Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Giuseppe Tornatore lascia di nuovo l'amata Sicilia per fare ritorno ad atmosfere mitteleuropee, già praticate ne La sconosciuta, con un brillante thriller psicologico che si dispiega nell'ambiente dell'arte e delle aste, là dove nulla è come appare, ma la passione per una bellezza delicata e misteriosa può trascinare un uomo nei suoi abissi più reconditi. scheda tecnica titolo originale: durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: montaggio: scenografia: musica: distribuzione: THE BEST OFFER 124 MINUTI TALIA 2012 GIUSEPPE TORNATORE GIUSEPPE TORNATORE FABIO ZAMARION MASSIMO QUAGLIA MAURIZIO SABATINI ENNIO MORRICONE WARNER BROS ITALIA interpreti: GEOFFREY RUSH (Virgil Oldman), JIM STURGESS (Robert), SYLVIA HOEKS (Claire), DONALD SUTHERLAND (Billy), PHILIP JACKSON (Fred), DERMOT CROWLEY (Lambert), LIYA KEBEDE (Sarah). premi: Italian Directing Award 2013 a Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore Nato a Bagheria il 27 maggio 1956, si diploma al liceo classico locale. S'iscrive alla facoltà di lettere a Palermo, che abbandona ben presto per accostarsi al teatro e poi al documentario. Appena sedicenne, si era già cimentato nella regia teatrale mettendo in scena testi di Pirandello e di Eduardo con u Da filodrammatica. Lavora poi anche per la televisione: per la RAI realizza Ritratto di rapinatore e altri documentari. Con uno dei suoi primi documentari, Le minoranze etniche in Sicilia, girato per la redazione siciliana di Rai Tre,vince un premio al Festival di Salerno. (tra gli altri: Incontro con Francesco Rosi, Diario di Guttuso, Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati, Sciascia). Nel 1984 è co-sceneggiatore e regista della seconda unità di Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara.due anni più tardi, firma il suo esordio nella regia di fiction con il lungometraggio Il camorrista, ritratto di un boss della malavita napoletana. Incentrato sulla storia del noto boss della camorra Raffaele Cutolo , il film riceve una buona accoglienza sia da parte del pubblico che dalla critica, e Tornatore vince il Nastro d'Argento come "miglior regista esordiente". L'incontro con il noto produttore Franco Cristaldi porta alla genesi di quello che è considerato il capolavoro di Tornatore, certamente il film che lo ha fatto conoscere al mondo: è Nuovo cinema Paradiso, opera agrodolce e in parte autobiografica ambientata in un paesino della Sicilia negli anni '50, ed un commosso omaggio al cinema del tempo che fu, tra baci tagliati dal parroco, sale con le sedie di legno e nuvole di fumo di sigarettaun successo clamoroso: il film si aggiudica il gran premio della giuria al Festival di Cannes e il premio Oscar come "miglior film straniero". Nel 1990 gira Stanno tutti bene, che racconta del viaggio di un padre siciliano alla ricerca dei figli sparsi in tutta Italia, interpretato da Marcello Mastroianni (una delle sue ultime interpretazioni): il film delude il pubblico e la critica, che ne rileva moralismi e luoghi comuni. Nel 1991 collabora al film collettivo La domenica specialmente, con l'episodio Il cane blu. Nel 1993 gira Una pura formalità, presentato in concorso a Cannes, che rappresenta un punto di svolta nello stile del regista: si tratta di un giallo psicologico dalle coloriture metafisiche, sostenuto dalla sottile recitazione di Gerard Depardieu e Roman Polanski. Nel 1995 torna a girare un documentario, Lo schermo a tre punte, nel quale racconta la "sua" Sicilia. Anche il lungometraggio L'uomo delle stelle, dello stesso anno, torna a raccontare la Sicilia con un Sergio Castellitto nei panni di un piccolo truffatore che ruba ai poveri. Il film vince il David di Donatello e il Nastro d'Argento per la miglior regia e il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia. Folgorato dal monologo teatrale di Alessandro Baricco Novecento, dopo una lunga gestazione ne traspone il soggetto dirigendo La leggenda del pianista sull'oceano, con protagonista l'attore inglese Tim