Di alcune ossessioni nell`opera di Franz Kafka

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Di alcune ossessioni nell`opera di Franz Kafka
Di alcune ossessioni nell’opera di Franz Kafka
La fenomenologia dell’immaginario
1. Franz Kafka è Psammenito
Walter Benjamin nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov1 riporta un
passo tratto dalle Storie di Erodoto in cui viene descritto l’imprigionamento del re egiziano
Psammenito. Come somma umiliazione Cambise, re di Persia, mostra al nemico sconfitto il corteo
dei sudditi ridotti in schiavitù; Psammenito vede passare dinnanzi ai suoi occhi prima la figlia in
catene e a seguire il primogenito maschio condotto a morte. Davanti a tale scempio il sovrano
decaduto rimane completamente impassibile e com’è noto, solo alla vista della miserabile
condizione di uno dei suoi servi « mostrò i segni del più profondo dolore ». Benjamin analizzando
il testo con grande acutezza e intelligenza critica ne mette in luce un lato inedito; non aggiunge una
ulteriore interpretazione personale all’enigmatico atteggiamento del re, ma sottolinea come sia
proprio l’enigmaticità, la libera interpretazione dell’opera a rendere questo breve racconto di
Erodoto un esempio assoluto dell’arte della narrazione, poiché « somiglia ai chicchi di grano che
sono rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato
fino ad oggi la loro forza germinativa ». In questo senso possiamo dire che ogni personaggio
kafkiano sia “ psammeniteo ”, privando di fatto il lettore di una certa interpretazione. Ed è proprio
questa la chiave di volta che rende l’opera di Kafka inesauribile, capace di mantenere
ininterrottamente un continuo lavoro di stimolazione del pensiero, portando il ragionamento ad
elevarsi verticalmente da quello che potremmo definire il grado zero della realtà, sino ad una
infinita metafisica. Franco Fortini ha parlato per Kafka di « commento perpetuo » in quanto:
La sua opera è l’unica, nel mondo moderno, ad avere dichiaratamente per oggetto il symbolon, la pietruzza segnata da
una cifra convenzionale, di cui discorre anche l’Apocalisse. Avere come oggetto il simbolo, cioè affermare un mondo
nel quale ogni cosa e parola, ogni sentimento ed ogni ragione sono segno, sintomo e spia di altro, e dove tutto si
trasforma irrimediabilmente, significa davvero scrivere sull’acqua e quindi accettare ( come dicevo prima ) una infinita
glossa, una infinita serie di traduzioni; è porsi deliberatamente fuori del linguaggio poetico. 2
Se consideriamo poi la travagliata vicenda biografica di Kafka (per il quale possiamo parlare di un
reiterato tentativo di suicidio letterario) allora risulta piuttosto evidente che non sia realmente
1
2
Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, p. 247
Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose. Dal volume Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965
possibile interpretare la sua opera, ma forse soltanto rifletterla e tentare di filtrare la realtà
contingente attraverso le alte vette di pensiero, gli universali, raggiunti dallo scrittore praghese.
La strada migliore potrebbe essere quella di una vera e propria riflessione in fieri, che metta in fila e
comprenda l’infinità di letture possibili. E, in ogni caso, come potrebbe essere legittimo e coerente
un pensiero compiuto su di un’opera per la maggior parte frammentaria e inconclusa?
E non ci riferiamo all’incompiutezza esteriore, redazionale, d’auto-sabotaggio dell’autore; ma bensì
a quella interiore, ontologica. Anche qualora ogni opera di Kafka portasse inscritto al termine la
parola “ fine”, magari sotto espressa e decisa volontà dell’autore, non sarebbe possibile arrivare ad
una critica certa e compiuta. Il fatto che vi sia un’effettiva incompiutezza nella maggior parte della
sua produzione è un dato per certi versi secondario, per non dire dannoso: ha infatti portato a
spendere molte parole sul perché di tale scelta, passando quasi in secondo piano un’altra questione,
quella del contenuto tout court. In questo senso Kafka sembra spingersi ancora più in là di quanto
abbia fatto Erodoto: se lo scrittore greco narra una semplice successione di eventi dalla quale
sgorgano infinite riflessioni sugli universali, in Kafka quegli universali sono già presenti nell’opera,
semplicemente muti ( in quanto sempre ontologicamente impossibilitati al compimento ) sino
all’arrivo della voce concessa dall’esercizio del pensiero. In Kafka nulla viene dato semplicemente,
non esiste un impianto cronachistico, una successione logica degli eventi, una storia basata sulla
concatenazione causa – effetto. Sembra sempre trattarsi di una ferita; il mondo esterno, contingente,
reale, penetra in quello interiore, lacerandolo. Il mondo è un’affezione (nel senso latino del termine)
ed entrando in contatto con l’anima crea un groviglio difficilmente districabile.
Come comportarsi dunque? Se interpretare significa spesso castrare le molteplici chiavi di lettura
del testo, e altrettanto tracciare i confini fra spazio interiore e spazio reale, tra simbolo e allegoria?
