MATERIALE DIDATTICO AD USO ESCLUSIVAMENTE DIDATTICO

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MATERIALE DIDATTICO AD USO ESCLUSIVAMENTE DIDATTICO
CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE
PREPARAZIONE AL TIROCINIO
LE CAPACITA’ RELAZIONALI
2^ SEMESTRE A.A. 2004 – 2005
DOCENTE C. PREGNO
MATERIALE DIDATTICO
AD USO ESCLUSIVAMENTE DIDATTICO
1.1 Relazioni e relazione d’aiuto ________________________________________________________ 2
1.2 _________________________________________________________________________________ 3
1.3 _________________________________________________________________________________ 4
1.4 Le capacità relazionali dell’assistente sociale___________________________________________ 6
1.5 Capacità relazionali e consapevolezza di sé ____________________________________________ 8
1.6 ________________________________________________________________________________ 10
1.7 La costruzione della relazione d'aiuto________________________________________________ 11
1.8 Componenti delle capacità relazionali _______________________________________________ 14
2.1 Società globale e capacità relazionali ________________________________________________ 16
2.2 ________________________________________________________________________________ 19
2.3 ________________________________________________________________________________ 21
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1.1 Relazioni e relazione d’aiuto
Il tema della relazione è argomento centrale nei servizi sociali, indicatore di qualità,
fondamento dei servizi stessi ed esperienza di vita - la relazionalità - prima ancora che
esperienza di lavoro sociale.
Secondo Donati (1992), “la relazionalità del sociale ha un fondamento empirico esperienziale:
così come, nel sistema di riferimento organico, l’uomo non può esistere senz’aria e senza cibo,
nel sistema di riferimento sociale l’essere umano non può esistere senza relazioni con gli altri.
Questa relazione è il costitutivo del suo essere persona, come lo sono l’aria e il cibo per il
corpo. Sospendete la relazione - con - l’altro e avrete sospeso la relazione - con - il - sé”.
Sul piano dell’esperienza individuale e collettiva, questa affermazione sembra ampiamente
conosciuta, condivisa e praticata, con fini diversi: nelle carceri la punizione più dura è
l’isolamento, non solo per ragioni di sicurezza, ma soprattutto per espliciti scopi di
inasprimento della condanna.
Ancora Donati: “non vediamo le relazioni sociali andare a spasso. Però sappiamo che esistono
con una loro consistenza, non solo perché si concretizzano in forma, movimenti ed istituzioni
sociali, ma perché di esse facciamo esperienza. Sono contingenti, ma questo non vuol dire che
non abbiano una realtà”.
Se hanno una realtà possono essere studiate in quanto tali. E possono essere usate, ad
esempio, per spiegare la società, immaginandola come una rete, o meglio come una “rete di
reti”, la cui trama è fatta di relazioni sociali.
Ogni evento esistenziale e sociale accade in un contesto relazionale e da questa centralità non
si può prescindere.
Il concetto di relazione implica il concetto di rapporto, di interazione, di molteplici contatti;
inoltre
• la relazione è un legame che congiunge,
• la relazione accade in un tempo;
• ciò che accade in un tempo ha una durata (piccola o grande), occupa uno spazio ed ha una
storia ;
• la relazione, che ha/contiene una storia, trasporta, in virtù di questa sua dimensione storica
e temporale, emozioni, desideri, aspettative, interpretazioni dei fatti, valori, significati,
richieste, comportamenti ed è aperta contemporaneamente verso l’evoluzione o
l’involuzione;
• non è mai neutra, quindi, è fortemente condizionata dalla soggettività individuale
• la relazione come mezzo e possibilità, specifica dell'essere umano.
Le relazioni professionali – l’utilizzo delle interazioni per gli specifici scopi del servizio sociale –
sono strumenti professionali.
Non sono relazioni spontanee, immediatamente disponibili, ma si attuano in un sistema di
servizi e hanno la loro ragion d’essere nel mandato dei servizi e negli obiettivi dei servizi.
