Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Giuseppe Tornatore lascia di nuovo l'amata Sicilia per fare ritorno ad atmosfere mitteleuropee, già
praticate ne La sconosciuta, con un brillante thriller psicologico che si dispiega nell'ambiente dell'arte e
delle aste, là dove nulla è come appare, ma la passione per una bellezza delicata e misteriosa può
trascinare un uomo nei suoi abissi più reconditi.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
musica:
distribuzione:
THE BEST OFFER
124 MINUTI
TALIA
2012
GIUSEPPE TORNATORE
GIUSEPPE TORNATORE
FABIO ZAMARION
MASSIMO QUAGLIA
MAURIZIO SABATINI
ENNIO MORRICONE
WARNER BROS ITALIA
interpreti:
GEOFFREY RUSH (Virgil Oldman), JIM STURGESS (Robert),
SYLVIA HOEKS (Claire), DONALD SUTHERLAND (Billy), PHILIP JACKSON (Fred), DERMOT
CROWLEY (Lambert), LIYA KEBEDE (Sarah).
premi:
Italian Directing Award 2013 a Giuseppe Tornatore
Giuseppe Tornatore
Nato a Bagheria il 27 maggio 1956, si diploma al liceo classico locale. S'iscrive alla facoltà di lettere a
Palermo, che abbandona ben presto per accostarsi al teatro e poi al documentario. Appena sedicenne,
si era già cimentato nella regia teatrale mettendo in scena testi di Pirandello e di Eduardo con u Da
filodrammatica. Lavora poi anche per la televisione: per la RAI realizza Ritratto di rapinatore e altri
documentari. Con uno dei suoi primi documentari, Le minoranze etniche in Sicilia, girato per la
redazione siciliana di Rai Tre,vince un premio al Festival di Salerno. (tra gli altri: Incontro con
Francesco Rosi, Diario di Guttuso, Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati, Sciascia). Nel
1984 è co-sceneggiatore e regista della seconda unità di Cento giorni a Palermo di Giuseppe
Ferrara.due anni più tardi, firma il suo esordio nella regia di fiction con il lungometraggio Il camorrista,
ritratto di un boss della malavita napoletana. Incentrato sulla storia del noto boss della camorra
Raffaele Cutolo , il film riceve una buona accoglienza sia da parte del pubblico che dalla critica, e
Tornatore vince il Nastro d'Argento come "miglior regista esordiente".
L'incontro con il noto produttore Franco Cristaldi porta alla genesi di quello che è considerato il
capolavoro di Tornatore, certamente il film che lo ha fatto conoscere al mondo: è Nuovo cinema
Paradiso, opera agrodolce e in parte autobiografica ambientata in un paesino della Sicilia negli anni
'50, ed un commosso omaggio al cinema del tempo che fu, tra baci tagliati dal parroco, sale con le
sedie di legno e nuvole di fumo di sigarettaun successo clamoroso: il film si aggiudica il gran premio
della giuria al Festival di Cannes e il premio Oscar come "miglior film straniero".
Nel 1990 gira Stanno tutti bene, che racconta del viaggio di un padre siciliano alla ricerca dei figli sparsi
in tutta Italia, interpretato da Marcello Mastroianni (una delle sue ultime interpretazioni): il film delude il
pubblico e la critica, che ne rileva moralismi e luoghi comuni. Nel 1991 collabora al film collettivo La
domenica specialmente, con l'episodio Il cane blu.
Nel 1993 gira Una pura formalità, presentato in concorso a Cannes, che rappresenta un punto di svolta
nello stile del regista: si tratta di un giallo psicologico dalle coloriture metafisiche, sostenuto dalla sottile
recitazione di Gerard Depardieu e Roman Polanski.
Nel 1995 torna a girare un documentario, Lo schermo a tre punte, nel quale racconta la "sua" Sicilia.
Anche il lungometraggio L'uomo delle stelle, dello stesso anno, torna a raccontare la Sicilia con un
Sergio Castellitto nei panni di un piccolo truffatore che ruba ai poveri. Il film vince il David di Donatello e
il Nastro d'Argento per la miglior regia e il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia.
Folgorato dal monologo teatrale di Alessandro Baricco Novecento, dopo una lunga gestazione ne
traspone il soggetto dirigendo La leggenda del pianista sull'oceano, con protagonista l'attore inglese
Tim Roth, accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Anche questa pellicola si aggiudica
diversi premi.
