticamente sul mercato dei capitali grazie al tasso d’interesse.
C) La rigidità dei salari
L’instabilità del sistema economico viene aggravata, secondo Keynes, da
un ulteriore fattore: la rigidità dei salari. I neoclassici, infatti, ammettevano
momentanee situazioni di sottoccupazione, situazioni, cioè, in cui il sistema
economico non permetteva la piena occupazione di tutti i fattori produttivi.
Tale situazione, però, veniva considerata momentanea poiché un mercato perEstratto della pubblicazione
Capitolo Secondo - Keynes e la finanza congiunturale
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fettamente concorrenziale avrebbe determinato il prezzo ottimale dei fattori
produttivi. Nel mercato del lavoro tale prezzo è costituito dal salario.
Keynes rifiutava, però, tale tesi sostenendo che in una moderna economia per diverse ragioni (presenza del sindacato, maggiore forza contrattuale dei lavoratori) i salari monetari sono rigidi verso il basso (non possono
cioè scendere sotto un determinato livello). Ciò comporta l’impossibilità di
raggiungere un equilibrio ottimale sul mercato del lavoro.
3. IL COMPITO DELLO STATO IN KEYNES
Il pensiero di Keynes, qui necessariamente esposto in estrema sintesi,
portava ad un’unica conclusione: se il mercato si dimostra incapace di
raggiungere autonomamente l’equilibrio, lo Stato deve svolgere un ruolo
più attivo nella vita economica.
Maturava così un nuovo aspetto della finanza: la finanza congiunturale, diretta a svolgere un’azione compensatrice nelle opposte fasi, espansiva
e depressiva, della congiuntura.
In questa situazione, Keynes e gli studiosi che lo seguirono ritennero
che la finanza pubblica potesse:
— correggere e bilanciare gli andamenti dei cicli economici;
— mantenere in pieno regime di occupazione le diverse forze di produzione;
— stabilizzare o anche incrementare il reddito nazionale;
— prevedere le esigenze delle generazioni future;
— eliminare gli squilibri territoriali e settoriali.
In altri termini la finanza pubblica doveva agire sul sistema economico
nazionale e trasformarsi da mera attività di raccolta di danaro per affrontare
la spesa pubblica in un’attività di direzione di politica economica e sociale.
In tale accezione si è parlato di finanza funzionale (LERNER) come
strumento di programmazione, stabilità e sviluppo.
Lo Stato nella sua attività economica è inteso come un’impresa diretta a
produrre beni e servizi, ma anche come il principale artefice della manovra
finanziaria nell’economia e in quanto tale capace di determinare non solo la
distribuzione, ma anche il volume del reddito nazionale (STEVE).
La tesi fondamentale dell’economista inglese è che un deficit di bilancio
sortisce effetti necessariamente espansionistici per il sistema economico, anche
se finanziato attraverso l’indebitamento dello Stato (ma senza emettere carta
moneta addizionale: in questo caso si rischierebbero effetti inflazionistici).
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In che cosa si differenzia la visione keynesiana della politica di bilancio
dalla visione neoclassica?
Nella visione degli economisti classici la politica di bilancio era un mezzo straordinario di
intervento pubblico: soltanto in particolari situazioni era giusto portare in disavanzo i conti
dello Stato, salvo poi ripristinare il pareggio una volta superata la situazione di eccezionalità
(si pensi alla guerra). Nella teoria keynesiana, invece, esso diventava uno strumento permanente dell’attività finanziaria dello Stato, in grado di regolare continuamente l’andamento dei cicli
economici: il meccanismo economico che consentiva di ottenere questo risultato era il moltiplicatore che stimola il sistema economico in periodi di crisi e rallenta l’espansione nelle fasi
di boom economico.
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4. L’ATTIVITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IL
MOLTIPLICATORE
Nella visione keynesiana la mancanza di investimenti privati in periodi
di crisi economica può essere compensata da un aumento della spesa pubblica che, attraverso l’effetto del moltiplicatore, può stimolare una crescita
del sistema economico.
In un modello keynesiano senza spesa pubblica il reddito nazionale è
dato dalla somma di tre diverse componenti: la domanda di consumi indispensabili, ossia i consumi per la sussistenza (C0), la domanda per consumi
strettamente legata al reddito (cY) e gli investimenti, che essendo influenzati dal tasso d’interesse (i) e dalle aspettative degli imprenditori (a), indichiamo con I (i, a).