Le relazioni professionali sono, a volte, asimmetriche, per vari motivi.
Sono relazioni utili: la relazione fra tecnici di diverse professionalità e fra tecnici e non tecnici,
orientata ad uno scopo comune, è un fattore di qualità dell’intervento sociale1; sono altamente
finalizzate e devono essere oggetto di vigilanza specifica; è necessaria quindi un’opera di
costruzione e di manutenzione delle relazioni professionali.
1 Una relazione positiva consente fiducia reciproca, disponibilità verso l’altro, confronto sereno sulla lettura del
problema, collaborazione, esplicitazione delle aspettative nei confronti delle azioni dell’altro, comprensione – anche
senza condivisione – del punto di vista dell’interlocutore, ecc.
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Si può dire che i comportamenti dell’operatore sociale possono favorire
negativamente sulla costruzione/manutenzione di relazioni professionali.
o incidere
1.2
La riunione è lo strumento della comunicazione umana che permette di interagire con più
persone contemporaneamente (Dal Pra Ponticelli, 1987). L’utilizzo efficace delle riunioni è un
mezzo per costruire delle relazioni professionali (è nella dimensione interattiva della riunione
che si scambiano idee e opinioni e si concordano/non si concordano azioni comuni).
Tutte le volte che delle persone si trovano per realizzare un obiettivo comune, si ha una
riunione.
Vi possono essere insiemi di persone che divengono un gruppo, quindi una riunione, in questo
caso, è una tappa della vita del gruppo.
Vi sono insiemi di persone che non si incontrano più dopo quella riunione. Il gruppo quindi
esiste solo per lo spazio di quella riunione. La riunione di condominio potrebbe essere un
esempio in questo senso: ci si trova una volta all’anno, i componenti variano, gli obiettivi non
sono comuni (gli interessi privati) e sono comuni solo quelli per cui esiste una regola formale
(il bilancio del condominio, il compenso dell’amministratore).
Parliamo invece di gruppo quando vi è stabilità, continuità, obiettivi comuni – il comitato di
quartiere, il consiglio parrocchiale, il gruppo che si costituisce per la realizzazione di un
progetto, il gruppo classe.
Vi è un rapporto tra riunione e gruppo che varia a seconda delle circostanze e degli obiettivi:
1. Vi può essere una riunione che dà vita ad un gruppo che si costituisce e dura nel tempo e
poco per volta definisce i propri obiettivi. In generale, i progetti di lavoro nel sociale
iniziano in questo modo, sia che siano rivolti a casi singoli sia che si pongano in una
dimensione territoriale. Nel lavoro di territorio il servizio sociale non lavora da solo.
Si possono convocare riunioni su qualunque argomento – la classe che si trova per parlare
delle date degli esami, ma anche il gruppo della Pro Loco che decide l’organizzazione del
carnevale.
L’assistente sociale partecipa a molte riunioni, per poter lavorare. Lavora facendo molte
riunioni.
