Di alcune ossessioni nell`opera di Franz Kafka
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Di alcune ossessioni nell`opera di Franz Kafka
Di alcune ossessioni nell’opera di Franz Kafka La fenomenologia dell’immaginario 1. Franz Kafka è Psammenito Walter Benjamin nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov1 riporta un passo tratto dalle Storie di Erodoto in cui viene descritto l’imprigionamento del re egiziano Psammenito. Come somma umiliazione Cambise, re di Persia, mostra al nemico sconfitto il corteo dei sudditi ridotti in schiavitù; Psammenito vede passare dinnanzi ai suoi occhi prima la figlia in catene e a seguire il primogenito maschio condotto a morte. Davanti a tale scempio il sovrano decaduto rimane completamente impassibile e com’è noto, solo alla vista della miserabile condizione di uno dei suoi servi « mostrò i segni del più profondo dolore ». Benjamin analizzando il testo con grande acutezza e intelligenza critica ne mette in luce un lato inedito; non aggiunge una ulteriore interpretazione personale all’enigmatico atteggiamento del re, ma sottolinea come sia proprio l’enigmaticità, la libera interpretazione dell’opera a rendere questo breve racconto di Erodoto un esempio assoluto dell’arte della narrazione, poiché « somiglia ai chicchi di grano che sono rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fino ad oggi la loro forza germinativa ». In questo senso possiamo dire che ogni personaggio kafkiano sia “ psammeniteo ”, privando di fatto il lettore di una certa interpretazione. Ed è proprio questa la chiave di volta che rende l’opera di Kafka inesauribile, capace di mantenere ininterrottamente un continuo lavoro di stimolazione del pensiero, portando il ragionamento ad elevarsi verticalmente da quello che potremmo definire il grado zero della realtà, sino ad una infinita metafisica. Franco Fortini ha parlato per Kafka di « commento perpetuo » in quanto: La sua opera è l’unica, nel mondo moderno, ad avere dichiaratamente per oggetto il symbolon, la pietruzza segnata da una cifra convenzionale, di cui discorre anche l’Apocalisse. Avere come oggetto il simbolo, cioè affermare un mondo nel quale ogni cosa e parola, ogni sentimento ed ogni ragione sono segno, sintomo e spia di altro, e dove tutto si trasforma irrimediabilmente, significa davvero scrivere sull’acqua e quindi accettare ( come dicevo prima ) una infinita glossa, una infinita serie di traduzioni; è porsi deliberatamente fuori del linguaggio poetico. 2 Se consideriamo poi la travagliata vicenda biografica di Kafka (per il quale possiamo parlare di un reiterato tentativo di suicidio letterario) allora risulta piuttosto evidente che non sia realmente 1 2 Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, p. 247 Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose. Dal volume Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965 possibile interpretare la sua opera, ma forse soltanto rifletterla e tentare di filtrare la realtà contingente attraverso le alte vette di pensiero, gli universali, raggiunti dallo scrittore praghese. La strada migliore potrebbe essere quella di una vera e propria riflessione in fieri, che metta in fila e comprenda l’infinità di letture possibili. E, in ogni caso, come potrebbe essere legittimo e coerente un pensiero compiuto su di un’opera per la maggior parte frammentaria e inconclusa? E non ci riferiamo all’incompiutezza esteriore, redazionale, d’auto-sabotaggio dell’autore; ma bensì a quella interiore, ontologica. Anche qualora ogni opera di Kafka portasse inscritto al termine la parola “ fine”, magari sotto espressa e decisa volontà dell’autore, non sarebbe possibile arrivare ad una critica certa e compiuta. Il fatto che vi sia un’effettiva incompiutezza nella maggior parte della sua produzione è un dato per certi versi secondario, per non dire dannoso: ha infatti portato a spendere molte parole sul perché di tale scelta, passando quasi in secondo piano un’altra questione, quella del contenuto tout court. In questo senso Kafka sembra spingersi ancora più in là di quanto abbia fatto Erodoto: se lo scrittore greco narra una semplice successione di eventi dalla quale sgorgano infinite riflessioni sugli universali, in Kafka quegli universali sono già presenti nell’opera, semplicemente muti ( in quanto sempre ontologicamente impossibilitati al compimento ) sino all’arrivo della voce concessa dall’esercizio del pensiero. In Kafka nulla viene dato semplicemente, non esiste un impianto cronachistico, una successione logica degli eventi, una storia basata sulla concatenazione causa – effetto. Sembra sempre trattarsi di una ferita; il mondo esterno, contingente, reale, penetra in quello interiore, lacerandolo. Il mondo è un’affezione (nel senso latino del termine) ed entrando in contatto con l’anima crea un groviglio difficilmente districabile. Come comportarsi dunque? Se interpretare significa spesso castrare le molteplici chiavi di lettura del testo, e altrettanto tracciare i confini fra spazio interiore e spazio