Forse partendo da una considerazione: l’universo kafkiano è incerto, ambiguo, inafferrabile, ma
ricorrente. L’unico ordine che possiamo trovare al mondo di Kafka è l’ossessiva ripetitività di
alcuni nuclei tematici, che ricompaiono, immutati nella sostanza, dai racconti giovanili sino alle
opere più tarde. L’incidenza continua ha inevitabilmente un suo significato profondo, per due
ragioni fondamentali: in primo luogo ciò che sempre ritorna al pensiero è indubbiamente ben
radicato nell’essere umano, sino a divenirne una delle componenti fondanti; in seconda istanza, è
proprio nella “giacenza interiore” più profonda dell’Io che troviamo mescolati ai temi privati quelli
dell’inconscio collettivo dal quale, in larga parte, i primi derivano. Questa “mole” per Cesare Segre3
rappresenta persino il principale movente dalla scrittura in genere: « Motivi archetipi, motivi
tradizionali e motivi dell’esperienza comune (che in ogni modo risalgono a schemi di
rappresentabilità) costituiscono moduli con cui si costruisce qualunque struttura narrativa ».
3
Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino, 2006, p.102
Nel nostro caso specifico, ritrovare e percorrere questi nuclei significa di fatto arrivare agli
archetipi del pensiero dello scrittore praghese, privandoli di un’alta percentuale di menzogna
interpretativa. Il principio è molto semplice, per quanto non lo sia la sua analisi: se certi snodi
tematici ritornano sempre hanno un loro valore, sono importanti per chi ne ha scritto, e pertanto
rappresentano un buon punto di partenza per mettere ordine in un universo, quella kafkiano, dove
gli stadi delle metafisica sembrano poter procedere all’infinito.
Sulla base di queste considerazioni si prenderanno qui in esame principalmente i Racconti e la
Lettera al padre, tentando di mettere in luce come né lo scorrere del tempo (con il conseguente
svolgimento e la maturazione del processo poetico ed esistenziale dello scrittore ), né le vicende
storico - sociali abbiano mutato quelli che qui chiameremo archetipi, ovvero gli snodi principali,
fissati in maggiore profondità, i quali proprio in virtù del loro status ritornano costantemente negli
scritti di Kafka, e ne compongono per molti versi la cifra fondante. Se è vera la dicitura pasoliniana4
secondo cui uno scrittore scrive sempre lo stesso libro, è proprio nell’ossessività dei temi, nelle
ricerche stilistiche che si ripetono di volta in volta che dobbiamo ritrovare l’ archetipo poetico di un
autore, la verità e i principi fondanti della sua opera.
4
P. Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999
2 . A perdifiato: una corsa senza gambe e senza voce
Kafka è uno scrittore ossessionato, per questo in lui ricorrono così ripetitivamente le stesse
tematiche. Uno dei contenuti forse più ricorrenti è l’idea dell’inadeguatezza, dell’impossibilità per
lo scrittore ( e per i suoi personaggi ) di affrontare serenamente un qualsiasi contesto esistenziale,
dalla vita associata alla solitudine. È un vero e proprio topos che segna moventi, azioni, e stati
d’animo in quasi tutti i suoi scritti; ricorrente quanto questo tema vi è solo la sua stessa
fenomenologia. L’esteriorizzazione dei fondali dell’Io è uno dei punti di più alta originalità della
scrittura di Kafka, in cui i sentimenti ( e soprattutto le paure, angosce, sottomissioni ) prendono
forma di oggetti, animali, esseri fantastici: se nella sua scrittura tutto è analizzato sotto la lente
indagatrice dell’interiorità, ecco che questo fondale viene portato alla luce del sole, per rendersi
( almeno in parte ) intellegibile o semplicemente per aumentare la sua gravità attraverso apparizioni
che aggiungono al dolore una forma materica. Dare ai sentimenti un valore visivo, fisico, pubblico,
significa soprattutto perdere la possibilità di rinnegarli, nasconderli e per il soggetto paziente, di
mentire, auto –ingannarsi. L’ostensione è un tentativo di chiarezza personale prima ancora che una
strategia di scrittura; nella sua affannata ricerca della verità, vedere, prendere atto esteticamente e
fisicamente di qualcosa prima tutto avvoltolato in sé, sembra essere un supporto indispensabile.
Tante sono le immagini esteriorizzanti nella scrittura di Kafka, ma forse quella che meglio
esemplifica questo totalizzante senso d’inadeguatezza e d’impotenza è la difficoltà nel percorrere
una strada; talvolta le gambe sono affaticate, o altrimenti i percorsi ( come nella migliore tradizione
favolistica ) irti d’ostacoli. È un mezzo stilistico presente sin dai primissimi racconti, già in
Descrizione di una battaglia il protagonista cade, inciampa, fatica a tenersi al passo con il proprio
conoscente; del 1907 è Preparativi di nozze in campagna e anche qui il personaggio principale,
Raban, è più volte impossibilitato a muoversi agilmente. Uno dei testi più intensi ed enigmatici
resta però Un medico di campagna, racconto scritto tra il ’16 e il ’17 che da il titolo all’intera
raccolta. Come sempre avviene in questi moduli letterari, il protagonista è messo davanti ad una
prova: in quanto medico, è chiamato a curare un malato grave. Kafka semina l’inadeguatezza già
nella frase d’apertura del racconto « ero in grande imbarazzo», dice il protagonista. Verrebbe da
chiedersi come sia possibile, è tutto perfettamente decente ( nel senso latino del termine, di qualcosa
che “ si addice ” a qualcuno ) e l’uomo è semplicemente chiamato a svolgere la sua professione.