Del 2000 è Malèna, con Monica Bellucci, coproduzione italo-americana, che si avvale, ancora una
volta, delle musiche di Morricone: è un nuovo racconto siciliano, che mette in scena l'ossessione
erotica di un ragazzino per una giovane vedova di guerra,.
Dopo una pausa durata un quinquennio, gira nel 2006 La sconosciuta, thriller psicologico ispirato ad
alcuni fatti di cronaca riguardanti il racket della prostituzione delle ragazze dell'Est e lo sfruttamento
criminale dei loro uteri. Il regista si rivela assai abile nel padroneggiare una storia particolarmente
pesante e torbida, ambientata questa volta in una fredda e poco riconoscibile Trieste. Il senso di
mistero e di violenza che lo pervadono trovano graduale disvelamento attraverso una serie di eventi e
di flashback fino alla sorpresa finale. Il film si aggiudica cinque David di Donatello e tre nastri d'argento.
Nel 2009 dirige Baarìa (Nome siciliano di Bagheria), la cui trama racconta una parte di vita vissuta nella
sua città d'origine. La pellicola, uscita il 25 settembre, ha aperto la 66ª edizione della Mostra d'arte
cinematografica di Venezia nella competizione ufficiale.
Nel 2013 esce il film successivo La migliore offerta, con Jim Sturgess, Donald Sutherland e Geoffrey
Rush. Con questo lavoro Tornatore torna al trhiller psicologico di sapore mitteleuropeo, ma questa volta
con una regia più brillante e leggera rispetto a La sconosciuta, con cui condivide il finale a sorpresa. Il
film è girato tra Bolzano, Vienna, Trieste, Praga ed altre città.
Attualmente è impegnato nella pre-produzione di Leningrad, tratto da una sceneggiatura di Sergio
Leone e finanziato da Medusa Film e Nu Image con un budget di 100 milioni di dollari: il film racconterà
l'Assedio di Leningrado, la battaglia tra nazisti e sovietici nella città russa, oggi San Pietroburgo.
La parola ai protagonisti
Intervista a Giuseppe Tornatore e a Geoffrey Rush
Come è nato il progetto per questo film?
Mi sono divertito a distillare il concetto di vero e falso in una storia che mi intrigava, nata dalle ceneri di
due potenziali film molto diversi tra loro, che mi piacevano ma che non riuscivo a compiere. Poi
sovrapponendoli ho trovato quello che cercavo: è stato un lavoro di artigianato cinematografico, non mi
sentivo di fare un film sui temi filosofici di amore, arte e bellezza. M’interessava la gioia della narrazione
in sé. Di certo ci saranno dei rimandi a temi a me cari, penso a quello dello spazio che qui ho trattato
indirettamente rispetto, ad esempio, a quanto fatto ne La leggenda del pianista sull’oceano, ma non mi
sono ispirato a nessuno per questo film, o non lo avrei fatto: mi piace la sua linearità che nasconde una
complessità, un intrigo, che non respinge un pubblico vasto che al cinema chiede solo di essere
sorpreso per 2 ore.
Il film non parla del mondo dell’arte, quella è solo la cornice. Perché questo titolo allora?
Mi sono documentato sul mondo delle aste perché mi aveva colpito la scoperta che a volte un’opera
non ha una base d’asta, talvolta sono opere non particolarmente importanti la cui base viene delegata
ai gusti del pubblico: il fatto che ci sia qualcosa venduto al buon cuore degli altri mi aveva colpito. Un
fatto strano se si considera che, per fare un altro esempio, nel gergo delle gare d’appalto la migliore
offerta è invece la più bassa. La geometria del prezzo migliore mi ha affascinato.
Si è avvalso di un grande attore come Geoffrey Rush. In che modo avete costruito il personaggio?
Virgil Oldman era già così nel copione ma con Geoffrey ci siamo divertiti con le manie, ad esempio ha
dovuto imparare a fare tutto con i guanti perché Virgil non tocca nulla senza. Ne abbiamo fatte fare
molte paia di una pelle leggera per fargli muovere bene le dita.
Una domanda per Geoffrey Rush, che lei ha definito preciso come Marlon Brando e simpatico come
Marcello Mastroianni. Come si è trovato a lavorare con Tornatore e come lo descrive?
