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RASSEGNA STAMPA
lunedì 2 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Comune.info del 01/11/15
Assemblea per la Marcia globale per il clima
Il 29 novembre sarà un’importante giornata di mobilitazione internazionale. In
contemporanea, migliaia di cittadini e cittadine si uniranno in una marcia globale per il
clima nelle principali città di tutto il mondo, al fine di far sentire la propria voce contro gli
effetti dei cambiamenti climatici e per un radicale cambiamento del modello economico,
energetico e di sviluppo.
Il 30 novembre si aprirà infatti a Parigi la Cop21, la conferenza delle Nazioni Unite sul
Clima, un appuntamento fondamentale per il futuro del Pianeta (qui il dossier Il bivio di
Parigi). La conferenza di Parigi pone al centro l’esigenza di un’agenda politica comune
fondata sulle parole d’ordine che uniscono la mappa puntiforme costituita dalle lotte
ambientali. Il protagonismo di movimenti, comitati, associazioni e realtà sociali denuncia
quotidianamente gli effetti dell’attuale modello economico sui territori e oppone ad esso la
necessità di rifondare il sistema produttivo sulla giustizia ambientale e sociale,
scardinando i meccanismi di sfruttamento e depauperamento dell’ambiente degli animali e
delle risorse comuni. Basti pensare alle politiche messe in campo dal decreto Sblocca
Italia con la nuova spinta alle fonti fossili e alle trivellazioni e ai meccanismi antidemocratici
del commissariamento, con le facilitazioni alle lobby del cemento e dell’incenerimento dei
rifiuti.
La manifestazione italiana si terrà a Roma durante l’intero arco della giornata, con una
marcia e un concerto finale, e per questo riteniamo necessario convocare un’assemblea il
6 novembre per confrontarci con attivisti, comitati territoriali e associazioni. Crediamo sia
necessario fare in modo che la giornata del 29 Novembre sia quanto più partecipata
possibile e in grado di incidere sul dibattito pubblico e sulla coscienza complessiva del
paese rispetto alle sempre più urgenti questioni legate all’ambiente e ai cambiamenti
climatici e, per questo, alla tutela della salute e dei diritti.
Cambiare il sistema energetico accelerando la transizione in corso, superando grandi e
inquinanti centrali a combustibili fossili per realizzare la transizione
… sono le sfide e gli slogan che vogliamo portare in piazza in Italia e nel mondo.
Importante ci sembra, in questo momento, il legame tra questi temi e le migrazioni.
Non si possono creare barriere per arrestare i flussi migratori, ignorando la connessione
tra l’attuale modello produttivo, i cambiamenti climatici e le migrazioni ad essi dovute, sia
attraverso le guerre ingenerate dalla corsa all’accaparramento delle risorse che a causa di
contaminazioni e opere impattanti sulle risorse ambientali da cui dipendono intere
comunità. Ad affermarlo è la stessa comunità internazionale in vari rapporti, a partire
dall’ultimo report Ipcc. Profughi ambientali, cambiamenti climatici e migrazioni forzate ci
parlano di ambiente ma al tempo stesso di tutela dei diritti umani.
La Coalizione Clima unisce realtà e soggetti sociali che hanno risposto all’appello globale
e stanno facilitando l’organizzazione in Italia della mobilitazione in occasione della Marcia
Globale per il Clima, prevista a Roma il prossimo 29 novembre. Consapevoli del ruolo
fondamentale svolto dalle vertenze territoriali nell’arginare e contrastare gli effetti distorti
delle attuali “politiche di sviluppo”, rivolgiamo un appello ampio per la partecipazione a
quella giornata a tutti gli attori sociali impegnati in battaglie per la difesa del territorio e dei
diritti.
Legare le singole vertenze alla battaglia globale contro i cambiamenti climatici significa
moltiplicare la forza delle nostre ragioni. Per questo invitiamo le realtà sociali, i comitati, le
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associazioni, gli attivisti ad una giornata di discussione per costruire insieme il corteo del
29 novembre a Roma.
L’appuntamento è per il 6 novembre alle ore 14,30 presso la sala “Ilaria Alpi”, sede
dell’Arci Nazionale, Via monti di Pietralata 16, Roma.
Il link alla coalizione http://www.coalizioneclima.it/
https://comune-info.net/2015/11/assemblea-per-la-marcia-globale-per-il-clima/
Da TerlizziLive del 31/10/15
l Mat celebra Pier Paolo Pasolini a
quarant’anni dall’omicidio di Ostia
Una lunga giornata di dialoghi, incontri, reading, spettacoli in memoria
del grande intellettuale a cura di Collettivo Zebù, Arci Melkweg e liceo
classico "Sylos". In serata la musica dei Diaframma
La notte tra il primo e il due novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini venne ucciso nei
pressi di Ostia, in circostanze ancora da chiarire. La sentenza del processo che seguì
condannò in primo grado il diciassettenne Pino Pelosi - il "ragazzo di vita" con cui il poeta
si era appartato in un campo vicino all'Idroscalo - per omicidio "in concorso con ignoti". In
appello la sentenza tornò a incolpare il solo Pelosi, ma fu a tutti chiaro che Pasolini era
stato ucciso da più di una persona.
Molti sostengono la tesi dell'omicidio politico, altri parlano di "suicidio per delega" cercato e
infine ottenuto dal "corsaro", sempre più solo e frustrato; altri ancora credono a un
semplice incontro carnale finito male. L'unica certezza che abbiamo è che Pasolini sia
stato uno degli intellettuali più versatili e influenti del secondo dopoguerra. Tra letteratura,
saggistica, regia, scrittura teatrale, giornalismo, il contributo e l'eredità che ci ha lasciato
sono essenziali, in alcuni campi imprescindibili.
Domani, in occasione del quarantennale della sua scomparsa, il Mat Laboratorio Urbano in collaborazione con il Collettivo Zebù, l'Arci Melkweg e il liceo classico terlizzese "Sylos"
- lo celebrerà con una lunga e interessante giornata di studi, incontri, spettacoli, proiezioni
e, in serata, musica, con il concerto dei Diaframma, una delle band simbolo della new
wave italiana.
La prima parte della giornata sarà dedicata all'approfondimento e alla discussione. Si
parte alle 10 con una lettura di passi del "Pilade" di Pasolini (una tragedia "di parola"
densa e problematica scritta dall'autore nella seconda metà degli anni '60) da parte degli
studenti del liceo. Dalle 11 i ragazzi dialogheranno con il terlizzese Gianpaolo Altamura,
autore del saggio "L'opera che brucia. La 'riscrittura permanente' di Petrolio", dedicato
all'ultimo, incompiuto, romanzo di Pasolini, uscito postumo nel 1992. Alle 12 s'inaugura la
mostra sulla vita dell'autore bolognese, a cura dei ragazzi del liceo classico.
In serata, dalle 19, spazio al reading con contributi audiovideo - a cura della libreria di
Corato Ambarabaciccicoccò -sulla figura del poeta; alle 20 sarà la volta dello spettacolo
teatrale-musicale "Una disperata vitalità", di e con Salvatore Marci, Ninnì Vernola e
Amanda Palombella alla viola. Gran finale con la musica dei Diaframma.
Di seguito il programma completo e le informazioni per partecipare alle iniziative della
giornata.
Programma della giornata
#LETTURE Ore 10.00 – 11.00
Lettura di passi della tragedia “Pilade” ad opera degli studenti del Liceo Classico “C.
Sylos”.
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“Pilade è l’obbediente, il silenzioso, il discreto, il timido, nato per essere amico.” Pilade è il
diverso, “uno di noi”, ma “dotato di una misteriosa grazia.” Per Pilade “la più grande
attrazione di ognuno di noi è verso il Passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo
ed amiamo veramente. Tanto che confondiamo con esso la vita. E’ il ventre di nostra
madre la nostra meta.”
#PRESENTAZIONE Ore 11.00 – 12.00
Presentazione del volume di Gianpaolo Altamura, "L’opera che brucia. La riscrittura
permanente di 'Petrolio'" (Progedit, 2014). Gli studenti del Liceo Classico “C. Sylos”
dialogano con l’autore intorno all’opera incompiuta di Pier Paolo Pasolini.
#MOSTRA Ore 12.00
“Scatti immortali”. Gli studenti del Liceo Classico “C. Sylos” raccontano Pasolini attraverso
le immagini in una mostra fotografica. Pensando alle sue ultime parole: "E’ più giusto, più
buono un mondo repressivo di uno tollerante; perché nella repressione si vivono le grandi
tragedie, nascono la santità e l’eroismo. Nella tolleranza si definiscono le diversità, si
analizzano e isolano le anomalie, si creano i ghetti. Io preferirei essere condannato
ingiustamente che essere tollerato”.
#READING E VIDEO Ore 19.00- 20.00
La vita di un uomo, poeta, regista, forse l'ultimo vero intellettuale italiano, attraverso le
parole di chi gli è stato accanto fino al brutale epilogo. A cura di Giada Filannino (Libreria
Ambarabacicicoco - Corato).
“L’espressione cinematografica mi offriva, grazie alla sua analogia sul piano semiologico
con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di
impossessarmene, di viverla mentre la creo. Il cinema mi consente di mantenere il
contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi, addirittura, sensuale” (Pasolini).
Reading / conversazione sulla vita dell'autore e sulla sua esperienza di cineasta:
dall’adolescenza tra Bologna e Casarsa alle sue prime passioni; la vocazione per
l’insegnamento e la tragica morte del fratello Guido. Ma soprattutto la scoperta del cinema
a quarant'anni e la sua poetica, raccontata analizzando i linguaggi figurativi utilizzati nelle
sue pellicole.
#READING TEATRALE Ore 20.30 – 21.30
"Una disperata vitalità". Piccolo "sconcerto" in memoria di Pier Paolo Pasolini a quaranta
anni dalla morte (di e con Salvatore Marci, Ninnì Vernola e Amanda Palombella alla viola).
Uno sconcerto in forma di concerto in memoria di una voce che non può più parlare, un
recupero sul suono contemporaneo delle parole di un poeta imprevisto, scandaloso,
ricercato vivo o morto che sia... Concertanti ci muoviamo tra le pieghe di quest’occasione
di peccato cercando di vivere la contraddizione di ciò che non vi è più, della voce che
svanisce appena la si dice, dell’oblio nonostante noi, nonostante le celebrazioni e gli
anniversari. Questo sconcerto è quindi un’occasione mancata per tacere sulla disperata
vitalità di una voce che del suo corpo ha fatto teatro. Un’occasione mancata per stare zitti
di fronte all’oblio della verità di una poesia letta ad alta voce.
#MUSICA Ore 22.00
Concerto dei DIAFRAMMA
Grandi ospiti dell'evento i Diaframma: la storica band fiorentina, protagonista della scena
punk italiana sin dai primi anni ottanta, ripercorrerà la sua storia in uno spettacolo rock
costllato di brani che sono ormai diventati veri e propri inni generazionali. La band, guidata
dal leader storico Federico Fiumani, ha saputato confermare negli anni la sua forrte
identità a metà strada tra una attitudine puramente rock e una ispirata vene cantuautorale.
http://www.terlizzilive.it/news/Cultura/398252/news.aspx
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Da MonopoliLive del 31/10/15
“I problemi non si risolvono, si vivono”.
Omaggio a Pier Paolo Pasolini
Il 2 novembre vi sarà quindi un evento itinerante articolato in due
momenti. Si inizia con un reading letterario, alle 18,30 in p.zza Garibaldi,
per poi seguire la serata dalle 20,30 alla sede Arci sita in via Fracanzano
1/B.
In occasione del quarantesimo anniversario dalla sua morte, il Circolo Arci Monopoli
ricorda Pier Paolo Pasolini. "I problemi non si risolvono, si vivono" infatti è un'iniziativa che,
riprendendo una frase dell'opera "Appunti per un'Orestiade Africana", si pone l'obiettivo di
comprendere attraverso il pensiero rivoluzionario dell'intellettuale le contraddizioni della
società attuale.
Il 2 novembre vi sarà quindi un evento itinerante articolato in due momenti.
- Alle 18:30 in piazza Garibaldi svolgeremo un reading letterario che, per mezzo di stralci
di opere e poesie, farà conoscere e rivivere la figura di Pasolini in tutte le sue
sfaccettature.
- A seguire, alle 20:30, presso la nostra sede Arci sita in via Fracanzano 1/B, vi sarà un
dibattito sulla figura dell'intellettuale grazie al prezioso contributo del prof. Paolo Testone.
http://www.monopolilive.com/news/Attualita/398220/news.aspx
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 02/11/15, pag. 10
VALORI IN CORSO
Il volontariato si fa «liquido» e ritrova energie
«Nomen omen», scriveva il commediografo Plauto nel secondo secolo a.C., convinto che
ci sia corrispondenza tra nome e destino, significante e significato. La cultura latina ci
credeva seriamente e anche oggi, fatte le debite proporzioni, l’affermazione può offrire
validi spunti di analisi.
Quando si dice volontariato, per esempio, si fa riferimento a un’attività esercitata
liberamente e gratuitamente da persone che si presuppone scelgano in maniera convinta
di dedicare del tempo a una buona causa. Il problema, però, è che il volontariato di oggi
non è più quello di una volta: è più globale, perché i movimenti di uomini e idee hanno
ormai come orizzonte il mondo intero; è più tecnologico, perché largamente influenzato
dalla Rete e dai suoi strumenti di condivisione; è soprattutto più discontinuo, perché
cambiano le aspettative, la disponibilità di tempo e le sfide personali con cui i singoli
volontari si mettono in gioco. Di conseguenza, se da un lato resiste l’assonanza tra il
volontario e il volentieri, dall’altro non è più certo come un tempo che l’affinità persista a
lungo.