Roth, accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Anche questa pellicola si aggiudica diversi premi. Del 2000 è Malèna, con Monica Bellucci, coproduzione italo-americana, che si avvale, ancora una volta, delle musiche di Morricone: è un nuovo racconto siciliano, che mette in scena l'ossessione erotica di un ragazzino per una giovane vedova di guerra,. Dopo una pausa durata un quinquennio, gira nel 2006 La sconosciuta, thriller psicologico ispirato ad alcuni fatti di cronaca riguardanti il racket della prostituzione delle ragazze dell'Est e lo sfruttamento criminale dei loro uteri. Il regista si rivela assai abile nel padroneggiare una storia particolarmente pesante e torbida, ambientata questa volta in una fredda e poco riconoscibile Trieste. Il senso di mistero e di violenza che lo pervadono trovano graduale disvelamento attraverso una serie di eventi e di flashback fino alla sorpresa finale. Il film si aggiudica cinque David di Donatello e tre nastri d'argento. Nel 2009 dirige Baarìa (Nome siciliano di Bagheria), la cui trama racconta una parte di vita vissuta nella sua città d'origine. La pellicola, uscita il 25 settembre, ha aperto la 66ª edizione della Mostra d'arte cinematografica di Venezia nella competizione ufficiale. Nel 2013 esce il film successivo La migliore offerta, con Jim Sturgess, Donald Sutherland e Geoffrey Rush. Con questo lavoro Tornatore torna al trhiller psicologico di sapore mitteleuropeo, ma questa volta con una regia più brillante e leggera rispetto a La sconosciuta, con cui condivide il finale a sorpresa. Il film è girato tra Bolzano, Vienna, Trieste, Praga ed altre città. Attualmente è impegnato nella pre-produzione di Leningrad, tratto da una sceneggiatura di Sergio Leone e finanziato da Medusa Film e Nu Image con un budget di 100 milioni di dollari: il film racconterà l'Assedio di Leningrado, la battaglia tra nazisti e sovietici nella città russa, oggi San Pietroburgo. La parola ai protagonisti Intervista a Giuseppe Tornatore e a Geoffrey Rush Come è nato il progetto per questo film? Mi sono divertito a distillare il concetto di vero e falso in una storia che mi intrigava, nata dalle ceneri di due potenziali film molto diversi tra loro, che mi piacevano ma che non riuscivo a compiere. Poi sovrapponendoli ho trovato quello che cercavo: è stato un lavoro di artigianato cinematografico, non mi sentivo di fare un film sui temi filosofici di amore, arte e bellezza. M’interessava la gioia della narrazione in sé. Di certo ci saranno dei rimandi a temi a me cari, penso a quello dello spazio che qui ho trattato indirettamente rispetto, ad esempio, a quanto fatto ne La leggenda del pianista sull’oceano, ma non mi sono ispirato a nessuno per questo film, o non lo avrei fatto: mi piace la sua linearità che nasconde una complessità, un intrigo, che non respinge un pubblico vasto che al cinema chiede solo di essere sorpreso per 2 ore. Il film non parla del mondo dell’arte, quella è solo la cornice. Perché questo titolo allora? Mi sono documentato sul mondo delle aste perché mi aveva colpito la scoperta che a volte un’opera non ha una base d’asta, talvolta sono opere non particolarmente importanti la cui base viene delegata ai gusti del pubblico: il fatto che ci sia qualcosa venduto al buon cuore degli altri mi aveva colpito. Un fatto strano se si considera che, per fare un altro esempio, nel gergo delle gare d’appalto la migliore offerta è invece la più bassa. La geometria del prezzo migliore mi ha affascinato. Si è avvalso di un grande attore come Geoffrey Rush. In che modo avete costruito il personaggio? Virgil Oldman era già così nel copione ma con Geoffrey ci siamo divertiti con le manie, ad esempio ha dovuto imparare a fare tutto con i guanti perché Virgil non tocca nulla senza. Ne abbiamo fatte fare molte paia di una pelle leggera per fargli muovere bene le dita. Una domanda per Geoffrey Rush, che lei ha definito preciso come Marlon Brando e simpatico come Marcello Mastroianni. Come si è trovato a lavorare con Tornatore e come lo descrive? A