Leggi il saggio in catalogo di Antonio Natali
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Leggi il saggio in catalogo di Antonio Natali
Madonne fiorentine Raffaello, amico di Ridolfo di Antonio Natali Direttore della Galleria degli Uffizi, curatore della mostra Reputo torni conveniente all’attuale circostanza (la presentazione, cioè, della Madonna del Cardellino restaurata) che, insieme a ragionamenti utili a inquadrare la genesi dell’opera (dipinta da Raffaello intorno al 1506),1 si svolgano riflessioni sulle vicende occorse alla tavola in seguito al crollo, nel 1547, del palazzo dov’era conservata. Alla fine, quanto le venne fatto, a seguito dei guasti conseguenti a quella frana, fu giustappunto un intervento di restauro; non meno ammirevole peraltro – viste le nozioni d’allora – di quello odierno, così sensibile. Quello di metà Cinquecento fu il primo, precocissimo, lavoro vòlto al recupero d’uno dei testi più poetici e celebrati d’ogni tempo. Il giovane Raffaello, dopo l’educazione all’arte ricevuta dal padre Giovanni Santi e dopo la frequentazione di maestri importanti come il Perugino e il Pintoricchio, era venuto a Firenze nel 1504 per vagliare di persona la portata di quei fatti di cui in ogni parte d’Italia e all’estero si propagava la risonanza. Non c’è più certezza, oggi, se vi sia arrivato – come un tempo si diceva – con una lettera di raccomandazione di Giovanna Feltria; che d’altronde avrebbe ben potuto caldeggiare al gonfaloniere, Piero Soderini, quel suo conterraneo, s’è vero – conforme a quanto lo stesso Raffaello scrive – che comunque la duchessa aveva di lui stima e lo favoriva.2 Come che sia, un viaggio dell’Urbinate a Firenze era giustificato dalla fama di cui allora la città a buon diritto godeva. Firenze fu, tra gli ultimissimi anni del Quattrocento e i primi dieci del Cinquecento (ma soprattutto in quest’ultimi), città fervida d’un moderno umanesimo e luogo privilegiato d’una sperimentazione formale che avrebbe prodotto frutti ineguagliati. Giravano per le sue vie – in quella stagione irripetibile – artisti come Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Perugino, Andrea della Robbia, Fra’ Bartolomeo, Andrea del Sarto (e se ne sta ricordando qui solo la parte più eminente e acclamata). I giovani potevano formarsi (e quelli meno giovani aggiornarsi) sui testi della grande tradizione: gli affreschi di Giotto a Santa Croce con quelli di Masaccio nella Cappella Brancacci al Carmine; e tutti, poi, avevano la possibilità di conoscere e saggiare la portata delle novità che crescevano proprio a Firenze: a principiare dai cartoni preparatori (a giusta ragione definiti da Benvenuto Cellini «scuola del mondo»)3 di Leonardo e Michelangelo per i dipinti con le Battaglie d’Anghiari e di Cascina, che monumentali avrebbero dovuto campeggiare (se fossero andati a buon fine) sui muri della sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio (figg. 1-2). Riguardo alla capacità d’attrazione e all’efficacia didattica del cartone michelangiolesco andrà riletto il brano di Giorgio Vasari che con icastica semplicità dà la misura dell’una e dell’altra: … tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte ecc[ellenti], come vedremo; poi che in tale cartone studiò Aristotile da S. Gallo, amico suo [di Michelangelo, cioè], Ridolfo Ghirlandaio, Raffael Sanzio da Urbino, Francesco Granaccio, Baccio Bandinelli et Alonso Berugetta [Berruguete] spagnuolo; seguitò Andrea del Sarto, il Francia Bigio, Iacopo Sansovino, il Rosso, Maturino, Lorenzetto, e ’l Tribolo, allora fanciullo, Iacopo da Puntormo e Pierin del Vaga, i quali tutti ottimi maestri fiorentini furono.4 Ma per aver nozione vieppiù nitida di come Firenze fosse allora una vera e propria officina dell’espressione artistica, si dovrà poi abbinare questa pagina a quella, scritta sempre da Vasari, dove parimenti s’esalta il valore formativo degli affreschi di Masaccio nella cappella del Carmine: … da infiniti disegnatori e maestri continuamente fino al dì d’oggi è stata frequentata questa cappella … Laonde le sue [di Masaccio] fatiche meritano infinitissime lodi, e massimamente per avere egli dato ordine nel suo magisterio alla bella maniera de’ tempi nostri. E che questo sia il vero, tutti i più celebrati scultori e pittori che sono andati da lui in qua, esercitandosi e studiando in questa cappella, sono divenuti eccellenti e chiari.5 Fatti alcuni nomi d’eminenti artefici del Quattrocento, Vasari prosegue la sua lista con quelli di coloro che vissero la stessa stagione di Raffaello: … Lionardo da Vinci, Pietro Perugino, fra’ Bartolomeo di San Marco, Mariotto Albertinelli et il divinissimo Michelagnolo Buonarroti; Raffaello ancora da Urbino di quivi trasse il principio della bella maniera sua, il Granaccio, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Grillandaio, Andrea del Sarto, il Rosso, il Franciabigio, Baccio Bandinelli, Alonso Spagnolo, Iacopo da Puntormo, Pierino del Vaga e Toto del Nunziata.6 Dopo l’esercizio su quei modelli insuperabili, giovani e maestri affermati avevano poi modo di confrontare le loro indagini espressive nelle botteghe; dove certo si lavorava, ma dove anche si ragionava di linguaggi figurativi. È ancora Vasari a serbarne poetica memoria, disegnando la biografia di Baccio d’Agnolo, nella cui bottega, appunto, 2 … dimoravano assai con esso lui, oltre a molti cittadini, i migliori e primi artefici dell’arte nostre, onde vi si facevano, massimamente la vernata, bellissimi discorsi e dispute d’importanza. Il primo di costoro era [scrive di seguito, magari mescolando un po’ le date, il biografo] Raffaello da Urbino, allora giovane, e dopo Andrea Sansovino, Filippino, il Maiano, il Cronaca, Antonio e Giuliano Sangalli, il Granaccio, et alcuna volta, ma però di rado, Michelagnolo, e molti giovani fiorentini e forestieri.7 La notizia – su cui non sarà mai troppo lunga una riflessione – è di grande riguardo.8 Dalle parole di Vasari si viene a conoscenza che, giusto all’epoca in cui germinava la “maniera moderna”, gli artisti si radunavano lì a discutere d’arte non solo fra sé, ma anche con gl’intellettuali loro concittadini. Ne sortivano «bellissimi discorsi e dispute d’importanza». Parole che andranno debitamente soppesate, anche perché la cultura (letteraria e figurativa) si propagava in città proprio in virtù d’elaborazioni cresciute nei circoli umanistici, ma – come senz’ombra di dubbio enunciano queste righe – pure nelle botteghe degli artisti; con incontri in cui ognuno, portando la specificità delle sue competenze, contribuiva all’arricchimento e alla complessità