Questo mutato atteggiamento esprime una positiva voglia di protagonismo e rappresenta
un bacino di energie che possono solo arricchire, sia quantitativamente che
qualitativamente, le dimensioni del fenomeno. È innegabile, però, che molte
organizzazioni, soprattutto dell’associazionismo più tradizionale, possano essere
frastornate dal trend emergente e, non riuscendo a intercettarlo, finiscano con il trovarsi in
difficoltà. Fortunatamente, tra le esperienze di “nuovo volontariato” ci sono già delle best
practices che possono aiutare a costruire solide relazioni, da innestare con l’innovazione
ma da consolidare, poi, all’interno degli schemi classici del Terzo settore.
Un caso da manuale è, per esempio, “Volontari per un giorno”, la campagna nata
nell’autunno del 2012 a Milano per iniziativa di Ciessevi, Sodalitas, Comune e delle
società di consulenza Kpmg e Un-Guru, che in tre anni ha “reclutato” oltre 12mila persone
e che rappresenta a oggi l’unica iniziativa di promozione del volontariato che riunisca sfera
pubblica, imprese private e organizzazioni non profit. Il punto di forza della campagna è
che permette a chi voglia impegnarsi in un’attività di volontariato di scegliere online il
progetto, l’associazione, il giorno e l’ora in cui dedicarsi a questo impegno. Per chi lo
desidera, inoltre, è possibile mettere a disposizione le proprie competenze, che vanno ad
aggiungersi al valore del tempo donato. L’iniziativa, alle soglie del quarto anno, è passata
dalla dimensione provinciale milanese a quella nazionale. Da Alessandria a Salerno, da
Venezia a La Spezia, e anche da piccoli centri come Afragola (Napoli) o Casalecchio
(Bologna), sono già online le richieste di nuovi volontari da parte delle associazioni.
Il fenomeno viene spiegato così da Antonella Tagliabue, managing director di Un-Guru e
promotrice della campagna: «Nel volontariato di oggi si assiste ormai a una sorta di
divaricazione. Da un lato, aumentano le diverse forme di volontariato breve; dall’altro,
cresce anche la partecipazione di lungo periodo. L’esempio più tipico è quello che,
traducendo un neologismo, si può identificare come “volonturismo”, e che prevede di
dedicare la propria vacanza a un progetto con finalità sociali o ambientali. La flessibilità e
la capacità di cogliere queste forme di sensibilità rappresentano un’opportunità senza
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precedenti per coinvolgere molte nuove persone. Ed è quello che la campagna di Volontari
per un giorno si propone di fare».
Le organizzazioni non profit apprezzano. «Dopo tre anni di collaborazione – conferma
Domenica Mazza, referente della raccolta fondi di Mani Tese - possiamo dire che
“Volontari per un giorno” è un portale aggiornato e facile da gestire. Un esempio di vera
innovazione nel volontariato». E Nadia Pellacani, responsabile delle attività territoriali del
Touring Club Italiano, ricorda che «anche chi non può garantire un impegno continuativo e
prolungato può vivere un’esperienza di volontariato culturale con il Touring, grazie
all’iniziativa “Aperti per voi”, che vede la collaborazione di oltre 800 volontari a Milano per
l’apertura di luoghi d'arte e di cultura che altrimenti sarebbero chiusi».
Da segnalare anche il contributo delle imprese: sono già cento quelle che, dal 2012,
hanno partecipato, contribuendo con i propri dipendenti e con le rispettive competenze al
bilancio complessivo di 1.025 progetti, realizzati in oltre 400 associazioni nazionali o
territoriali.
Insomma, il volontariato tecnologico e “liquido” dei nostri giorni si ricarica e fa il pieno di
energie.
Elio Silva
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ESTERI
del 02/11/15, pag. 1/2
Il presidente riconquista la maggioranza assoluta dei seggi L’Hdp entra
per un soffio in Parlamento A guidare i votanti la ricerca della stabilità e
l’istinto nazionale in favore della “turchicità”
Erdogan festeggia il trionfo così la Turchia
islamica ha sconfitto laici e curdi Affluenza
record e scontri
BERNARDO VALLI
ISTANBUL
L’ANIMA islamica, radicata nell’Anatolia emancipata, ha sconfitto l’anima laica arroccata
nei grandi centri urbani, Smirne, Istanbul. La nuova Turchia emersa dal mondo rurale
grazie al miracolo economico, nel frattempo esaurito, ha sconfitto la Turchia repubblicana.
Quella con una vecchia patina kemalista (ereditata da Ataturk), e con quel tocco
politicamente aristocratico che distingue chi pensa di rappresentare la storia di fronte ai
nuovi arrivati in società. Ai nuovi ricchi. Cosi Recep Tayyip Erdogan ha vinto ieri
l’azzardata sfida elettorale lanciata dopo la perdita in giugno della maggioranza assoluta in
parlamento. Ieri correva il rischio di naufragare dalla posizione di sultano onnipotente nel
ruolo di presidente dimezzato. Invece l’ha spuntata. I suoi parlano di trionfo. Rivincita è
un’espressione più appropriata.
Il suo partito, Giustizia e libertà (Akp) ha sfiorato il 50 per cento dei suffragi, quoziente che
assegna almeno 316 seggi, su 550, quasi il numero che consentirebbe di promuovere il
referendum necessario per dare alla Costituzione un’impronta presidenzialista, come
vorrebbe Erdogan. Ma che consente soprattutto di governare da solo. Senza bisogno di
ingombranti alleati, e senza intaccare l’eccezionale potere attribuitosi da Erdogan,
violando i limiti istituzionali. Come presidente dovrebbe restare al di sopra delle parti. Non
dovrebbe pesare sull’esecutivo. Ma quando quest’ultimo è controllato unicamente dal suo
partito i confini stabiliti dalla Costituzione non contano. Erdogan non voleva che
riaffiorassero nel caso fosse stato necessario ricorrere a una coalizione. Era il suo incubo.
L’affluenza alle urne ha quasi toccato il 90 per cento, un traguardo forse mai raggiunto in
una vera democrazia, ma essa era dovuta più che a una spinta democratica alla durezza
dello scontro. Alla voglia di scendere in campo. Per attaccare o difendersi. Poiché
l’essenziale è avvenuto nelle urne non si può comunque negare il carattere democratico
della sfida. La correttezza dello scrutinio susciterà polemiche, ma stando alla contabilità
elettorale delle ultime ore il partito di Erdogan ha guadagnato tre milioni e mezzo di voti
rispetto alle elezioni di giugno. Una rimonta sorprendente che lo ha riportato al risultato del
2011 (49,3 quasi uguale al 49, 9 di allora). Almeno due milioni di voti li ha perduti il partito
nazionalista, di estrema destra (dei Lupi grigi). E un milione e mezzo sono arrivati a
Erdogan dal partito di centro sinistra e filo curdo (Hdp).
Cinque mesi fa aveva superato tra la sorpresa generale il dieci per cento necessario per
entrare in Parlamento, mentre questa volta l’ha raggiunto per un soffio (10,6) cedendo
almeno due punti al partito di governo, l’avversario principale.
Le provocazioni del presidente, che alla vigilia delle elezioni ha sequestrato, anzi si è
appropriato di fatto di due giornali dell’opposizione, e ha spento due canali televisivi che lo
infastidivano (senza contare gli almeno mille giornalisti licenziati negli ultimi tre anni) non
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hanno turbato la maggioranza dei votanti. La corsa alle urne era contro o in sostegno di un
leader che incarna la nuova Turchia, islamica ma moderna, scaturita dal miracolo
economico, e senz’altro fiera di potersi affiancare alla vecchia società laica, senza troppi
complessi. Lo scarso comportamento democratico di Erdogan è apparso un elemento
trascurabile rispetto alla stabilità del paese. Il trauma dei recenti attentati, la massa dei
profughi, più di due milioni, arrivata dalla limitrofa Siria, e il rischio di essere contagiati
dalla guerra civile alle porte, hanno probabilmente dissuaso persino molti elettori, persino
curdi, dal ridare il voto al Partito democratico dei popoli ( Hdp), guidato da un dinamico
uomo poli-tico, Selahattin Demirtas. Non pochi giovani, molte ragazze, attirati dalle idee di
Demirtas, sensibile ai problemi degli omosessuali e ad altri aspetti della vita individuale e
collettiva non accettati dalla società tradizionale, avevano votato in giugno per quel
movimento. Ieri hanno preferito ritornare al partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp),
giudicato un tempo corrotto o retrogrado.
La collera e la paura hanno favorito la rivincita di Erdogan. Ieri sera il sultano, come viene
chiamato con ironia o astio, ha sorpreso il paese. Nel sud est il suo successo ha provocato
rabbia. A Dyarbakir, la capitale curda, e dintorni, sono scoppiati violenti incidenti. La fitta
presenza della polizia, mentre gli elettori facevano la coda davanti ai seggi, aveva creato
una forte tensione durante tutta la giornata. Questo non ha impedito a più del settanta per
cento di votare in quella provincia in favore dell’Hdp, il partito di Demirtas.
La Turchia tradizionale laica è rimasta fedele al suo Partito repubblicano del popolo (Chp)
che ha conservato quasi intatto (25,4) il quarto dei voti ottenuto in giugno. Nel caso
Erdogan non avesse ottenuto l’agognata maggioranza assoluta, i repubblicani kemalisti
sarebbero stati dilaniati dal dilemma, partecipare o rifiutare la coalizione eventualmente
proposta dal primo ministro Hahmet Davutoglu. La vittoria dei conservatori islamici li lascia
nel loro angolo. Ma questa vicenda elettorale dall’esito sorprendente conferma l’istinto di
questo paese in favore dell’identità turca, o “turchicità”. Di essa fecero lo spese gli armeni
un secolo fa, e da decenni ne fanno le spese i curdi, a loro volta divisi.
Il voto di ieri offriva l’occasione, grazie al partito del giovane Demirtas di superare le
barriere, i pregiudizi etnici. Il suo partito filo curdo raccoglieva i progressisti di altre
comunità. Ma l’emergenza ha ricomposto una situazione in cui domina l’odio. E sempre lo
stato di emergenza che prevale in Medio Oriente ha senz’altro indotto i governi occidentali
ad accogliere con favore il risultato elettorale di ieri. Vale a dire la riconferma di Erdogan
alla guida di un paese chiave nella regione in conflitto permanente. Agli occhi delle nostre
capitali la stabilità della Turchia, se sarà raggiunta sul serio, vale bene gli sgarbi alla
democrazia compiuti dal presidente islamo—conservatore, membro della Nato e candidato
(ancora?) all’Unione Europea.
del 02/11/15, pag. 3
Il Sultano riprende la sua corsa
Riforma presidenziale e via Assad
Bagno di folla nei quartieri dei Fratelli musulmani: “Governerà per
sempre” Ora punta ad attribuirsi nuovi poteri e a un ruolo guida in Siria:
senza il raiss
Maurizio Molinari
Turbanti rossi a Piyalepasa, grida di «Allah hu-Akbar» a Saffiet Cebi e 5 ore di raid no-stop
dentro il territorio siriano: è quanto avviene fra il Bosforo e Kilis a descrivere la genesi di
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una vittoria che proietta Recep Tayyp Erdogan nell’ambizioso ruolo di Sultano del Medio
Oriente.
A Piyalepasa c’è il seggio nella scuola dove il presidente turco ha studiato e davanti
all’entrata sostano tre uomini barbuti - fra i 24 e i 50 anni - con turbanti biancorossi e
lunghe jalabye nere. Si identificano con i Fratelli musulmani, non hanno dubbi sul fatto che
Erdogan «governerà per sempre», credono nella «vittoria netta» che più tardi si
materializzerà e identificano la «missione» del nuovo governo dell’Akp con «l’intervento in
Siria per difendere i musulmani e rovesciare il tiranno Assad». «Erdogan è l’unico che si
batte per l’Islam in Siria» afferma uno di loro, esternando un palpabile orgoglio.
Se i seguaci dei Fratelli Musulmani vedono nella vittoria nelle urne un orizzonte di guerra
quando Erdogan va a votare nel proprio seggio, nella scuola di Saffiet Cebi del distretto
asiatico di Kisikli, ad accoglierlo ci sono donne velate che lanciano dolci sulla folla
gridando «Allah hu-Akbar», Dio è grande. Le guardie del corpo del presidente
distribuiscono piccoli regali ai bambini sulla strada adiacente e quando Erdogan esce dal
seggio interpreta così il significato del voto per rinnovare il Parlamento: «È divenuto
evidente quanto è importante la stabilità per la nostra nazione». La «stabilità» a cui si
riferisce è descritta dalle decisioni che il premier Ahmet Davutoglu ha adottato negli ultimi
cinque mesi per rovesciare il risultato elettorale che lo privò della maggioranza assoluta:
interventi militari in Siria e Iraq contro curdi e Isis, massicce misure di sicurezza nel SudEst per sradicare il Pkk e più richiami all’Islam nella vita pubblica nazionale.
Islam e sicurezza interna
La sovrapposizione fra una politica interna nel segno dell’Islam e una politica di sicurezza
regionale muscolosa è la formula di «stabilità» attorno a cui Erdogan punta a costruire per
la Turchia un ruolo di leadership in un Medio Oriente segnato dall’implosione degli Stati
arabi. Ecco perché, a meno di 22 ore dall’apertura dei seggi, l’aviazione militare ha
compiuto uno dei raid più massicci in Siria: nelle regioni oltreconfine attorno a Kilis i jet di
Ankara hanno colpito senza interruzione dalle 9 alle 13 del mattino di sabato bersagliando
tanto le postazioni dello Stato Islamico che della guerriglia curda, con un bilancio di
almeno «cinquanta terroristi uccisi».
