Il suono della sveglia mi entra nel cervello, come la punta di

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Il suono della sveglia mi entra nel cervello, come la punta di
IL TRASFERIMENTO
“Ispettore la stanno aspettando”. “Lo so, lo so. E che aspettino”. Busso alla porta. “Ah, è lei
ispettore! Venga, venga avanti, il pregiudicato che deve prendere è gia pronto, qui ci sono tutte le
carte relative e gli atti del processo. Devono essere consegnate all’agente che troverà ad attenderlo,
appena arriva a destinazione”. Presa la cartella esco dalla stanza e mi dirigo verso la cella. Un
collega di guardia mi saluta. Esco con il ragazzo e fuori dal commissariato è già pronta un auto con
il motore acceso. Giunti alla stazione, anche il treno fortunatamente é gia arrivato. Riusciamo anche
a trovare posto in uno scompartimento vuoto. Per qualche minuto rimaniamo in silenzio, lui con la
testa girata verso il vetro esterno. Io invece lo osservo. Sono ormai troppi anni che faccio questo
maledetto lavoro, per non riuscire a riconoscere un criminale da un povero disgraziato come lui.
“Come ti chiami ?”, gli chiedo, cercando di rompere il ghiaccio. “ Laszlo. Laszlo Dvorak”. Mi
risponde senza neanche voltarsi. “Quanti anni hai?”. “ Diciannove”. “Come mai ti trovi in questa
situazione?”. “Non ho voglia di parlarne. E poi a lei cosa importa?”. “Hai ragione, ma non mi
sembri un delinquente incallito, anzi, credo proprio che tu ti sia trovato in mezzo a una brutta
faccenda, non avendo la possibilità di uscirne. O morire o saltare, come si dice”. Con il nodo alla
gola inizia a parlare: “Vengo da un paese dell’Albania distrutto dalla guerra. Ho visto morire donne,
bambini, vecchi e tanti giovani come me, non ce la facevo più, vivevo ogni giorno con la paura di
venir ucciso. E allora un giorno decisi di fuggire. Con un gruppo di amici, aiutati da un tizio che con
il proprio camion trafficava armi, riuscimmo ad arrivare non molto lontano dal confine italiano, che
raggiungemmo dopo alcune ore di viaggio a piedi”. “Ma cosa speravate di trovare in Italia?” Dissi
interrompendolo. “ Venite tutti qui perché pensate che sia il paese del bengodi, poi vi accorgete che
non è così e cominciate a rubare e spacciare droga”. “E’ vero”, adesso me ne sono accorto anch’io,
ma quello che vedevo alla televisione non era questo, anzi la tv ci mostrava immagini di persone
felici, belle case con tutti i confort, belle macchine, telefonini, bei ragazzi e belle donne. Anche se la
guerra ha contribuito più di ogni altra cosa alla mia fuga, in buona parte è anche questo che mi ha
spinto a scappare dal mio paese. Mi sono accorto che qui, per gente come me, non è facile trovare
un lavoro, o se lo trovi sei obbligato a lavorare in nero e con uno stipendio da fame, e poi, quando
va bene, dividi una stanza con altre 5 o 6 persone. Poi appare un tuo connazionale, con una bella
macchina sotto il culo, bei vestiti addosso, che ti offre un lavoro, dove si fanno soldi a palate senza
fatica. Subito magari non accetti, sperando che intanto qualcosa cambi. Ma le cose invece vanno
sempre peggio, e ti ritrovi a vendere droga o a rapinare banche senza neanche accorgertene”. Non
trovo parole per replicare, in fondo ha ragione: che cosa può offrire questa società a gente come lui?
“Ma tu come mai sei finito dentro?”. “Facevo il palo durante un furto, ma fummo visti e alcune
persone avvertirono la polizia. Io non ho fatto in tempo a scappare, gli altri invece si”. “ E così ti sei
fatto beccare come un fesso! Ma dico io. Ti hanno messo in mezzo ad un affare che poteva fruttarti
poche migliaia di euro. Almeno fosse stata una rapina in banca, dove i soldi rubati potevano
cambiarti la vita. Ma così no, non è possibile!”. Rimane in silenzio fissando il finestrino. “Quanto ti
hanno dato al processo?”. “Per il momento sei mesi, poi mi sa che se non trovo qualcosa da fare
rischio l’estradizione, non ho ne un lavoro, ne una casa, quindi il mio destino è gia segnato”. Si
rimette in silenzio a fissare chissà cosa. “A cosa pensi?”, gli chiedo. “Penso al mio paese e a come
mi sono ridotto. Vede quelle montagne laggiù? La mia casa è circondata da montagne come quelle e
in fondo alla valle scorre un fiume. Dove con gli amici andavo a fare il bagno. Chissà cosa sarà
rimasto. Forse nemmeno la casa. Cosa ci torno a fare? Me lo dica lei”. In quelle parole c’é tanta
amarezza e solitudine. Penso ai nostri giovani, ai quali non manca nulla: la moto, la macchina
sportiva, il cellulare, il pantalone o la camicia griffata; e ciononostante non sono mai contenti, anche
se per fortuna non sono tutti così. Il treno rallenta. Le prime case della periferia cominciano a
scorrere davanti al finestrino. “Siamo quasi arrivati”, gli dico. Gli faccio cenno di alzarsi e ci
incamminiamo verso l’uscita. Ad aspettarci c’è un collega della Questura del luogo. Glielo
consegno, poi con una stretta di mano saluto entrambi. Risalgo sul treno che mi riporterà a casa, ma
poi penso che forse Laszlo quando uscirà avrà bisogno di aiuto, quindi ridiscendo le scale in fretta,
tiro fuori dal portafoglio un biglietto da visita sgualcito, l’ultimo che mi è rimasto, e lo porgo al
ragazzo dicendogli: “ Quando esci chiamami, mi raccomando, non fare lo stupido, la mia casa è
abbastanza grande per tutti e due, almeno fino a quando ti sarai sistemato”. Mi guarda incredulo e
mi ringrazia. Il collega mi sorride. Sono sicuro di aver lasciato Laszlo in buone mani.
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