I tipi di riunioni a cui partecipa possono essere ricondotti a cinque tipologie:
1. riunioni sporadiche di un insieme di persone che devono decidere qualcosa in relazione ad
un problema contingente – un esempio può essere la riunione con i figli di un anziano che
viene convocata per discutere quale sia il programma di assistenza migliore e la divisione
dei compiti
2. riunioni continuative con un insieme di persone che costituiscono un gruppo formale – il
gruppo di lavoro dell’assistente sociale (le riunioni di servizio degli operatori del servizio
sociale), il gruppo assistenti sociali che si riunisce con il gruppo degli psicologi – è la
situazione tipica del “tavoli” interistituzionali, sanità-scuola-assistenza, per esempio
3. riunioni continuative con un insieme di persone scelte dall’assistente sociale, le quali, poco
per volta, imparano a configurarsi come gruppo – il gruppo delle famiglie affidatarie, il
gruppo dei familiari dei portatori di handicap, il gruppo delle donne separate
4. riunioni sporadiche con un gruppo già costituito e funzionante con cui si prendono dei
contatti – per valutare insieme un’ipotesi di collaborazione, per un progetto relativo a
qualche tematica sociale – può essere l’inizio di un percorso di conoscenza, che potrà
sfociare in un lavoro comune
5. riunioni continuative con un gruppo già costituito per aiutarlo a raggiungere i propri
obiettivi. È il caso in cui l’assistente sociale si inserisce in un gruppo esistente nella
comunità locale, non per orientarlo o dirigerlo, ma per portare il proprio contributo, il
proprio punto di vista e la propria competenza. Ad esempio quando vi è un’associazione
locale che ha bisogno di un supporto per mediare con i politici locali, o ha bisogno di
conoscere le procedure per accedere a delle risorse (come si fa ad accedere ai fondi della
legge 285/97?)
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Il ruolo dell’assistente sociale cambia a seconda che l’assistente sociale stia in un gruppo da lui
istituito o si inserisca in un gruppo già esistente. L’assistente sociale può essere membro del
gruppo, conduttore, esperto. Occorre sempre qualcuno “che curi il gruppo”, che convochi le
riunioni, che trasmetta gli ordini del giorno e le decisioni assunte, che predisponga i luoghi e le
date in cui incontrarsi, che medi i conflitti: può essere l’assistente sociale che si assume questi
compiti, ma può essere anche il responsabile del servizio (nel caso delle riunioni di servizio) o
il responsabile del progetto (nelle riunioni relative ad un progetto specifico, il progetto per
interventi a bassa soglia per i senza fissa dimora), o un membro del gruppo a cui il gruppo
riconosce autorevolezza e capacità in tal senso.
L’assistente sociale deve comunque sempre avere presente i propri fini come professionista ed
aiutare il gruppo ad evolvere, a crescere, ad essere autonomo.
L’assistente sociale può anche partecipare anche a delle riunioni particolari, aventi lo scopo di
sensibilizzare, di informare, di difendere dei diritti: qui parliamo dei dibattiti, delle tavole
rotonde, delle assemblee.
In queste circostanze l’assistente sociale può essere il relatore su un determinato argomento,
o il moderatore della discussione, o entrambi. Deve curare di essere compreso il più possibile e
quindi esporre con chiarezza l’argomento di cui tratta (il tipo di linguaggio di una relazione
varia a seconda dell’uditorio – sarà più tecnico in una sede tecnica, fra operatori sociali, più
discorsivo, per esempio, ad un corso di formazione per insegnanti.
Partecipa anche ad altre riunioni, come lavoratore: le assemblee sindacali – spesso l’esercizio
della professionalità passa anche attraverso il riconoscimento di diritti dei lavoratori (la
copertura dell’organico, ad esempio: la mancanza di operatori si traduce in disservizi per i
cittadini, così come la mancanza di risorse adeguate – un computer ogni dieci persone, locali
sovraffollati).
In diverse circostanze l’assistente sociale è l’unico esperto, in una riunione, del significato e
delle conseguenze delle scelte di politica sociale: il taglio al bilancio dei consorzi per la gestione
delle attività socioassistenziali ha delle conseguenze dirette sulla qualità dei servizi e quindi
sulla qualità della vita dei cittadini; in queste riunioni l’assistente sociale non è solo l’esperto,
ma anche il rappresentante, il testimone di chi non può richiedere direttamente l’applicazione
dei diritti sociali (gli anziani ed il diritto alla domiciliarità, i bambini ed il diritto ad
un’alternativa alla famiglia, se ciò è necessario).
L’assistente sociale deve comunque agire sempre dei comportamenti di ascolto, di proposta
costruttiva, di iniziativa, di disponibilità a mettersi in discussione (senza cedere sulla
dimensione valoriale della produzione di servizi).