del pensiero comune. «Massimamente la vernata», dice il biografo, con aria di poesia. Soprattutto d’inverno, cioè; allorché il sole calava presto e per forza si lasciavano gli strumenti di lavoro e i posti dove s’andava a indagare dal vivo la lezione dei grandi. Quando dalle vetrate la luce non dava più chiarore alle storie affrescate nelle cappelle absidali di Santa Croce, né più s’apprezzavano le figure tornite e solide di Masaccio sulle pareti della Brancacci, raccolti i fogli disegnati, ci s’avviava verso Santa Maria del Fiore; e lì, al canto de’ Bischeri, ci si fermava nelle stanze di Baccio d’Agnolo, dove s’era certi di trovar sempre qualcuno con cui scambiare opinioni e idee sull’espressione nuova che andava maturando. Era un posto ideale. Coloro che vi lavoravano stabilmente (per lo più “legnaioli” come il principale, ch’era però anche grande architetto e sovente capocordata d’imprese artistiche) s’applicavano all’intaglio tenendo fede ai progetti grafici spillati sui muri: impegno più meccanico di quello che pretendeva la dipintura d’una tavola e magari più agevole da svolgere al lume d’una lucerna. Sicché veniva facile calarsi nelle discussioni. E quali discussioni! E poi tra chi! È lì che Raffaello, «allora giovane» – s’è udito dire da Vasari –, bazzicava. In quella rinomata bottega (dalla cui frequentazione non credo si sia astenuto Leonardo, tornato in città un anno prima del Sanzio) la sua lingua, fin allora sostenuta dall’eloquio soave di Perugino e impreziositasi nel sodalizio con Pintoricchio,9 trovò verisimilmente vocaboli nuovi e nuova sintassi; in un rapporto, che dovette essere profondo e financo appassionato, non solo coi maestri attempati, ma anche cogli artefici parimenti giovani. Nel novero dei quali saranno stati Ridolfo del Ghirlandaio e Aristotile (Bastiano) da Sangallo,10 i pittori cioè che Vasari rammenta come quelli che più di altri strinsero con lui 3 una vera amicizia. Legame avvalorato da un’altra pagina vasariana, là dove si esalta la valentia di Ridolfo: siccome fra i tanti che andavano a «dipignere» il cartone di Michelangelo per la Battaglia di Cascina «il più valente di tutti era tenuto Ridolfo Grillandai, Bastiano se lo elesse per amico, per imparare da lui a colorire; e così divennero amicissimi».11 D’altronde erano tutt’e tre quasi della medesima età: Ridolfo e Raffaello erano nati nel 1483, Aristotile nel 1481. E quando siamo sui vent’anni, o poco oltre, giova all’amicizia l’esser coetanei. È però segnatamente su quella tra Ridolfo e Raffaello che l’aretino insiste, ribadendola anche nella biografia proprio di Ridolfo, di nuovo esaltato per le sue doti d’artista (stavolta però grafiche): … disegnando al cartone di Michelagnolo, era tenuto de’ migliori disegnatori che vi fussero, e perciò molto amato da ognuno, e particolarmente da Raffaello Sanzio da Urbino, che in quel tempo, essendo anch’egli giovane di gran nome, dimorava in Fiorenza, come s’è detto, per imparare l’arte.12 Fu un legame – il loro – che dovette produrre effetti di sintonia, come frequentemente càpita fra artisti ancora in fase di maturazione, anche se grandi. Ed è pertanto da prestar fede a Vasari quando scrive che Raffaello cercò in più modi di convincere Ridolfo a raggiungerlo a Roma, dopo che lui nel 1508 ci s’era trasferito; forse – chissà – per qualche lavoro comune.13 Così com’è in fondo credibile che Ridolfo non abbia voluto lasciare Firenze, giacché tanti furono gli artisti fiorentini d’allora a rivelarsi incapaci di perdere «la cupola di veduta»; come di loro scrive spesso Vasari, alludendo alla cupola di Santa Maria del Fiore, che, svettando di molto sui tetti della città, si vede anche negl’immediati contorni; ma certo non allontanandosene troppo. Nel clima di un’amicizia o – come forse sarebbe meglio dire – d’una fraterna consentaneità tra i due, s’inquadra la memoria (sempre vasariana) di Ridolfo che porta a perfezione un’opera lasciata incompiuta da Raffaello: … gli lasciò a finire il panno azurro et altre poche cose che mancavano al quadro d’una Madonna che egli avea fatta per alcuni gentiluomini sanesi: il qual quadro finito che ebbe Ridolfo con molta diligenza, lo mandò a Siena. 14 Per solito s’è voluto riconoscere questa «Madonna» nella Bella giardiniera del Louvre (fig. 3); tavola così apprezzata da vantare anche repliche plastiche quasi coeve, com’è quella di Girolamo della Robbia (cat. 5), che qui varrà anche da attestato dell’influsso di Raffaello sugli scultori a Firenze. Ma non sono mancate – riguardo a quest’identificazione – le voci discordi o, quanto meno, prudenti.15 Indiscutibile comunque rimane l’ascendente forte di Raffaello sul coetaneo fiorentino, a buon diritto reputato il suo più diretto erede.16 4 Ma, se anche la notizia vasariana del quadro portato a buon fine da Ridolfo si dovesse alla fine rivelare un aneddoto, a maggior ragione troverebbe conforto la familiarità stilistica tra i due, rimasta a tal segno celebre da lasciare tracce – con un siffatto topos – nelle loro biografie postume.17 È vero che quanto di certo si conosce di Ridolfo non è sempre così pianamente assimilabile alla linea raffaellesca; ma non di meno quanto è stato comunque attribuito a Ridolfo negli anni d’esordio del Cinquecento non è davvero d’ostacolo a credere che Raffaello giudicasse l’amico in grado di sostituirlo nel compimento d’un suo lavoro, presumibilmente nella convinzione che nessuno avrebbe ravvisato la diversità di mano.18 Non sarà d’altronde da ritener casuale che taluni ritratti di Raffaello abbiano avuto in passato ascrizioni a Ridolfo e viceversa. 19 Viene, comunque, di sospettare che all’effettivo accertamento del “raffaellismo” (per così dire) di Ridolfo non abbia giovato la sua precoce adesione a quegli stilemi d’oltralpe che agl’inizi del Cinquecento – rammenta Vasari20 – esercitarono un forte ascendente sugli artisti fiorentini. E Ridolfo, come Andrea del Sarto, fu tra i primi a mostrarne i segni; non solo nelle invenzioni e nei tracciati grafici, ma financo nelle fisionomie. 