Ad avvalorare l’impressione che Erdogan abbia voluto far capire ai propri nemici in Siria
cosa sta per avvenire c’è il fatto che i jet turchi in questa occasione hanno operato d’intesa
con «forze turkmene sul terreno» ovvero con milizie etniche espressione diretta degli
interessi di Ankara. È uno scenario che vede Erdogan, oramai libero da preoccupazioni
politiche domestiche, proiettarsi in due direzioni: sul fronte interno verso la riforma
presidenziale destinata ad assegnargli vasti poteri politico-istituzionali e sul fronte esterno
verso un maggiore interventismo nelle crisi arabe. Puntando anzitutto a rovesciare Assad
in tempi brevi.
In rotta di collisione
È la «strategia del Sultano», come qualcuno già la definisce a Washington, che però è
portatrice di grattacapi in Occidente. A spiegarlo è Bruce Riedel, ex consigliere
d’intelligence del presidente Barack Obama, secondo il quale «il risultato elettorale
complica di molto l’impegno della coalizione internazionale perché Erdogan ha puntato su
politiche e sentimenti anti-curdi» mentre l’amministrazione Usa ha deciso di armare
proprio i guerriglieri curdi siriani per accrescere la pressione militare contro il regime di
Assad. Già ai ferri corti con Putin proprio sulla Siria, l’onnipotente Erdogan segue una rotta
di collisione anche con gli interessi di Washington. Come si addice ai veri Sultani.
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del 02/11/15, pag. 4
Nella città che si considera la capitale della minoranza,i manifestanti
hanno bloccato le vie principali e lanciato sassi contro la polizia. Il
leader Demirtas, avvocato dei diritti umani artefice del successo di
giugno,fa mea culpa: “Analizzeremo glierrori,il 10%è comunque un
successo”
La rabbia infiamma le strade di Diyarbakir
“Ma resistiamo in Parlamento”
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL .
È il trionfo del Sultano. La sconfitta di laici e curdi. L’Anatolia si veste a festa con il colore
bianco del partito conservatore islamico. Ma il Kurdistan si infiamma invece, e scende in
piazza pieno di rabbia, mettendo le barricate e incendiando le strade polverose di
Diyarbakir già piene di profughi siriani.
Nella grande città che si considera la capitale curda del Sud Est, dove il voto al partito di
riferimento sfiora il 70 per cento dei consensi, la grande paura va in scena alle sette di
sera. Avviene quando le tv che srotolano i dati del voto, mostrano il Partito democratico
del popolo scendere sotto la barriera del 10 per cento. Vuol dire: non entrare in
Parlamento. E gli 80 deputati eletti appena il 7 giugno scorso, nella tornata elettorale che
aveva visto l’inattesa vittoria di una compagine che per la prima volta faceva il suo
ingresso nell’Assemblea di Ankara, parevano di colpo polverizzati.
La gente si è così ritrovata davanti alla sede locale del partito. Decine di manifestanti
hanno lanciato sassi contro gli agenti, e bloccato una delle strade principali. Le forze di
sicurezza turche hanno risposto con gas lacrimogeni, cercando di disperdere i
manifestanti, che si allontanavano solo quando la CnnTurk e la Ntv davano risultati più
aggiornati, e la formazione curda tornava sopra il 10 per cento, sommando qualche
decimale che faceva respirare tutto il Kurdistan. Non tanto da far sedare definitivamente
tutta la piazza, ma abbastanza per portare una notte di riflessione. E magari ripensare
anche sui possibili errori del partito.
Alla tv locale comparivano i due co-presidenti: Selahattin Demirtas, l’avvocato difensore
dei diritti umani, divenuto il nemico principale del Presidente Tayyip Erdogan che l’ha
avversato per il successo di giugno, e la giovane e tostissima combattente per la pace
Figen Yuksekdag. Hanno facce scure, la botta è forte. Fanno solo una dichiarazione,
senza domande dalla stampa. Dice lui: «L’esito delle elezioni è il frutto della deliberata
politica di polarizzazione voluta dal Capo dello Stato. Ora analizzeremo il calo dei voti
rispetto alla consultazione dello scorso giugno. In ogni caso, il fatto di essere riusciti a
superare la soglia del 10 per cento, portando nuovamente deputati in Parlamento
costituisce per noi un successo ». A Diyarbakir il voto andato al Partito democratico del
popolo è vasto. Una percentuale altissima. Però i curdi perdono nel resto del Paese, e
l’emorragia è forte: dal 13,1 per cento del 7 giugno, al 10,7% di oggi. Sono ben 1 milione
mezzo di voti in meno. Tradotto in deputati, significa 59 parlamentari contro gli 80 di prima.
Soprattutto, la gente si chiede: come è riuscito Tayyip Erdogan a trovarsi nelle urne, nel
giro di soli 5 mesi, 3 milioni e mezzo di voti in più. Balzando, è il caso di dirlo, dal 40,8 al
49,4.
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Qualcuno accenna la parola brogli. Ma non ci sono prove. Piuttosto, si analizzano le
responsabilità interne. Quanto hanno contato le frizioni e le divisioni tra il Pkk, il Partito dei
lavoratori del Kurdistan, cioè i guerriglieri impegnati nel rinnovato conflitto sulle montagne
curde contro l’esercito, e i funzionari del Partito democratico del popolo concentrati sulla
politica ad Ankara? Quanto hanno influenzato le uccisioni di militari turchi, in risposta agli
attacchi ricevuti, per gli elettori spaventati delle grandi città dell’Ovest turco, a Istanbul
come a Smirne? E quanto hanno influito gli attentati nelle zone curde, fino all’esplosione
della bomba kamikaze alla stazione di Ankara (più di cento morti) nel compattare la
richiesta di stabilità invocata da Erdogan?
Nella notte curda le domande non trovano risposta ancora. Selahattin Demirtas, da astro
nascente della politica turca, e bastone nelle ruote del Sultano, viene ridimensionato dopo
avere ricevuto attacchi continui in campagna elettorale. Ci sarà tempo per rimettere i curdi
in pista, anche se in Parlamento ricominceranno a dire la loro. Ma intanto la batosta è
cocente, e la sconfitta porterà consiglio.
del 02/11/15, pag. 6
Il duro Haftar contro Roma
Il capo delle forze di Tobruk dovrebbe fare un passo indietro in base al
piano di pace dell’Onu Ecco l’origine delle provocazioni
«Cittadini della Libia, prendete le vostre armi e correte sulle spiagge a difendere il nostro
Paese! Le navi italiane vicino a Bengasi si dirigono verso la costa a Derna, violano le
nostre acque territoriali, dobbiamo combattere una nuova invasione».
Sono stati questi i toni usati sabato sera, verso le ventidue, dalle televisioni e dalle radio
controllate dal governo di Tobruk che hanno messo in allarme la popolazione della Libia
orientale. Un allarme che già ieri mattina sembrava rientrato. Nessuno è corso sulle
spiagge e nessuna nave col tricolore era visibile all’orizzonte.
È giunta però una nota del ministero della Difesa di Tobruk in cui si denuncia la presenza
nella notte tra sabato e domenica di «tre navi da guerra italiane» nelle acque libiche, con
una diffida pesante: verrà «utilizzato ogni mezzo» per porre fine a tali «violazioni». E
un’aggiunta: l’aviazione libica ha inseguito le navi e ora pattuglia la zona. Più tardi la
replica moderata italiana, che nega qualsiasi violazione dello spazio marittimo libico, oltre
alla ovvia considerazione dei commentatori per cui semmai qualche cosa del genere
dovesse avvenire avrebbe come teatro il monitoraggio del traffico di migranti dalle coste
occidentali controllate dal governo di Tripoli (non quelle orientali governate da Tobruk) nel
contesto delle operazioni condotte dalla forza navale europea, sono servite per mettere in
luce una verità nota a chiunque segua il nodo libico: il Paese è sempre più nel caos e a
Tobruk la confusione regna sovrana.
Fonti locali e diplomatici europei che da mesi lavorano per cercare una soluzione alle
divisioni interne libiche non esitano infatti a puntare il dito contro il ministro della Difesa di
Tobruk, generale Khalifa Haftar. È stato Haftar a montare la storia italiana in netto
contrasto con l’imbarazzato primo ministro Abdullah al-Thinni, che ieri faceva dire ai suoi
portavoce di non sapere assolutamente nulla in merito.
Per capirne di più occorre però fare un passo indietro. Sino a poche settimane fa infatti la
comunità internazionale, con l’Italia in prima fila, che sostiene il piano per un governo di
unità nazionale libico mediato dall’inviato dell’Onu, il diplomatico spagnolo Bernardino
León, ha sempre trovato nei dirigenti di Tobruk interlocutori molto più malleabili che tra i
Fratelli Musulmani in carica a Tripoli. La situazione è però cambiata nettamente da quando
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León ha fatto sapere che non c’è posto per Haftar nel prossimo governo unitario. Già tre
settimane fa il generale, che è fortemente sostenuto dai militari egiziani, ha dichiarato
guerra aperta all’inviato Onu, al suo piano e ai Paesi che lo sostengono. «Sono tutti alleati
di Isis», ha tuonato. Più León ha forzato i tempi e più Haftar gli ha messo i bastoni tra le
ruote. Ora la sua offensiva si fa ancora più dura con l’avvicinarsi delle dimissioni
dell’inviato Onu, che dovrebbe venire sostituito nei prossimi giorni dal tedesco Martin
Kobler. Ovvio che Haftar intenda segnalare la sua determinazione a non lasciare. Per
Kobler la missione comincia in salita.
L.Cr.
del 02/11/15, pag. 9
Tobruk contro l’Italia “Via le vostre navi”
Attaccato il cimitero
“Avete sconfinato, ci difenderemo”. La Marina: “Falso” A Tripoli
profanate le tombe dei nostri connazionali
PAOLO G. BRERA
VINCENZO NIGRO
I generali di Tobruk contro la Marina militare italiana. La confusa guerra civile in Libia
ancora una volta straripa verso l’Italia, e ad alzare la tensione contribuisce la devastazione
al cimitero italiano a Tripoli. Ieri mattina i siti di notizie libici hanno rilanciato un comunicato
del capo dell’aviazione di Tobruk, il generale Saqr al Geroushi. Il generale denuncia il fatto
che «tre navi da guerra italiane sono arrivate nei pressi delle coste di Bengasi, a Daryaba»
circa 55 chilometri a est della città, e poi si sono spostate verso Derna. Il governo libico
avverte che «non esiterà a ricorrere a tutti i mezzi che gli consentano di proteggere le sue
frontiere e la sua sovranità territoriale». Passano pochissimi minuti, e il capo di Stato
maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi conferma alla ministro Pinotti quello che tutti
ritenevano sicuro: in una fase così delicata non c’è nessuna nave nelle acque territoriali
libiche e non c’è mai stata. La notizia «è una bufala, è falsa», fa sapere il ministero, «tutte
le navi militari italiane presenti nel Mediterraneo operano in acque internazionali
rispettando i limiti stabiliti dai trattati».
Tobruk insiste, offre dettagli: «La violazione è stata tracciata, e verificata anche dai nostri
caccia », levatisi in volo sabato sera per «monitorare i movimenti delle tre navi fino a
quando, dopo aver ricevuto un avvertimento, non sono tornate nelle acque internazionali
». Ovvero: i caccia libici avrebbero messo in fuga le navi italiane.
Smentita al massimo livello, la bufala libica viene però analizzata al ministero della Difesa,
alla Farnesina e anche alla Presidenza del Consiglio, tra i responsabili dell’intelligence.
Perché questa “sparata”? «Innanzitutto la firma di quel comunicato: non è il primo ministro,
o l’ufficio del primo ministro Al Thinni; è un ufficiale dello staff del generale Haftar ad
accusare l’Italia di una violazione delle leggi internazionali », dicono alla Difesa. È poco più
che uno dei capi di una milizia, quella di Haftar, che si è ribattezzata “Libyan National
Army” e che con l’aiuto degli egiziani ha provato senza successo a fare la guerra agli
integralisti islamici a Derna e Bengasi.
Una milizia che oggi tiene di fatto in ostaggio i ministri e i parlamentari di Tobruk. E guarda
caso, proprio oggi i parlamentari di Tobruk dovrebbero votare sull’accordo Onu che crea
un Governo di unità nazionale con Tripoli. Un accordo che di fatto farà fuori l’ex
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gheddafiano Haftar che da Al Thinni (sottoposto a pressioni e vessazioni anche fisiche) si
era fatto nominare capo di stato maggiore e addirittura “comandante supremo”.
Haftar quindi alza il livello dello scontro, e minaccia le “potenze straniere” come l’Italia che
sarebbero pronte ad interferire negli affari interni libici, perché vuole mantenere il posto e il
potere. In Libia sia a Tobruk che a Tripoli le parti che non vogliono l’accordo (perché il loro
potere verrebbe limitato) denunciano le «interferenze straniere». Criticano la posizione di
paesi come l’Italia che premono per un accordo di unità nazionale perché farebbe loro
perdere posti, ruolo e influenza nella nuova Libia.
In questo contesto in cui l’Italia rischia di diventare il simbolo dell’Occidente che vuole
provare a metter pace, ieri l’Associazione dei rifugiati italiani (Airl) dalla Libia ha diffuso
alcune fotografie che testimoniano lo stato di devastazione del cimitero italiano di
Hammangi, a Tripoli. La presidentessa dell’Airl Giovanna Ortu e l’ingegner Giancarlo
Consolandi che ha ricevuto le foto non sono in grado di dire se la devastazione è avvenuta
nelle ultime ore o negli ultimi giorni. Ormai da mesi il cimitero è abbandonato a se stesso,
anche l’ultimo italiano di Tripoli, il custode Bruno Dalmasso, ha lasciato la Libia. Il cancello
principale è sprangato, ma da un ingresso laterale entrano bande di vandali e
tossicodipendenti. E ogni tanto, quando qualcuno vuole lanciare un segnale all’Italia,
intervengono anche miliziani in cerca di notorietà. «Un gesto vile di inciviltà e
intolleranza», dice la Farnesina.