Un tipo di gruppo che è diventato uno strumento operativo dell’assistente sociale è l’équipe, il
gruppo composto da più figure professionali. L’équipe è un gruppo istituzionale volto al
compito, multiprofessionale, con una pluralità di funzioni (analisi del caso singolo,
progettazione di interventi volti al territorio, revisione di modalità organizzative – ad es. le
procedure di segnalazione fra i vari servizi sociosanitari). È un gruppo di lavoro dove è
particolarmente evidente la densità delle relazioni professionali e la loro incidenza sull’esito di
un percorso di lavoro.
Un esempio è la discussione dei casi. Le modalità di comunicazione tra operatori e le relazioni
che intercorrono tra di loro condizionano la possibilità di analizzare in maniera tecnicamente
corretta il caso: se chi racconta il caso è una persona di cui qualcuno non ha stima, è difficile
che il soggetto presti attenzione o che concordi sulla lettura proposta del problema.
Uno strumento utile per l’operatore sono le capacità negoziali: le capacità negoziali aiutano a
costruire e a mantenere relazioni.
1.3
La relazione che si attua tra l'utente e l'operatore sociale viene chiamata relazione di aiuto.
È una relazione faccia a faccia, non mediata, non virtuale.
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Non è una relazione naturale, immediatamente disponibile, come quelle familiari o di amicizia.
Presuppone un sistema di servizi, all'interno del quale sta collocato l'operatore.
Ed è una relazione diversa da quelle familiari o amicali perché il sistema di aiuto formale ha
modi e fini diversi dal sistema di aiuto informale.
La relazione di aiuto è uno strumento professionale. Atipico - in quanto trasversale e
onnipresente (c’è relazione nei colloqui e nelle visite domiciliari, e la qualità della relazione
sostanzia l’intero progetto di intervento), indicato comunque come ”strumento privilegiato di
conoscenza e di azione che l’assistente sociale può usare nel suo lavoro” (Cellentani, 1995).
La relazione di aiuto è lo strumento base per operare sul sistema utente; è una relazione
empatica, promozionale, fondata sulla fiducia reciproca e tende a sostenere sia le forze
positive del sistema utente, sia a placare le sue ansie, accettare le sue ambivalenze, a chiarire
le sue incertezze, a porre dei controlli. Attraverso la relazione di aiuto l’assistente sociale,
oprando sia sul piano cognitivo che emotivo del sistema utente, cerca di attivare un processo
di apprendimento di modalità più funzionali per percepire ed affrontare la situazione problema
e produrre così un cambiamento di atteggiamenti2, e di conseguenza, di comportamenti3.
La relazione di aiuto che lega l’assistente sociale e la persona è anche un percorso di compito.
Quando si parla di compito nella relazione di aiuto ci si riferisce:
- al percorso che i due soggetti intraprendono
- alla fase di realizzazione del progetto, che è connotata da una particolare densità operativa.
Nel percorso di compito è la persona che deve muoversi quale protagonista, mentre
l’assistente sociale ha una funzione abilitante; in questa chiave di lettura il compito costituisce
uno strumento per affrontare gli ostacoli 4..
Una relazione di aiuto professionale si differenzia per
- la centralità attribuita agli interessi, ai bisogni e alle aspirazioni della persona
- gli obiettivi che assume sulla linea del cambiamento
- l’essere fondata su obiettività e consapevolezza (si tiene conto dell’intenzionalità della
persona)
- avere una natura promozionale
- prevede una trattativa, un impegno reciproco tra i soggetti
- si fonda sulla collaborazione della persona
- è triadica: assistente sociale/persona/servizio-territorio5
- non è esclusiva
- è dialogica e abilitante (l’assistente sociale riconosce e fa riconoscere competenze,
incoraggia ad esprimere forze latenti, informa su quanto esiste, insegna strategie).