me non l’ha mai detto di Brando e Mastroianni! Al massimo mi ha dato del Bob Hope cosa che ho preso come una lode. Come regista Giuseppe è fantastico ha un concetto forte e intuitivo di come deve essere la storia anche in termini di location: alcune le ha rifiutate perché la porta era nel posto sbagliato rispetto a come se la immaginava lui nella scena. Lavorando con lui scopri che il film è una partitura complicata in cui tutti gli elementi che lui ha pensato devono funzionare perfettamente. La migliore offerta è come una piéce teatrale ha scene di dialogo molto intense e situazioni rarefatte e complesse come quando Virgil vuole vedere Claire ma non può perché è rintanata dietro una parete. Sylvia e io abbiamo fatto molte prove per scoprire la dinamica nascosta di queste scene: lei è una di quelle attrici divine e coraggiose che lasciano che la macchina da presa le avvicini, io invece sono un attore del 19° secolo che preferisce avvicinare lui la cinepresa. Il film ha una struttura complessa e ho detto a Giuseppe che sarebbe divertente anche per il pubblico poter analizzare i 2 livelli di costruzione. Magari nelle versione dvd, dopo averlo visto una prima volta, uno può decidere di rivedere le singole scene cogliendo con spiegazione doviziosa tutti i particolari. Tipo quei videogame dove mettono piccole sorprese che non rivelano subito il gioco ma quando li rivedi puoi mettere insieme tutti i pezzi che ti erano sfuggiti. Un po’ come nella vita vera: non si colgono mai tutti gli aspetti di quello che ci accade mentre ci accade. Quanto alle musiche collabora da lungo tempo con Morricone potete dirci in che modo procedete? Gli faccio leggere prima la sceneggiatura e poi ci confrontiamo sui temi portanti. Per questo film ha composto una trentina di madrigali, uno per ciascun quadro caro a Virgil, e poi ne abbiamo estratti dei pezzi. Senza svelare nulla del finale, a noi non è sembrato tanto drammatico. Che intento aveva? L’ho sempre vissuto come non tragico: Virgil vive una trasformazione che lo rende più umano senza più nessuna ossessione. In più dimostra di avere un incrollabile fede verso chi si ama, non importa cosa abbia fatto quella persona. Mi sembra più positivo del classico happy end. In questi giorni si parla molto di crisi degli incassi dei film di Natale. Qualcuno ha dato la colpa alla pirateria. Che ne pensa? La pirateria è il nostro cancro, se la si potesse annullare il nostro mondo rinascerebbe miracolosamente. Questo Natale però si è rivelata non vera la leggenda circolata per troppo tempo e cioè che in tempi di crisi il cinema non subisce scossoni. Lo sentivo dire anni fa con la spiegazione che ‘il cinema è il passatempo più economico’ non è così. O forse il biglietto ora si fa sentire troppo. Il punto vero è la produzione tutta uguale. Le commedie che una volta andavano solo a Natale ora si fanno tutto l’anno e si chiude sempre di più l’arco espressivo, quando sarebbe bello lasciare ampio ventaglio alle possibilità: solo questo rende forte una cinematografia anche in momenti di crisi. Chi ne fa le spese è il cinema d’autore che in più in Italia ha sempre faticato ad avere rapporto col pubblico perché si pensa ancora che d’autore significhi non per il pubblico, un grande errore. Per me un film popolare, interessante e fatto bene che magari affronta con le risate temi importanti è cinema d’autore. Forse bisognerebbe ridiscutere queste categorie che non stanno più in piedi e fanno solo male al cinema. Recensioni Giancarlo Zappoli. Mymovies Virgil Oldman è un sessantenne antiquario e battitore d'aste di elevata professionalità. Conduce una vita tanto lussuosa quanto solitaria. Non ha mai avuto una donna al suo fianco e tutta la sua passione è rivolta all'arte. Fino a quando riceve un incarico telefonico da Claire, giovane erede di una ricca famiglia. La ragazza, che vuole venga fatta una valutazione degli oggetti preziosi che arredano la sua villa e di cui vuole liberarsi, non si presenta mai agli appuntamenti. Virgil viene così attratto da questa committente