Da L’Unione sarda del 29/10/15
Aeroporto di Elmas: tonnellate di bombe in
partenza per l'Arabia Saudita
Tonnellate di bombe "made in Sardinia" all'aeroporto di Cagliari: da questa mattina sono in
corso le operazioni di carico di un Boeing 747, che trasporterà le munizioni prodotte dalla
fabbrica Rwm di Domusnovas in Arabia Saudita. L'aereo, fermo a poca distanza dall'area
partenze dello scalo cagliaritano, sarebbe dovuto partire alle 14 ma il decollo è stato
rinviato.
Le bombe sul piazzale dell'aeroporto di Elmas hanno suscitato le reazioni dei politici
isolani. "Chiedo a tutte le forze politiche di attivarsi per fare chiarezza e per capire cosa sta
succedendo e se dobbiamo continuare a vivere in un territorio militarizzato", attacca il
senatore del Movimento 5 stelle Roberto Cotti.
"Un carico di morte tra la gente, uno scandalo senza precedenti", sostiene Mauro Pili,
deputato di Unidos, "così come è inaudita la guerra utile a foraggiare la produzione di armi
e di morte".
di Michele Ruffi
http://www.unionesarda.it/articolo/cronaca/2015/10/29/aeroporto_di_elmas_tonnellate_di_
bombe_in_partenza_per_l_arabia_s-68-442492.html
Da la Nuova Sardegna del 30/10/15
Cagliari, bombe nello scalo di Elmas caricate
CAGLIARI. In fila, marziali, ordinati, attendono il loro turno. Centinaia di ordigni fanno
mostra di sé sulla pista dell’aeroporto di Elmas. Sullo sfondo, a poco più di 100 metri un
Boeing della Ryanair e uno Alitalia.
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Le bombe attendono di essere caricate su un cargo che batte bandiera dell’Azerbaigian.
Sull’isola soffiano sempre più forti i venti di guerra. Tra esercitazioni, servitù, navi militari
ormeggiate sulle banchine dei porti e carichi speciali negli scali, cresce l’alta tensione.
Sulla pista dell’aeroporto civile più trafficato in Sardegna vengono caricate armi da guerra,
neanche fossero barattoli di pelati. Chi passa là davanti, dopo essere stato fatto spogliare
al check-in, magari aveva con sé un letale taglia unghie o una pericolosissima bottiglietta
d’acqua, sgrana gli occhi e subito dopo tira fuori l’immancabile smartphone. Pochi istanti e
le foto iniziano a circolare su Internet.
La denuncia di Cotti. Il primo a denunciare cosa accade è il senatore del Movimento 5
Stelle Roberto Cotti. «Non è accettabile che in un aeroporto civile si carichino armi da
guerra a poche centinaia di metri dai voli civili – dice –. Martedì presenterò una
interrogazione. Voglio sapere da dove arrivano quelle armi e dove sono dirette. Qualcuno
mi dice in Arabia Saudita. Voglio risposte dal governo». Cotti all’inizio di settembre aveva
presentato un’altra interrogazione. «Riguarda un’azienda sarda che produce armi da
guerra – continua Cotti –. Ci sono bombe d’aereo che contengono 250 chili di esplosivo.
Ma alla mia interrogazione non ci sono state risposte». Cotti non si ferma. «Ora voglio
sapere chi ha prodotto quelle armi e per quale motivo venivano caricate su un cargo nel
cuore dell’aeroporto di Elmas e dove erano dirette. Ricordo che esiste una legge in Italia
che vieta la vendita e l’esportazione di armi a paesi belligeranti».
La protesta. Ma il clamore si propaga rapidissimo. A denunciare quello che accadeva
anche il parlamentare di Unidos Mauro Pili. Il deputato ha presentato un’interrogazione al
governo. «Su un Boeing 747 atterrato nella notte all'aeroporto di Elmas sono stati caricati
pallet pieni di bombe. Un fatto gravissimo per il tipo di carico e perché si utilizza un
aeroporto civile per un trasporto di guerra. Chi ha autorizzato questo carico e questo
viaggio è un irresponsabile. Si dimostra l'atteggiamento verso la Sardegna dove si arriva a
trasformare un aeroporto civile in un aeroporto destinato ad azioni di guerra. Di questo
fatto deve renderne conto l’Ente nazionale dell'aviazione civile che ha autorizzato carico e
volo».
L’Enac. Qualcuno si aspettava smentite, al contrario arriva la conferma da parte dell’Enac.
Tutto vero. «Era regolarmente autorizzato il volo cargo partito da Cagliari con materiale
bellico a bordo – rende noto l’ente in una nota –. Si trattava di un volo di natura
commerciale regolarmente autorizzato nel contesto delle previsioni normative
internazionali tecniche che disciplinano il trasporto di tali materiali».
Il clima. Le stellette brillano sempre meno. Esercitazioni, servitù, operazioni militari in cui
vengono caricate armi e parcheggiate navi da guerra negli scali civili, la presenza
dell’esercito è sempre più invasiva nell’isola.
http://lanuovasardegna.gelocal.it/regione/2015/10/30/news/cagliari-bombe-nello-scalo-dielmas-caricate-tra-i-voli-di-linea-1.12357213
del 02/11/15, pag. 12
Rabin guerriero di pace morì con il suo sogno
Venne eliminato vent’anni fa: due colpi sparati alla schiena da una
Beretta, mentre stava per salire in auto dopo aver concluso un discorso
contro la violenza
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di Leonardo Coen
Zakhor! “Ricorda!”, invitano i militanti della sinistra israeliana in questi giorni di triste
memoria. Sono apparsi nelle strade di Tel Aviv giganteschi cartelloni, ritraggono il volto di
Yitzhak Rabin, l’uomo degli accordi di Oslo, così tanto vituperati dagli avversari delle
destre e delle formazioni ultra-ortodosse. Già: ricorda! Come il premier laburista venne
brutalmente eliminato vent’anni fa, il 4 novembre del 1995, alle 21 e 30: due colpi a
bruciapelo sparati alla schiena da una Beretta 84 F, mentre stava per salire in auto dopo
aver concluso un lungo ed intenso discorso contro la violenza e per la pace, nella
sterminata kikar Malchei Israel, la piazza più grande di Tel Aviv intitolata ai re di Israele
(poi a Rabin). Ygal Amir, il killer, aveva 25 anni. Era un militante della destra estremista.
Non si è mai pentito del suo gesto. Anzi, per il 38 per cento degli ultra-ortodossi, è un
eroe, secondo un’imbarazzante inchiesta del quotidiano Ha’aretz.
Ricorda! Come uccisero Rabin per sabotare la pace faticosamente negoziata con Yasser
Arafat, premiata dal Nobel del 1994, assegnato anche al capo dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina e a Shimon Peres, allora ministro degli Esteri e futuro
presidente d’Israele: Oslo sanciva il riconoscimento da parte di Israele dell’Olp quale
rappresentante del popolo palestinese; dal canto suo, l’Olp riconosceva Israele e il suo
diritto di esistere. Per gli ortodossi e le destre il patto venne bollato come infame.
Ricorda! Come Rabin sia stato sistematicamente insultato per mesi e mesi, gridandogli
“traditore”, lui che capo di Stato Maggiore dell’esercito fu con Moshe Dayan l’artefice della
mirabolante vittoria nella ormai mitica guerra dei Sei Giorni, lui che impedì al rabbino
Shlomo Goren, irresponsabile cappellano capo dell’esercito israeliano, di far saltare le
moschee della Spianata di Gerusalemme: “È matto da legare”, dissero i capi militari di
Tsahal che sventarono lo scempio e le disastrose conseguenze di tale scelleratezza.
Anni dopo Rabin avrebbe combattuto Arafat (lo considerava un terrorista), e tuttavia, si era
reso conto di trovarsi in un tunnel senza uscita. Pensò che forse sarebbe stato meglio
cambiar rotta, ed arrivare a patti con il capo dell’Olp. Andare oltre la trappola degli
estremismi religiosi, un confronto tribale dominato da violenza, odio, rancore. Ne sapeva
ben qualcosa: il premier laburista era nato a Gerusalemme nel 1922, e fu il primo “sabra” a
guidare il governo. Nelle sue Memorie post prima Intifada (1980) aveva annotato: “I rischi
della pace sono preferibili di gran lunga alle sinistre certezze che attendono ogni nazione
in guerra”.
Ci voleva coraggio a scriverlo e soprattutto a trasformare questo pensiero in azione di
governo, in un’Israele che si sentiva sempre assediata, unica democrazia del medio
Oriente. Rabin pagò con la vita questa sua scelta, dettata dal pragmatismo di antico
combattente: nel maggio del 1941 era stato tra i fondatori del Palmach (Plugot Mahas, le
squadre d’assalto degli Yishuv, gli insediamenti ebraici nella Palestina britannica). I
membri formarono a lungo la spina dorsale di Tsahal, le forze di Difesa israeliane. Quasi
simbolicamente, i due proiettili che colpirono Rabin gli spezzarono la spina dorsale.
L’anniversario ebraico è già stato celebrato sabato 24 ottobre (il 12 Cheshvan, secondo
mese dell’anno ebraico): ma in piazza, a commemorarlo, c’erano 3 mila persone. Ai
funerali di Rabin, un milione lo piansero e fu una colossale manifestazione di dolore. Però,
dopo, Israele votò Benjamin Netanyahu, il suo più grande nemico. Il leader del Likud,
partito di estrema destra, aizzava le folle contro Rabin. Era il terminale di una
combinazione di forze destabilizzatrici che ripudiava la politica della pace.
Israele sembra arrivata a un punto morto. Se ne parlerà durante l’anniversario civile –
quello del nostro calendario – che cade dopodomani. La sinistra invocherà le dimissioni di
Netanyahu, lo accuserà di aver incoraggiato indirettamente l’odio fra i due popoli e di aver
contribuito: “Il cammino che si è interrotto nel 1995 resta più che mai quello da seguire
oggi”, dichiara Anat Ben Nun, portavoce dell’organizzazione La Pace, “le violenze di cui
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oggi siamo testimoni sono figlie delle decisioni prese dopo il ’95”. Efraim Sneh, ex ministro
della Salute (1994-96) dice che l’assassinio di Rabin “ha decapitato lo Stato e la sinistra
israeliana”.
Ricorda! Alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme in questi giorni c’è un’esposizione
terribile e drammatica che mostra (e denuncia) quali e quanti incitamenti all’odio contro
Rabin precedettero i due spari fatali. Lo si screditava con foto ritoccate: vestito da SS, con
la kefiah, mentre si lava le mani sporche del sangue versato da Arafat. Servirono a condire
il brodo culturale che spinse Amir (e i suoi complici) a premere il grilletto. Quel clima che il
regista Amos Gitai ha ricreato nel film Rabin: The Last Day, presentato a Venezia a
settembre. Gitai ricostruisce il prima e il dopo di quella sera in cui vennero ammazzati
Rabin e la speranza della pace.
Fruga nella memoria di un Paese in balìa di una nuova spirale di terrore: la terza Intifada
dei Coltelli, giacché invece di lanciare sassi stavolta molti giovani palestinesi usano lame.
Una generazione radicalizzata che non crede più alla resistenza pacifica e che ha
conosciuto soltanto i fallimenti dei negoziati con Israele. Contrapposta alla presa di potere
dei coloni israeliani, impegnati nell’implacabile processo di riconquista della “GiudeaSamaria”. Sionismo messianico inquietante, puntellato da episodi di violenza e
sopraffazione. La sua natura religiosa, le sue pretese geografiche e politiche sono
corroborate da un incremento demografico che ha portato i coloni dai 20mila che erano nel
1977 ai 380mila che sono oggi stanziati in Cisgiordania. Il loro peso è stato determinante
nelle elezioni del 17 marzo, consentendo al Likud di vincerle. L’anatomia di questo vile
omicidio politico in realtà è una vera e propria inchiesta, in cui si miscelano abilmente
finzione, materiale di repertorio e testimonianze. Come quella di Shimon Peres: “Se non
fosse morto, forse oggi avremmo la pace”.
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INTERNI
del 02/11/15, pag. 1
Il partito dei manager che commissaria la
politica
di Antonio Polito
Dal carisma al curriculum, dal popolo al fatturato. Il commissariamento della politica
sembra essere il futuro delle grandi città italiane. Privi di una classe dirigente locale
all’altezza, i partiti cercano manager per Milano e Roma. Giuseppe Sala, Alfio Marchini,
Paolo Scaroni, Corrado Passera:
non troverete un politico di primo piano tra i nomi più gettonati del momento. E le primarie
fanno paura proprio perché rischiano di catapultare sulla sedia di sindaco un politico di
secondo piano, con gli effetti stupefacenti già osservati nel caso Marino.
Non è solo una tendenza dei partiti tradizionali. Perfino i Cinque Stelle sembrano alla
ricerca di un Papa straniero: dicono che Casaleggio se ne sia convinto quando ha assistito
in tv alla povera performance dei quattro tenori grillini di Roma.
È una dichiarazione di impotenza della politica democratica. La quale, in teoria, dovrebbe
essere non solo gestione ma anche organizzazione del consenso, idealità, sistema di
valori, selezione di classe dirigente. Tutta merce che i partiti non sembrano più in grado di
offrire. In fondo è una rivincita del primo berlusconismo, quello del kit del candidato e della
mentina: via i «professionisti della politica» dalla gestione della cosa pubblica.
Ma la nouvelle vague sta conquistando a sorpresa anche il PdR (il partito di Renzi), che
pure si era presentato sulla scena annunciando il ritorno della politica nella cabina di regia.
Un tempo spettava al dirigente di maggior peso candidarsi a sindaco nella sua città: fu il
caso di Bassolino a Napoli, di Rutelli (e di Fini) a Roma, di Cacciari a Venezia, di
Chiamparino a Torino; oggi nessuno penserebbe di candidare Orfini al Campidoglio, e
d’altra parte di candidarsi a Milano Salvini non ci pensa proprio. Gli unici politici rimasti
nelle città sono quelli di ritorno, a fine carriera, da Fassino a Torino, a Bianco e Orlando in
Sicilia, fino al possibile bis di Bassolino a Napoli. È un vero e proprio divorzio tra le città e
la politica dei partiti.