21 Evoco a titolo d’esempio le due tavole con miracoli di san Zanobi dipinte da Ridolfo poco dopo la metà del secondo decennio,22 giacché sono un veridico, palmare attestato dell’influenza dei modelli oltramontani sull’eloquio fiorentino (fig. 4). Basterà guardare le teste; così marcate nei tratti somatici da sembrar spiccate da quadri tedeschi;23 a cui peraltro rinviano anche le quinte architettoniche in lucido scorcio prospettico. E tuttavia, sotto pelle, ancora s’avverte che pulsa la vena del naturalismo bello e prezioso di Raffaello. Sono questi i pensieri che inducono a rimeditare sulla paternità della cosiddetta Monaca degli Uffizi, ritratto femminile dipinto sullo scadere del primo decennio del sedicesimo secolo e gratificato di grande notorietà nel diciannovesimo, quando si pensava che Leonardo ne fosse l’autore (cat. 3). Si dava evidentemente, allora, così grande risalto all’ascendente della ritrattistica vinciana su quel busto di donna elegante, da riferirne a lui in persona l’autografia. Altrettanto evidentemente si sviliva però il suo più immediato antefatto, giacché la Monaca quasi d’obbligo presuppone una conoscenza perfino intima dei ritratti eseguiti da Raffaello durante il suo soggiorno a Firenze. È un’effigie che quasi non si spiegherebbe senza quei busti femminili che si danno all’Urbinate: Maddalena Doni, la Muta, la Gravida. Quest’ultima, anzi, par come sortita dalle stesse stanze, se non proprio dalla stessa mente. Sicché, non essendo stilisticamente ammissibile un’attribuzione della Monaca al Sanzio e risultando però l’àmbito fiorentino assolutamente pertinente, per forza sempre se n’è cercato giusto a Firenze l’artefice. E lo s’è fatto frugando appunto nel mazzo dei pittori che al Sanzio furono più vicini. Tra quelli operosi in città quasi sempre s’è pensato – quantunque non siano mancati sbandamenti – a Giuliano Bugiardini; che anche di recente è parso il nome più appropriato.24 Di quest’ascrizione è facile comprendere il percorso logico; più problematico – almeno a me – risulta condividerne l’esito ultimo. Capisco, per esempio, 5 che possa tornar calzante con gli stilemi di lui il nitore perspicuo che disegna i lineamenti della giovane donna: le labbra soavemente tumide, il naso dritto che si fa delicatamente plastico alle narici, le arcate sopraciliari che s’innestano al setto nasale come una geometrica graffa, il bulbo oculare che s’affaccia alle palpebre come fossero incise da una sgorbia e marcate (sopra) da un deciso eyeliner. Ma, a ben vedere, sono caratteri – questi – che discendono dritti da Raffaello e, presi a sé, possono essere stati assunti da chiunque condividesse (purché pittore di rango) la sua disposizione culturale e formale, e anzi di lui sentisse il fascino.25 Non è un caso che i più convinti assertori della paternità del Bugiardini per la Monaca propongano d’assegnare a lui anche la Muta, che invece da quasi tutti è data al Sanzio.26 E però, al di là di quanto s’è qui brevemente argomentato, mi pare che il Bugiardini – come già in passato m’è occorso di ventilare27 – sia incapace di toccare il livello formale e poetico cui perviene la Monaca. Non è raro, in verità, che l’espressione duretta di lui produca risultati affini nei volti dei suoi effigiati; ma l’effetto che ne viene è sempre quello d’un’aria fra lo sbalordito e l’imbambolato. Né poi mi sembra che a lui pertenga la morbida e però plastica definizione dei panni, che con qualche sensualità coprono le carni rosate della signora, dal seno (peraltro lasciato per buona parte agli sguardi) in su. Così come non trovo in linea coi paesaggi del Bugiardini la vibratile ma verace epifania d’una Firenze prossima alla sera (visione di paesaggio che sarebbe difficile capire senza i lirici e nel contempo realistici tagli di città e panorami di campagne dipinti da Domenico Ghirlandaio). Se ci si dovesse attenere alle fattezze somatiche della donna e su quelle fondare una congettura attributiva, di nuovo – mi pare il caso d’insistere – sarebbe necessario tornare a qualcuno di quei ritratti che si legano al periodo fiorentino di Raffaello. E se ne troverebbero financo puntuali riscontri nella Gravida, poc’anzi evocata (cat. 2); dove la dama ha fattezze che indurrebbero addirittura al sospetto d’una parentela con la modella della nostra Monaca, di lei magari rivelandosi soltanto un po’ più in carne.28 Osservandone lo stile, ci s’avvedrà che la parte in ombra dell’ovato del viso è in tutt’e due i casi annebbiata e come sfalsata rispetto al lato in luce; e quasi ne viene, specie negli occhi, una lieve asimmetria. Se non fosse per quel canto più disteso e lirico che pervade la Gravida e per la sua più quieta e insieme solenne presenza, confesso che la tentazione di proporre per entrambe la medesima paternità sarebbe forte. D’altronde andrà rammentato che gli antichi inventari delle collezioni medicee non fanno per essa menzione di Raffaello in veste d’autore e che solo sulla metà dell’Ottocento il nome del Sanzio prese campo, fino a essere quasi unanimemente accolto (com’è ai giorni d’oggi). Non mancò tuttavia, poco oltre quella stagione, il dissenso autorevole di Crowe e Cavalcaselle; che, pur significativamente collocando il quadro al tempo in cui Raffaello dipingeva Maddalena Doni, ritennero il «bel ritratto» un’opera di mano di Ridolfo del Ghirlandaio.29 6 È verisimile che Ridolfo sia aggallato alla mente dei due storici non soltanto per via di ciò che i suoi lavori lasciavano presagire riguardo all’ascendente su di lui dell’Urbinate, ma anche per quanto era stato senza incertezze da Vasari tramandato circa i loro rapporti. E comunque non è da tacere che tuttora – sia pure in casi rari – permane una specie d’interscambiabilità fra i due nomi; notazione che senz’altro depone a favore della qualità pittorica, ma anche poetica, di Ridolfo. Si pensi al ritratto femminile della Galleria Palatina a Firenze, datato 1509, da quasi tutti reputato di sua mano, ma da qualcuno invece assegnato – con minore o maggior cautela – a Raffaello (fig. 5).30 Si dovrà però, pervenuti a questo segno, porsi il quesito di quello che il giovane Sanzio poté recepire a Firenze proprio riguardo alla concezione del ritratto, giacché, se l’ascendente esercitato da Leonardo fu determinante nello scatto da lui compiuto in riva d’Arno in questo genere, non reputo si possa trascurare l’influenza (talora, a mio avviso, financo decisiva) che la ritrattistica – veridica, solida, eppure così poetica – di Domenico Ghirlandaio avrà suscitato sui volti pur sempre amabilmente idealizzati di Raffaello, consigliandogli un più schietto naturalismo.31 E Ridolfo, che di Domenico era figlio ed erede, non avrà certo mancato di far da guida al coetaneo urbinate nelle storie che il padre aveva affrescate sui muri della cappella maggiore di Santa Maria Novella o su quelli della Cappella Sassetti in Santa Trinita. Una volta inquadrata in tal guisa la questione, credo possa perfino venire il sospetto che Raffaello abbia maturato la sua nuova ottica giusto accanto a Ridolfo; cui ovviamente suonava familiare la concezione paterna del ritratto. E alla fine ci s’avvedrà ch’è per l’appunto