A me non l’ha mai detto di Brando e Mastroianni! Al massimo mi ha dato del Bob Hope cosa che ho
preso come una lode. Come regista Giuseppe è fantastico ha un concetto forte e intuitivo di come deve
essere la storia anche in termini di location: alcune le ha rifiutate perché la porta era nel posto sbagliato
rispetto a come se la immaginava lui nella scena. Lavorando con lui scopri che il film è una partitura
complicata in cui tutti gli elementi che lui ha pensato devono funzionare perfettamente. La migliore
offerta è come una piéce teatrale ha scene di dialogo molto intense e situazioni rarefatte e complesse
come quando Virgil vuole vedere Claire ma non può perché è rintanata dietro una parete. Sylvia e io
abbiamo fatto molte prove per scoprire la dinamica nascosta di queste scene: lei è una di quelle attrici
divine e coraggiose che lasciano che la macchina da presa le avvicini, io invece sono un attore del 19°
secolo che preferisce avvicinare lui la cinepresa. Il film ha una struttura complessa e ho detto a
Giuseppe che sarebbe divertente anche per il pubblico poter analizzare i 2 livelli di costruzione. Magari
nelle versione dvd, dopo averlo visto una prima volta, uno può decidere di rivedere le singole scene
cogliendo con spiegazione doviziosa tutti i particolari. Tipo quei videogame dove mettono piccole
sorprese che non rivelano subito il gioco ma quando li rivedi puoi mettere insieme tutti i pezzi che ti
erano sfuggiti. Un po’ come nella vita vera: non si colgono mai tutti gli aspetti di quello che ci accade
mentre ci accade.
Quanto alle musiche collabora da lungo tempo con Morricone potete dirci in che modo procedete?
Gli faccio leggere prima la sceneggiatura e poi ci confrontiamo sui temi portanti. Per questo film ha
composto una trentina di madrigali, uno per ciascun quadro caro a Virgil, e poi ne abbiamo estratti dei
pezzi.
Senza svelare nulla del finale, a noi non è sembrato tanto drammatico. Che intento aveva?
L’ho sempre vissuto come non tragico: Virgil vive una trasformazione che lo rende più umano senza più
nessuna ossessione. In più dimostra di avere un incrollabile fede verso chi si ama, non importa cosa
abbia fatto quella persona. Mi sembra più positivo del classico happy end.
In questi giorni si parla molto di crisi degli incassi dei film di Natale. Qualcuno ha dato la colpa alla
pirateria. Che ne pensa?
La pirateria è il nostro cancro, se la si potesse annullare il nostro mondo rinascerebbe
miracolosamente. Questo Natale però si è rivelata non vera la leggenda circolata per troppo tempo e
cioè che in tempi di crisi il cinema non subisce scossoni. Lo sentivo dire anni fa con la spiegazione che
‘il cinema è il passatempo più economico’ non è così. O forse il biglietto ora si fa sentire troppo. Il punto
vero è la produzione tutta uguale. Le commedie che una volta andavano solo a Natale ora si fanno tutto
l’anno e si chiude sempre di più l’arco espressivo, quando sarebbe bello lasciare ampio ventaglio alle
possibilità: solo questo rende forte una cinematografia anche in momenti di crisi. Chi ne fa le spese è il
cinema d’autore che in più in Italia ha sempre faticato ad avere rapporto col pubblico perché si pensa
ancora che d’autore significhi non per il pubblico, un grande errore. Per me un film popolare,
interessante e fatto bene che magari affronta con le risate temi importanti è cinema d’autore. Forse
bisognerebbe ridiscutere queste categorie che non stanno più in piedi e fanno solo male al cinema.
Recensioni
Giancarlo Zappoli. Mymovies
Virgil Oldman è un sessantenne antiquario e battitore d'aste di elevata professionalità. Conduce una
vita tanto lussuosa quanto solitaria. Non ha mai avuto una donna al suo fianco e tutta la sua passione è
rivolta all'arte. Fino a quando riceve un incarico telefonico da Claire, giovane erede di una ricca
famiglia. La ragazza, che vuole venga fatta una valutazione degli oggetti preziosi che arredano la sua
villa e di cui vuole liberarsi, non si presenta mai agli appuntamenti. Virgil viene così attratto da questa
committente nascosta fino al punto di scoprire il suo segreto. Intanto, nel corso dei sopralluoghi, trova
nei sotterranei dell'abitazione parti di un meccanismo che si rivela essere di produzione molto antica.