La relazione di aiuto si colloca in un pensiero progettuale consapevole 6..
L’intervento del servizio sociale tende anche a rendere più “nutritivo”, più adeguato l’ambiente
dell’utente, facendo da tramite e organizzando attorno al sistema utente un set di aiuto
composto sia da risorse istituzionali – e per questo deve necessariamente utilizzare l’attività
amministrativa (relazioni, delibere, ecc.) – sia di risorse sociali ed ambientali, e per questo
utilizza il lavoro di rete cercando di reperire, attivare, coordinare intorno al progetto di aiuto
tutte le risorse comunitarie necessarie e possibili 7. Si colloca quindi in una rete di relazioni
professionali, che hanno diverse finalità.
Quando si parla di relazione d’aiuto “promozionale e dialogica” (Ferrario,1996) si sta dicendo
che: l’intervento sociale dovrebbe favorire l’apprendimento attraverso l’implementazione delle
esperienze della persona e la relazione con l’assistente sociale «se improntata sul rispetto dei
2 Vedi la nozione di atteggiamento in psicologia sociale “l’atteggiamento…è un costrutto della mente che induce delle
predisposizioni nel modo di percepire e valutare la realtà sociale e che guida il comportamento individuale”, R. Trentin,
gli atteggiamenti sociali, in Manuale di psicologia sociale (a cura di L. Arcuri), Milano, 1995, p. 230
3 M. Dal Pra Ponticelli, Riflessioni sulle basi teoriche del servizio sociale: l’approccio cognitivo umanistico o del
problem solving, in La Rivista di Servizio Sociale, 3/95
4 F. Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale, 1996, Carocci, Roma
5
La multidimensionalità dell’intervento sociale!
6 idem, , p. 103
7 M. Dal Pra Ponticelli, Riflessioni sulle basi teoriche…, cit.
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modi di conoscere e di orientarsi nella realtà, rappresenta una esperienza che apre la
possibilità di cogliere nuovi modi di rapportarsi con gli altri più costruttivamente».
Non è possibile non considerare la componente relazionale del lavoro sociale, perché occuparsi
dello stare bene delle persone significa occuparsi di relazioni, in quanto non è possibile
immaginare una condizione di benessere, per una persona, in cui non vi siano solidi e sani
riferimenti a importanti relazioni sociali 8; per un servizio comprendere questo è un passaggio
vitale - la relazionalità è essenziale per gli esseri umani ed è essenziale per i servizi perché
tocca la loro stessa possibilità di entrare in rapporto con l'utente.
Una relazione è significativa se è reciproca, cioè se gli interlocutori si riconoscono
reciprocamente come soggetti distinti, con limiti e risorse proprie (personali, professionali,
familiari, culturali, ecc.) (Ranci Ortigosa, 1990).
Se l'operatore sociale non attiva un'attenzione di reciprocità - e quindi diventa un interlocutore
reale, umano e presente - non riuscirà a capire il senso che per l'interlocutore assumono i
diversi fatti della sua storia; soltanto comprendendo i "fattori di senso" e facendosene carico
nella relazione può offrire risposte che siano significative per le persone ed aprire la possibilità
di attivare un processo di cambiamento.
La relazione mette in gioco tutti e due, utente ed operatore, con storie, culture, pregiudizi,
motivazioni, attese: tutti e due sono corresponsabili della relazione.
La relazione di aiuto è quindi un rapporto di scambio nel quale ciascuno utilizza le proprie
risorse per il raggiungimento di un obiettivo di "qualità della vita" concordato e riconosciuto
come desiderabile da entrambi i soggetti.
L'organizzazione dei servizi non può non tenere conto della dimensione relazionale del lavoro
sociale: si può considerare l'organizzazione come un complesso sistema di mezzi d'azione e di
rapporti umani, dove non si possono attuare semplificazioni, ad esempio dimenticare gli spazi
ed i tempi delle relazioni o ridurre i compiti d’istituto a erogazioni.