Cinque anni fa un’analoga crisi produsse primarie a sorpresa, che imposero gente nuova,
uomini più radicali e meno compromessi con il passato, talvolta veri e propri populisti.
Alcuni hanno fallito come a Roma e a Genova, altri esperimenti sono riusciti ma si sono
dimostrati non ripetibili come Pisapia a Milano, altri ancora si sono sciolti nel movimento,
come de Magistris a Napoli. Non a caso il pur ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha
affrontato da Palazzo Chigi questo declino della democrazia dei sindaci con il «modello
Expo». Il commissariamento di Roma con il prefetto di Milano, che passa direttamente
dalla gestione della fiera alla gestione della capitale, dove troverà già commissariato il
Giubileo, ne è l’emblema più perfetto. La nomina di Sala, commissario dell’Expo, a
candidato sindaco del Pd per le prossime elezioni di Milano, ne può tra breve essere il
completamento. E a Napoli quasi un terzo della città, l’enorme area di Bagnoli, è stata
affidata a un commissario governativo, tra gli strepiti del sindaco che grida all’usurpazione.
Questa nuova formula di governo locale si appella a criteri di efficienza e rapidità, punta a
semplificare le procedure della politica, dimette un sindaco eletto nell’ufficio di un notaio
piuttosto che in Consiglio comunale, prescinde dall’appartenenza politica dei prescelti
(Sala e Marchini sono votabili sia a destra che a sinistra). Ma è una formula che ha
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sempre bisogno di un Grande Progetto, un Grande Evento, un Giubileo o una Expo,
un’azione parallela che consenta di riversare soldi pubblici su amministrazioni pubbliche
altrimenti esangui. Perché il primo grande cambiamento che è avvenuto nella politica
locale è proprio questo: quando vent’anni fa cominciò la stagione dei primi cittadini eletti
direttamente dal popolo i Comuni erano pieni di soldi, e di conseguenza i sindaci erano
pieni di voti anche dopo il primo mandato. Ora nei Comuni non c’è più una lira, e i sindaci
diventano rapidamente impopolari.
Così è esplosa l’antipolitica. E ora la politica non sembra avere più le forze a livello locale
per fronteggiarla in prima persona. Si è fatta troppo leaderistica, troppo affaristica, con
partiti troppo leggeri, quasi inesistenti sul territorio, per produrre sindaci di valore in
proprio. La terza via che si sta profilando è quella che Alfio Marchini chiama la «soluzione
del civismo: uomini di buona volontà sorretti dalla politica per battere l’antipolitica». Stelle
locali contro Cinque Stelle. Funzionerà?
del 02/11/15, pag. 10
Oggi il primo vertice tra premier e prefetto
Promessa del governo “Più soldi per Roma”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA.
Dopo un anno di black out totale con Palazzo Chigi, come ha raccontato lo stesso Marino,
molto probabilmente oggi Matteo Renzi incontra il neocommissario di Roma Franco
Tronca. L’ennesima beffa per l’ex sindaco visto che il prefetto ha indossato la fascia
tricolore solo ieri. Un anno per non vedere Marino, un giorno per il primo vertice con
Tronca. Ma l’obiettivo non è quello di umiliare il chirurgo. Se il Pd vuole recuperare terreno
e uscire dal pasticcio capitale deve subito mandare un segnale alla città. E non può
bastare lo slogan del dream team ovvero della squadra che affiancherà i prefetti Tronca e
Gabrielli nella gestione di Roma e del Giubileo. Servono le risorse e questo sarà il punto al
centro del colloquio.
Per l’emergenza legata all’Anno santo potrebbe stanziare circa 300 milioni. Sono una cifra
infitiamente superiore a quella ipotizzata quando la giunta Marino era ancora in piedi. Il
grosso degli stanziamenti sarà dirottato ai trasporti pubblici. Qualche settimana fa si era
ipotizzato un fondo di 30 milioni di matrice governativa e altri 80 da raschiare nel bilancio
comunale. L’ex assessore ai Trasporti Stefano Esposito dice ora: «Non bastano nemmeno
per la manutenzione e io l’ho sempre sostenuto. Ce ne vogliono almeno il doppio,
suppergiù 200». Adesso l’esecutivo è pronto a fare la sua parte e si avvicinerà a quel
numero, pensando di usare altri 100 milioni per la sicurezza del Giubileo. È un intervento
che potrebbe essere varato con un decreto già nel prossimo consiglio dei ministri, alla fine
della settimana. Ma non è escluso un piccolo slittamento, contemplando il pericoloro di
scoprirsi troppo sul fianco dell’ex sindaco che aspetta un passo falso di Renzi per
denunciare ancora una volta il complotto contro di lui.
Adesso Renzi vuole organizzare la convivenza tra Tronca e Gabrielli, fare in modo che i
compiti siano divisi per bene, lasciando al prefetto di Roma soprattutto il capitolo sicurezza
particolarmente delicato in vista dell’Anno santo con le conseguenti minacce dell’Isis.
Nell’incontro a Palazzo Chigi si parlerà anche dei subcommissari, toccherà a loro, in parte,
usare le risorse straordinarie. A cominciare dai trasporti per i quali il nome sicuro è Marco
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Rettighieri, non a caso anche lui in arrivo dall’esperienza Expo. Un altro candidato con un
precedente nell’evento milanese è Gloria Zavatta, 53 anni, esperta in sostenibilità, che
avrebbe la delega ai rifiuti. In questo modo il premier avrebbe sistemato due dei tre punti
chiave ai quali lega la rimonta del Pd romano. Il terzo sono le periferie e si cerca il nome
giusto. Allo sport e alla decisiva corsa per le olimpiadi di Roma 2024 dovrebbe essere
delegato lo stesso presidente del Coni Giovanni Malagò. Alla cultura il favorito è senza
dubbio Carlo Fuortes che non è amato dal Pd romano, ma che vanta risultati eccellenti sia
all’Auditorium sia al Teatro dell’Opera dove fu chiamato proprio da Marino. Più complicato
un recupero di Alfonso Sabella molto sostenuto da Orfini ma appena uscito dalla giunta
Marino. Tronca infatti ha fatto capire di voler scegliere personalità lontane dalla politica
perchè un arbitro, ha detto, deve selezionare altri arbitri come lui. Non c’è dunque spazio
per i politici nè come subcommissario alle dirette dipendenze di Tronca nè nella cabina di
regia che Renzi insiedierà a Palazzo Chigi con il compito di aiutare il percorso dell’Anno
santo e dell’amministrazione ordinaria della Capitale.
del 02/11/15, pag. 12
Berlusconi: “Non sarò più io il candidato
premier” Salvini:vedrò Marchini
Scontro nel centrodestra sulla candidatura dell’imprenditore romano
L’ex ad dell’Eni Scaroni: “Non faccio politica, a Milano appoggerò Sala”
ROMA .
Padre nobile, ma non premier. Le anticipazione al libro di Bruno Vespa rivelano il nuovo
ruolo che Silvio Berlusconi immagina per sé. L’ex presidente del Consiglio si sfila dalla
corsa alla leadership del centrodestra. «Molti mi percepiscono ormai come un politico di
professione ». Ecco perché bisogna voltare pagina. La ricetta del leader di Fi prevede che
a guidare la coalizione dei moderati sia «una persona che ha dimostrato nella vita di saper
fare molto bene e ha saputo conquistarsi la fiducia di un pubblico vasto con la sua attività
fuori della politica ». Insomma, un nuovo Berlusconi. L’identikit dell’ex Cavaliere rimanda al
profilo di Mario Draghi o di Sergio Marchionne. O, comunque, a «una personalità di quel
livello».
La fondazione Luigi Einaudi, acquisita qualche giorno fa, sarà il punto di partenza per
gettare le basi e per far ripartire il “rassemblement” dei moderati. Un think tank in cui
possano convergere «le personalità di diversi campi e i rappresentanti di tutti le
associazioni professionali ». Dalla fondazione al ritorno a Palazzo Chigi il passo è breve.
Berlusconi pensa a un esecutivo di 18 membri - 12 dalla società civile e 6 dai partiti - con
alle Infrastrutture l’ad di Finmeccanica Mauro Moretti, alla Ricerca l’astronauta Samantha
Cristoferetti. E al Viminale l’ex comandante dei Carabinieri, Leonardo Gallitelli. Il
programma c’è già. Diviso in sei capitoli e concordato con gli alleati Matteo Salvini (Lega
Nord) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Con la flat tax «per cambiare l’Italia». Il primo
appuntamento, che segnerà il passo alla road map del “padre nobile “, sarà la
manifestazione leghista in calendario l’8 novembre. Lì si ritroveranno sullo stesso palco
Salvini, Berlusconi e Meloni. E sarebbe già stato fissato un incontro all’inizio della
settimana, ad Arcore, in cui il Cavaliere e il leader del Carroccio fisseranno la scaletta
della kermesse in modo da concordare il messaggio da far veicolare. Di certo, parleranno
dell’appuntamento clou della primavera 2016, le amministrative. Milano e Roma sono le
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due partite nelle quali il centrodestra cercherà di rovinare i giochi al centrosinistra. Su
Milano, dopo il no di Paolo Del Debbio, Berlusconi avrebbe pensato a Paolo Scaroni per il
dopo Pisapia. Ma, persone vicine all’ex di Eni, assicurano che non ha ricevuto alcuna
offerta. Anzi. Scaroni appoggerà Giuseppe Sala, una figura che conosce Milano e ha fatto
un lavoro eccellente per l’Expo.
Capitolo Roma. Nell’intervista di sabato a Repubblica , l’ex premier ha già espresso qual è
la sua visione. «Il nostro candidato sarà Alfio Marchini». Una presa di posizione bocciata
da Giorgia Meloni. Salvini, invece, spariglia i giochi e auspica che il centrodestra si
presenti compatto all’appuntamento di Roma. Ospite dell’Arena su Raiuno Salvini indica la
rotta alla coalizione: La Meloni la conosco e la stimo, Marchini non lo conosco e non
esprim ogiudizi. Dico solo che l’ultima cosa di cui ha bisogno in Italia, e in particolare a
Roma e Milano è litigare » . Un accordo nel centrodestra ancora non c’è. Ma le parole di
Salvini non escludono il sostegno a Marchini. Ottenendo in cambio la candidatura di
Milano per un leghista.
(g.a.f.)
del 02/11/15, pag. 25
REFERENDUM E CONFRONTO
POPOLARE,DUE RISORSE PER LA SINISTRA
STEFANO RODOTÀ
NO, non si possono valutare le novità che ogni giorno compaiono nel mondo della sinistra
ritornando a quel pensiero di Mao secondo il quale «grande è la confusione sotto il cielo,
la situazione è eccellente». E neppure ci si può affidare alla speranza di cento fiori che
fioriranno. Proprio perché si tratta di iniziative significative, servono analisi rigorose, senza
nostalgie o compiacenze, per cercar di cogliere gli elementi di una consapevole
discontinuità e i segni di una attenzione per la realtà legata ad uno sguardo sul futuro.
Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione
del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di
destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso
guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo
apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla
ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando
magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.
A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È
annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare,
nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd,
quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel
futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare
l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che
ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas,
Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente
chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum
abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua
prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte
città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti
sociali.
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Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti
interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano
l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di
reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno
strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e
istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo,
non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio
da evitare? In realtà, nel momento in cui la verticalizzazione e la concentrazione del potere
impoveriscono la democrazia rappresentativa e fanno deperire pericolosamente controlli e
contrappesi, il referendum si presenta come uno strumento per ricostruire equilibri
costituzionali e reagire ai processi di esclusione che sono all’origine dell’astensionismo
elettorale. Esattamente l’opposto di un suo uso plebiscitario, che si ha quando, dall’alto, si
chiede la conferma di una decisione già presa. Siamo piuttosto di fronte ad una di quelle
strategie “contro-democratiche” esplorate da Pierre Rosanvallon, per reagire alla
“presidenzializzazione della democrazia”, attivando poteri di partecipazione e controllo dei
cittadini. Ma, nella particolare situazione italiana, il referendum costituisce anche uno
strumento per la costruzione dell’agenda politica, per individuare questioni rilevanti che
altrimenti sarebbero oscurate dalla forza di interessi particolari o da arretratezza politica e
culturale.
Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi
parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il
primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar
vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva
preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede.
Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso
lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa. La
costruzione dell’agenda politica non può essere tutta lasciata all’esterno. Alla società e al
suo modo di organizzarsi si deve guardare non solo per reagire a chi ne vuole certificare
l’irrilevanza e cancellare ogni soggetto collettivo. Nel momento in cui si cerca di allargare
l’orizzonte politico, non basta il ricorso intelligente a tutti gli strumenti parlamentari
disponibili, che possono incontrare resistenze difficilmente superabili. Per batterle, è
indispensabile che i gruppi parlamentari siano un vero “terminale sociale”, per creare sui
singoli temi quella pressione collettiva essenziale per superare gli ostacoli.
Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino,
ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale,
come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può
trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò
che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la
frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione
sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma
costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che
modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione
italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che
recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati
anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.
La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono
essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile
un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di
parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti
che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere
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cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i
loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di
promuovere mutamenti reali.
Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse
nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui
il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di
intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può
rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede
parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla
dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso
scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto
civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma
questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la
ricostruzione di una politica costituzionale.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 02/11/15, pag. 4
Mafia Capitale, la lista dei 101 finalmente ai
pm
Il prefetto di Roma Gabrielli desecreta la relazione sui dirigenti sospetti,
come chiesto dal Procuratore Pignatone
di Carlo Di Foggia
La relazione della commissione prefettizia che voleva sciogliere il Comune di Roma per
infiltrazioni mafiose non è più segreta. Ieri, il prefetto della Capitale Franco Gabrielli ha
firmato l’atto di desecretazione del documento che comprende anche la lista dei 101 tra
dirigenti, funzionari e politici dell’amministrazione capitolina “attenzionati” perché entrati in
contatto con la presunta associazione mafiosa dell’ex Nar Massimo Carminati e del suo
braccio destro, il ras delle cooperative “rosse” Salvatore Buzzi. Sarà possibile leggerla
quando il procuratore Giuseppe Pignatone e i suoi sostituti la metteranno a disposizione
delle parti del processo su Mafia Capitale che inizierà giovedì, con i suoi 46 imputati solo
per quanto riguarda il troncone principale.
Come anticipato dal Fatto Quotidiano, la Procura aveva chiesto a Gabrielli di poter usare il
documento, di cui già dispone ma solo in versione “copia riservata”, finora inutilizzabile
perchè secretata. Ieri le agenzie battevano la richiesta di Pignatone, prefigurando “due
giorni di tempo” per ottenere la risposta. A quanto risulta al Fatto, invece, Gabrielli ha
firmato l’atto ieri. Atto che sarà notificato già nella mattinata di oggi alla Procura.
Il documento redatto dalla commissione di accesso guidata dal prefetto Marilisa Magno,
nominata dal predecessore di Gabrielli, Giuseppe Pecoraro, si dipana in 850 pagine zeppe
di nomi di funzionari e dirigenti che a vario titolo sono entrati in contatto con il sistema
criminale creato da Buzzi e Carminati. E non solo: ci sarebbero anche altri elementi che
sarebbero stati utili per fare pulizia in Comune. Il documento è frutto di un lavoro di
ispezione degli atti iniziato a dicembre 2014 e arrivato sul tavolo del prefetto a giugno
scorso. Per mesi, l’allora assessore alla legalità della giunta Marino, il magistrato Alfonso
Sabella ha chiesto invano che potessero essere desecretate parti della relazione. “Magari
passi non rilevanti dal punto di vista penale ma che ci avrebbero aiutato a capire dove
potesse nascondersi il marcio negli uffici”, ha ribadito ieri.
La richiesta è caduta nel vuoto. In quel documento i tre commissari hanno anche
incrociato gli atti amministrativi emessi durante la consiliatura con le risultanze
investigative del Ros dei carabinieri, permettendo così di poter capire quali delibere
potessero essere frutto dei contatti tra quei dirigenti e il mondo di Mafia Capitale.
La politica non ha risposto all’ex assessore, che ieri ha spiegato: “La decisione della
Procura di avere il documento è sicuramente una scelta giusta perché potrebbe rinvenire
elementi utili da un punto di vista investigativo”. L’intero documento è finito il 27 agosto sul
tavolo del Consiglio dei ministri, insieme alla relazione di Gabrielli, entrambe secretate
sulla base della legge sullo scioglimento dei Comuni.
Gli atti sono finiti in un documento parimenti secretato del Cdm: sarebbe servito anche un
input a monte per desecretarne delle parti – tanto più che almeno la relazione Gabrielli era
consultabile dai parlamentari (che non potevano però averne copia) della commissione
Antimafia – ma così non è stato. È storia nota che le conclusioni della commissione – che
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chiedeva di sciogliere subito il Comune di Roma – non hanno convinto il ministro
dell’Interno Alfano, Gabrielli e il premier Matteo Renzi della necessità di commissariare
l’amministrazione, e alla fine è stato sciolto solo il municipio di Ostia. Chi ha cercato di fare
pulizia al Comune si è dovuto basare su proprie intuizioni e sulla conclusione della
relazione di Alfano, che conteneva solo alcuni nomi di dirigenti, poi cacciati o spostati in
altri uffici. La relazione è rimasta segreta, Ignazio Marino è stato fatto decadere. Ora il
documento finirà agli atti del processo.
Ieri si è insediato in Campidoglio il neo commissario capitolino Francesco Paolo Tronca,
che ha avuto un breve colloquio con Papa Bergoglio al cimitero del Verano per la messa di
Ognissanti. Tolto di mezzo Marino, a breve arriveranno i nuovi fondi per il Giubileo e verrà
formalizzata la squadra che affiancherà Tronca, il famoso dream team fantasticato da
Renzi. In pole, direttamente dall’Expo di Milano, ci sono Marco Rettighieri e Gloria Zavatta,
destinati ad occuparsi di due settori cruciali per Roma, rispettivamente, Trasporti e Rifiuti.
E poi il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Carlo Fuortes, destinato alla Cultura,
e il numero uno del Coni Giovanni Malagò, ovviamente in corsa per una delega a sport e
Olimpiadi 2024
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 02/11/15, pag. 7
Doppio naufragio nell’Egeo
almeno tredici le vittime
Tra i morti quattro neonati
In mare continuano a morire bambini. Sarebbero più di venti i morti, ieri, in due naufragi
davanti alle coste greche e turche. Il primo è avvenuto vicino all’isola di Samos dove
un’imbarcazione è affondata. Dieci corpi sono stati recuperati nella cabina, il corpo di una
ragazza è invece stato restituito dal mare qualche ora dopo, sulla spiaggia. Degli undici
morti, 6 erano bambini, di cui 4 neonati, e cinque erano donne. Quindici persone sono
riuscite a salvarsi, ma il bilancio potrebbe aggravarsi perché ci sarebbero anche due
dispersi.
Il secondo naufragio è invece avvenuto davanti all’isola di Farmakonnisi dove una nave di
Frontex ha recuperato due cadaveri. Tre persone sono tratte in salvo. Hanno raccontato
che stavano viaggiando su una nave con quindici persone a bordo, quindi potrebbero
esserci altri dodici morti in acque turche.
I due naufragi vanno ad aggiungersi a quelli avvenuti negli ultimi giorni. Una settimana
nera che ha visto la perdita di sessanta vite, la metà delle quali erano bambini. Venerdì il
giorno più tragico con 22 morti in due naufragi: 19 davanti all’isola di Kalymnos e 3 davanti
a quella di Rodi (dodici erano minorenni). Altri quattro bambini morti e due dispersi sono
stati il bilancio di altri due naufragi davanti alla costa egea della Turchia. Mercoledì,
invece, sono morti 24 migranti - undici bambini - in cinque naufragi al largo di Lesbo,
Samos e Agathonisi.
Mentre la strage continua, l’Europa sembra impotente. Ieri è fallito l’incontro dei tre leader
della Grosse Koalition tedesca convocato a Berlino proprio sull’emergenza profughi.
Nessuno è riuscito a sciogliere il nodo delle cosiddette «zone di transito» e tutto è stato
rimandato a un vertice previsto per giovedì quando esperti della materia del Bund e dei
Laender si incontreranno ancora una volta.
Gli incontri avvengono in un clima sempre più incandescente in Germania dove sono
tornati a farsi sentire i movimenti xenofobi. Nella giornata di ieri, nella piccola città di
Wismar, sul mar Baltico, due rifugiati siriani sono stati brutalmente aggrediti da alcuni
sconosciuti armati di mazze da baseball. I due rifugiati si trovavano fuori dalle strutture che
li ospitano quando qualcuno li ha attaccati. Sono stati ricoverati in ospedale e sono in
corso indagini per individuare i responsabili del pestaggio.
Raphael Zanotti
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 02/11/15, pag. 21
Calabria spezzata alluvione cancella strade e
ferrovie
Crolla tratto della Jonica, binari sospesi nel vuoto Allarme a
Catania:chiusura per scuole e cimiteri
SALVO PALAZZOLO
UN TRATTO della statale 106 Jonica non esiste più. E alcuni binari della ferrovia sono
rimasti sospesi nel vuoto. Due giorni di pioggia incessante hanno già portato via un pezzo
di terra nel cuore della Locride. All’improvviso. L’esondazione del torrente Ferruzzano non
era stata prevista da nessun bollettino, nonostante l’allerta meteo dei giorni scorsi. E nel
giro di poche ore, la Calabria si è ritrovata divisa in due. Con un disperso da cercare
dentro una bufera che correva a 80 chilometri orari: sabato pomeriggio, anche il 43enne
Salvatore Comandè era stato travolto dall’esondazione di un torrente, il San Nicola,
mentre attraversava con la sua auto un ponte a Taurianova. Sua figlia, che ha 17 anni, si è
salvata per un caso. Il cadavere di Comandè l’hanno ritrovato i vigili del fuoco ieri mattina,
ad alcune centinaia di metri dal punto in cui era stato travolto.
Così, nonostante l’allerta meteo da bollino rosso, la Calabria è rimasta divisa in due.
Prima, lungo la linea ionica, per l’interruzione nel tratto ferroviario tra Roccella e Palizzi, in
provincia di Reggio Calabria. Poi, nel pomeriggio, Rfi ha deciso di fermare i treni anche
sulla linea tirrenica, l’Intercity 551 è stato bloccato a Bagnara. Per paura di un’altra
drammatica esondazione, quella del torrente Condoleo. E con il rischio dell’ennesima
frana, tra Bagnara e Villa San Giovanni Cannitello.
«Questo è un disastro annunciato», denuncia la Coldiretti. «Nel 100 per cento dei Comuni
della Calabria sono presenti aree a rischio per frane e alluvioni». E due giorni di pioggia
hanno messo in evidenza tutta la drammaticità della situazione. Il prefetto di Reggio
Claudio Sammartino dice: «Le criticità sono davvero tante». Frane e smottamenti sono in
diverse strade: «E molti sono punti isolati — spiega il prefetto al termine di una riunione
del centro di coordinamento dei soccorsi — stiamo cercando di intervenire al più presto».
Lo stato di allerta è al massimo livello: lungo la costa ionica, i vigili del fuoco hanno salvato
diverse famiglie che erano rimaste intrappolate in casa per l’acqua alta, nel Crotonese è
crollato un palazzo disabitato. E la piena di un altro torrente, a Pettogallico, ha creato gravi
danni alla condotta idrica di Reggio. Paradosso di una regione allagata: in molte zone del
capoluogo l’erogazione idrica va a singhiozzo. E solo quando terminerà il maltempo
potranno iniziare i lavori di riparazione.
Il vice ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Riccardo Nencini annuncia interventi in
tempi brevi: «Una soluzione sarebbe quella di destinare ogni anno lo 0,3 per cento del Pil
alla messa in sicurezza del territorio. È necessaria — dice — una seria riflessione sulla
lotta al dissesto idrogeologico».
Ora, anche il torrente Budello rischia di esondare. E il sindaco di Gioia Tauro ha disposto
in via precauzionale lo sgombero di alcune abitazioni. Ma la situazione più grave resta sul
versante ionico: i paesi di Platì, Sant’Agata, Caraffa del Bianco e Ferruzzano risultano
isolati per gli smottamenti che hanno ostruito le vie d’ingresso.
Maltempo e disagi anche in Sicilia. Il sindaco di Catania Enzo Bianco ha disposto per oggi
la chiusura delle scuole, del cimitero e di tutti i parchi pubblici. Ha disposto persino il
divieto di circolazione dei mezzi a due ruote. La Protezione civile ha prolungato infatti
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l’allerta rossa non solo nella zona ionica della Calabria, ma anche nella Sicilia orientale.
Ieri, tre imbarcazioni sono affondate nel porticciolo di Ustica. «Inutile dare la colpa al
maltempo — dice il consigliere comunale Patrizia Lupo — siamo di fronte a un altro
disastro annunciato, per la mancata messa in sicurezza del porto».
del 02/11/15, pag. 21
Dove si costruisce sulle frane
Da Cosenza a Gioia Tauro Oltre la metà dei 1.200 bacini a valle si
restringe per la costruzione di edifici talvolta abusivi ma spesso con
permessi in regola
Residence, centri commerciali, cinema: dopo le sciagure le cubature
aumentano «Il rischio c’è, ma possiamo conviverci»
dal nostro inviato a Cosenza
Marco Imarisio
Alle quattro del pomeriggio le mamme tengono i bambini per mano e fanno la coda al
botteghino per Hotel Transilvania 2. «Certo che conosco la storia di questo luogo» dice la
signora Anna. «Ma se ci dicono che è un rischio con il quale si può convivere non
possiamo fare altro che fidarci. E poi nel centro commerciale ci lavora anche mio
marito...».
La versione calabrese del proverbio sull’acqua passata che non macina più è ancora più
netta e radicale di quelle in uso altrove. Ciò che è stato fatto è destinato a rimanere.
«Considerati i tempi stretti, si chiede a codesta spettabile Autorità di Bacino regionale se
dette aree, in attesa della declassificazione, possono essere comprese nella nuova
pianificazione come urbanizzabili». Andando a ritroso cominciò così, il 21 marzo del 2008.
Con una lettera del comune di Zumpano, quasi tremila abitanti a ridosso di Cosenza, in
zona 1, ovvero con sismicità alta, dove si chiedeva una piccola deroga al Piano di assetto
idrogeologico in vigore dal 2001 che inseriva la collina Malavicina nel settore R4 sia del
rischio alluvionale che di quello franoso. Il più elevato di tutti, quello che contempla anche
«la possibile perdita di vite umane».
Il 3 marzo del 2011 gli operai che scaricavano merce nei magazzini del supermercato Lidl
si salvarono per miracolo. La frana scese dalla collina con velocità di riferimento superiore
ai sei metri al minuto, quasi un record italiano dovuto alla scarsa qualità dell’impasto di
sabbia e limi che compone il costone sotto al quale venne costruito il centro commerciale.
Le cinque sale del cinema Andromeda Village dovevano ancora essere inaugurate.