Jacques de Vaucanson è il primo artista a cui viene riconosciuta la realizzazione di un automa
meccanico perfettamente funzionante. È il riferimento alla sua creatività che costituisce lo scheletro di
questo film di Giuseppe Tornatore che si presenta al contempo come fruibile da un vasto pubblico e
come forse il più teorico tra tutti quelli girati dal regista. (… ) Il rigore narrativo (forse perché liberato dai
lacci dei rimandi alla Storia e alla cronaca) prende il sopravvento sul rischio, spesso in agguato nel suo
cinema, dell'enfasi e della sovrabbondanza. Ne La migliore offerta (se si eccettua una parte finale che
avrebbe guadagnato da un minor numero di 'spiegazioni' che lo spettatore avrebbe potuto elaborare in
proprio) il meccanismo funziona. Il termine non viene usato a caso. Perché apparentemente Tornatore
ci racconta una storia d'amore in cui il celarsi diviene stimolo segreto alla scoperta e nella quale, per
gran parte del tempo, un uomo che ha fatto della vista e del tatto il fulcro del proprio esistere
misantropico e (solo apparentemente) misogino si trova costretto a doversi affidare esclusivamente
all'udito. (...)
È nel gioco tra la verità e la finzione tra ciò che appare (o non appare) e ciò che è che si struttura la
vicenda ed è su questa base narrativa che Tornatore innesta un interessante intervento di
teorizzazione. Così come, pezzo dopo pezzo, si giunge a ricostruire l'antico automa, così accade per il
discorso filmico che il regista articola liberando dalla ruggine gli ingranaggi ormai sperimentati dai
maestri del cinema ma sempre in grado di offrire esiti inattesi. L'essenziale, sembra volerci dire, è
saperne valutare la giusta collocazione rinviandone, come fa Claire con il proprio aspetto, la rivelazione
complessiva. In fondo fare cinema è simile al relazionarsi a una donna. (...)
Valerio Caprara. Il Mattino
“Crema bisbetica e mandorle acide”. Per il personale del pluristellato ristorante sarebbe il dessert
perfetto da servire al cliente più assiduo, solitario, esigente e misantropo: Virgil Oldman, antiquario,
arredatore e rinomato battitore d’asta ha, in effetti, racchiuso la vita in un bozzolo autodifensivo
pressoché impenetrabile. Il labirinto d’immagini che Tornatore costruisce attorno allo scomodo
personaggio non ha, però, lo scopo di redimerlo agli occhi dello spettatore, bensì quello di
smascherarlo, scarnificarlo, ricollegarlo a un’energia che non è né buona né cattiva, ma
drammaticamente umana (troppo umana) nel suo intreccio inestricabile d’illusioni, trasfigurazioni,
paure, desideri. Non è facile definire “La migliore offerta” –un bene per lo spettatore che non pensi a
una rimasticatura di ciò che si aspetta ogni volta di vedere sullo schermo-, ma se vogliamo definirlo un
thriller, lo è nel senso di Orson Welles nella sua veste principale (“La signora di Shanghai”, ma
soprattutto “F come falso – Verità e menzogna”) di creatore di verità. Anche in questo film emozionante,
infatti, recitato con misura, ricco d’anse prospettiche e generoso di suspense ancor più mentale che
visiva, la verità non può essere raggiunta, trovata, riprodotta e quindi deve essere creata.