questa concezione a informare anche l’effigie della “monaca”. Nel quadro degli Uffizi mi pare che la maniera di Ridolfo possa esser sottesa anche alla vena narrativa affabile che impronta le due perspicue epifanie di qua e di là d’Arno, che, profilate sotto cieli alti, si traguardano dai due fornici aperti alle spalle della donna; vedute che sono a mezza via fra quelle (naturalistiche e compassate) del padre Domenico (come or ora si diceva e come si osservano nella Visitazione di Santa Maria Novella, per dire) e quelle – preziose e vivide – del Raffaello fiorentino. A sinistra si dipana il corteo di colonne del porticato dell’Ospedale di San Paolo e, dietro (ma prima d’arrivare ai colli degl’immediati contorni), s’ergono discrete l’abside e la piccola cupola di Santo Spirito ancora senza il campanile di Baccio d’Agnolo, tirato su fra il 1512 e il 1518. A destra s’allungano i campi e i tetti d’edifici che sommuovono la breve piana verso Porta al Prato: un palazzotto a due livelli potrebbe alludere alla primitiva dimora di Bernardo Rucellai, costruita allo scoccare del Cinquecento; poco oltre, vista di fianco, è la chiesa del monastero di San Jacopo di Ripoli.32 E, qua e là, in questi luoghi, per le strade balugina un’umanità minuta, che anima, di ritmi quieti, panorami di casamenti urbani, rievocando, per esempio, scene di vita come quella col soccorso pietoso dei confratelli figurata da Ridolfo nella predella del Bigallo, 1515. Alla Monaca – prima che agli esordi dell’Ottocento pervenisse nelle collezioni granducali toscane – era abbinata una coperta di ritratto, anch’essa oggi agli Uffizi (una 7 di quelle tirelle, cioè, che, scorrendo in apposite guide, venivano calate per proteggere la pittura o, viceversa, sollevate per poterla guardare; cat. 4). Vi campeggia – tra raffinate grottesche in finto rilievo, spiccate da un fondo rigato di linee verticali come scalfito da una piccola sgorbia – una tabella classica con la scritta, desunta fedelmente da modelli latini, SVA CVIQVE PERSONA (in lettere capitali).33 Quando ancora non era stato proposto l’accostamento fra la Monaca e la tirella e dunque su quest’ultima s’esprimevano pareri che per forza prescindevano dal suo indispensabile complemento, fu stilata per essa una scheda sul catalogo dell’indimenticabile mostra medicea di Palazzo Vecchio del 1980, in cui si proponeva d’assegnarla a un pittore fiorentino sul 1510.34 Quattro anni dopo, Firenze volle celebrare il quarto centenario della nascita di Raffaello con un’esposizione dedicata alle opere di lui nelle collezioni fiorentine; e, nel saggio d’introduzione al catalogo, Mina Gregori, attenendosi anche a un parere di Federico Zeri, propose d’ascrivere all’Urbinate la coperta di ritratto (pur assente in mostra), occhieggiando ai ritratti Doni per una sua pertinenza. Le due diverse indicazioni attributive, alla fine, però, spartivano la geografia e un po’ anche la cronologia, perché di sicuro, pensando a Raffaello, si doveva restare alla stagione della sua permanenza a Firenze e dunque non oltrepassare il 1508. In effetti lo stile e lo spirito delle grottesche sono fiorentini: una lingua e una tipologia che di lì a poco sarebbero state patrimonio d’Andrea di Cosimo Feltrini, campione di quel genere pittorico. E però, in questo contesto, non andrà dimenticato che Ridolfo del Ghirlandaio fu, lui pure, pittore di grottesche; al punto che gli vennero commissionate – e proprio poco dopo il 1510 – quelle che fungono da illusorio fornimento ligneo intagliato nella Cappella dei Priori in Palazzo Vecchio (fig. 6). E lì, pur nel tempo ripassati, si troveranno motivi analoghi e tabelle con iscrizioni affini alla nostra tirella. Se poi lo sguardo indugerà sulla maschera (maschera di carne, tuttavia) ci s’avvedrà ch’essa ripropone in maniera solo un po’ più schematica (ma con quale soave tenerezza) i tratti somatici che dianzi si sono delineati ragionando del volto della “monaca”. Alla quale – nonostante il lieve spostamento del punto di vista – si potrà perfino sovrapporre senza che quasi alcun segno traligni. Come se quella maschera fosse stata cavata da un calco del viso di lei; quasi fosse insomma una sua seconda faccia. Quella seconda faccia di cui avverte la scritta SVA CVIQVE PERSONA: a ciascuno la sua maschera. Monito morale – come s’è visto – di matrice antica, al pari dei caratteri con cui è riportata sulla tabella. E subito nasce naturale la curiosità di conoscere quali attinenze alla donna effigiata potesse avere quel motto. L’identità di lei sarebbe ovviamente indispensabile a qualsiasi congettura. Non avendone però al momento nozione, si potrà solo – con un gioco d’azzardo – tentare di forzare qualche indizio che le due tavole ritengono. O, se non proprio forzarlo, almeno metterlo sul tavolo. Per principiare allora si ripeterà (con l’intento stavolta di cavarne ragguagli iconologici) che nelle due aperture di paese, alle spalle della signora, le fabbriche ch’emergono con un 8 ruolo di riguardo sono l’Ospedale di San Paolo (con tre monachine che, in fila indiana, ne sortono), a sinistra, e la chiesa col monastero di San Jacopo di Ripoli, a destra. Ebbene, entrambi gli edifici erano, all’epoca dell’esecuzione del ritratto, luoghi gestiti da terziarie o da suore; donne consacrate e donne di condizione laica, legate a ordini religiosi: ai domenicani le suore di San Jacopo di Ripoli, ai francescani le terziarie dell’Ospedale di San Paolo (che proprio fra Quattro e Cinquecento erano rimaste le sole – senza più gli uomini – a gestire quel luogo di carità).35 E al cospetto del ritratto è – già questa – un’indicazione meritevole d’essere tenuta in conto, giacché la nostra dama (appellata per l’appunto “la monaca”, nonostante l’abbigliamento) manifesta proprio nelle vesti il suo stato secolare, badando tuttavia a tenere bene in vista un libriccino d’orazioni o comunque di letture sacre; come a voler ribadire la coesistenza, nelle sue personali scelte di vita, di due modi d’essere. E il motto scritto sulla “coperta”, con quel suo alludere a un doppio contegno, darebbe un qualche conforto all’ipotesi. Torna ora conveniente rileggere una pagina poco più tarda della tirella, scritta sempre a Firenze. È Francesco Guicciardini, nella sua Consolatoria, 1527, a evocare lo stesso concetto. Il brano si trascrive per intero (solo limitandoci a mettere il corsivo alla frase che ricalca l’avvertimento) perché il senso che se ne desume par giustappunto confacente a un’esistenza come quella che ora c’è piaciuto figurarci: Dicono alcuni savi che la vita nostra è simile a una commedia, nella