nascosta fino al punto di scoprire il suo segreto. Intanto, nel corso dei sopralluoghi, trova nei sotterranei dell'abitazione parti di un meccanismo che si rivela essere di produzione molto antica. Jacques de Vaucanson è il primo artista a cui viene riconosciuta la realizzazione di un automa meccanico perfettamente funzionante. È il riferimento alla sua creatività che costituisce lo scheletro di questo film di Giuseppe Tornatore che si presenta al contempo come fruibile da un vasto pubblico e come forse il più teorico tra tutti quelli girati dal regista. (… ) Il rigore narrativo (forse perché liberato dai lacci dei rimandi alla Storia e alla cronaca) prende il sopravvento sul rischio, spesso in agguato nel suo cinema, dell'enfasi e della sovrabbondanza. Ne La migliore offerta (se si eccettua una parte finale che avrebbe guadagnato da un minor numero di 'spiegazioni' che lo spettatore avrebbe potuto elaborare in proprio) il meccanismo funziona. Il termine non viene usato a caso. Perché apparentemente Tornatore ci racconta una storia d'amore in cui il celarsi diviene stimolo segreto alla scoperta e nella quale, per gran parte del tempo, un uomo che ha fatto della vista e del tatto il fulcro del proprio esistere misantropico e (solo apparentemente) misogino si trova costretto a doversi affidare esclusivamente all'udito. (...) È nel gioco tra la verità e la finzione tra ciò che appare (o non appare) e ciò che è che si struttura la vicenda ed è su questa base narrativa che Tornatore innesta un interessante intervento di teorizzazione. Così come, pezzo dopo pezzo, si giunge a ricostruire l'antico automa, così accade per il discorso filmico che il regista articola liberando dalla ruggine gli ingranaggi ormai sperimentati dai maestri del cinema ma sempre in grado di offrire esiti inattesi. L'essenziale, sembra volerci dire, è saperne valutare la giusta collocazione rinviandone, come fa Claire con il proprio aspetto, la rivelazione complessiva. In fondo fare cinema è simile al relazionarsi a una donna. (...) Valerio Caprara. Il Mattino “Crema bisbetica e mandorle acide”. Per il personale del pluristellato ristorante sarebbe il dessert perfetto da servire al cliente più assiduo, solitario, esigente e misantropo: Virgil Oldman, antiquario, arredatore e rinomato battitore d’asta ha, in effetti, racchiuso la vita in un bozzolo autodifensivo pressoché impenetrabile. Il labirinto d’immagini che Tornatore costruisce attorno allo scomodo personaggio non ha, però, lo scopo di redimerlo agli occhi dello spettatore, bensì quello di smascherarlo, scarnificarlo, ricollegarlo a un’energia che non è né buona né cattiva, ma drammaticamente umana (troppo umana) nel suo intreccio inestricabile d’illusioni, trasfigurazioni, paure, desideri. Non è facile definire “La migliore offerta” –un bene per lo spettatore che non pensi a una rimasticatura di ciò che si aspetta ogni volta di vedere sullo schermo-, ma se vogliamo definirlo un thriller, lo è nel senso di Orson Welles nella sua veste principale (“La signora di Shanghai”, ma soprattutto “F come falso – Verità e menzogna”) di creatore di verità. Anche in questo film emozionante, infatti, recitato con misura, ricco d’anse prospettiche e generoso di suspense ancor più mentale che visiva, la verità non può essere raggiunta, trovata, riprodotta e quindi deve essere creata. (...) quando Virgil, che sembra nascere in simbiosi con l’interpretazione di Rush, viene incaricato dalla giovane ereditiera Claire di occuparsi della vendita del patrimonio artistico di famiglia, la sua metamorfosi non è descritta, bensì colta dettaglio per dettaglio e poi spalmata con una precisione impressionante sui fatti, le espressioni, i comportamenti, i movimenti degli altri personaggi e in sincrono sull’atmosfera mitteleuropea degli sfondi svarianti da Trieste a Praga. Virgil è uno spregiudicato collezionista, abituato a “possedere” la femminilità solo nell’infinita, autoerotica varietà dei propri preziosissimi dipinti; Claire (l’eterea olandese Hoeks), invece, soffre