Ma nelle prime battute subito si affaccia la fenomenologia della propria incapacità: « me ne stavo
già nel cortile pronto per la partenza; il cavallo però mancava, proprio il cavallo»; veniamo inoltre a
sapere che quello di proprietà del medico era morto la notte prima, esausto per le fatiche
dell’inverno. In un certo senso la parabola del protagonista può già dirsi compiuta, non possedendo
un mezzo di trasporto all’alba di un viaggio possiamo già bene immaginare quale sarà il suo
destino. Vi è poi l’incontro con un misterioso stalliere, pronto a prestare i suoi cavalli che
inevitabilmente sono forti, pronti, « alti sulle gambe, e dai loro corpi si sprigionava un denso
vapore »; se, come abbiamo detto in apertura di questo saggio, nel caotico mondo di Kafka è
possibile ritrovare un ordine sulla scorta degli archetipi, allora ecco che certamente ritroviamo gli
stessi attributi degli animali nel loro proprietario, lo stalliere che tenta di assediare la domestica del
medico. Il protagonista parte, seppur angosciato dall’ineluttabile destino che spetta alla ragazza, e
riesce a giungere alla casa del malato. L’arrivo, come lo era stata la partenza, è segnato da alcuni
deficit ( « dai loro discorsi sconnessi non riesco a capire niente » ) e l’incomprensione della parola
in Kafka non è altro che un’alternativa al non potersi muovere, il non riuscire ad andare verso le
cose della vita, né con i dialoghi, né con le gambe. Assistiamo poi letteralmente ad una serie di
peripezie, un vero e proprio circuito delle sofferenze e delle umiliazioni; il malato ha un grande
ferita sul fianco destro, ma il medico non riesce ad accorgersene che in un secondo momento, nella
casa un coro di persone intona una canzoncina che invita a sopprimerlo ( « Spogliatelo, e sanerà /
Se non lo fa, ammazzatelo! / Non è che un medico » ). Nel frattempo, per tutto il racconto i cavalli
lo attendono fuori, descritti come scalpitanti, frementi, ansiosi, efficacemente agenti alla vita,
divenendo a loro volta mimesi della figura dello stalliere, che certamente nel frattempo sta
insediando Rosa. Climax assoluto del racconto, il medico viene messo nel letto con il malato che gli
rivolge queste terribili parole: « la mia fiducia in te è molto scarsa. Invece di soccorrermi mi togli
un po’ di spazio perfino nel mio letto di morte ». In tale definitiva espressione ritroviamo un altro
archetipo della scrittura di Kafka, quello della vittima che viene improvvisamente trattata come un
aguzzino, anche in questo caso metafisica dell’uomo che si auto- concepisce come colpevole e
accusatore di se stesso, la cui parabola più efficace sarà quella del Processo, in cui il signor K.
porta
già
fatalmente
segnato
nel
nome
il
suo
compito
di
auto
-
Kalumniator5.
Il medico non ha curato il paziente, ma non riesce neppure a salvare Rosa; le redini sono allentate,
la carrozza si trascina a fatica, i cavalli per tutto il tempo attivi e frenetici, al momento del ritorno si
muovono « lentamente, come dei vecchi ». La parabola del protagonista si è così totalmente
compiuta.
A conferma di quanto la difficoltà motoria (sia interna, ovvero delle proprie gambe, che esterna,
degli ostacoli lungo la via o dell’inefficacia dei mezzi di trasporto) sia a tutti gli effetti un archetipo
in Kafka ( ed anche uno dei più suggestivi ) riportiamo qui di seguito un estratto dai Diari, in cui
l’autore racconta di un sogno fatto qualche giorno prima:
5
G. Agamben, K., in Nudità, Nottetempo, Roma, 2009, p. 33
Sogno di poco tempo fa: Con mio padre viaggiavo in tranvai attraverso Berlino. L’aspetto di metropoli era data da
innumerevoli barriere regolarmente ritte, dipinte a due colori, smussate e lisciate a uno dei capi. Tutto il resto era quasi
deserto, ma la folla di quelle barriere era grande. Arrivammo davanti a una porta, scendemmo senza accorgercene,
passammo da quella porta. Dietro a questa sorgeva una parete verticale sulla quale mio padre s’arrampicò quasi
danzando, le sue gambe volavano, tanto si sentiva leggero. C’era sicuramente anche una certa mancanza di riguardo nel
fatto che non veniva in mio aiuto, poiché io vi salii con estrema fatica, usando mani e piedi, sdrucciolando più volte,
come se per me la parete fosse diventata più ripida. Era penoso inoltre che fosse ricoperta di feci umane, di modo che
ne ero impiastricciato, specialmente sul petto. ( Diario del 6 Maggio 1912 )
Se nella scrittura ricerchiamo gli archetipi, alla base di essa vi sono proprio i sogni e Kafka
«sognava anche come scriveva e una sorta di nodo letterario legava la realtà quotidiana e
l’immaginario onirico6 ».