(...) quando Virgil, che sembra nascere in simbiosi con l’interpretazione di Rush, viene incaricato dalla
giovane ereditiera Claire di occuparsi della vendita del patrimonio artistico di famiglia, la sua
metamorfosi non è descritta, bensì colta dettaglio per dettaglio e poi spalmata con una precisione
impressionante sui fatti, le espressioni, i comportamenti, i movimenti degli altri personaggi e in sincrono
sull’atmosfera mitteleuropea degli sfondi svarianti da Trieste a Praga. Virgil è uno spregiudicato
collezionista, abituato a “possedere” la femminilità solo nell’infinita, autoerotica varietà dei propri
preziosissimi dipinti; Claire (l’eterea olandese Hoeks), invece, soffre di una devastante forma
d’agorafobia: entrambi sono destinati non a caso a svelarsi nel momento in cui saranno costretti a
contaminarsi con la gente (forse) normale, a partire dall’affabile orologiaio (Sturgess) disposto a
supportare l’ingenuità amorosa di Virgil. La gradevolezza e la classe del racconto risiedono, insomma,
nei meccanismi di un traslato rapporto a quattro: il vecchio dandy, la tormentata tentatrice, il giovane e
disinibito “aggiustatore” e il regista demiurgo, impegnato a dominare gli spazi infiniti degli stati d’animo
e dei segreti incrostati al loro interno e a rinchiuderli, proprio come un pittore, nel rettangolo di telo dello
schermo. E’ il cinema di Tornatore, un cinema che guarda lontano mentre si concentra sul particolare,
insegue il tempo al di là della sua scansione cronologica, trova la verità nell’ossessione come fa
Nabokov nelle sue pagine e fa volteggiare la macchina da presa ben al di sopra dei ghetti del cinema
d’autore provinciale.
Roberto Nepoti. La Repubblica
Di Giuseppe Tornatore ormai sembra non ce ne sia uno solo, ma due. Uno è quello dei film italiani,
anzi, italianissimi: Malena, Baaria ecc.; l' altro, il Tornatore di film che si svolgono in non-luoghi, senza
connotazioni geografiche o culturali precise: vedi La sconosciuta e questo La migliore offerta girati
entrambi, per la gran parte, in una Trieste irriconoscibile (...). Strana geografia, quella del film. Si
vedono i tetti di Roma ma i luoghi, dove circola solo gente dai nomi stranieri, sono irriconoscibili e le
stazioni di polizia portano la scritta "Police". (...) La trama vuole che il vecchio uomo, perfezionista e
misantropo, s' innamori alla follia della giovane fobica fino a ribaltare la propria esistenza andandoci a
vivere insieme. C' è tuttavia un risvolto misterioso che va oltre la love-story come rivelerà, nell' epilogo,
un colpo di scena che non è il caso di raccontare. Ovviamente: perché La migliore offerta (...) è messo
in scena alla maniera di un thriller; con molte scene a suspense; senza morti ammazzati, ma con tante
ferite dell'anima. Sulle capacità di Tornatore c'è poco da discutere: il film è messo in scena con
maestria, padroneggiato nei dettagli, montato senza tempi morti. Peccato che il tutto rimanga astratto,
con aspetti indecifrabili (l'automa) e dominato da una tendenza estetizzante troppo marcata. A voler
parafrasare il titolo di un suo film del 1994, quasi "una pura formalità".
Cristina Piccino. Il Manifesto
Antiquario di fama mondiale, battitore alle aste più ambite, Virgil Oldman (Geoffrey Rush, il protagonista
di Il discorso del re) è ossessionato dall'arte e dalla sua bellezza. (...)
Immaginiamo che nella vita di un uomo così, col terrore della vecchiaia che incombe - difatti si tinge
anche i capelli - entri una donna «vera», e molto più giovane, che lo attrae col lavoro chiedendogli di
inventariare il patrimonio un po' in disarmo della famiglia, ma soprattutto col suo mistero. Claire (...),
infatti, è solo una voce che non si mostra, come le sue donne vive rinchiusa da anni nella stanza, la sua
malattia si chiama agorafobia e per Virgil riuscire a vederla diventa una sfida quasi più eccitante del
possesso di un quadro raro.
(...) Viene in mente, in certi momenti, anche l'atmosfera di Una pura formalità, stesso duetto sospeso
fuori dal tempo, ma qui la tensione si scioglie nell'affabulazione, perché il solitario Virgil inadeguato di
fronte all'attrazione amorosa, si confida col giovane riparatore di macchinari (Jim Sturgess), che scrive
a sua volta la «sceneggiatura» del suo corteggiamento mentre assembla i pezzi dell'automa che Virgil
trova nella casa abbandonata. Un omaggio a Méliès che diventa una beffa e un terribile inganno.
Tornatore, presentando ieri il film alla stampa, ha detto di avere riflettuto a lungo sul tema dell'arte e
dell'amore: «Mi divertiva pensare alla bellezza e all'amore come un fatto allegorico. E anche come a
volte la bellezza è frutto dell'impostura dell'arte». Tutto può essere vero e falso, i quadri come i
sentimenti, le parole, i gesti, le storie. E le opere stesse almeno dai tempi della loro riproducibilità
tecnica.