di una devastante forma d’agorafobia: entrambi sono destinati non a caso a svelarsi nel momento in cui saranno costretti a contaminarsi con la gente (forse) normale, a partire dall’affabile orologiaio (Sturgess) disposto a supportare l’ingenuità amorosa di Virgil. La gradevolezza e la classe del racconto risiedono, insomma, nei meccanismi di un traslato rapporto a quattro: il vecchio dandy, la tormentata tentatrice, il giovane e disinibito “aggiustatore” e il regista demiurgo, impegnato a dominare gli spazi infiniti degli stati d’animo e dei segreti incrostati al loro interno e a rinchiuderli, proprio come un pittore, nel rettangolo di telo dello schermo. E’ il cinema di Tornatore, un cinema che guarda lontano mentre si concentra sul particolare, insegue il tempo al di là della sua scansione cronologica, trova la verità nell’ossessione come fa Nabokov nelle sue pagine e fa volteggiare la macchina da presa ben al di sopra dei ghetti del cinema d’autore provinciale. Roberto Nepoti. La Repubblica Di Giuseppe Tornatore ormai sembra non ce ne sia uno solo, ma due. Uno è quello dei film italiani, anzi, italianissimi: Malena, Baaria ecc.; l' altro, il Tornatore di film che si svolgono in non-luoghi, senza connotazioni geografiche o culturali precise: vedi La sconosciuta e questo La migliore offerta girati entrambi, per la gran parte, in una Trieste irriconoscibile (...). Strana geografia, quella del film. Si vedono i tetti di Roma ma i luoghi, dove circola solo gente dai nomi stranieri, sono irriconoscibili e le stazioni di polizia portano la scritta "Police". (...) La trama vuole che il vecchio uomo, perfezionista e misantropo, s' innamori alla follia della giovane fobica fino a ribaltare la propria esistenza andandoci a vivere insieme. C' è tuttavia un risvolto misterioso che va oltre la love-story come rivelerà, nell' epilogo, un colpo di scena che non è il caso di raccontare. Ovviamente: perché La migliore offerta (...) è messo in scena alla maniera di un thriller; con molte scene a suspense; senza morti ammazzati, ma con tante ferite dell'anima. Sulle capacità di Tornatore c'è poco da discutere: il film è messo in scena con maestria, padroneggiato nei dettagli, montato senza tempi morti. Peccato che il tutto rimanga astratto, con aspetti indecifrabili (l'automa) e dominato da una tendenza estetizzante troppo marcata. A voler parafrasare il titolo di un suo film del 1994, quasi "una pura formalità". Cristina Piccino. Il Manifesto Antiquario di fama mondiale, battitore alle aste più ambite, Virgil Oldman (Geoffrey Rush, il protagonista di Il discorso del re) è ossessionato dall'arte e dalla sua bellezza. (...) Immaginiamo che nella vita di un uomo così, col terrore della vecchiaia che incombe - difatti si tinge anche i capelli - entri una donna «vera», e molto più giovane, che lo attrae col lavoro chiedendogli di inventariare il patrimonio un po' in disarmo della famiglia, ma soprattutto col suo mistero. Claire (...), infatti, è solo una voce che non si mostra, come le sue donne vive rinchiusa da anni nella stanza, la sua malattia si chiama agorafobia e per Virgil riuscire a vederla diventa una sfida quasi più eccitante del possesso di un quadro raro. (...) Viene in mente, in certi momenti, anche l'atmosfera di Una pura formalità, stesso duetto sospeso fuori dal tempo, ma qui la tensione si scioglie nell'affabulazione, perché il solitario Virgil inadeguato di fronte all'attrazione amorosa, si confida col giovane riparatore di macchinari (Jim Sturgess), che scrive a sua volta la «sceneggiatura» del suo corteggiamento mentre assembla i pezzi dell'automa che Virgil trova nella casa abbandonata. Un omaggio a Méliès che diventa una beffa e un terribile inganno. Tornatore, presentando ieri il film alla stampa, ha detto di avere riflettuto a lungo sul tema dell'arte e dell'amore: «Mi divertiva pensare alla bellezza e all'amore come un fatto allegorico. E anche come a volte la bellezza è frutto dell'impostura dell'arte». Tutto può essere vero e falso, i quadri come i sentimenti, le