quale a dare laude a coloro che vi recitano, non si attende tanto che persona ciascuno sostenga, quanto se porta bene la persona che ha: perché a ognuno tocca a fare la persona che gli è assegnata, e quello che è proprio suo è el modo del farla. Così la persona che sostegnamo nel mondo è quella che ci è data dalla fortuna, ma quello che è laudato in noi è el modo con che noi viviamo nel grado o nella sorte nostra; e se nelle commedie è degno di laude chi rapresenta bene una persona, quanto sarà più lodato chi ne rapresenterà bene dua, massime di spezie diversa! Così se tu consideri bene, non ti toglie la riputazione lo essere passato dalle faccende allo ocio, anzi te la raddoppia se tu saprai usarla bene; e se in quella persona che tu hai insino a ora rappresentata è stata la tua rara laude, sarà rarissima a chi considererà che n’abbia usato egregiamente dua.36 Ancora attingendo al paesaggio del fondo e ancora riflettendo sugli edifici che vi figurano, non si potrà poi fare a meno di rammentare che nella chiesa del monastero di San Jacopo di Ripoli («soggetto all’ubbidienza de’ Padri di Santa Maria Novella», 37 convento domenicano lì a due passi) c’erano due pale d’altare dipinte da Ridolfo del Ghirlandaio sulla metà del primo decennio del Cinquecento;38 e sempre lui, una ventina d’anni dopo e con la collaborazione del suo più caro discepolo, Michele Tosini, altre due ne avrebbe dipinte per quel luogo (una delle quali destinata all’altare del coro delle monache).39 9 Fra i monasteri di religiose quello di San Jacopo di Ripoli era uno dei più antichi e rinomati.40 In quelle stanze – s’apprende da Giuseppe Richa – erano vissute «Donne della primaria Nobiltà»;41 ma del centinaio di suore che vi soggiornavano, nel 1348 (anno del terribile incrudelimento di peste) soltanto tre riuscirono a salvarsi dalla morte.42 In seguito a quel tragico tracollo, i padri domenicani si adoprarono per far risorgere il monastero, a cui, dopo la metà del Quattrocento, dettero grandissimo impulso gli Antinori; al segno da far dire allo stesso Richa che la chiesa annessa «con tutta ragione può dirsi un glorioso monumento della pietà» loro.43 Giusto gli Antinori commissionarono a Ridolfo del Ghirlandaio le due tavole di cui sopra s’è detto, per collocarle nei due altari di loro patronato, in quei tempi gli unici sulle pareti laterali della chiesa: a destra, la lucida e solare Incoronazione della Vergine, «di vago colorito» e «straordinaria diligenza»44 (1504; oggi al Musée du Petit Palais d’Avignone); e, dirimpetto, lo Sposalizio di santa Caterina, «tanto bella, che par miniata»45 (1506-1507; ora conservato a Villa La Quiete nei contorni immediati di Firenze).46 Allogagioni che con ogni probabilità vanno ascritte a Niccolò di Tommaso Antinori, definito – per le sue numerose e cospicue donazioni a favore di San Jacopo di Ripoli nei primi anni del Cinquecento – «benefattore massimo» nei libri di Ricordanze del monastero.47 Fu Niccolò ad acquistare nel 1506 il palazzo splendido nei pressi della chiesa di San Gaetano;48 un edificio dalla cui altana, sul retro, si poteva anche allungare l’occhio verso la Porta al Prato e comodamente guardare giustappunto il monastero di San Jacopo; dove una figlia di Niccolò Antinori, Caterina, dimorò, vedova e inferma. Lo s’apprende dal testamento stilato da lui nel 1520, otto anni prima di morire. In quella carta Niccolò – che peraltro chiedeva d’esser sepolto coi familiari nella chiesa di Santo Spirito (essa pure, come s’è dianzi rilevato, ben in vista nella veduta di paese a sinistra della “monaca”) – sanciva lasciti sostanziosi per quella sua figlia sfortunata.49 Sono notizie che danno adito a qualche trama (alla fine neppur troppo romanzesca). Pare ammissibile – tanto per cominciare – che gli edifici illustrati alle spalle della “monaca” abbiano un valore d’emblema. Se si conviene sia così, il monastero di San Jacopo di Ripoli potrebbe avere una relazione con la donna ritratta. Documentati invece sono i legami – fortissimi, s’è visto or ora – fra San Jacopo di Ripoli e la famiglia Antinori. Parimenti indiscutibili saranno da reputare poi i rapporti fra gli Antinori e Ridolfo del Ghirlandaio (altrimenti perché, sui due altari della famiglia ch’erano lì in chiesa, fu tutt’e due le volte deciso d’affidare a lui l’esecuzione della relativa pala?). E quando infine si accetti che a Ridolfo pertenga la paternità della Monaca e della sua tirella, meno fantasiosa suonerà la voglia di provare a battere la strada della congettura che ad essere effigiata sia stata una donna di casa Antinori. Le osservazioni stilistiche (ma anche quelle che scaturiscono da ulteriori specifiche misurazioni condotte da Rita Alzeni, che proprio in questi giorni ha restaurato, con la consueta fine sensibilità, sia la Monaca che la “coperta”) invitano dunque a riproporre un abbinamento che risulta documentato in epoche passate.50 Documentato dalle carte degli 10 archivi, rilette dopo che uno storico attento e generoso come Alessandro Conti m’aveva consigliato di tenerle in considerazione; ma documentato anche da quelle stampate.51 E mi pare sia un abbinamento che suona di conforto all’ascrizione delle due tavole (sia la Monaca che la tirella) a Ridolfo del Ghirlandaio, nel suo momento di maggior vicinanza all’amico Raffaello. Sono tutte queste riflessioni che m’hanno portato a credere sia stato allora Ridolfo il pittore chiamato a risarcire la Madonna del Cardellino di Raffaello, quando l’opera, sulla metà del Cinquecento, rimase sotto le macerie della residenza di Lorenzo Nasi, che n’era stato il committente. Vasari, che pur serba memoria dettagliata di quel disastro e dei danni occorsi al quadro, non sente la necessità di tramandare il nome del pittore intervenuto a restaurarla. Eppure ne scrive a soli tre anni di distanza dal crollo, nell’edizione delle Vite del 1550.52 Ma, dopo quanto aveva riferito delle relazioni corse fra l’Urbinate e il fiorentino nelle biografie dell’uno e dell’altro, non potrà risultare astrusa la congettura che nessuno sia stato a quell’epoca ritenuto più adatto di Ridolfo a metter le mani su un’opera di Raffaello tanto gravemente guastata. A chi si poteva infatti pensare d’affidare il compito del restauro di un’opera d’un maestro a quei tempi già mitico, se non all’uomo che da subito aveva mostrato di corrispondergli nell’espressione e che gli era stato così sodale da esser giudicato dall’Urbinate medesimo idoneo a chiudere un suo lavoro rimasto incompiuto? Tanto più che quel restauro – come già prima d’oggi si sapeva; ma come, ancor più chiaramente, ha rivelato