Tuttavia, paradossalmente, non è l’impossibilità all’ actio la manifestazione più alta e tragica
dell’inadeguatezza, ma il flatus vocis. La parola assume in Kafka un forte valore di
assoggettamento, così come la sua privazione, il silenzio; spesso i personaggi- aguzzini si
comportano come in un eterno processo e i loro discorsi sono molto vicini alla semantica della
condanna. Parallelamente a quanto accade negli stati d’animo, anche le parole assumono una loro
forma materica ( seppur solo allusiva, non effettiva ). Questa modalità è perfettamente esemplificata
nel celebre Das Urteil in cui la semplice domanda del padre « hai davvero questo amico a
Pietroburgo? » è sufficiente a mettere in discussione un’intera realtà presentata sino a quel momento
come certa, già accaduta. Non molto diversa è la situazione in Der Prozess, in cui la mera accusa
verbale è bastevole a K. per sentirsi colpevole; qualsiasi prova contraria ( il non sapere quale sia
l’effettivo crimine, i processi consumati nelle soffitte ) non ha alcun potere dinnanzi alle parole
pronunciate dalla guardia. In Kafka il sistema verbale può annientare ogni dato di realtà; nel
brevissimo frammento Il timoniere ( 1920) uno sconosciuto è perfettamente in grado di negare al
protagonista il proprio lavoro ( « non sono forse un timoniere? » esclamai. « Tu? » domandò un
uomo scuro), e a nulla varrà rivendicare il compito svolto sino a qualche attimo prima; chiamati gli
altri membri dell’equipaggio a testimoni, come in una congiura, « avevano occhi soltanto per il
forestiero ».
L’impossibilità di tranquilli scambi di idee ebbe un’altra conseguenza: io disimparai a parlare.
Sin dal principio
mi vietasti la parola; la Tua minaccia « non una sillaba di protesta! » e la mano alzata m’accompagnano da anni e anni.
Davanti a Te
io mi mettevo a parlare con impuntature e balbettii, ma per Te era ancora troppo; alla fine tacevo,
prima forse per orgoglio, poi perché al tuo cospetto non riuscivo né a pensare né a parlare 7.
6
7
F. Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio, Napoli, 2009, p.11
F. Kafka, Lettera al padre, Mondadori, Milano, 2009, p. 13-14
3 . L’alter – ego, l’altro e l’al di là
Nei testi di Kafka il rapporto con l’ altro è sempre contraddistinto da una profonda inquietudine e
da un senso di minaccia; inutile ogni tentativo di parità, i rapporti sono sempre svolti sotto la logica
della subordinazione. La persona esterna, qualsiasi essa sia e qualunque sia il suo ruolo nella
narrazione, ripete e riporta in auge la figura del padre. Kafka di questo è perfettamente consapevole,
nella Lettera al padre più volte parla della costante sensazione di inferiorità davanti al genitore:
« Già in cabina facevo compassione a me stesso, e non soltanto di fronte a Te ma di fronte a tutti
perché Tu eri per me la misura di tutte le cose ». Il mancato riconoscimento del figlio come degno
erede, ha definitivamente spinto lo scrittore praghese a sentirsi indegno davanti al mondo intero.
Sull’argomento è stato scritto molto, e in questa sede sarebbe impossibile aggiungere qualcosa di
significativo; vorremmo pertanto concentrarci sulle tracce che tale rapporto ha lasciato nella
scrittura di Kafka e nei modelli letterari utilizzati. L’estraneità è concepita in diversi gradi, ed ogni
scoglio di maggiore lontananza è mimesi di quello precedente; in alcune situazioni l’Io scopre
l’intruso in se stesso, in altre nella figura di un conoscente ( rievocazione, appunto, della propria e
privata estraneità interiore ), nel caso estremo l’estraneo è persino al di là della realtà stessa,
manifestandosi nella presenza di un animale antropomorfo o di un oggetto fantastico.