reale, tra simbolo e allegoria? Forse partendo da una considerazione: l’universo kafkiano è incerto, ambiguo, inafferrabile, ma ricorrente. L’unico ordine che possiamo trovare al mondo di Kafka è l’ossessiva ripetitività di alcuni nuclei tematici, che ricompaiono, immutati nella sostanza, dai racconti giovanili sino alle opere più tarde. L’incidenza continua ha inevitabilmente un suo significato profondo, per due ragioni fondamentali: in primo luogo ciò che sempre ritorna al pensiero è indubbiamente ben radicato nell’essere umano, sino a divenirne una delle componenti fondanti; in seconda istanza, è proprio nella “giacenza interiore” più profonda dell’Io che troviamo mescolati ai temi privati quelli dell’inconscio collettivo dal quale, in larga parte, i primi derivano. Questa “mole” per Cesare Segre3 rappresenta persino il principale movente dalla scrittura in genere: « Motivi archetipi, motivi tradizionali e motivi dell’esperienza comune (che in ogni modo risalgono a schemi di rappresentabilità) costituiscono moduli con cui si costruisce qualunque struttura narrativa ». 3 Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino, 2006, p.102 Nel nostro caso specifico, ritrovare e percorrere questi nuclei significa di fatto arrivare agli archetipi del pensiero dello scrittore praghese, privandoli di un’alta percentuale di menzogna interpretativa. Il principio è molto semplice, per quanto non lo sia la sua analisi: se certi snodi tematici ritornano sempre hanno un loro valore, sono importanti per chi ne ha scritto, e pertanto rappresentano un buon punto di partenza per mettere ordine in un universo, quella kafkiano, dove gli stadi delle metafisica sembrano poter procedere all’infinito. Sulla base di queste considerazioni si prenderanno qui in esame principalmente i Racconti e la Lettera al padre, tentando di mettere in luce come né lo scorrere del tempo (con il conseguente svolgimento e la maturazione del processo poetico ed esistenziale dello scrittore ), né le vicende storico - sociali abbiano mutato quelli che qui chiameremo archetipi, ovvero gli snodi principali, fissati in maggiore profondità, i quali proprio in virtù del loro status ritornano costantemente negli scritti di Kafka, e ne compongono per molti versi la cifra fondante. Se è vera la dicitura pasoliniana4 secondo cui uno scrittore scrive sempre lo stesso libro, è proprio nell’ossessività dei temi, nelle ricerche stilistiche che si ripetono di volta in volta che dobbiamo ritrovare l’ archetipo poetico di un autore, la verità e i principi fondanti della sua opera. 4 P. Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999 2 . A perdifiato: una corsa senza gambe e senza voce Kafka è uno scrittore ossessionato, per questo in lui ricorrono così ripetitivamente le stesse tematiche. Uno dei contenuti forse più ricorrenti è l’idea dell’inadeguatezza, dell’impossibilità per lo scrittore ( e per i suoi personaggi ) di affrontare serenamente un qualsiasi contesto esistenziale, dalla vita associata alla solitudine. È un vero e proprio topos che segna moventi, azioni, e stati d’animo in quasi tutti i suoi scritti; ricorrente quanto questo tema vi è solo la sua stessa fenomenologia. L’esteriorizzazione dei fondali dell’Io è uno dei punti di più alta originalità della scrittura di Kafka, in cui i sentimenti ( e soprattutto le paure, angosce, sottomissioni ) prendono forma di oggetti, animali, esseri fantastici: se nella sua scrittura tutto è analizzato sotto la lente indagatrice dell’interiorità, ecco che questo fondale viene portato alla luce del sole, per rendersi ( almeno in parte ) intellegibile o semplicemente per aumentare la sua gravità attraverso apparizioni che aggiungono al dolore una forma materica. Dare ai sentimenti un valore visivo, fisico, pubblico, significa soprattutto perdere la possibilità di rinnegarli, nasconderli e per il soggetto paziente, di mentire, auto –ingannarsi. L’ostensione è un tentativo di chiarezza personale prima ancora che una strategia di scrittura; nella sua affannata ricerca della verità, vedere, prendere atto esteticamente e fisicamente di qualcosa prima tutto avvoltolato in sé, sembra essere un supporto indispensabile. Tante sono le immagini esteriorizzanti nella scrittura di Kafka, ma forse quella che meglio esemplifica questo totalizzante senso d’inadeguatezza e d’impotenza è la difficoltà nel percorrere una strada; talvolta le gambe sono affaticate, o altrimenti i percorsi ( come nella migliore tradizione favolistica ) irti d’ostacoli. È un mezzo stilistico presente sin dai primissimi racconti, già in Descrizione di una battaglia il protagonista cade, inciampa, fatica a tenersi al passo con il proprio conoscente; del 1907 è Preparativi di nozze in campagna e anche qui il personaggio principale, Raban, è più volte impossibilitato a muoversi agilmente. Uno dei testi più intensi ed enigmatici resta però Un medico di campagna, racconto scritto tra il ’16 e il ’17 che da il titolo all’intera raccolta. Come sempre avviene in questi moduli letterari, il