Il reddito nazionale può, quindi, essere espresso come:
Y = C0 + cY + I (i, a)
Se indichiamo con A la parte della domanda non legata al reddito, ovvero C0 e I (i, a), potremo scrivere la formula precedente come segue:
Y = cY + A
oppure come:
Y – cY = A
Mettendo in evidenza Y, si avrà l’espressione:
Y (1 – c) = A
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Capitolo Secondo - Keynes e la finanza congiunturale
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che può essere riscritta come:
Y=
1
A
1− c
1
rappresenta il moltiplicatore del reddito,
1− c
il quale indica di quanto può aumentare il reddito nazionale in seguito
ad un incremento iniziale della domanda aggregata.
La spesa pubblica, che può essere considerata una variabile esogena poiché risponde prevalentemente ad esigenze di carattere politico, è una componente della domanda aggregata. Ne consegue che un suo incremento, tramite il meccanismo del moltiplicatore, comporterà un aumento del reddito.
In questa formula finale
5. LE POLITICHE DI STABILIZZAZIONE
È evidente che per Keynes il ruolo del settore pubblico doveva essere
principalmente quello di «stabilizzare» il ciclo economico. Tali politiche di
stabilizzazione possono essere automatiche o discrezionali (LECCISOTTI). Mentre con queste ultime si intende l’adozione di misure tese a variare
il saldo o la composizione del bilancio pubblico, per stabilizzatori automatici si intendono quelle caratteristiche del sistema economico che tendono
ad attutire l’ampiezza dei movimenti di recessione e di espansione senza
alcun intervento discrezionale di politica economica (BROSIO).
Possono essere considerati stabilizzatori automatici del reddito:
— l’esistenza stessa di un ampio settore pubblico; quest’ultimo, infatti, è
caratterizzato da una minore flessibilità nel processo decisionale, cosicché la spesa pubblica può essere considerata, nel breve periodo, alquanto rigida e ciò attutisce le variazioni congiunturali del reddito (LECCISOTTI);
— variabili fiscali (entrate e spese pubbliche) che automaticamente smorzano le fluttuazioni (sia verso l’alto che verso il basso) del reddito.
Il gettito di un’imposta proporzionale sul reddito, ad esempio, si riduce
automaticamente in caso di recessione, contribuendo così a sostenere il prodotto nazionale. Analoga funzione è svolta dai sussidi alla disoccupazione il
cui ammontare, ovviamente, aumenta in periodi di recessione e diminuisce
nelle fasi di espansione.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO TERZO
LA «SINTESI NEOCLASSICA»
E IL «MODELLO IS-LM»
Sommario: 1. La «sintesi neoclassica» del pensiero di Keynes. - 2. L’equilibrio nel
mercato dei beni (la curva IS). - 3. L’equilibrio nel mercato della moneta (la curva
LM). - 4. L’equilibrio del sistema economico (il modello IS-LM).
1. LA «SINTESI NEOCLASSICA» DEL PENSIERO DI KEYNES
Abbiamo già accennato alle profonde differenze fra il pensiero dei neoclassici e quello dei keynesiani.
In particolare, nello schema neoclassico l’equilibrio è assicurato dalla
uguaglianza fra investimenti e risparmi: poiché sarà sempre possibile individuare un saggio d’interesse che assicuri la loro uguaglianza, domanda ed
offerta aggregata saranno sempre in equilibrio, assicurando la piena occupazione.
In altre parole, secondo i neoclassici il mercato è sempre in grado di
autoregolarsi, di raggiungere in modo automatico il reddito di piena occupazione dei fattori produttivi.
Compito dello Stato, allora, sarà quello di astenersi da ogni intervento
che potrebbe turbare il libero gioco delle forze economiche.
Nello schema di KEYNES, invece, questo automatismo non funziona:
infatti, gli investimenti dipendono dal saggio d’interesse mentre il risparmio è funzione del reddito. Poiché risparmio ed investimenti dipendono da
variabili diverse, manca un «prezzo» (che nello schema neoclassico era l’interesse) capace di rendere effettivo l’equilibrio nel mercato dei capitali.
L’equilibrio che si otterrà sarà un equilibrio di sottoccupazione; l’unico strumento capace di stimolare la domanda aggregata è la spesa pubblica: un suo
aumento, grazie all’effetto del moltiplicatore, permetterà di raggiungere la
piena occupazione.
La teoria della preferenza della liquidità e il ruolo assegnato alle aspettative costituiscono
punti fondamentali della cosiddetta rivoluzione keynesiana e altrettanti elementi di novità
rispetto allo schema neoclassico.
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