Però non è un film sull'arte La migliore offerta, e meno che mai sull'arte ormai rinchiusa nei caveau
(meglio se delle banche); piuttosto come sempre per Tornatore è un film sul cinema e non solo per gli
omaggi cinefili di cui è punteggiato, ma per quell'idea della parola come messinscena che dichiara al di
là della storia che racconta. In fondo nella figura ossessiva del collezionista potremmo anche
intravedere l'ostinazione del regista , il suo essere tra verità e finzione, l' ansia di «possedere» i destini
degli altri o di controllare il respiro dell'universo. Un po' come la fantasia maschile della donna ideale
intoccabile che è un infinito numero di donne e nessuna su cui proiettare le proprie immagini e
soddisfare l'ego. E l'esercizio del proprio universo è centrale nel cinema di Tornatore, forse è per questo
che nonostante la cura di insieme e dettagli, il film non raggiunga mai la necessaria magia.
L'impressione è che proprio come accade al suo personaggio, il regista non riesca a guardare tra le
pieghe, a far vivere quel gioco del vero e del falso spiazzando se stesso anche soltanto un attimo.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
Al pari di 'Una pura formalità' e 'La sconosciuta', 'La migliore offerta' rientra in un ideale filone di thriller
metafisico dell'anima molto nelle corde di Giuseppe Tornatore. E' affascinante il modo in cui in
un'innominata città mittel-europea (in realtà Trieste), il cineasta imbastisce il romanzo d'amore fra il
nevrotico Geoffrey Rush, celebre battitore d'aste, e una giovane donna (Sylvia Hoeks) che, causa una
grave forma di agorafobia, vive reclusa in una decrepita villa piena di antichi cimeli. (...) Tornatore
conduce il gioco con raffinata maestria sul filo di un'astratta suspense, ben sottolineata dalla musica di
Ennio Morricone, fino a uno scioglimento finale un po' troppo precipitoso e lambiccato che, tuttavia,
rimane un peccato veniale in un film di tale smalto. E Rush è semplicemente straordinario nello
scivolare dai vertici di un'algida solitudine dentro la spirale di un'inquietante ossessione d'amore
Gian Luigi Rondi. Il Tempo
Un esperto può facilmente capire quando un'opera d'arte è stata falsificata. Per un uomo innamorato,
invece, sarà sempre molto difficile conoscere le possibili verità a due facce della natura umana, fino a
commettere errori. Su questo assioma si costruisce quasi per intero il nuovo film di cui Giuseppe
Tornatore è autore totale, soggettista, sceneggiatore, regista, dopo l'esperienza non proprio
recentissima di Baarìa. (...) Un finale molto intricato fornirà parecchie chiavi, un po' sulla linea di
quell'altro thriller di Tornatore che era 'Una pura formalità'. Questo, però, proprio al momento di
concludere, pur rispettando la logica, la affida a dei viluppi narrativi forse un po' troppo macchinosi,
facendo emergere certe verità, anziché da un racconto lineare, da una serie piuttosto eccessiva di
scatole cinesi; senza però, con questo, nuocere minimamente a tutte le tensioni drammatiche e anche
emotive fatte abilmente scaturire soprattutto nella prima parte del film. Con salda e sempre convincente
vitalità. Dà loro esemplare vigore l'interpretazione, come Virgil, di Geoffrey Rush ('Il discorso del Re'),
Claire è l'olandese Silvia Hoeke. Non dimentico però la splendida colonna sonora di Ennio Morricone,
anche con mestissimi cori, la fotografia suggestiva di Fabio Zamarion, i costumi di Maurizio Millenotti.
Elisa Gaiotto. Doppiozero
La migliore offerta, mai titolo fu più adeguato. Questo, infatti, è il cinema italiano che piace di più agli
italiani. Parlano i numeri: uscito il 1 di gennaio è ancora terzo al Box Office, con una tenitura
infrasettimanale di rara forza, viaggia verso i 7 milioni di euro di incasso, che certamente passerà. Un
ottimo risultato per un film che conferma quanto Tornatore sia forse il più sopravvalutato dei registi
italiani.