Paradossalmente in Kafka si ha l’impressione che più l’estraneo sia diversamente figurato, più
appartenga alle modalità della vita intima del soggetto: il caso per eccellenza è rappresentato
proprio dalla Verwandlung, in cui Gregorio Samsa ha realmente dato forma alla propria interiorità
con ciò che esternamente, figuratamente, ne è più lontano. Vale anche il principio contrario: in
Kafka la vicinanza estetica o morale fra personaggi diversi ha un suo valore specifico, foriero di
grandi inquietudini, « l’uguaglianza, o l’intrigante somiglianza di più cose o persone, è uno dei
motivi più tenaci di Kafka; creature larvali di ogni genere compaiono a coppie
. Tanto difficile è
diventata per gli uomini l’individuazione e tanto incerta è rimasta fino ad oggi, che essi si
spaventano mortalmente quando il velo che la copre viene sollevato anche solo di poco 8». In
questo senso, uno dei testi più significativi è forse Il vicino, breve racconto del ’17, tratto dalla
raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese. La situazione è piuttosto tipica: uno
sconosciuto, di nome Harras, ha preso in affitto l’appartamento accanto a quello del personaggio
principale, voce narrante del racconto. Kafka, anche in questo caso, è magistrale nel descrivere in
pochissimi accenni il senso di inquietudine che pervade il protagonista nell’apprendere di avere un
nuovo vicino; nelle prime righe egli accenna infatti al proprio lavoro, definendolo « facile da
8
T. Adorno, Appunti su Kafka, in Prismi, Einaudi, Torino, 1981, p. 259
sorvegliare » ( già questa semplice frase meriterebbe attenzione: oltre a tradire perfettamente il
costante bisogno di difesa, anticipa i temi che occuperanno uno dei racconti più inquietanti di
Kafka, La tana, scritto tra il ’23 e il ’24 ); questa prima considerazione dunque porta già in sé il
senso della futura violazione, nonostante non sia ancora stata consumata. Poche righe più avanti si
definisce « maldestro » per non aver pensato lui stesso a prendere in affitto l’appartamento rimasto
vuoto che, scrive « mi sono lasciato portar via ». Sin dall’inizio un evento apparentemente semplice
e ordinario assume i contorni di un sopruso, di qualcosa che è stato giocoforza sottratto al legittimo
proprietario. Poco più avanti ( facciamo notare che il racconto ha la lunghezza di due sole pagine )
la frase di svolta: « mi hanno detto che ha un’azienda simile alla mia »; queste parole riassumono
perfettamente le osservazioni di Adorno sopra riportate: in Kafka, ciò che ai personaggi appare
prossimo a se stessi viene visto immediatamente come una minaccia, in primo luogo verso la
propria unicità, in seconda istanza verso il possibile ratto che tale individuo potrebbe effettuare del
loro stesso mondo. Avere qualcuno simile a noi significa riecheggiare un’idea di se stessi ( e l’Io, in
Kafka, come ben sappiamo si disprezza ); l’altro assume così la funzione prima di uno specchio e
subito dopo di un usurpatore. Il telefono del protagonista, posto accanto al muro che divide le due
abitazioni, diviene effettivamente ( ma soprattutto metaforicamente ) il mezzo che consente all’
altro di prendere il controllo della nostra vita, ascoltare le nostre telefonate, violare i nostri segreti
o, svolgendo la stessa professione, compromettere il nostro lavoro. Un altro elemento di assoluta
straordinarietà in questo racconto è la percezione di sé come fatalmente vittima; il problema
dell’intrusione è infatti di per sé irrisorio: basterebbe semplicemente spostare il telefono in un altro
punto dell’appartamento ma, dice il protagonista « non posso fare a meno di rivelare i miei segreti».
In questa frase è racchiusa una delle tematiche – cardine di tutta l’opera kafkiana, l’inevitabilità
della persecuzione; perseguitati dal proprio padre, l’unico destino che ci sembra possibile è quello
di essere in una condizione di assedio costante. Alla fine del racconto, per quanto indirettamente,
avviene il processo di assimilazione, l’altro passa in un certo senso dal grado di simile a quello di
sosia: « Harras non ha bisogno del telefono, si serve del mio »; in queste ultime parole, seppur in un
piano strettamente metafisico ( ma è proprio questo per Kafka il piano della realtà ) il vicino invade
a tal punto la vita del protagonista da non aver bisogno di possedere propri oggetti d’uso quotidiano
o lavorativo, grazie al suo rapporto di contiguità gli sono sufficienti quelli dell’altro.
L’affermazione di Bohumil Hrabal secondo la quale « le cose migliori di un libro vanno al di là dal
libro stesso9 » trova piena applicazione nelle opere di Kafka; la sua scrittura lascia solo tracce, è arte
dell’allusione, e solo il lettore potrà rileggere infinite volte e trovare in ogni occasione una
significazione ulteriore. In questo senso è straordinario ( e lo vedremo meglio più avanti ) il
9
B. Hrabal, Alcune parole, MicroMega, Roma , 1990
compito che viene affidato agli oggetti, forieri di contraddizioni e inquietudini; il telefono serve al
protagonista per comunicare con il mondo esterno, ma improvvisamente si trasforma nel trait
d’union che lo costringe ad entrare in contatto con il proprio vicino; l’apparecchio da strumento
utile al lavoro diviene mezzo per la rivelazione dei propri segreti sino a trasformare Harras in un
nemico giurato. Abbiamo parlato precedentemente del senso di inadeguatezza in Kafka, che spesso
nei sogni e nell’immaginario letterario si traduce nell’impossibilità fisica di camminare, negli
ostacoli lungo la via; anche in questo breve racconto, in chiusura, il protagonista immagina il
proprio vicino “ scivolare ” ( proprio nel senso di camminare con facilità e leggerezza ) per le vie
della città, in una netta e incontrovertibile opposizione al tipico anti – eroe kafkiano che cade,
inciampa, e fatica a reggersi in piedi.