parole, i gesti, le storie. E le opere stesse almeno dai tempi della loro riproducibilità tecnica. Però non è un film sull'arte La migliore offerta, e meno che mai sull'arte ormai rinchiusa nei caveau (meglio se delle banche); piuttosto come sempre per Tornatore è un film sul cinema e non solo per gli omaggi cinefili di cui è punteggiato, ma per quell'idea della parola come messinscena che dichiara al di là della storia che racconta. In fondo nella figura ossessiva del collezionista potremmo anche intravedere l'ostinazione del regista , il suo essere tra verità e finzione, l' ansia di «possedere» i destini degli altri o di controllare il respiro dell'universo. Un po' come la fantasia maschile della donna ideale intoccabile che è un infinito numero di donne e nessuna su cui proiettare le proprie immagini e soddisfare l'ego. E l'esercizio del proprio universo è centrale nel cinema di Tornatore, forse è per questo che nonostante la cura di insieme e dettagli, il film non raggiunga mai la necessaria magia. L'impressione è che proprio come accade al suo personaggio, il regista non riesca a guardare tra le pieghe, a far vivere quel gioco del vero e del falso spiazzando se stesso anche soltanto un attimo. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Al pari di 'Una pura formalità' e 'La sconosciuta', 'La migliore offerta' rientra in un ideale filone di thriller metafisico dell'anima molto nelle corde di Giuseppe Tornatore. E' affascinante il modo in cui in un'innominata città mittel-europea (in realtà Trieste), il cineasta imbastisce il romanzo d'amore fra il nevrotico Geoffrey Rush, celebre battitore d'aste, e una giovane donna (Sylvia Hoeks) che, causa una grave forma di agorafobia, vive reclusa in una decrepita villa piena di antichi cimeli. (...) Tornatore conduce il gioco con raffinata maestria sul filo di un'astratta suspense, ben sottolineata dalla musica di Ennio Morricone, fino a uno scioglimento finale un po' troppo precipitoso e lambiccato che, tuttavia, rimane un peccato veniale in un film di tale smalto. E Rush è semplicemente straordinario nello scivolare dai vertici di un'algida solitudine dentro la spirale di un'inquietante ossessione d'amore Gian Luigi Rondi. Il Tempo Un esperto può facilmente capire quando un'opera d'arte è stata falsificata. Per un uomo innamorato, invece, sarà sempre molto difficile conoscere le possibili verità a due facce della natura umana, fino a commettere errori. Su questo assioma si costruisce quasi per intero il nuovo film di cui Giuseppe Tornatore è autore totale, soggettista, sceneggiatore, regista, dopo l'esperienza non proprio recentissima di Baarìa. (...) Un finale molto intricato fornirà parecchie chiavi, un po' sulla linea di quell'altro thriller di Tornatore che era 'Una pura formalità'. Questo, però, proprio al momento di concludere, pur rispettando la logica, la affida a dei viluppi narrativi forse un po' troppo macchinosi, facendo emergere certe verità, anziché da un racconto lineare, da una serie piuttosto eccessiva di scatole cinesi; senza però, con questo, nuocere minimamente a tutte le tensioni drammatiche e anche emotive fatte abilmente scaturire soprattutto nella prima parte del film. Con salda e sempre convincente vitalità. Dà loro esemplare vigore l'interpretazione, come Virgil, di Geoffrey Rush ('Il discorso del Re'), Claire è l'olandese Silvia Hoeke. Non dimentico però la splendida colonna sonora di Ennio Morricone, anche con mestissimi cori, la fotografia suggestiva di Fabio Zamarion, i costumi di Maurizio Millenotti. Elisa Gaiotto. Doppiozero La migliore offerta, mai titolo fu più adeguato. Questo, infatti, è il cinema italiano che piace di più agli italiani. Parlano i numeri: uscito il 1 di gennaio è ancora terzo al Box Office, con una tenitura infrasettimanale di rara forza, viaggia verso i 7 milioni di euro di incasso, che certamente passerà. Un ottimo risultato per un film che conferma quanto Tornatore sia forse il più sopravvalutato dei registi italiani. L’intenzione era evidentemente quella