Una prospettiva relazionale implica tempi diversi da una prospettiva centrata sulla prestazione
e un cambiamento nei comportamenti organizzativi.
I rapporti fra gli operatori, buoni o cattivi che siano, si riproducono nei rapporti con gli utenti;
allo stesso modo un operatore stanco, frustrato, mutilato nella sua creatività trasferirà il suo
stare male nella relazione con la persona.
1.4 Le capacità relazionali dell’assistente sociale
Quando si parla di buona capacità relazionale dell’operatore sociale dobbiamo pensare che
questa consista in primo luogo nella capacità di contenimento delle proiezioni e della
sofferenza dell’utente in modo tale da aiutarlo a pensare. È possibile aiutare l’utente a pensare
solo se l’operatore è in grado, lui per primo, di riflettere, cioè di tollerare la sofferenza emotiva
dell’utente e le richieste che questo gli fa, avendo la pazienza di cercare di capire prima di
precipitarsi a fare delle cose. Da questo punto di vista possedere capacità relazionali vuol dire
riuscire a pensare e aiutare a pensare, ovvero saper riflettere ed essere in contatto profondo
con i sentimenti propri e dell’utente.
Il termine empathy è stato coniato da Tichener nel 1908 come traduzione del termine tedesco
Einfűhlung9, introdotto in psicologia da Lipps.
Quanto Tichener tradusse il termine tedesco con empathy voleva sottintendere
un’identificazione talmente profonda con un altro essere da provarne i sentimenti. Questo
esclude la superficialità.
La capacità empatica comprende la conoscenza dello stato interiore di un’altra persona (vivere
temporaneamente la vita di un’altra persona) e il processo comunicativo (verbale e non
verbale) finalizzato ad esprimere alla persona la comprensione in atto.
«Nell’attività dell’assistente sociale è particolarmente importante un atteggiamento
correttamente empatico, proprio al fine di favorire il compito che rientra nella specifica mission
8 si veda il concetto di nicchia ecologica
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Immedesimazione
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di questa figura professionale, cioè salvaguardare la salute globale della persona e prendere in
considerazione la domanda dell’utente nella sua globalità […] applicare ai servizi sociali la
proposta [del modello di intervento empatico] evidenzia l’importanza di sgombrare il campo da
premesse mentali che siano caratterizzate da una focalizzazione difensiva su se stessi invece
che da un orientamento verso gli altri. L’incontro con il disagio, la sofferenza, la patologia può
avere effetti evocanti delle difficoltà che ogni persona attraversa nel corso del proprio ciclo
vitale oppure può far risuonare intensamente emozioni ed esperienze passate. Si possono cosi
produrre effetti destabilizzanti nell’operatore […] Un operatore che non riesca ad utilizzare le
capacità empatiche come uno strumento di lavoro, senza restarne invischiato, rischia di
avviarsi ad una carriera di infelicità ed assumersi ruoli, come quello del salvatore, o del farsi
carico di problemi altrui per espiare chissà quali colpe, che utilizzano meccanismi […] difensivi
piuttosto che l’empatia […] Solo un modo di essere veramente empatico potrà favorire il
riconoscimento nell’utente e nel suo contesto di vita, non solo delle carenze, per colmarle
attraverso interventi assistenziali, ma anche delle risorse, per affiancarsi al soggetto senza
sostituirlo ed aiutarlo a riappropriarsi delle proprie competenze»10.