Un altro racconto in cui allusione, somiglianza e alter – ego costituiscono i temi principali è
Blumfeld, uno scapolo anzianotto, racconto del ’15, appartenente anch’esso alla raccolta Durante la
costruzione della muraglia cinese. Il testo è significativo innanzitutto perché sembra racchiudere
perfettamente la silloge dei tre stadi di estraneità sopra citati; l’ altro è dentro il protagonista stesso,
e ha la sua fenomenologia sia nelle persone attorno a lui che in due oggetti fantastici. L’anziano
scapolo, rientrato a casa dopo una consueta giornata di lavoro, è pronto a racchiudersi nelle sua
perfetta solitudine scandita da consolidate abitudini ma improvvisamente sente dei rumori inusuali e
vede sul pavimento di casa due palle di celluloide che saltellano senza sosta. In questo racconto
l’elemento fantastico ha una evidente funzione epifanica, che mima e traspone nell’ effettività
estetica i sentimenti del protagonista. Blumfeld è totalmente incapace di imporsi, la sua voce rimane
inascoltata, e nemmeno la gerarchia lavorativa gli consente alcun potere decisionale su quelli che a
tutti gli effetti dovrebbero essere suoi subordinati. Ed è in modo originalissimo e stilisticamente
perfetto che Kafka ci consegna un dramma di tutti i giorni, consumato ( come sempre nei suoi testi )
fra le pareti domestiche, anch’esse mimo delle stanze interiori. La struttura dell’opera potrebbe
essere paragonata all’ Amleto shakespeariano; anche qui la verità viene affidata ad un teatro, ad una
recitazione che sia più reale della realtà stessa: le sfere di celluloide sono così il segno, il simbolo e
il rimando alla sostanza di tutto il racconto, alla sudditanza di Blumfeld. Se Claudio deve lasciare il
teatro perché non sopporta la mimesi del suo stesso omicidio, così l’anziano scapolo deve disfarsi in
tutti i modi di ciò che lo pone a diretto contatto con la realtà. Kafka ci descrive un mondo in cui non
sono i fatti ad essere protagonisti, ma le affezioni che causano sullo spirito, non gli eventi, ma le
idee che tali eventi ci suggeriscono. L’anziano scapolo assume due atteggiamenti diametralmente
opposti, nella propria casa tenta (seppur inutilmente) una rivalsa, un’imposizione, la fine del
tormento; in ufficio invece è totalmente incapace di dire alcunché, gli apprendisti sono lasciati in un
regime di massima libertà e autarchia. Perché una tale reazione? Perché si accosta a due
atteggiamenti speculari in modo così diverso? La risposta probabilmente possiamo trovarla nella
Lettera al padre : « Da quando ho l’uso della ragione tanto mi tormenta il problema della
sopravvivenza spirituale, che tutto il resto m’è indifferente ». Non è necessario sottolineare che per
Kafka la vita interiore sia l’unica reale; si possono sopportare due apprendisti insubordinati perché
appartengono alla vita quotidiana, amministrativa, burocratica, ma non si possono accettare quei
due stessi individui sotto forma di sfere nella realtà domestica ( che è l’ultimo stadio di mimesi
prima della pura vita interiore ). Anche qui del resto si consuma perfettamente l’inquietudine della
contiguità, seppur diversamente dalle modalità del racconto Il vicino; la somiglianza si riscontra più
sottilmente nei gesti, nei comportamenti: le sfere si scansano, vivono una loro autonomia, incuranti
del resto. E prima ancora di avere una qualche notizia sulla vita lavorativa di Blumfeld, con una
perfetta tecnica dell’anticipazione Kafka descrive le due palle come « compagne subordinate »,
siglando così uno dei più alti momenti di coincidenza fra ossessioni private e realtà effettiva di tutto
il racconto. Potremmo arrivare a dire che tutto ciò che circonda l’anziano scapolo non sia un dato di
realtà a sé stante ma, pur mantenendo un residuo di vita autonoma, è sostanzialmente
un’emanazione dell’interiorità del protagonista. Le cose esistono non in quanto tali, ma nel ruolo di
ossessioni, fantasmi dell’Io; la cifra fondante di essi non è la loro stessa essenza, ma l’inquietudine
che vi versa sopra Blumfeld. I due apprendisti non devono essere giocoforza così, ma ci vengono
restituiti per come sono vissuti dall’ immaginario del protagonista; per questo Kafka è lo scrittore
della metafisica per eccellenza: tutto in lui è interiorizzato, e i pochi dati di realtà che troviamo
vengono filtrati (e per questo completamente stravolti o perlomeno capovolti ) attraverso l’ idea che
ha di essi. Come in una commedia greca degli equivoci, in cui gli dèi intervengono sempre a
trasformare gli uomini, così l’oppressione di Blumfeld appare sotto forma di sfere, di un bambino,
della domestica, del superiore, degli apprendisti, del fattorino, in un continuo gioco che passa dalla
mimesi alla metamorfosi, dagli eventi reali a quelli immaginari, per approdare in fondo all’idea che
nessuna realtà sia davvero importante se non quella interiore:
Dalla trasformazione dell’ al – di – qua – non posseduto e non possedibile in un nuovo ed ancora meno possedibile al –
di – là nasce l’arte di Kafka. Tutte le cose di questo mondo sono per Kafka cose dell’ « altro » mondo: non solo e non
tanto le cose orribili, quanto quelle naturali, quotidiane, banali. Si dice spesso che la vera angoscia non è generata da
singole cose o singoli eventi, ma da un senso del nulla che si rivela dappertutto, in ogni cosa. È il caso di Kafka. Chi
vive veramente nella realtà, trova angoscianti le cose che violano o sembrano violare la legge della realtà; chi vive fuori
della realtà, trova angosciante la realtà intera, e la trova tanto più angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce
alla propria legge, quanto più essa è normale10.