protagonista è messo davanti ad una prova: in quanto medico, è chiamato a curare un malato grave. Kafka semina l’inadeguatezza già nella frase d’apertura del racconto « ero in grande imbarazzo», dice il protagonista. Verrebbe da chiedersi come sia possibile, è tutto perfettamente decente ( nel senso latino del termine, di qualcosa che “ si addice ” a qualcuno ) e l’uomo è semplicemente chiamato a svolgere la sua professione. Ma nelle prime battute subito si affaccia la fenomenologia della propria incapacità: « me ne stavo già nel cortile pronto per la partenza; il cavallo però mancava, proprio il cavallo»; veniamo inoltre a sapere che quello di proprietà del medico era morto la notte prima, esausto per le fatiche dell’inverno. In un certo senso la parabola del protagonista può già dirsi compiuta, non possedendo un mezzo di trasporto all’alba di un viaggio possiamo già bene immaginare quale sarà il suo destino. Vi è poi l’incontro con un misterioso stalliere, pronto a prestare i suoi cavalli che inevitabilmente sono forti, pronti, « alti sulle gambe, e dai loro corpi si sprigionava un denso vapore »; se, come abbiamo detto in apertura di questo saggio, nel caotico mondo di Kafka è possibile ritrovare un ordine sulla scorta degli archetipi, allora ecco che certamente ritroviamo gli stessi attributi degli animali nel loro proprietario, lo stalliere che tenta di assediare la domestica del medico. Il protagonista parte, seppur angosciato dall’ineluttabile destino che spetta alla ragazza, e riesce a giungere alla casa del malato. L’arrivo, come lo era stata la partenza, è segnato da alcuni deficit ( « dai loro discorsi sconnessi non riesco a capire niente » ) e l’incomprensione della parola in Kafka non è altro che un’alternativa al non potersi muovere, il non riuscire ad andare verso le cose della vita, né con i dialoghi, né con le gambe. Assistiamo poi letteralmente ad una serie di peripezie, un vero e proprio circuito delle sofferenze e delle umiliazioni; il malato ha un grande ferita sul fianco destro, ma il medico non riesce ad accorgersene che in un secondo momento, nella casa un coro di persone intona una canzoncina che invita a sopprimerlo ( « Spogliatelo, e sanerà / Se non lo fa, ammazzatelo! / Non è che un medico » ). Nel frattempo, per tutto il racconto i cavalli lo attendono fuori, descritti come scalpitanti, frementi, ansiosi, efficacemente agenti alla vita, divenendo a loro volta mimesi della figura dello stalliere, che certamente nel frattempo sta insediando Rosa. Climax assoluto del racconto, il medico viene messo nel letto con il malato che gli rivolge queste terribili parole: « la mia fiducia in te è molto scarsa. Invece di soccorrermi mi togli un po’ di spazio perfino nel mio letto di morte ». In tale definitiva espressione ritroviamo un altro archetipo della scrittura di Kafka, quello della vittima che viene improvvisamente trattata come un aguzzino, anche in questo caso metafisica dell’uomo che si auto- concepisce come colpevole e accusatore di se stesso, la cui parabola più efficace sarà quella del Processo, in cui il signor K. porta già fatalmente segnato nel nome il suo compito di auto - Kalumniator5. Il medico non ha curato il paziente, ma non riesce neppure a salvare Rosa; le redini sono allentate, la carrozza si trascina a fatica, i cavalli per tutto il tempo attivi e frenetici, al momento del ritorno si muovono « lentamente, come dei vecchi ». La parabola del protagonista si è così totalmente compiuta. A conferma di quanto la difficoltà motoria (sia interna, ovvero delle proprie gambe, che esterna, degli ostacoli lungo la via o dell’inefficacia dei mezzi di trasporto) sia a tutti gli effetti un archetipo in Kafka ( ed anche uno dei più suggestivi ) riportiamo qui di seguito un estratto dai Diari, in cui l’autore racconta di un sogno fatto qualche giorno prima: 5 G. Agamben, K., in Nudità, Nottetempo, Roma, 2009, p. 33 Sogno di poco tempo fa: Con mio padre viaggiavo in tranvai attraverso Berlino. L’aspetto di metropoli era data da innumerevoli barriere regolarmente ritte, dipinte a due colori, smussate e lisciate a uno dei capi. Tutto il resto era quasi deserto, ma la folla di quelle barriere era grande. Arrivammo davanti a una porta, scendemmo senza accorgercene, passammo da quella porta. Dietro a questa sorgeva una parete verticale sulla quale mio padre s’arrampicò quasi danzando, le sue gambe volavano, tanto si sentiva leggero. C’era sicuramente anche una certa mancanza di riguardo nel fatto che non veniva in mio aiuto, poiché io vi salii con estrema fatica, usando mani e piedi, sdrucciolando più volte, come se per me la parete fosse diventata più ripida. Era penoso inoltre che fosse ricoperta di feci umane, di modo che ne ero impiastricciato, specialmente sul petto. ( Diario del 6 Maggio 1912 ) Se nella scrittura ricerchiamo gli archetipi, alla base di essa vi sono proprio i sogni e Kafka «sognava anche come scriveva e una sorta di nodo letterario legava la realtà quotidiana e l’immaginario onirico6 ». Tuttavia, paradossalmente, non è l’impossibilità all’ actio la manifestazione più alta e tragica dell’inadeguatezza, ma il flatus vocis. La parola assume in Kafka un forte valore di assoggettamento, così come la sua privazione, il silenzio; spesso i personaggi- aguzzini si comportano come in un eterno processo e i loro discorsi sono molto vicini alla semantica della condanna. Parallelamente a quanto accade negli stati d’animo, anche le parole assumono una loro forma materica ( seppur solo allusiva, non effettiva ). Questa modalità è perfettamente esemplificata nel celebre Das Urteil in cui la semplice domanda del padre « hai davvero questo amico a Pietroburgo? » è sufficiente a mettere in discussione un’intera realtà presentata sino a quel momento come certa, già accaduta. Non molto diversa è la situazione in Der Prozess, in cui la mera accusa verbale è bastevole a K. per sentirsi colpevole; qualsiasi prova contraria ( il non sapere quale sia l’effettivo crimine, i processi consumati nelle soffitte ) non ha alcun potere dinnanzi alle parole pronunciate dalla guardia. In Kafka il sistema verbale può annientare ogni dato di realtà; nel brevissimo frammento Il timoniere ( 1920) uno sconosciuto è perfettamente in grado di negare al protagonista il proprio lavoro ( « non sono forse un timoniere? » esclamai. « Tu? » domandò un uomo scuro), e a nulla varrà rivendicare il compito svolto sino a qualche attimo prima; chiamati gli altri membri dell’equipaggio a testimoni, come in una congiura, « avevano occhi soltanto per il forestiero ». L’impossibilità di tranquilli scambi di idee ebbe un’altra conseguenza: io disimparai a parlare. Sin dal principio mi vietasti la parola; la Tua minaccia « non una sillaba di protesta! » e la mano alzata m’accompagnano da anni e anni. Davanti a Te io mi mettevo a parlare con impuntature e balbettii, ma per Te era ancora troppo; alla fine tacevo, prima forse per orgoglio, poi perché al tuo cospetto non riuscivo né a pensare né a parlare 7. 6 7 F. Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio, Napoli, 2009, p.11 F. Kafka, Lettera al padre, Mondadori, Milano, 2009, p. 13-14 3 . L’alter – ego, l’altro e l’al di là Nei testi di Kafka il rapporto con l’ altro è sempre contraddistinto da una profonda inquietudine e da un senso di minaccia; inutile ogni tentativo di parità, i rapporti sono sempre svolti sotto la logica della subordinazione. La persona esterna, qualsiasi essa sia e qualunque sia il suo ruolo nella narrazione, ripete e riporta in auge la figura del padre. Kafka di questo è perfettamente consapevole, nella Lettera al padre più volte parla della costante sensazione di inferiorità davanti al genitore: « Già in cabina facevo compassione a me stesso, e non soltanto di fronte a Te ma di fronte a tutti perché Tu eri per me la misura di tutte le cose ». Il mancato riconoscimento del figlio come degno erede, ha definitivamente spinto lo scrittore praghese a sentirsi indegno davanti al mondo intero. Sull’argomento è stato scritto molto, e in questa sede sarebbe impossibile aggiungere qualcosa di significativo; vorremmo pertanto concentrarci sulle tracce che tale rapporto ha lasciato nella scrittura di Kafka e nei modelli letterari utilizzati. L’estraneità è concepita in diversi gradi, ed ogni scoglio di maggiore lontananza è mimesi di quello precedente; in alcune situazioni l’Io scopre l’intruso in se stesso, in altre nella figura di un conoscente ( rievocazione, appunto, della propria e privata estraneità interiore ), nel caso estremo l’estraneo è persino al di là della realtà stessa, manifestandosi nella presenza di un animale antropomorfo o di un oggetto fantastico. Paradossalmente in Kafka si ha l’impressione che più l’estraneo sia diversamente figurato, più appartenga alle modalità della vita intima del soggetto: il caso per eccellenza è rappresentato proprio dalla Verwandlung, in cui Gregorio Samsa ha realmente dato forma alla propria interiorità con ciò che esternamente, figuratamente, ne è più lontano. Vale anche il principio contrario: in Kafka la vicinanza estetica o morale fra personaggi diversi ha un suo valore specifico, foriero di grandi inquietudini, « l’uguaglianza, o l’intrigante somiglianza di più cose o persone, è uno dei motivi più tenaci di Kafka; creature larvali di ogni genere compaiono a coppie . Tanto difficile è diventata per gli uomini l’individuazione e tanto incerta è rimasta fino ad oggi, che essi si spaventano mortalmente quando il velo che la copre viene sollevato anche solo di poco 8». In questo senso, uno dei testi più significativi è forse Il vicino, breve racconto del ’17, tratto dalla raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese. La situazione è piuttosto tipica: uno sconosciuto, di nome Harras, ha preso in affitto l’appartamento accanto a quello del personaggio principale, voce narrante del racconto. Kafka, anche in questo caso, è magistrale nel descrivere in pochissimi accenni il senso di inquietudine che pervade il protagonista nell’apprendere di avere un nuovo