Da allora ci sono stati sequestri, dissequestri e sigilli parziali, tecnici contrari alle varianti
dei progetti allontanati da solerti dirigenti comunali, inchieste della Procura sui permessi a
costruire rilasciati per un residence da 22 alloggi con annessi cortili, garage e strade
residenziali, tutte opere realizzate su terreni franosi e fino a oggi mai declassificati
dall’Autorità di bacino nonostante qualche lavoro di consolidamento. E poi un processo in
corso contro l’ex sindaco e alcuni suoi funzionari per la frana del 2011 e l’espansione del
centro commerciale, il sequestro dell’azienda di proprietà del costruttore del multisala
disposto dalla Procura di Napoli con la definizione tranchant di «Prodotto interno lordo
della camorra» agli atti del procedimento, infine un’altra inchiesta aperta nel luglio di
quest’anno dopo un esposto presentato dai migliori geologi calabresi.
«La cosa più assurda è che dopo quella frana si è ripreso a costruire come se nulla fosse
accaduto. Il centro commerciale è in continua espansione. Investire sulla messa in
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sicurezza di una collina che continua a scivolare per chiedere in seguito la riclassificazione
dell’area è troppo complicato: meglio la scorciatoia, meglio fare finta di niente». Carlo
Tansi, geologo del Cnr e tra pochi giorni nuovo direttore regionale della Protezione civile, è
convinto che sia meglio passare da Cassandra piuttosto che fare da spettatore ai tanti
disastri calabresi annunciati, sempre con il senno di poi.
Adesso è nella piana di Gioia Tauro, dove sabato pomeriggio un uomo è stato travolto
dall’esondazione di un torrente. Anche questa volta un piccolo corso d’acqua incanalato a
forza, compresso tra le mura perimetrali di alcune abitazioni, che incrociava rasoterra una
strada asfaltata. «Il nostro è un territorio fragile e scosceso che contiene 1.200 piccoli
bacini, almeno la metà dei quali anziché aumentare di portata quando scendono da monte
verso valle, si restringono a causa della costruzione di edifici talvolta abusivi ma spesso
con i permessi in regola, rilasciati in zone ad alto rischio dove la legge proibisce di
costruire. La vera anomalia calabrese è questa».
Agli inizi del secolo scorso lo storico Giustino Fortunato definiva già la Calabria «uno
sfasciume pendulo sul mare». Ma nel decennio dopo le frane che dal 12 al 18 ottobre
1951 spazzarono via quasi 90 Comuni devastando il versante ionico della regione, le zone
colpite raddoppiarono le cubature dei loro immobili. Oggi la regione ha il primato delle
strutture pubbliche e delle abitazioni costruite in zone che i Piani di assetto idrogeologico
si ostinano a definire «altamente insicure per la vita stessa degli abitanti». Dal 1994 a oggi
sono stati realizzati 134.000 edifici con tutti i crismi della regolarità grazie a sindaci di 160
diversi Comuni che hanno dato il nulla osta nonostante il divieto contenuto nei Pai che
dovrebbe essere vincolante. Lo scorso agosto l’alluvione di Rossano è stata causata da
un intero quartiere sorto negli anni Ottanta sul letto cementificato del torrente Citrea.
Il River Village di Zumpano deve il suo nome alla vicinanza con il Crati. L’area sulla quale
sorge rappresentava il letto naturale e la zona di deflusso del più grande fiume calabrese,
dove i frutteti privati sorti sul suo alveo facevano da tappo. Dopo l’ultima esondazione,
ottobre 2013, la Protezione civile ha attivato d’imperio i quattro milioni di euro per la messa
in sicurezza del fiume che dal 2010 giacevano inutilizzati nelle casse della Regione. È una
delle poche storie a buon fine della terra più martoriata d’Italia, dove qualcosa è cambiato,
come dimostra l’imminente nomina di Tansi, non proprio il professionista più amato da
amministrazioni comunali e costruttori.
Ma quel che è stato fatto rimane, bisogna rassegnarsi alla saggezza popolare. «Dovevate
pensarci vent’anni fa». L’unica dichiarazione pubblica sull’argomento dell’attuale sindaco
di Zumpano, Maria Lucente, moglie del sindaco oggi a processo che avviò l’opera negli
anni Novanta, arrivò durante un convegno organizzato proprio nella multisala. La squadra
di esperti da lei radunata varò l’ardito concetto di «rischio esistente ma convivibile».
Sabato scorso alla proiezione del pomeriggio per i ragazzi la sala 5 dell’Andromeda
Village era piena. Appena prima dell’aeroporto di Reggio Calabria si incrocia quel che
resta della fiumara Sant’Agata, uno dei sette rivi tombati che minacciano il capoluogo.
Nell’Ottocento era larga 180 metri. Il tubo che la contiene ha una sezione inferiore ai 15
metri, e scorre sotto l’ultimo tratto di autostrada e la pista di atterraggio. Ci vorrà molto
tempo, per cambiare il passato.
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INFORMAZIONE
Da Corriere economia del 02/11/15, pag. 2
Il duello sull’Auditel Un ritorno che vale 3,5
miliardi di euro
É il fatturato annuo della pubblicità sulle reti televisive L’allargamento
del campione può cambiare gli equilibri
DI MASSIMO SIDERI
L’Auditel è tornato. Ma da sorvegliato speciale. Alla fine le due settimane di riflessione
hanno portato a questo compromesso: il panel delle 5.600 famiglie, «inquinato», come si
dice in gergo, per il 75%, non poteva certamente essere cambiato in così poco tempo.
Anzi: c’è da domandarsi se si riuscirà a rinnovarlo completamente entro la fine di maggio,
deadline data dalla stessa società dopo il consiglio di amministrazione che si è tenuto la
scorsa settimana. E non è una sfida da poco se si pensa che, anche dalle rilevazioni
dell’Auditel, dipende la suddivisione del mercato pubblicitario televisivo che vale circa 3,5
miliardi l’anno, il 47% di un business totale di 7,6 miliardi.
Due conti della serva aiutano: una volta le famiglie venivano estratte dalle Pagine Gialle.
Era il più completo schedario della popolazione italiana quando esisteva una cosa
chiamata telefono fisso. Oggi tra maggiore sensibilità alla privacy, estinzione del fisso e
morte delle Pagine Gialle, le liste di persone si comprano. Avete presente quella volta in
cui avete dato sciattamente il consenso per avere qualche tesserina premio o sconto?
Ecco, siete finiti in qualche lista cedibile per altri fini.
Meccanismo
Dunque, una volta costruito il panel rappresentativo della «nuova Italia davanti al
televisore» a quel punto il delicato file con la mappa di coloro che dovrebbero essere
contattati viene trasferito a Nielsen che fa scattare l’operazione convincimento. Telefonata,
domande di rito, valutazioni. Mettiamo che senza esitare le persone dicano subito di sì.
Scatta la seconda operazione: il montaggio del «meter» in casa. A questa fase lavorano
un centinaio di tecnici, a meno che, vista la criticità della situazione attuale che aveva
portato all’oscuramento dell’indice Auditel per due settimane, non si stia decidendo di
usare le forze speciali. Comunque il grosso problema è l’appuntamento: i tecnici lavorano
in orari d’ufficio, dal lunedì al venerdì. Dunque, riuscire ad entrare fisicamente in casa per
collegare gli apparati dell’Auditel richiede tempo. Una volta ottenuto l’appuntamento, poi,
servono anche 4 ore di lavoro a seconda della complessità di cavi, televisioni, console e
home theater .
Per chiudere il cerchio bisogna sapere che per diverse settimane le nuove famiglie devono
restare sotto osservazione per vedere «se fanno le furbe».
Insomma, cambiare l’intero panel è un’operazione «monstre» per niente facile. Ed è per
questo che bisogna procedere continuando ad usare quello «inquinato», salvo richiedere a
Kpmg la certificazione dello «share».
E poi? «Sono curioso di vedere cosa accadrà dopo che l’Auditel avrà, come annunciato,
modificato o ampliato il suo campione. Se è vero che le famiglie diventeranno 15 mila,
avremo risultati sconvolgenti perché ci si accorgerà di quello che sostengo da tempo: la tv
generalista è vista da un pubblico di persone dai 55 anni in su» ha detto un decano del
piccolo schermo come Maurizio Costanzo durante i giorni di silenzio Auditel.
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Appunto: a guardare quel dato che ancora oggi regola gli investimenti pubblicitari — in
media gli italiani dai quattro anni in su passano 4 ore al giorno davanti alla televisione
intesa come monolitico schermo da salotto — c’è da rimanere di stucco. Sembra il risultato
di una rilevazione su un esercito di pensionati (e peraltro non possiamo non ricordare che
in effetti la demografia italiana va in questa direzione).
Però il numero tondo sembra confliggere apertamente con quella che è la nostra
osservazione quotidiana che, non può avere un peso statistico. Bisognerà fare come
consiglia Costanzo: aspettare e vedere. L’allargamento del panel a 15 mila persone,
peraltro, è più un affiancamento di due panel visto che, da quanto è emerso da un contatto
del Corriere con una delle nuove famiglie, per il cosiddetto «superpanel» non è previsto il
prezioso telecomando con il quale va segnalato chi si trova davanti all’apparecchio
televisivo.
Margini
Dal punto di vista statistico per misurare l’attendibilità del panel Auditel bisognerebbe
conoscere il margine di errore con il quale la società lavora: questo dato — come si evince
dal sito dell’Agcom — non è noto. È considerato una sorta di segreto industriale. E si
capisce perché. Teoricamente dovrebbe rimanere all’interno del 2% ma già le
trasformazioni demografiche in corso negli ultimi anni in Italia rendono questo limite
difficile da garantire. Pensiamo all’immigrazione. Quanto è rappresentata nel panel?
Un altro aspetto è quello della rotazione delle famiglie all’interno del nucleo di rilevazione:
ogni quanto avviene? Tra le voci del settore — senza conferme — c’è quella dei cosiddetti
highlander, famiglie che rimangono a lungo nel panel. In realtà sembra che ci siano delle
famiglie affidabili pronte ad essere chiamate in caso di problemi, per esempio quando un
terremoto o un altro evento grave fa saltare per diversi giorni il collegamento con alcuni
componenti.
Insomma, è una dura vita quell’Auditel. Ma quella che si paventa nei prossimi mesi
potrebbe essere ancora più dura. Anche perché rimane un’incognita la reazione che
potrebbero avere le famiglie la cui privacy è stata violata.
Massimo Sideri
Da Corriere Economia del 02/11/15, pag. 3
Il tempo è denaro I concorrenti della tv?
Facebook & Co.
Si sta sempre meno davanti allo schermo frequentando i social network
DI MASSIMO SIDERI
Duecento e sessanta minuti al giorno. Settemila e ottocento al mese. Novantaquattromila
e novecento all’anno. Quando Woody Allen in Manhattan , nell’esilarante sketch in cui
abbandona la tv, parlava di una popolazione il cui spirito critico era stato sistematicamente
guastato dal sovraddosaggio di onde gamma si rivolgeva chiaramente ai suoi
connazionali. Che, in effetti, ancora oggi passano (o passerebbero) 351 minuti in media al
giorno davanti al sacro totem televisivo.
I tricolori
Ma subito dopo ci sono (o ci sarebbero) gli italiani, campioni europei di teledipendenza con
i 260 minuti di media al giorno, tablet e smartphone esclusi beninteso. Una dieta a raggi
catodici per la mente. Ora visto che le rilevazioni avvengono anche negli altri Paesi con
sistemi del tutto simili a quello dell’Auditel italiano (in definitiva i grandi che si spartiscono
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questo mercato sono Nielsen, Gfk e Tns) c’è da domandarsi cosa ci renda diversi dagli
altri Paesi limitrofi. I tedeschi passano (o passerebbero) 210 minuti al giorno. E hanno
nella case del panel un meter del tutto simile a quello italiano anche se il contratto
dell’Auditel tedesco è in mano a Gfk. I francesi 216. Gli spagnoli 242. Da notare che gli
italiani non solo sono i più grandi «programmivori» in Europa ma avrebbero un’altra
anomalia: il consumo di tv negli ultimi anni è anche salito, nettamente in controtendenza
rispetto al resto del mondo dove il tempo passato davanti ai tablet e smartphone sarebbe
sottratto principalmente alla televisione di tipo tradizionale. Lo ha fatto notare anche Reed
Hastings, il fondatore di Netflix, in visita in Italia lo scorso 22 ottobre per il lancio della
piattaforma di film e programmi in streaming: la competizione è sul tempo visto che la
giornata rimane di 24 ore, la settimana di sette giorni, etc, etc.
La destinazione
Come dargli torto? Il problema è che nel frattempo le cose sono cambiate. Dove vanno
tutte le ore spese dai teenager (e anche oltre) davanti a Youtube? Se la tv rimane
sostanzialmente uguale, il contenuto tv si sta parcellizzando diventando per certi versi
polveroso. Nielsen ha già una tecnologia capace di monitorare ciò che succede a un
contenuto anche oltre 30 giorni dal suo lancio effettivo. Il vero tema è che questi dati non
stanno ricevendo la dovuta attenzione perché non riescono a sottoporci allo stesso fuoco
pubblicitario della fruizione tradizionale. Se questo è vero, ciò non toglie che questo
cambio di fruizione stia avvenendo e il fatto che le rilevazioni non se ne accorgano è
perlomeno sospetto.
Alcuni sociologi hanno anche tentato di dare delle spiegazioni sulla bizzarria italiana della
teledipendenza: la prima sarebbe da ricondurre allo storico ritardo della diffusione della
banda ultralarga fissa in Italia, soprattutto in determinate aree del Paese. Oltre metà della
popolazione non ha ancora un collegamento fisso sopra i 10 megabit al secondo di
velocità in casa. E, in effetti, in ufficio è più facile buttare un occhio a Facebook che
guardarsi un programma televisivo. Questa spiegazione di per sé fa acqua: se l’Italia ha
una banda larga fissa che è sotto gli occhi di tutti, è anche uno dei Paesi con la maggiore
penetrazione di smartphone e device che si collegano alla rete mobile. Dove oggi con il
4G i video sono fruibili senza grossi problemi.