L’intenzione era evidentemente quella di fare un film dal respiro internazionale: interamente girato in
inglese, con un cast di altissimo livello – Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Jim Sturgess, Sylvia
Hoeks – ambientato in un non luogo che potrebbe essere Vienna o una qualche amena, pulita, ordinata
località del Nord Europa. La confezione ovviamente è perfetta, anche perché con un budget di 14
milioni di Euro non poteva essere meno che perfetta… (...)
Ora: il giochino cinematografico dove nessuno è chi dice di essere e dove tutto si ribalta pezzo dopo
pezzo come un domino in un finale ad effetto l’abbiamo visto e rivisto, ma può anche funzionare ed
essere gradevole se ben realizzato. (...) Durante la valutazione della villa di Claire, Virgil – che è
ovviamente un maniaco dell’ordine e della pulizia e gira indossando candidi guanti bianchi di cotone s’imbatte in alcuni pezzi meccanici che – un po’ alla volta – porta al giovane Robert, eccellente artigiano
restauratore, il quale poco a poco ricostruisce quello che sembra essere un pezzo originale di Jacques
de Vaucanson, inventore meccanico francese del XVIII secolo, creatore dei primi grandi meccanismi
automatici e di quello che viene considerato il primo vero automa della Storia: una papera capace di
beccare il grano e bere acqua. Virgil crede quindi di trovarsi davanti ad un automa “umano” di
Vaucanson, una grandissima scoperta che, poco a poco, pezzo per pezzo, si compone grazie alle
sapienti mani di Robert regalandoci la "grande metafora" del meccanismo perfetto ma arrugginito che si
ripara fino a tornare ad essere una macchina lucida, oliata e funzionante. (...)
Siamo quindi nel Tornatore metaforico, che gioca col thriller, filone completamente opposto a quello del
Tornatore siculo, e tutto sommato ne saremmo anche contenti perché preferiamo scordare Baaria e
ricordare quel piccolo, seppur già simpaticamente pretenzioso, gioiellino che era Una pura formalità.
Resta il miglior Tornatore, regista al quale evidentemente fanno male (e non è l’unico) soldi e mezzi, gli
congestionano la creatività, gli sviluppano il manierismo e la ripetizione e pompano aria sulla brace del
metaforico, che innervosisce e annoia soprattutto nella cornice di una regia che vorrebbe essere
sofisticata ed è invece pesante, grave e fastidiosamente virtuosa. Anche la sceneggiatura, che si
difende per la media del cinema italiano, soffre di qualche lungaggine che, in un film che vuole essere
metafora di un meccanismo perfetto, non dovrebbero davvero esserci.
Matteo Pernini. Ondacinema
Dopo l'epos magniloquente, le architetture sontuose e gli sconsiderati virtuosismi del contestato
"Baarìa" non era facile prevedere l'indirizzo che avrebbe seguito il cinema di Tornatore. Da sempre
disgiunta tra l'anima regionalista di progetti dal sapore profondamente autobiografico ("Nuovo Cinema
Paradiso") e il ripiegamento intimista nelle regioni oscure dell'animo umano ("Una pura formalità" e "La
sconosciuta"), la sua opera ha impresso, nel panorama italiano, le tracce di un percorso alquanto
dispersivo, un confuso viavai di generi, in cui l'estetica calligrafica e gli afflati melodrammatici
costituiscono le radici comuni di un discorso artistico incapace di affrancarsi da manifestazioni
retoriche. Un cinema esibizionista, bulimico e sovrabbondante anche quando insegue storie piccole e
grigie di inquietudini alto borghesi e, pertanto, inabile a raccontare con partecipazione l'intimità dei suoi
protagonisti.
Date queste premesse è naturale, all'uscita dalla sala, mentre ancora scorrono i titoli di coda de "La
migliore offerta", rendersi conto che stavolta qualcosa deve essere saltato nel vituperato meccanismo
narrativo di Tornatore (che tanti nasi critici ha fatto arricciare nel corso degli anni). (...)
Sono inquieti i personaggi che si agitano nel nuovo film di Tornatore, anime instabili, sempre sull'orlo
del collasso; ombre fuggevoli, che nascondono segreti inconfessabili. Non c'è stabilità nel loro universo,
insidiato dalle trame della finzione, nessuna spiaggia fissa cui approdare. Il trompe l'oeil, che sfonda le
preti interne della villa di Claire verso idilliaci paesaggi, prefigura l'essenza illusoria di un mondo, in cui
nulla è come appare (...)