vicino; nelle prime righe egli accenna infatti al proprio lavoro, definendolo « facile da 8 T. Adorno, Appunti su Kafka, in Prismi, Einaudi, Torino, 1981, p. 259 sorvegliare » ( già questa semplice frase meriterebbe attenzione: oltre a tradire perfettamente il costante bisogno di difesa, anticipa i temi che occuperanno uno dei racconti più inquietanti di Kafka, La tana, scritto tra il ’23 e il ’24 ); questa prima considerazione dunque porta già in sé il senso della futura violazione, nonostante non sia ancora stata consumata. Poche righe più avanti si definisce « maldestro » per non aver pensato lui stesso a prendere in affitto l’appartamento rimasto vuoto che, scrive « mi sono lasciato portar via ». Sin dall’inizio un evento apparentemente semplice e ordinario assume i contorni di un sopruso, di qualcosa che è stato giocoforza sottratto al legittimo proprietario. Poco più avanti ( facciamo notare che il racconto ha la lunghezza di due sole pagine ) la frase di svolta: « mi hanno detto che ha un’azienda simile alla mia »; queste parole riassumono perfettamente le osservazioni di Adorno sopra riportate: in Kafka, ciò che ai personaggi appare prossimo a se stessi viene visto immediatamente come una minaccia, in primo luogo verso la propria unicità, in seconda istanza verso il possibile ratto che tale individuo potrebbe effettuare del loro stesso mondo. Avere qualcuno simile a noi significa riecheggiare un’idea di se stessi ( e l’Io, in Kafka, come ben sappiamo si disprezza ); l’altro assume così la funzione prima di uno specchio e subito dopo di un usurpatore. Il telefono del protagonista, posto accanto al muro che divide le due abitazioni, diviene effettivamente ( ma soprattutto metaforicamente ) il mezzo che consente all’ altro di prendere il controllo della nostra vita, ascoltare le nostre telefonate, violare i nostri segreti o, svolgendo la stessa professione, compromettere il nostro lavoro. Un altro elemento di assoluta straordinarietà in questo racconto è la percezione di sé come fatalmente vittima; il problema dell’intrusione è infatti di per sé irrisorio: basterebbe semplicemente spostare il telefono in un altro punto dell’appartamento ma, dice il protagonista « non posso fare a meno di rivelare i miei segreti». In questa frase è racchiusa una delle tematiche – cardine di tutta l’opera kafkiana, l’inevitabilità della persecuzione; perseguitati dal proprio padre, l’unico destino che ci sembra possibile è quello di essere in una condizione di assedio costante. Alla fine del racconto, per quanto indirettamente, avviene il processo di assimilazione, l’altro passa in un certo senso dal grado di simile a quello di sosia: « Harras non ha bisogno del telefono, si serve del mio »; in queste ultime parole, seppur in un piano strettamente metafisico ( ma è proprio questo per Kafka il piano della realtà ) il vicino invade a tal punto la vita del protagonista da non aver bisogno di possedere propri oggetti d’uso quotidiano o lavorativo, grazie al suo rapporto di contiguità gli sono sufficienti quelli dell’altro. L’affermazione di Bohumil Hrabal secondo la quale « le cose migliori di un libro vanno al di là dal libro stesso9 » trova piena applicazione nelle opere di Kafka; la sua scrittura lascia solo tracce, è arte dell’allusione, e solo il lettore potrà rileggere infinite volte e trovare in ogni occasione una significazione ulteriore. In questo senso è straordinario ( e lo vedremo meglio più avanti ) il 9 B. Hrabal, Alcune parole, MicroMega, Roma , 1990 compito che viene affidato agli oggetti, forieri di contraddizioni e inquietudini; il telefono serve al protagonista per comunicare con il mondo esterno, ma improvvisamente si trasforma nel trait d’union che lo costringe ad entrare in contatto con il proprio vicino; l’apparecchio da strumento utile al lavoro diviene mezzo per la rivelazione dei propri segreti sino a trasformare Harras in un nemico giurato. Abbiamo parlato precedentemente del senso di inadeguatezza in Kafka, che spesso nei sogni e nell’immaginario letterario si traduce nell’impossibilità fisica di camminare, negli ostacoli lungo la via; anche in questo breve racconto, in chiusura, il protagonista immagina il proprio vicino “ scivolare ” ( proprio nel senso di camminare con facilità e leggerezza ) per le vie della città, in una netta e incontrovertibile opposizione al tipico anti – eroe kafkiano che cade, inciampa, e fatica a reggersi in piedi. Un altro racconto in cui allusione, somiglianza e alter – ego costituiscono i temi principali è Blumfeld, uno scapolo anzianotto, racconto del ’15, appartenente anch’esso alla raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese. Il testo è significativo innanzitutto perché sembra racchiudere perfettamente la silloge dei tre stadi di estraneità sopra citati; l’ altro è dentro il protagonista stesso, e ha la sua fenomenologia sia nelle persone attorno a lui che in due oggetti fantastici. L’anziano scapolo, rientrato a casa dopo una consueta giornata di lavoro, è pronto a racchiudersi nelle sua