di fare un film dal respiro internazionale: interamente girato in inglese, con un cast di altissimo livello – Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks – ambientato in un non luogo che potrebbe essere Vienna o una qualche amena, pulita, ordinata località del Nord Europa. La confezione ovviamente è perfetta, anche perché con un budget di 14 milioni di Euro non poteva essere meno che perfetta… (...) Ora: il giochino cinematografico dove nessuno è chi dice di essere e dove tutto si ribalta pezzo dopo pezzo come un domino in un finale ad effetto l’abbiamo visto e rivisto, ma può anche funzionare ed essere gradevole se ben realizzato. (...) Durante la valutazione della villa di Claire, Virgil – che è ovviamente un maniaco dell’ordine e della pulizia e gira indossando candidi guanti bianchi di cotone s’imbatte in alcuni pezzi meccanici che – un po’ alla volta – porta al giovane Robert, eccellente artigiano restauratore, il quale poco a poco ricostruisce quello che sembra essere un pezzo originale di Jacques de Vaucanson, inventore meccanico francese del XVIII secolo, creatore dei primi grandi meccanismi automatici e di quello che viene considerato il primo vero automa della Storia: una papera capace di beccare il grano e bere acqua. Virgil crede quindi di trovarsi davanti ad un automa “umano” di Vaucanson, una grandissima scoperta che, poco a poco, pezzo per pezzo, si compone grazie alle sapienti mani di Robert regalandoci la "grande metafora" del meccanismo perfetto ma arrugginito che si ripara fino a tornare ad essere una macchina lucida, oliata e funzionante. (...) Siamo quindi nel Tornatore metaforico, che gioca col thriller, filone completamente opposto a quello del Tornatore siculo, e tutto sommato ne saremmo anche contenti perché preferiamo scordare Baaria e ricordare quel piccolo, seppur già simpaticamente pretenzioso, gioiellino che era Una pura formalità. Resta il miglior Tornatore, regista al quale evidentemente fanno male (e non è l’unico) soldi e mezzi, gli congestionano la creatività, gli sviluppano il manierismo e la ripetizione e pompano aria sulla brace del metaforico, che innervosisce e annoia soprattutto nella cornice di una regia che vorrebbe essere sofisticata ed è invece pesante, grave e fastidiosamente virtuosa. Anche la sceneggiatura, che si difende per la media del cinema italiano, soffre di qualche lungaggine che, in un film che vuole essere metafora di un meccanismo perfetto, non dovrebbero davvero esserci. Matteo Pernini. Ondacinema Dopo l'epos magniloquente, le architetture sontuose e gli sconsiderati virtuosismi del contestato "Baarìa" non era facile prevedere l'indirizzo che avrebbe seguito il cinema di Tornatore. Da sempre disgiunta tra l'anima regionalista di progetti dal sapore profondamente autobiografico ("Nuovo Cinema Paradiso") e il ripiegamento intimista nelle regioni oscure dell'animo umano ("Una pura formalità" e "La sconosciuta"), la sua opera ha impresso, nel panorama italiano, le tracce di un percorso alquanto dispersivo, un confuso viavai di generi, in cui l'estetica calligrafica e gli afflati melodrammatici costituiscono le radici comuni di un discorso artistico incapace di affrancarsi da manifestazioni retoriche. Un cinema esibizionista, bulimico e sovrabbondante anche quando insegue storie piccole e grigie di inquietudini alto borghesi e, pertanto, inabile a raccontare con partecipazione l'intimità dei suoi protagonisti. Date queste premesse è naturale, all'uscita dalla sala, mentre ancora scorrono i titoli di coda de "La migliore offerta", rendersi conto che stavolta qualcosa deve essere saltato nel vituperato meccanismo narrativo di Tornatore (che tanti nasi critici ha fatto arricciare nel corso degli anni). (...) Sono inquieti i personaggi che si agitano nel nuovo film di Tornatore, anime instabili, sempre sull'orlo del collasso; ombre fuggevoli, che nascondono segreti inconfessabili. Non c'è stabilità nel loro universo, insidiato dalle trame della finzione, nessuna spiaggia fissa cui approdare. Il trompe