Seconda spiegazione: l’alto livello di disoccupazione giovanile sta riportando anche i
giovani a buttarsi sul sofà davanti all’antico rettangolo. Sarà. Ma 4 ore e venti minuti al
giorno, tutti i giorni dell’anno, compresi week end, festività, giornate estive di sole per tutta
la popolazione dai 4 ai 99 anni, continua a sembrare un’esagerazione.
La speranza è che il cambio in corso d’opera all’Auditel — al netto del grave incidente che
dimostra come non ci sia una cultura della sicurezza dei dati del panel — venga usato
anche per aggiornare il più possibile le metodologie di rilevazione che sono le stesse
dell’anno di fondazione (1984). Così come non sono cambiati i vertici in questi 31 anni:
alla guida ci sono sempre Giulio Malgara e Walter Pancini.
Le tecnologie più moderne esistono già: come dei meter che rilevano automaticamente
quante persone sono sedute davanti allo schermo e quanto ci rimangono senza alzarsi per
lasciare, magari, la televisione accesa. Un’abitudine in molte case. D’altra parte non era
questo il messaggio che da sempre la televisione ha veicolato? La tv accesa è di
compagnia. Come un cagnolino che gira per l’appartamento.
Ma anche questo, ogni tanto, esce.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 02/11/15, pag. 26
C’è chi digitalizza il proprio patrimonio librario chi si trasforma in
museo chi organizza eventi chi fa accordi con Google Nell’era della crisi
del libro e della concorrenza della Rete ecco come cambiano le vecchie
biblioteche
Benvenuti nelle Biblio-tech
RAFFAELLA DE SANTIS
All’entrata della Boston Public Library c’è scritto “free to all”, aperta a tutti. La prima
biblioteca pubblica al mondo è fondata nel 1852 dal finanziere Joshua Bates con questo
intento: mettere i libri a disposizione di chiunque. Ma oggi, nell’era di Internet, che fine
fanno le biblioteche? Per sopravvivere cambiano pelle: alcune puntano sulla tecnologia,
altre si reinventano come musei, organizzano mostre e vanno a caccia di eventi da
proporre al pubblico.
I numeri non confortano. In Gran Bretagna negli ultimi dieci anni sono state chiuse 350
biblioteche e in Canada la biblioteca pubblica di Toronto è stata salvata in extremis grazie
a una campagna di mobilitazione caldeggiata da Margaret Atwood. Ovunque sono stati
tagliati i finanziamenti, è stato ridimensionato il personale e le ore di apertura al pubblico
sono diminuite. In Italia, secondo una ricerca fatta dal Centro per il Libro e dall’Istat, nel
2012 risultavano chiuse 224 biblioteche di pubblica lettura sulle 3.854 che avevano
risposto all’indagine ( su un totale di 6.890 censite) e nel 2013 88 (su un campione di
5.842). Il pericolo ha però messo in moto il cambiamento. Di fronte al rischio di sparizione
le biblioteche vogliono reinventarsi. E lo fanno in due direzioni: da una parte diventando
sempre più digitali, dall’altra trasformandosi in spazi espositivi, sale concerto, luoghi di
incontro e letture pubbliche. «La nostra idea è quella di presentare la biblioteca come
fosse un museo, sul modello di quanto già avviene alla British Library di Londra », dice
Andrea De Pasquale, direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma, nella quale
lavorano poco più di 200 persone e che conserva sette milioni di volumi. La biblioteca ha
da poco allestito uno spazio dedicato a Elsa Morante che ricostruisce lo studio di via
dell’Oca 27, quello affacciato su Piazza del Popolo, dove l’autrice de La Storia si rintanava
a scrivere (ci sono la sua scrivania, la sua macchina da scrivere, le sue carte) e sta per
aprire un piccolo museo dedicato a Pier Paolo Pasolini, che sarà inaugurato mercoledì
prossimo. Insomma, se la British Library mette in mostra gli autografi di Shakespeare
perché non farlo anche noi? A Milano, alla Biblioteca Braidense, c’è una sala dedicata a
Lalla Romano, grazie alle donazioni di manoscritti e mobili fatte dagli eredi.
Ma se da una parte si punta su incunaboli, autografi, carteggi, dall’altra si cerca di
sbarcare in rete. Le tre principali biblioteche statali italiane, Roma, Napoli e Firenze, hanno
aderito al progetto Google, che prevede la digitalizzazione entro il prossimo anno di
500mila volumi. «Mandiamo a digitalizzare cinquemila volumi ogni settimana», racconta
De Pasquale. La Biblio- tech italiana ha preso il via da un paio d’anni, ma già conta più
progetti. Accanto al trasferimento dei libri su Google (solo di quelli fuori dal diritto d’autore)
c’è il progetto “Magazzini Digitali”, una piattaforma online per conservare ebook e
materiale internet che non abbia un corrispettivo cartaceo. Il magazzino, dunque, non è
più un archivio polveroso, dove perdersi tra pile di documenti, è una nuvola che vive solo
sul web. I documenti (tutti nativi digitali) vengono custoditi in tre differenti server, di modo
che se un sito perde le informazioni, i dati continuano ad esistere negli altri due. Il
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problema con il digitale sono i costi di conservazione e di aggiornamento, molto più alti.
Giovanni Bergamin, responsabile dei servizi informatici della Biblioteca nazionale di
Firenze, spiega: «Bisogna investire soldi per evitare l’obsolescenza del software e
dell’hardware, ma il vantaggio è che grazie ad Internet aumenta l’accessibilità ai
documenti». Per consultare le collezioni digitali delle biblioteche è stata creata Media
Library Online, una rete a cui hanno aderito 4000 biblioteche pubbliche. “Free to all”, la
scritta all’entrata della Boston Public Library, potrebbe tranquillamente essere usata come
motto della rete. Da noi la digitalizzazione al momento si ferma alla seconda metà
dell’Ottocento, ma negli Stati Uniti sono stati digitalizzati tutti i libri non oltre il 2004, fino a
quando un contenzioso con gli editori ha costretto Google a fermarsi.
Ora che alle biblioteche arriveranno nuovi fondi dalla legge di Stabilità del Mibact,
bisognerà vedere come verranno redistribuiti i 45 milioni messi a disposizione (sono
previste anche cinquecento nuove assunzioni). Di certo alla Nazionale di Roma andranno
cinque milioni di euro (finanziamento raddoppiato rispetto al passato) e tre andranno a
quella di Firenze, in cui attualmente lavorano 157 persone e che conserva sei milioni e
700 mila volumi e 120mila periodici (oltre a quattro mila incunaboli, un milione di autografi
e 25mila manoscritti). Dice però Rossana Rummo, direttrice generale Biblioteche: «Sono
soprattutto le biblioteche di pubblica lettura a svolgere un ruolo importante di aggregazione
sociale, come la rete delle biblioteche romane che svolge un ruolo importante in zone
degradate della città ». A questo tipo di realtà di quartiere, si rivolge la campagna
“Libriamoci” promossa dal Centro per il Libro, che punta a incentivare la lettura tra i
ragazzi delle scuole anche attraverso iniziative nelle biblioteche comunali.
Tra i modelli di biblioteca del futuro a cui noi mediterranei guardiamo c’è l’Idea Store di
Londra, un posto in cui seguire corsi di ogni tipo: fotografia, scrittura, perfino cucina. Non a
caso qualcuno l’ha ribattezzate biblioteca Starbucks.
Alla nazionale di Napoli (che custodisce più di 1700 papiri preziosissimi ercolanesi, oltre a
19mila manoscritti, 4.563 incunaboli, un milione e 800mila volumi a stampa) si è appena
organizzata una mostra sul cibo. «Ci interessa raccontare la nostra storia, far conoscere la
nostra identità e il cibo fa parte della nostra cultura », spiega la direttrice Vera Valitutto.
Forse è qui il segreto delle biblioteche, nella loro capacità di adattamento ai tempi. In Italia
il processo è appena iniziato. Due anni fa John Palfrey, studioso americano esperto della
rete, pubblicava un libro intitolato proprio Bibliotech .
Sosteneva: «La biblioteca ha bisogno di un aggiornamento » e ne incoraggiava la
mutazione digitale. La biblioteca mutante ha preso forma, tra papiri e pagine web. Borges
sognava una biblioteca illimitata. Oggi quel sogno potrebbe avverarsi, ma sul web.
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SCUOLA. INFANZIA E GIOVANI
del 02/11/15, pag. 6
Al Sud atenei più «vuoti», borse di studio
senza fondi
Nessun intervento in manovra - Dal 2011 iscritti giù del 14%
Quando posa il proprio sguardo sull’università, la manovra che ha appena iniziato al
Senato il proprio cammino parlamentare lo fa per sbloccare gli scatti dei docenti, in linea
con il problematico “scongelamento” dei contratti per il resto del pubblico impiego, e per
lanciare il nuovo piano straordinario di reclutamento dei ricercatori con le parole d’ordine
ormai consuete di “merito” ed “eccellenza”. Nemmeno una parola, e quindi neanche un
euro, vengono però spesi per una voce che riguarda da vicino studenti e famiglie: il diritto
allo studio.
Con questo silenzio, a dire il vero, la legge di Stabilità non si discosta troppo dalle
manovre che l’hanno preceduta, ma questa volta il fatto che borse di studio e simili non
facciano nemmeno una comparsa nelle 88 pagine che compongono il testo spedito a
Palazzo Madama rischia di fare più rumore del solito. Per due ragioni: il sistema sta
provando con scarso successo a digerire le nuove regole dell’Isee, che fanno salire i
parametri di molte famiglie escludendole dal raggio d’azione delle borse di studio; il
ministero, che sul punto ha appena avviato un tavolo di confronto con le rappresentanze
degli studenti, aveva preparato un pacchetto di interventi per rinvigorire un po’ la dote del
welfare accademico. A inquietare chi si occupa di università è infatti un fenomeno che
negli ultimi anni si è gonfiato, e che con il rachitismo del diritto allo studio all’italiana è
strettamente collegato: si tratta del vero e proprio esodo di studenti dagli atenei del Sud,
che hanno registrato un crollo nelle immatricolazioni.
I numeri, tratti dall’anagrafe nazionale con cui il ministero registra ingressi e vita di ogni
studente universitario, parlano chiaro. Tra il 2011 e il 2015 l’università italiana ha perso nel
suo complesso il 6,8% di immatricolati, ma se al Nord la situazione è più o meno stabile (0,99%) e registra tendenze in qualche caso spiegabili anche con le dinamiche
demografiche, la flessione si concentra quasi integralmente nel Mezzogiorno, dove ha
raggiunto il -14,5%, con punte del -40% a Reggio Calabria, del -31% alla Parthenope di
Napoli e del -28,1% a Messina, mentre i primi segnali del nuovo anno accademico
sembrano in linea con le tendenze generali fin qui riscontrate. Tutti i confronti europei
confermano che l’Italia continua ad avere meno laureati rispetto ai Paesi “pari grado” della
Ue, e che il problema si intensifica a Sud in un circolo vizioso che alimenta i divari
strutturali di competitività.
Ma che cosa c’entra tutto questo con le borse di studio? C’entra parecchio, e per capirlo
bisogna dare uno sguardo ad altri due numeri, relativi al grado di copertura del diritto allo
studio. Il tema, con una scelta rivelatasi infelice, è stato affidato nel 2001 alle Regioni ed è
finito quindi nel vortice dei problemi di bilancio che spesso hanno finito per tagliare le
spese considerate dai governatori meno problematiche sul piano politico ed elettorale. In
questo panorama il diritto allo studio ha giocato un ruolo da cenerentola, generando il
fenomeno tutto italiano degli “idonei non beneficiari”.
In pratica, lo studente fa domanda per ottenere lo sconto parziale o totale delle tasse
d’iscrizione, l’ente per il diritto allo studio certifica che l’interessato ha tutte le carte in
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regola per ottenere l’aiuto ma poi non gli dà un euro perché i soldi non ci sono. La
geografia dei buchi del diritto allo studio - qui sta il punto - si sovrappone quasi
perfettamente a quella dei “deficit” più intensi nelle serie storiche sulle immatricolazioni.
Con l’eccezione della Basilicata, dove la copertura è totale, le falle sono enormi e vedono
in Sicilia la borsa di studio garantita solo al 32,3% degli studenti che ne avrebbero diritto,
mentre in Calabria si arriva al 42,1% e in Sardegna al 56 per cento. Al Nord la copertura
più o meno integrale è la regola, ma anche qui c’è l’eccezione rappresentata dal
Piemonte. Nasce da qui la media nazionale, che vede garantire la borsa di studio solo a
tre quarti degli studenti “idonei” e di fatto trasforma il “diritto” allo studio in un favore.
La morale della favola a questo punto è evidente. Il welfare accademico ha il fiato più corto
proprio dove se ne dovrebbe sentire di più il bisogno, perché i redditi medi delle famiglie
sono inferiori e la propensione agli studi universitari trova sulla propria strada più ostacoli
economici e sociali che altrove.
In un panorama come questo, non può che rafforzarsi la dinamica segnalata nell’ultimo
rapporto di AlmaLaurea, il consorzio di atenei che censisce i risultati accademici e
professionali dei laureati italiani: in molte regioni l’università rischia di essere una
prospettiva riservata ai benestanti, soprattutto per le famiglie che possono sobbarcarsi i
costi dell’emigrazione accademica del proprio figlio a Roma o al Nord, mentre «gli studenti
più capaci, ma meno mobili e residenti nei contesti sfavoriti» devono fare i conti con «il
peggioramento progressivo della qualità dei servizi», nell’attesa sempre più lunga di un
ascensore sociale che rischia di non passare mai.
Gianni Trovati
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