perfetta solitudine scandita da consolidate abitudini ma improvvisamente sente dei rumori inusuali e vede sul pavimento di casa due palle di celluloide che saltellano senza sosta. In questo racconto l’elemento fantastico ha una evidente funzione epifanica, che mima e traspone nell’ effettività estetica i sentimenti del protagonista. Blumfeld è totalmente incapace di imporsi, la sua voce rimane inascoltata, e nemmeno la gerarchia lavorativa gli consente alcun potere decisionale su quelli che a tutti gli effetti dovrebbero essere suoi subordinati. Ed è in modo originalissimo e stilisticamente perfetto che Kafka ci consegna un dramma di tutti i giorni, consumato ( come sempre nei suoi testi ) fra le pareti domestiche, anch’esse mimo delle stanze interiori. La struttura dell’opera potrebbe essere paragonata all’ Amleto shakespeariano; anche qui la verità viene affidata ad un teatro, ad una recitazione che sia più reale della realtà stessa: le sfere di celluloide sono così il segno, il simbolo e il rimando alla sostanza di tutto il racconto, alla sudditanza di Blumfeld. Se Claudio deve lasciare il teatro perché non sopporta la mimesi del suo stesso omicidio, così l’anziano scapolo deve disfarsi in tutti i modi di ciò che lo pone a diretto contatto con la realtà. Kafka ci descrive un mondo in cui non sono i fatti ad essere protagonisti, ma le affezioni che causano sullo spirito, non gli eventi, ma le idee che tali eventi ci suggeriscono. L’anziano scapolo assume due atteggiamenti diametralmente opposti, nella propria casa tenta (seppur inutilmente) una rivalsa, un’imposizione, la fine del tormento; in ufficio invece è totalmente incapace di dire alcunché, gli apprendisti sono lasciati in un regime di massima libertà e autarchia. Perché una tale reazione? Perché si accosta a due atteggiamenti speculari in modo così diverso? La risposta probabilmente possiamo trovarla nella Lettera al padre : « Da quando ho l’uso della ragione tanto mi tormenta il problema della sopravvivenza spirituale, che tutto il resto m’è indifferente ». Non è necessario sottolineare che per Kafka la vita interiore sia l’unica reale; si possono sopportare due apprendisti insubordinati perché appartengono alla vita quotidiana, amministrativa, burocratica, ma non si possono accettare quei due stessi individui sotto forma di sfere nella realtà domestica ( che è l’ultimo stadio di mimesi prima della pura vita interiore ). Anche qui del resto si consuma perfettamente l’inquietudine della contiguità, seppur diversamente dalle modalità del racconto Il vicino; la somiglianza si riscontra più sottilmente nei gesti, nei comportamenti: le sfere si scansano, vivono una loro autonomia, incuranti del resto. E prima ancora di avere una qualche notizia sulla vita lavorativa di Blumfeld, con una perfetta tecnica dell’anticipazione Kafka descrive le due palle come « compagne subordinate », siglando così uno dei più alti momenti di coincidenza fra ossessioni private e realtà effettiva di tutto il racconto. Potremmo arrivare a dire che tutto ciò che circonda l’anziano scapolo non sia un dato di realtà a sé stante ma, pur mantenendo un residuo di vita autonoma, è sostanzialmente un’emanazione dell’interiorità del protagonista. Le cose esistono non in quanto tali, ma nel ruolo di ossessioni, fantasmi dell’Io; la cifra fondante di essi non è la loro stessa essenza, ma l’inquietudine che vi versa sopra Blumfeld. I due apprendisti non devono essere giocoforza così, ma ci vengono restituiti per come sono vissuti dall’ immaginario del protagonista; per questo Kafka è lo scrittore della metafisica per eccellenza: tutto in lui è interiorizzato, e i pochi dati di realtà che troviamo vengono filtrati (e per questo completamente stravolti o perlomeno capovolti ) attraverso l’ idea che ha di essi. Come in una commedia greca degli equivoci, in cui gli dèi intervengono sempre a trasformare gli uomini, così l’oppressione di Blumfeld appare sotto forma di sfere, di un bambino, della domestica, del superiore, degli apprendisti, del fattorino, in un continuo gioco che passa dalla mimesi alla metamorfosi, dagli eventi reali a quelli immaginari, per approdare in fondo all’idea che nessuna realtà sia davvero importante se non quella interiore: Dalla trasformazione dell’ al – di – qua – non posseduto e non possedibile in un nuovo ed ancora meno possedibile al – di – là nasce l’arte di Kafka. Tutte le cose di questo mondo sono per Kafka cose dell’ « altro » mondo: non solo e non tanto le cose orribili, quanto quelle naturali, quotidiane, banali. Si dice spesso che la vera angoscia non è generata da singole cose o singoli eventi, ma da un senso del nulla che si rivela dappertutto, in ogni cosa. È il caso di Kafka. Chi vive veramente nella realtà, trova angoscianti le cose che violano o sembrano violare la legge della realtà; chi vive fuori della realtà, trova angosciante la realtà intera, e la trova tanto più angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce alla propria legge, quanto più essa è normale10. 