l'oeil, che sfonda le preti interne della villa di Claire verso idilliaci paesaggi, prefigura l'essenza illusoria di un mondo, in cui nulla è come appare (...) L'inganno, la decostruzione delle certezze attraversano l'intera pellicola e non lasciano indenni i personaggi, le cui identità si moltiplicano ad ogni tentativo di comprensione. Il corpo di Claire rimane celato per la maggior parte del film, se ne intuiscono solo frammenti, sorpresi oltre un foro nella parete, vaghi e sparuti indizi (il ritratto della madre), ma non possiamo che immaginarlo, seguire i pensieri di Virgil, che ne ode la voce e cerca di prefigurarne l'aspetto. Potrebbe, però, essere solo un'altra illusione. "La migliore offerta" è un film astratto, un'opera che abbandona l'ispirazione nostalgica di tanto cinema tornatoriano e rifiuta la centralità del tempo, l'idea di cinema come "luogo della memoria", per indagare, invece, il suo rapporto con lo spazio. E se già il cineasta siculo aveva sfiorato l'argomento ne "La leggenda del pianista sull'oceano", è pur vero che là l'ossessione rimaneva - come nelle stucchevoli pagine di Baricco che ne hanno ispirato la trasposizione - puro espediente narrativo, al più incentivo estetizzante per giustificare i volteggi del musico Roth nella celebre danza oceanica; qui, al contrario, lo spazio si fa da subito evidenza espressiva, elemento vivo e pulsante, che si amplifica, si contrae, intimorisce, rassicura, muove i sentimenti dei protagonisti. E' lo spazio reale del set, percorso con eleganza dal consueto armamentario di dolly e carrellate; quello fisico di Virgil, che, nell'ostinazione all'isolamento, consolida il vuoto attorno a sé allontanando finanche i domestici dalla sua enorme, deserta abitazione; quello mentale di Claire, ossessivo e sofferto, che si contrae fino all'emarginazione tra le superfici anguste di un rifugio segreto, pronto a farsi centro di gravitazione delle loro solitudini, luogo di conforto, inviolabile e chiuso, ma colmo di oggetti, libri e romanzi, che sono altrettanti universi possibili e racchiudono in sé quelle storie, quelle esperienze, quelle emozioni che essi sono incapaci di vivere. La saturazione dello spazio investe anche il caveau di Virgil, che sembra una quadreria di Pannini, con le tele addossate l'una all'altra su una parete traboccante sino al soffitto, ma senza vedute. Ogni angolo della stanza è deputato a contenere una scheggia di vita altrui, in un disperato horror vacui che la macchina da presa restituisce tramite ariosi saliscendi e dissolvenze incrociate, mentre i madrigali di Morricone danno voce a quei fascinosi ritratti femminili, quei volti in cui è inscritta la storia dell'arte e della stessa umanità, quegli occhi vividi e appassionati, che raccontano vicissitudini private, storie personali ed intime, di cui Virgil si fa anonimo voyeur. (…) Perché, al di là di tutte le considerazioni teoriche, non bisogna dimenticare che il nuovo Tornatore è essenzialmente questo: un racconto inquieto sull'ambiguità dei comportamenti umani, un noir di pregevole fattura, pur svincolato dagli schemi di genere, che avvince, recupera le atmosfere ansiose di certo cinema italiano anni '70 ("La casa dalle finestre che ridono") e sa conquistare, nei suoi momenti migliori, quell'afflato internazionale che la semplice ambientazione mitteleuropea e il cast straniero non gli avrebbero concesso. Il cinema di Tornatore si mette, dunque, in discussione e riparte dalle fondamenta, cioè dalla sceneggiatura e dai personaggi, affrontando un discorso sul suo farsi e metamorfizzando, negli ingranaggi del robot di Vaucanson, lo scheletro di un film che si ricompone, come le tessere di un puzzle, sotto gli occhi del pubblico. Certo, Tornatore non è Polanski e la sua rappresentazione delle realtà alto borghesi rimane una collezione di frasi ampollose e ritualità un po' troppo accademica per graffiare davvero, ma ha il pregio di sfidare consapevolmente i generi in un film sfaccettato e mutevole, senza adagiarsi nell'enfasi pedissequa dei passati pastiche.