l’odierno intervento – prevedeva un’ingerenza pesante nella figurazione dipinta da Raffaello. Queste le parole di Vasari nella seconda edizione delle Vite, 1568: ma capitò poi male quest’opera l’anno 1548 [ma 1547] a dì 17 novembre [9 d’agosto, aveva scritto nell’edizione del 1550], quando la casa di Lorenzo [Nasi], insieme con quelle ornatissime e belle degl’eredi di Marco del Nero, per uno smottamento del monte di San Giorgio rovinarono insieme con altre case vicine; nondimeno, ritrovati i pezzi d’essa fra i calcinacci della rovina, furono da Batista, figliuolo di esso Lorenzo, amorevolissimo dell’arte, fatti rimettere insieme in quel miglior modo che si potette.53 Su questa storia s’è molto insistito, non solo perché – come detto in preambolo – oggi si presenta l’ultimo intervento condotto su una tavola che già ai tempi suoi fu sottoposta a un arduo lavoro di recupero, ma anche per cercare di far chiarezza su quell’antico restauro, di cui quasi sempre s’è creduto essere stato artefice Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, prolifico pittore, allievo stretto di Ridolfo.54 Invero tuttora non si conosce una carta che attesti l’identità di chi operò il risarcimento della Madonna del Cardellino.55 È presumibile che Michele sia stato chiamato in causa dagli storici proprio per il suo discepolato col pittore che a Firenze fu il più intimo del Sanzio; ed è parimenti presumibile che il nome di lui sia parso a tutti più conveniente di quello del suo 11 principale per via della cronologia di quel restauro (post 1547); giacché Michele era nato nel 1503, cioè vent’anni dopo Ridolfo. E si dev’esser pensato che quest’ultimo fosse a quella data un po’ troppo avanti con l’età. Siccome però Ridolfo fu artista longevo (ancorché con qualche acciacco di salute), non pare inammissibile ipotizzare che a sessantacinque anni abbia accettato un incarico che, oltre tutto, doveva aver per lui risvolti anche d’affetti. Magari – e non sembri questa una giudiziosa uscita di compromesso – non sarà assolutamente da escludere che la “compagnia” Ridolfo/Michele abbia operato di concerto, perché è proprio negli anni quaranta che s’infittiscono i lavori di collaborazione. Al maestro – volendo secondar l’ipotesi d’un lavoro comune – sarà toccata la dipintura delle parti sofferenti nel colore o addirittura aggiunte, al più giovane, invece, il riassemblaggio dei brani lignei dopo la frantumazione della tavola. D’altronde nella bottega di Ridolfo – si sa per certo – si assumevano incarichi di restauri, o comunque d’aggiustamenti di varia natura. Basterà rammentare che quando la pala del Rosso Fiorentino per lo Spedalingo di Santa Maria Nuova (1518; fig. 7), destinata alla chiesa d’Ognissanti, venne ripudiata da chi l’aveva richiesta e spedita in una chiesa del Mugello, fu giustappunto alla sua bottega che venne affidato il compito non solo – com’è stato detto – di dotarla d’una nuova incorniciatura,56 ma anche di completarla là dove era rimasta incompiuta, e soprattutto d’apportare le modifiche indispensabili alla mutata ubicazione (trasformando, per esempio, il già dipinto san Leonardo – omonimo dell’indispettito committente, il Buonafede57 – in un santo Stefano, diacono cui era dedicata la chiesa mugellana).58 A Ridolfo (per come c’è dato conoscerlo) quella Madonna seduta su un masso solitario in mezzo a un prato sarà d’altronde sùbito garbata. Così come saranno risultati a lui graditi i due fanciullini, di tenera fattura eppure saldi d’impianto. Due bimbetti atteggiati in pose di gioco e d’affetto; e tuttavia memori di posture ellenistiche che giusto in quella stagione ammaliavano gli artefici; e a tal segno ne influenzarono l’espressione – tramanda convinto Vasari59 – da determinare lo scatto decisivo per una nuova “maniera”: la “moderna”. Il piccolo Gesù se ne sta appoggiato al ginocchio della madre e, lievemente arcuandosi sul fianco destro, distende il braccio verso il poco più grande Giovanni, cui struggente volge la testa e lo sguardo. Il suo corpicino, a ben vedere, viene così a secondare – sebbene in controparte – la posa cui s’attiene l’Apollo del Belvedere, marmo ch’è proprio del novero di quei pochi nominati da Vasari nel brano che s’è ora citato dal Proemio alla terza parte delle Vite. Solo la gamba flessa si discosta dal modello; e però, essa pure, un poco si piega; ma lo fa portandosi avanti invece che indietro. E alla postura d’Apollo si conforma – stavolta direttamente, ancorché più ancheggiante – il san Giovannino nel quadro della Bella giardiniera. Del prototipo antico si perde il tono eroico; ma s’avanza un languore, pertinente alla consapevole e assorta precognizione che grava sul cuore del bimbo. E alla mente 12 sovviene che un’emozione affine è sottesa a una pressoché coeva desunzione da quello stesso modello ellenistico; giacché, quando Michelangelo sceglie d’adottarne (almeno in parte) le movenze per uno dei suoi atleti schierati senza vestimenti nell’esedra dietro la Sacra Famiglia dipinta per i coniugi Doni, parimenti gli affida un sentimento patetico e struggente, sottacendone (anche lui) l’intonazione solenne60 (figg. 8-11). E lo stesso Battista infante – che Maria con delicatezza invita ad appressarsi al figlio, rinnovando il gesto amabile pensato per lei da Leonardo nella Vergine delle rocce – sembra ricordarsi d’ellenistici torsi allorché s’incurva per porgere a Gesù il cardellino; con un inarcamento del busto ch’è analogo a quello cui è costretto dalla cornice circolare il nudo che nel Tondo Doni è per l’appunto vicino all’emulo dell’Apollo. Questo, per dire dell’aria che allora si respirava e dell’esercizio comune sui modelli antichi. Due ritmi differenti animano il tondo del Buonarroti e la tavola di Raffaello: mosso, quantunque maestoso, l’uno; riposata e quieta l’altra. E però in entrambi s’avvertono nitidi i riverberi d’una mutata disposizione culturale e d’una partecipazione convinta al clima nuovo. NOTA. Il presente testo ripropone per un buon tratto, ma con una riflessione ulteriore, il saggio pubblicato in Raffaello: la rivelazione del colore. Il restauro della “Madonna del Cardellino” della Galleria degli Uffizi, a cura di M. Ciatti et al., Firenze 2008, pp. 2940. 1 Sulla data d’esecuzione della Madonna del Cardellino ancora valgono le indicazioni offerte dal catalogo della mostra che Firenze dedicò al Sanzio nel 1984: cfr. A. Cecchi, in Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, 1984), Milano 1984, p. 84; la scheda dell’opera su questo stesso catalogo (pp. 77-87, n. 5) è tuttora un punto di partenza ineludibile per lo studio della tavola. Riguardo alla cronologia sul 1506, è stato assunto come punto di riferimento il matrimonio di Lorenzo Nasi con Sandra di Matteo Canigiani, prima del febbraio 1506. 