10 L. Mittner, Kafka senza kafkismi, tratto da La letteratura tedesca del Novecento, Einaudi, Torino, 1960 4. L’estrema reificazione dell’emotività L’uso personalissimo del simbolo nell’opera di Kafka costituisce una delle maggiori difficoltà alla sua interpretazione: le narrazioni sono continuamente costellate da rimandi ad un altrove difficilmente identificabile, intrecciato a temi biblici, privati, inconsci. Ma nell’altissimo universo immaginario dello scrittore praghese vi sono anche le più “accessibili” metafore, che costituiscono indubbiamente un vicinanza maggiore al nudo dato di realtà rispetto all’apparato simbolico. In ogni caso è difficile darne una chiara definizione, nello stile di Kafka persino le figure retoriche debordano dalla loro funzione ordinaria, ed è proprio per questo che vorremmo qui prendere in esame l’uso di una sorta di metafora che si “ reifica”, non legandosi a dati astratti ma ad oggetti concreti. Potremmo ( con qualche cautela) parlare di un uso, seppur per tanti versi non canonico, del correlativo oggettivo. Come ben sappiamo le definizione che ne diede Eliot nel 1919 fu quella di « una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare11 » ; l’idea che la mimesi , da parte di un oggetto, di una determinata condizione dell’animo umano sia un efficace mezzo di espressione. Ma prendiamo alcuni esempi: in Descrizione di una battaglia (che, come sappiamo, è il primo dei racconti giovanili di Kafka) appena il protagonista dice « Io », per descrivere la sua condizione aggiunge « ero seduto a un tavolino che aveva tre gambe sottili ». Tutta la prima parte del racconto (escludiamo qui l’analisi della II, Divertimenti, e della III parte) è incentrata sul tipico personaggio kafkiano malato d’inadeguatezza; l’incontro con un estraneo, inizialmente desideroso di confidarsi, si trasforma rapidamente in una lunga serie di sensazioni di impotenza, estraneità, inaccettabilità. Ma ciò che, da questo punto di vista, risulta più interessante è la ricorrenza costante del tema dell’impossibilità delle estremità del corpo di sostenere, fisicamente e moralmente, il protagonista. Ovviamente, in forte opposizione, quelle dell’estraneo – aggressore sono invece forti, costanti, persino minacciose ( all’inizio del racconto il protagonista dice: « puntò all’indietro i gomiti aguzzi » ). Proseguendo nella lettura troviamo il protagonista descrivere la passeggiata con l’altro uomo in questi termini: « non capivo come mai non mi riuscisse di tenere il passo con il mio conoscente »; e poi, di nuovo « Io trovai un albero per appoggiarmi ». Con la capacità di Kafka di riportare minuziosamente tutte le stazioni dell’angoscia, il lettore si ritrova avvolto in un climax che passa dalla semplice mancanza di forza o velocità negli arti all’incapacità di mantenersi in piedi: « davanti a una porticina della chiesa del Seminario caddi per terra perché c’era un gradino che non mi aspettavo » ; più avanti, « Tentai di alzarmi, ma caddi un’altra volta ». Quando, dopo alcuni minuti 11 T.S.Eliot, Il bosco sacro: saggi sulla poesia e la critica, a cura di Luciano Anceschi, trad. di Vittorio Di Giuro e A. Obertello, Bompiani, Milano, 1967 passati a terra nell’indifferenza del conoscente il protagonista riesce finalmente a rialzarsi dice: « Barcollai e per essere sicuro dell’equilibrio dovetti guardare fisso il monumento di Carlo IV ». Poi, come sappiamo, cadrà di nuovo. Se proseguiamo sulla strada tracciata fin dall’inizio, ovvero basandoci sulla convinzione che ciò che ritorna ossessivamente nella scrittura di Kafka debba essere considerato il punto di partenza privilegiato per la comprensione della sua opera, allora non possiamo non sottolineare l’importanza di quel « tavolino » che, sin dall’inizio, ci indica apertamente dove convergeranno tutte le debolezze del protagonista. Ed è effettivamente straordinario, da un punto di vista strettamente stilistico, come l’ Io si identifichi subito nelle gambe sottili del mobile, gambe che in rapida sequenza passeranno dal legno del tavolo alle ossa del protagonista, mantenendo intatto il valore simbolico che rimanda alla fragilità umana. Un altro esempio interessante si può rintracciare nei frammenti del romanzo Preparativi di nozze in campagna, sempre risalente al 1909; qui Raban, il protagonista, da subito connotato dal perenne senso di non – appartenenza al mondo che lo circonda e dal doppio legame che instaura con le persone che incontra, durante un viaggio in treno ha l’impressione che « fuori del finestrino, le lunghe sbarre del parapetto di un ponte venissero violentemente disgiunte e quindi schiacciate l’una sull’altra ». Se leghiamo quest’immagine a quella che ha di se stesso come un « grosso coleottero » ( e non ci dilunghiamo sulle evidenti premesse della Metamorfosi che qui ritroviamo), ecco che improvvisamente, nel frastagliato e imprendibile universo kafkiano, ritroviamo un po’ di ordine. L’uso del correlativo oggettivo ha una valenza diametralmente opposta a quella del simbolo: se quest’ ultimo