10
L. Mittner, Kafka senza kafkismi, tratto da La letteratura tedesca del Novecento, Einaudi, Torino, 1960
4. L’estrema reificazione dell’emotività
L’uso personalissimo del simbolo nell’opera di Kafka costituisce una delle maggiori difficoltà alla
sua interpretazione: le narrazioni sono continuamente costellate da rimandi ad un altrove
difficilmente identificabile, intrecciato a temi biblici, privati, inconsci. Ma nell’altissimo universo
immaginario dello scrittore praghese vi sono anche le più “accessibili” metafore, che costituiscono
indubbiamente un vicinanza maggiore al nudo dato di realtà rispetto all’apparato simbolico.
In ogni caso è difficile darne una chiara definizione, nello stile di Kafka persino le figure retoriche
debordano dalla loro funzione ordinaria, ed è proprio per questo che vorremmo qui prendere in
esame l’uso di una sorta di metafora che si “ reifica”, non legandosi a dati astratti ma ad oggetti
concreti. Potremmo ( con qualche cautela) parlare di un uso, seppur per tanti versi non canonico, del
correlativo oggettivo. Come ben sappiamo le definizione che ne diede Eliot nel 1919 fu quella di
« una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di
un'emozione particolare11 » ; l’idea che la mimesi , da parte di un oggetto, di una determinata
condizione dell’animo umano sia un efficace mezzo di espressione. Ma prendiamo alcuni esempi: in
Descrizione di una battaglia (che, come sappiamo, è il primo dei racconti giovanili di Kafka)
appena il protagonista dice « Io », per descrivere la sua condizione aggiunge « ero seduto a un
tavolino che aveva tre gambe sottili ». Tutta la prima parte del racconto (escludiamo qui l’analisi
della II, Divertimenti, e della III parte) è incentrata sul tipico personaggio kafkiano malato
d’inadeguatezza; l’incontro con un estraneo, inizialmente desideroso di confidarsi, si trasforma
rapidamente in una lunga serie di sensazioni di impotenza, estraneità, inaccettabilità. Ma ciò che, da
questo punto di vista, risulta più interessante è la ricorrenza costante del tema dell’impossibilità
delle estremità del corpo di sostenere, fisicamente e moralmente, il protagonista. Ovviamente, in
forte opposizione, quelle dell’estraneo – aggressore sono invece forti, costanti, persino minacciose
( all’inizio del racconto il protagonista dice: « puntò all’indietro i gomiti aguzzi » ).
Proseguendo nella lettura troviamo il protagonista descrivere la passeggiata con l’altro uomo in
questi termini: « non capivo come mai non mi riuscisse di tenere il passo con il mio conoscente »; e
poi, di nuovo « Io trovai un albero per appoggiarmi ». Con la capacità di Kafka di riportare
minuziosamente tutte le stazioni dell’angoscia, il lettore si ritrova avvolto in un climax che passa
dalla semplice mancanza di forza o velocità negli arti all’incapacità di mantenersi in piedi: « davanti
a una porticina della chiesa del Seminario caddi per terra perché c’era un gradino che non mi
aspettavo » ; più avanti, « Tentai di alzarmi, ma caddi un’altra volta ». Quando, dopo alcuni minuti
11
T.S.Eliot, Il bosco sacro: saggi sulla poesia e la critica, a cura di Luciano Anceschi, trad. di Vittorio Di Giuro e A.
Obertello, Bompiani, Milano, 1967
passati a terra nell’indifferenza del conoscente il protagonista riesce finalmente a rialzarsi dice: «
Barcollai e per essere sicuro dell’equilibrio dovetti guardare fisso il monumento di Carlo IV ». Poi,
come sappiamo, cadrà di nuovo.