L'inganno, la decostruzione delle certezze attraversano l'intera pellicola e non lasciano indenni i
personaggi, le cui identità si moltiplicano ad ogni tentativo di comprensione. Il corpo di Claire rimane
celato per la maggior parte del film, se ne intuiscono solo frammenti, sorpresi oltre un foro nella parete,
vaghi e sparuti indizi (il ritratto della madre), ma non possiamo che immaginarlo, seguire i pensieri di
Virgil, che ne ode la voce e cerca di prefigurarne l'aspetto. Potrebbe, però, essere solo un'altra
illusione.
"La migliore offerta" è un film astratto, un'opera che abbandona l'ispirazione nostalgica di tanto cinema
tornatoriano e rifiuta la centralità del tempo, l'idea di cinema come "luogo della memoria", per indagare,
invece, il suo rapporto con lo spazio. E se già il cineasta siculo aveva sfiorato l'argomento ne "La
leggenda del pianista sull'oceano", è pur vero che là l'ossessione rimaneva - come nelle stucchevoli
pagine di Baricco che ne hanno ispirato la trasposizione - puro espediente narrativo, al più incentivo
estetizzante per giustificare i volteggi del musico Roth nella celebre danza oceanica; qui, al contrario, lo
spazio si fa da subito evidenza espressiva, elemento vivo e pulsante, che si amplifica, si contrae,
intimorisce, rassicura, muove i sentimenti dei protagonisti. E' lo spazio reale del set, percorso con
eleganza dal consueto armamentario di dolly e carrellate; quello fisico di Virgil, che, nell'ostinazione
all'isolamento, consolida il vuoto attorno a sé allontanando finanche i domestici dalla sua enorme,
deserta abitazione; quello mentale di Claire, ossessivo e sofferto, che si contrae fino all'emarginazione
tra le superfici anguste di un rifugio segreto, pronto a farsi centro di gravitazione delle loro solitudini,
luogo di conforto, inviolabile e chiuso, ma colmo di oggetti, libri e romanzi, che sono altrettanti universi
possibili e racchiudono in sé quelle storie, quelle esperienze, quelle emozioni che essi sono incapaci di
vivere. La saturazione dello spazio investe anche il caveau di Virgil, che sembra una quadreria di
Pannini, con le tele addossate l'una all'altra su una parete traboccante sino al soffitto, ma senza vedute.
Ogni angolo della stanza è deputato a contenere una scheggia di vita altrui, in un disperato horror vacui
che la macchina da presa restituisce tramite ariosi saliscendi e dissolvenze incrociate, mentre i
madrigali di Morricone danno voce a quei fascinosi ritratti femminili, quei volti in cui è inscritta la storia
dell'arte e della stessa umanità, quegli occhi vividi e appassionati, che raccontano vicissitudini private,
storie personali ed intime, di cui Virgil si fa anonimo voyeur.
(…) Perché, al di là di tutte le considerazioni teoriche, non bisogna dimenticare che il nuovo Tornatore è
essenzialmente questo: un racconto inquieto sull'ambiguità dei comportamenti umani, un noir di
pregevole fattura, pur svincolato dagli schemi di genere, che avvince, recupera le atmosfere ansiose di
certo cinema italiano anni '70 ("La casa dalle finestre che ridono") e sa conquistare, nei suoi momenti
migliori, quell'afflato internazionale che la semplice ambientazione mitteleuropea e il cast straniero non
gli avrebbero concesso.
Il cinema di Tornatore si mette, dunque, in discussione e riparte dalle fondamenta, cioè dalla
sceneggiatura e dai personaggi, affrontando un discorso sul suo farsi e metamorfizzando, negli
ingranaggi del robot di Vaucanson, lo scheletro di un film che si ricompone, come le tessere di un
puzzle, sotto gli occhi del pubblico. Certo, Tornatore non è Polanski e la sua rappresentazione delle
realtà alto borghesi rimane una collezione di frasi ampollose e ritualità un po' troppo accademica per
graffiare davvero, ma ha il pregio di sfidare consapevolmente i generi in un film sfaccettato e mutevole,
senza adagiarsi nell'enfasi pedissequa dei passati pastiche.