infittisce le interpretazioni, sovrapponendole, il primo dipana, chiarifica, mette in fila. Non possiamo non citare un’immagine bellissima ( icastica, nella sua durezza ) tratta da uno dei più celebri e significativi testi di Kafka, Das Urteil; se da un lato il tema dell’autorità paterna si svolge per tutto il tempo della narrazione, dall’altro è racchiuso in pochissime righe : « Giorgio notò con stupore come fosse oscura la camera del padre, anche in quel mattino soleggiato. Il muro alto che si levava al di là dello stretto cortile, gettava dunque tanta ombra! ». Inutile sottolineare la rievocazione del rapporto padre – figlio in quell’ alto muro che oscura uno spazio angusto. Gli oggetti sono qui in perfetta correlazione con il legame emotivo dei protagonisti. Nell’ultimo caso che portiamo qui ad esempio, i confini tra simbolo e correlativo oggettivo si fanno più lievi ( ma è tutto sommato secondario; ciò che vogliamo qui sottolineare è proprio il peso di questa fenomenologia degli oggetti nella scrittura di Kafka ) ; alla fine della seconda parte della Metamorfosi, Gregorio Samsa dinnanzi al padre « fu stupito della grossezza gigantesca della suola dei suoi stivali ». L’immagine della scarpa porta, nella memoria comune, proprio l’idea del calpestio ( in questo caso forse sarebbe più corretto dire dello schiacciamento ) di qualcosa al di sotto, inferiore, opprimibile, uccidibile: e l’idea preconcetta che tutti noi avremmo è proprio quella dell’insetto. Avere come somma e più penetrante visione quella della suola rappresenta in un certo senso il passaggio dalla condizione di metamorfosi a quella ontologicamente definita e definitiva di scarafaggio. Samsa non si è di fatto trasformato in insetto: ha solo adeguato il corpo all’idea interiore si sé, in una sorta di estrema somatizzazione del dolore interiore. L’immagine è così perfettamente incisa da portare già in sé l’idea della morte, del non – ritorno. Parlando di reificazione, non possiamo non citare, a suffragio di questa analisi, i due esempi più monumentali: il breve frammento Il ponte e Durante la costruzione della muraglia cinese; quest’ultimo racconto da il titolo all’intera silloge di cui fanno parte entrambi. I testi sono stati raggruppati da Max Brod, e risalgono quasi tutti al periodo compreso tra il ’17 e il ’22. I due scritti presi qui in esame sono entrambi del ’17. Il ponte ha per molti versi un impianto più suggestivo, grazie anche all’artificio dell’ antropomorfismo e della drammaticità; è inequivocabilmente una figura kafkiana, in esso è totalmente assente qualsiasi attributo di stabilità, durevolezza. Si descrive ( il racconto è in prima persona ) come « rabbiosamente aggrappato all’argilla friabile », dando immediatamente un senso di precarietà e al tempo stesso di alienazione dal mondo in quanto « non era ancora registrato nelle carte topografiche ». Ma il grande giro di boa di questo breve scritto si ha, ancora una volta, attraverso una minaccia esterna, un passante che lo percuote con la punta ferrata del bastone. In quella condizione al ponte non resta altro che girarsi, per vedere chi sia il suo aggressore; e un ponte, girandosi, inevitabilmente si auto - sopprime. Rimane una straordinaria parabola della condizione umana, racchiusa in un vicolo cieco, metafora al tempo stesso del prezzo della conoscenza e dell’impossibilità di difendersi dal mondo esterno. Il testo si costruisce perfettamente attorno ad un impasse insuperabile, che possiamo rileggere all’infinito sotto luci di volta in volta differenti. A ben pensarci, si snoda attorno allo medesimo paradosso del peso12 di Michelstaedter: il desiderio del “più basso” è un’illusione che non si esaurisce mai, e, al tempo stesso, se prendesse miracolosamente forma negherebbe al peso il suo valore ontologico tout court. Diverso e complementare è il caso affrontato nel racconto Durante la costruzione della muraglia cinese; qui il rimando è immediato, il valore simbolico molto vicino al dato di realtà, e, per questo forse meno suggestivo. Rimane comunque alta e fertile l’immagine di una muraglia costruita partendo dai due lati opposti che non riescono ( per ragioni tanto futili quanto apparentemente inevitabili) a unirsi nel momento dell’incontro. Il ponte si disgrega voltandosi, la muraglia non riesce mai nemmeno a raggiungere il suo momento di unità: è spezzata dalla nascita. I due testi, separati nella raccolta solo da un paio di frammenti, andrebbero letti specularmente; pur partendo da “situazioni esistenziali” differenti in nessuno dei due casi è possibile mantenere, se non addirittura creare, l’unità dell’intero. 12 C. Michelstaedter, La persuasione e la Rettorica, Adelphi, Milano, 2002, p.5 Bibliografia - Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995 - Franco Fortini, Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965 - Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino, 2006 - P. Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999 - G. 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