Se proseguiamo sulla strada tracciata fin dall’inizio, ovvero basandoci sulla convinzione che ciò che
ritorna ossessivamente nella scrittura di Kafka debba essere considerato il punto di partenza
privilegiato per la comprensione della sua opera, allora non possiamo non sottolineare l’importanza
di quel « tavolino » che, sin dall’inizio, ci indica apertamente dove convergeranno tutte le debolezze
del protagonista. Ed è effettivamente straordinario, da un punto di vista strettamente stilistico, come
l’ Io si identifichi subito nelle gambe sottili del mobile, gambe che in rapida sequenza passeranno
dal legno del tavolo alle ossa del protagonista, mantenendo intatto il valore simbolico che rimanda
alla fragilità umana. Un altro esempio interessante si può rintracciare nei frammenti del romanzo
Preparativi di nozze in campagna, sempre risalente al 1909; qui Raban, il protagonista, da subito
connotato dal perenne senso di non – appartenenza al mondo che lo circonda e dal doppio legame
che instaura con le persone che incontra, durante un viaggio in treno ha l’impressione che « fuori
del finestrino, le lunghe sbarre del parapetto di un ponte venissero violentemente disgiunte e quindi
schiacciate l’una sull’altra ». Se leghiamo quest’immagine a quella che ha di se stesso come un
« grosso coleottero » ( e non ci dilunghiamo sulle evidenti premesse della Metamorfosi che qui
ritroviamo), ecco che improvvisamente, nel frastagliato e imprendibile universo kafkiano,
ritroviamo un po’ di ordine. L’uso del correlativo oggettivo ha una valenza diametralmente opposta
a quella del simbolo: se quest’ ultimo infittisce le interpretazioni, sovrapponendole, il primo dipana,
chiarifica, mette in fila. Non possiamo non citare un’immagine bellissima ( icastica, nella sua
durezza ) tratta da uno dei più celebri e significativi testi di Kafka, Das Urteil; se da un lato il tema
dell’autorità paterna si svolge per tutto il tempo della narrazione, dall’altro è racchiuso in
pochissime righe : « Giorgio notò con stupore come fosse oscura la camera del padre, anche in quel
mattino soleggiato. Il muro alto che si levava al di là dello stretto cortile, gettava dunque tanta
ombra! ». Inutile sottolineare la rievocazione del rapporto padre – figlio in quell’ alto muro che
oscura uno spazio angusto. Gli oggetti sono qui in perfetta correlazione con il legame emotivo dei
protagonisti. Nell’ultimo caso che portiamo qui ad esempio, i confini tra simbolo e correlativo
oggettivo si fanno più lievi ( ma è tutto sommato secondario; ciò che vogliamo qui sottolineare è
proprio il peso di questa fenomenologia degli oggetti nella scrittura di Kafka ) ; alla fine della
seconda parte della Metamorfosi, Gregorio Samsa dinnanzi al padre « fu stupito della grossezza
gigantesca della suola dei suoi stivali ». L’immagine della scarpa porta, nella memoria comune,
proprio l’idea del calpestio ( in questo caso forse sarebbe più corretto dire dello schiacciamento ) di
qualcosa al di sotto, inferiore, opprimibile, uccidibile: e l’idea preconcetta che tutti noi avremmo è
proprio quella dell’insetto. Avere come somma e più penetrante visione quella della suola
rappresenta in un certo senso il passaggio dalla condizione di metamorfosi a quella ontologicamente
definita e definitiva di scarafaggio. Samsa non si è di fatto trasformato in insetto: ha solo adeguato il
corpo all’idea interiore si sé, in una sorta di estrema somatizzazione del dolore interiore.
L’immagine è così perfettamente incisa da portare già in sé l’idea della morte, del non – ritorno.
Parlando di reificazione, non possiamo non citare, a suffragio di questa analisi, i due esempi più
monumentali: il breve frammento Il ponte e Durante la costruzione della muraglia cinese;
quest’ultimo racconto da il titolo all’intera silloge di cui fanno parte entrambi. I testi sono stati
raggruppati da Max Brod, e risalgono quasi tutti al periodo compreso tra il ’17 e il ’22. I due scritti
presi qui in esame sono entrambi del ’17. Il ponte ha per molti versi un impianto più suggestivo,
grazie anche all’artificio dell’ antropomorfismo e della drammaticità; è inequivocabilmente una
figura kafkiana, in esso è totalmente assente qualsiasi attributo di stabilità, durevolezza. Si descrive
( il racconto è in prima persona ) come « rabbiosamente aggrappato all’argilla friabile », dando
immediatamente un senso di precarietà e al tempo stesso di alienazione dal mondo in quanto « non
era ancora registrato nelle carte topografiche ». Ma il grande giro di boa di questo breve scritto si
ha, ancora una volta, attraverso una minaccia esterna, un passante che lo percuote con la punta
ferrata del bastone. In quella condizione al ponte non resta altro che girarsi, per vedere chi sia il suo
aggressore; e un ponte, girandosi, inevitabilmente si auto - sopprime. Rimane una straordinaria
parabola della condizione umana, racchiusa in un vicolo cieco, metafora al tempo stesso del prezzo
della conoscenza e dell’impossibilità di difendersi dal mondo esterno. Il testo si costruisce
perfettamente attorno ad un impasse insuperabile, che possiamo rileggere all’infinito sotto luci di
volta in volta differenti. A ben pensarci, si snoda attorno allo medesimo paradosso del peso12 di
Michelstaedter: il desiderio del “più basso” è un’illusione che non si esaurisce mai, e, al tempo
stesso, se prendesse miracolosamente forma negherebbe al peso il suo valore ontologico tout court.
Diverso e complementare è il caso affrontato nel racconto Durante la costruzione della muraglia
cinese; qui il rimando è immediato, il valore simbolico molto vicino al dato di realtà, e, per questo
forse meno suggestivo. Rimane comunque alta e fertile l’immagine di una muraglia costruita
partendo dai due lati opposti che non riescono ( per ragioni tanto futili quanto apparentemente
inevitabili) a unirsi nel momento dell’incontro. Il ponte si disgrega voltandosi, la muraglia non
riesce mai nemmeno a raggiungere il suo momento di unità: è spezzata dalla nascita. I due testi,
separati nella raccolta solo da un paio di frammenti, andrebbero letti specularmente; pur partendo da
“situazioni esistenziali” differenti in nessuno dei due casi è possibile mantenere, se non addirittura
creare, l’unità dell’intero.
12
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