2 Sulla questione della lettera di Giovanna Feltria si veda Raffaello: da Urbino a Roma, catalogo della mostra (Londra, National Gallery, 2004-2005), a cura di H. Chapman, T. Henry, C. Plazzotta, con contributi di A. Nesselrath e N. Penny, London-Milano 2004, pp. 34, 63 note 128-131. Si veda anche V. Farinella, Raffaello, Milano 2004, p. 18. 3 Benvenuto Cellini, Vita, testo critico con introduzione e note storiche per cura di O. Bacci, Firenze 1901, p. 26. 4 Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, et architettori, … riviste et ampliate, 3 voll., in Fiorenza, appresso i Giunti, 1568, ed. in Id., Le Vite …, nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, 6 voll., Firenze 1966-1987, VI, pp. 24-25. 5 Ivi, III, pp. 131-132. 6 Ivi, III, p. 132. 13 7 Ivi, IV, p. 610. Alla memoria di Vasari dedicai buona parte del capitolo Oltre il Carmine e le “Battaglie”. La bottega di Baccio d’Agnolo e le “dispute d’importanza” nel saggio introduttivo (scritto a tre mani, con Alessandro Cecchi e Carlo Sisi) a L’officina della maniera. Varietà e fierezza nell’arte fiorentina del Cinquecento fra le due repubbliche, 1494-1530 (Firenze, Galleria degli Uffizi, 1996-1997), [a cura di A. Cecchi e A. Natali], Venezia 1996, pp. 7-69: 40-46. 9 Su questo si veda nel recente Pintoricchio di Francesco Federico Mancini (Cinisello Balsamo 2007) il capitolo La Libreria Piccolomini a Siena (pp. 207-249). 10 Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., IV, p. 160. 11 Ivi, V, p. 393. 12 Ivi, V, p. 438. 13 David Franklin suppone che Raffaello avesse chiamato a Roma Ridolfo «presumibilmente per assisterlo nell’affrescatura della Stanza della Segnatura» (Painting in Renaissance Florence, 1500-1550, New Haven, Conn.-London 2001, p. 110). 14 Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., V, p. 438. 15 Cfr. C. Strinati, Raffaello, «Art e Dossier», dossier n. 97, 1995, p. 22: «L’identificazione di quella Madonna con la Bella giardiniera è probabile ma non pacifica. Del resto, indagini radiografiche, non hanno confermato che il manto azzurro della Vergine sarebbe stato fatto da altra mano». Cfr. J. Meyer zur Capellen, Raphael. A Critical Catalogue of His Paintings. I. The Beginnings in Umbria and Florence, ca. 1500-1508, [trad. di S.B. Polter], Landshut 2001, p. 260. 16 Cfr. Franklin 2001, cit., p. 112. 17 Cfr. Raffaello Borghini, Il riposo, in Fiorenza, appresso Giorgio Marescotti, 1584, p. 388. 18 A. Natali, La coperta della monaca, in Id., La piscina di Betsaida. Movimenti nell’arte fiorentina del Cinquecento, Firenze-Siena 1995, pp. 117-137: 122. 19 La Gravida, per esempio, fu autorevolmente attribuita a Ridolfo del Ghirlandaio da Crowe e Cavalcaselle (G.B. Cavalcaselle, J.A. Crowe, Raffaello. La sua vita e le sue opere, edizione originale italiana, 3 voll., Firenze 1884-1891, III, pp. 420-421). 20 Vasari nella biografia d’Andrea del Sarto rammenta che «alcune stampe» di Dürer arrivarono a Firenze quando lui affrescava nel Chiostro dello Scalzo le Storie col Battesimo delle turbe e con la Predica del Battista; affreschi che si collocano sulla metà del secondo decennio del Cinquecento (1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., IV, p. 360). Nella Vita di Pontormo, là dove Vasari lancia la sua invettiva contro gli affreschi di Jacopo nel chiostro proprio perché fortemente segnati dall’influenza delle stampe düreriane, si legge dell’impatto di quelle medesime carte sugli artisti fiorentini, i quali, «di comune giudizio e consenso, predicavano la bellezza di queste stampe e l’eccellenza d’Alberto» (ivi, V, p. 320). 8 14 21 Per Andrea del Sarto cfr. A. Natali, Andrea del Sarto. Maestro della “maniera moderna”, Milano 1998, pp. 67-70; per Ridolfo del Ghirlandaio, Id., La cultura d’oltralpe, Pontormo, gli altri, in L’officina della maniera 1996, cit., pp. 262-263: 262. 22 Le due tavole (1516-1517) sono conservate nella Galleria dell’Accademia di Firenze, esposte ai lati dell’Annunciazione di Mariotto Albertinelli (1510), conforme alla loro ubicazione originaria. 23 Cfr. C. Sisi, in L’officina della maniera 1996, cit., p. 266, n. 89. 24 Cfr. E. Cropper, in Virtue and Beauty. Leonardo’s Ginevra de’ Benci and Renaissance Portraits of Women, catalogo della mostra (Washington, D.C., National Gallery of Art, 2001-2002), [a cura di D.A. Brown], Princeton, N.J. 2001, pp. 208-212, n. 36; ma si veda L. Pagnotta, Giuliano Bugiardini, prefazione di M. Gregori, Torino 1987, pp. 44-45, 201-202 (con la bibliografia relativa al ritratto). 25 Nel 1980 Luciano Bellosi, riguardo al ritratto della Monaca, scriveva sul catalogo della mostra “Il primato del disegno”: «difficile pensare al Bugiardini; l’unica alternativa possibile dovrebbe essere Raffaello-Albertinelli, a testimonianza di una congiuntura che deve essere ben esistita, se tutto ciò che non è Leonardo nei ritratti Doni – e cioè quella interezza di forme e quel cantante splendore cromatico ricco anche di cangianti – va d’accordo con quanto non solo Fra Bartolomeo ma anche l’Albertinelli andavano pubblicando nei primi anni del Cinquecento (per l’Albertinelli si deve pensare soprattutto alla Visitazione del 1503 agli Uffizi, tenendo conto anche della splendida predella)»; Il ritratto fiorentino del Cinquecento, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento. Il primato del disegno, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 1980), [a cura di L. Berti], Milano-Firenze 1980, pp. 39-46: 40. Sull’ipotesi di un’attribuzione a Mariotto Albertinelli espressi i miei dubbi in La coperta della monaca (1995, cit., pp. 118-120). 26 Così fa appunto Laura Pagnotta nella sua monografia sul Bugiardini (1987, cit., pp. 31-32, 197-198). 27 Natali, La coperta della monaca 1995, cit., p. 120. Nelle pagine di quel saggio rigettavo l’attribuzione al Bugiardini e sostenevo la paternità di Ridolfo. Di recente Annamaria Petrioli Tofani ha aderito alle mie argomentazioni a favore dell’attribuzione a Ridolfo della Monaca sul catalogo della mostra da lei curata alla Morgan Library, Michelangelo, Vasari, and Their Contemporaries: Drawings from the Uffizi. The Role of “Disegno” in the Sixteenth-Century Decoration of Palazzo Vecchio, New York 2008, p. 43. 28 Anche Elizabeth Cropper insiste sulla somiglianza fra la Monaca e la Gravida (in Virtue and Beauty 2001, cit., p. 208). 29 Crowe-Cavalcaselle 1884-1891, cit., III, pp. 420-421. 30 Cfr. S. Padovani, in La Galleria Palatina e gli Appartamenti Reali di Palazzo Pitti. Catalogo dei dipinti, a cura di M. Chiarini e S. Padovani, con la collaborazione di S. Casciu e F. Navarro, 2 voll., Firenze 2003, II, p. 332, n. 539. 15 31 L’influenza di Domenico Ghirlandaio sul giovane Raffaello troverebbe un ulteriore conforto (per esempio, nello snodo del braccio destro della Vergine e financo nel rapporto cromatico che s’instaura fra i panni proprio intorno al gomito di lei) nella Madonna dei Garofani della National Gallery di Londra, se fosse del Sanzio. Attribuzione di cui non riesco a convincermi soprattutto (ma non solo) per la modestia d’alcune parti: entrambi i piedini di Gesù (il destro, proprio mal concepito; il sinistro, di scorcio stentato) oppure la mano sinistra di Maria (davvero duretta). 32 Cfr. Natali,La coperta della monaca 1995, cit., p. 134. 33 Cfr. Seneca, De beneficiis, II, 17; Quintiliano, Institutiones, V, 12 (rimandi di cui son grato a Roberto Fedi, che una decina d’anni fa me l’indicò). 34 Cfr. A. Conti, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento. Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei, 1537-1610, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Vecchio, 1980), [a cura di P. Barocchi], Milano-Firenze 1980, pp. 257-258, n. 480. 35 Cfr. L. Passerini, Storia degli Stabilimenti di Beneficenza e d’Istruzione elementare gratuita nella città di Firenze, Firenze 1853, p. 176. 36 Francesco Guicciardini, Consolatoria, in Id., Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 89. 37 Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle Chiese fiorentine divise ne’ suoi Quartieri, 10 voll., nella stamperia di Pietro Gaetano Viviani, Firenze 1754-1762, IV, p. 293. 38 Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., V, pp. 438-439. 39 Cfr. L. Venturini, in Villa La Quiete. Il patrimonio artistico del Conservatorio delle Montalve, a cura di C. De Benedictis, Firenze 1997, pp. 192-195, nn. 63-64. 40 Richa 1754-1762, cit., IV, p. 293. 41 Ivi, p. 295. 42 Ivi, p. 303. 43 Ivi, p. 305. Si veda A. Padoa Rizzo, Il monastero di San Jacopo di Ripoli e il suo patrimonio artistico, in Villa La Quiete 1997, cit., pp. 157-169: 160. 44 Richa 1754-1762, cit., IV, p. 305. 45 Ibid. 46 Sulle due tavole, sulla loro committenza e sulla loro storia successiva si veda L. Venturini, in Villa La Quiete 1997, cit., pp. 182-186, nn. 57-58; ma di Lisa Venturini si veda anche la scheda 59, pp. 186-188. 47 Cfr. L. Venturini, ivi, p. 184. 48 Cfr. ibid. 49 Cfr. ibid. 50 Ho avanzato la congettura dell’abbinamento già nel 1985 (Natali, La coperta della monaca 1995, cit.). 51 Fu Alessandro Conti a informarmi che nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma c’era un dossier ottocentesco da cui s’apprendeva che la Monaca, prima d’entrare nelle 16 collezioni granducali fiorentine, era coperta da una tirella dipinta a grottesche e con una tabella che recava la scritta sva cviqve persona (Alessandro mi trasmise questa segnatura: ACS, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, 1° versamento, Filza 200, ms. 46-11). Potendo contare su questa generosa segnalazione, trovai nell’Archivio della Soprintendenza fiorentina le carte rimaste agli Uffizi, che confermavano quanto era emerso dai documenti di Roma; vale a dire che la tirella era stata acquistata come quella che copriva la Monaca, allora creduta di Leonardo (AGF, Affari dell’anno 1867, Filza A, n. 50). Insieme però a questi documenti si dovrà rammentare che nel settimo volume delle Vite di Vasari nell’edizione Le Monnier (uscito nel 1851) in una nota dei curatori s’afferma che la tirella «con ornamenti a chiaroscuro ed una maschera a colore, piena di verità, con sopra una cartella, scrittovi dentro di lettere romane nere: sua cuique persona» è il «coperchio» della Monaca, pervenuta nella galleria di Pitti dalla casa Niccolini al tempo di Ferdinando III (Le Vite …, pubblicate per cura di una Società di amatori delle Arti belle, 14 voll., Firenze 1846-1870, VII, p. 29 nota 2). 52 Vasari 1550, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., IV, p. 161. 53 Vasari 1568, ibid. 54 Cfr. C. Gamba, Pittura umbra del Rinascimento. Raffaello, Novara 1949, p. li; J. Pope-Hennessy, Raphael, New York 1970 (trad. it. Torino 1983), p. 195; Firenze restaura. Il Laboratorio nel suo quarantennio: mostra di opere restaurate dalla Soprintendenza alle Gallerie …, guida alla mostra (Firenze, Fortezza da Basso, 1972), a cura di U. Baldini e P. Dal Poggetto, Firenze 1972, p. 21; M.G. Ciardi Duprè, in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze 1979, p. 441, P1299; P. De Vecchi, Raffaello. La mimesi, l’armonia e l’invenzione, Firenze 1995, p. 214; K. Oberhuber, Raphael. The Paintings, Munich-New York 1999, trad. it. di M. Magrini e M. Rotondo con il titolo Raffaello. L’opera pittorica, Milano 1999, p. 57. 55 «Priva di fondamento storico e avanzata in via ipotetica sulla scorta di considerazioni stilistiche, è da ritenersi l’affermazione del Gamba nel 1949, ed in seguito ampiamente ripresa dagli studiosi, secondo cui il restauro dell’opera, dopo i danni subiti nel crollo, sarebbe stato affidato a Michele di Ridolfo del Ghirlandaio» (A. Cecchi, in Raffaello a Firenze 1984, cit., p. 77). Lo stesso in D. Cordellier, B. Py, Raphaël, son atelier, ses copistes, Paris 1992, p. 53. 56 Cfr. D. Franklin, Rosso in Italy. The Italian Career of Rosso Fiorentino, New Haven, Conn.-London 1994, p. 302. 57 Celebre è la storia che racconta Vasari sulle vicende iniziali della pala d’altare per una cappella d’Ognissanti e sull’ira di Leonardo Buonafede, cui – a sentire l’aretino – i santi dipinti dal Rosso Fiorentino parvero diavoli; tanto che, sdegnato, «non volle la tavola» (1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., IV, pp. 475-476). Su quest’episodio rinvio al mio Rosso Fiorentino. Leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti, Cinisello Balsamo 2006, pp. 69-74. 17 58 Cfr. A. Natali, Arie crudeli e disperate, in Rosso e Pontormo. Fierezza e solitudine. Esercizi di lettura e rendiconti di restauro per tre dipinti degli Uffizi, a cura di A. Natali, Soresina 1995, pp. 9-50: 9-28. 59 Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, cit., III, pp. 6-7. 60 Per i marmi ellenistici che fanno da modelli alle posture d’attori e protagonisti nel Tondo Doni rimando al mio saggio L’antico, le Scritture e l’occasione. Ipotesi sul Tondo Doni, in Il Tondo Doni di Michelangelo e il suo restauro, catalogo della mostra (Firenze, Galleria degli Uffizi, Sala della Niobe, 1985), Firenze 1985, pp. 21-37: 21-28. Antonio Natali 18