«Compito essenziale della relazione d’aiuto è quello di facilitare l’autoesplorazione dell’utente,
attraverso la percezione accurata delle sue emozioni e del contesto nel quale si verificano. Chi
chiede aiuto deve essere stimolato ad assumersi la responsabilità delle proprie esperienze e ad
entrare in contatto con il proprio mondo. Nella relazione d'aiuto questo accade soprattutto con
comunicazioni verbali, ma anche con espressioni non verbali. Sono richiesti quindi,
all’operatore, oltre alla capacità empatica, altri comportamenti che si possono ritenere
facilitanti nelle relazioni interpersonali […] l’operatore costruisce le basi della sua relazione con
l’utente, oltre che attraverso l’empatia, per mezzo della cordialità e del rispetto. Attraverso
l’utilizzo di queste competenze, in una prima fase dell’intervento, il facilitatore è visto degno di
fiducia, investito di potere esperto, legittimo e referenziale. In questo modo egli costruisce il
suo diritto ad agire, gettando le basi per poter attuare, in seguito, interventi per il
cambiamento. Dopo questo primo investimento il consulente potrà intervenire utilizzando le
altre dimensioni facilitanti: apertura di sé, concretezza, genuinità, franchezza,
immediatezza»11.
Tiberio e Fortuna analizzano le diverse dimensioni facilitanti che costruiscono la struttura della
relazione12
Autoesplorazione
Dimensioni
facilitanti
profondità
1. empatia
2. cordialità
3. rispetto
competenze
prima
dell’intervento
Comprensione di sé
in
Azione o direzione appropriata
Dimensione di iniziativa
8. franchezza
9. immediatezza
fase
Fasi successive
4. concretezza
5. genuinità
apertura di sé
«Il processo dell’empatia è legato strettamente ai tempi della relazione d'aiuto. Infatti, da un
lato è necessario che l’empatia, con i suoi diversi livelli di accuratezza e di focalizzazione sugli
10
Fortuna F., Tiberio A., cit., pp. 170-171
11 Fortuna F., Tiberio A., Il mondo dell’empatia, 1999, Angeli, Milano, pp. 46-47
12
idem, pp. 49
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elementi emotivi o cognitivi, sia adeguata alla fase della relazione d'aiuto […] dall’altro lato,
l’empatia è necessaria nel riconoscere i bisogni del cliente e nell’individuare i tempi della
relazione d'aiuto e del cambiamento. Ogni relazione d'aiuto, infatti, ha peculiarità proprie e i
tempi variano di conseguenza. Sarà dunque compito dell’operatore valutare se sia il momento
di affrontare aree che sono fonte di stress. […] il livello a cui è interessato il terapeuta centrato
sul cliente è il “qui e ora”: il mondo esperienziale del cliente disponibile al momento
presente»13.
Da un’altra prospettiva,
la relazione di aiuto può essere considerata una relazione
identificatoria.
In psicanalisi il termine identificazione indica il processo psicologico mediante il quale il
soggetto si costituisce gradualmente come tale assimilando uno o più tratti di un altro
individuo e modellandosi su di essi. – l’identificazione è la forma primitiva e originaria di
legame emotivo.
In altre parole:«l’identificazione è la prima forma di conoscenza con cui ognuno di noi
apprende se stesso e il mondo; è questa forma di conoscenza che sperimentiamo nella prima
relazione in cui veniamo a trovarci: la relazione madre-bambino»14.
Nella relazione madre-bambino i ruoli sono asimmetrici, perché il bambino è totalmente
dipendente dalla madre; la madre, per soddisfare i bisogni del bambino, deve comprendere i
segnali che il bimbo le trasmette. «E’ una relazione complessa, fatta di aggiustamenti e
adattamenti reciproci; la madre cercherà di accogliere e comprendere i bisogni concreti del
bambino attraverso i contenuti emotivi che accompagnano questi bisogni: il pianto, il sonno, la
veglia […] la madre dovrà identificarsi per accogliere il dolore del bambino poi dovrà elaborare
il significato possibile di quell’esperienza; solo a questo punto sarà in grado di offrire la
risposta; ad esempio coccolarlo piuttosto che offrirgli la poppata […] analogamente l’operatore
che voglia trattare l’utente come una persona da aiutare […] dovrà muoversi in questo modo
cercando di percepire, sentire, pensare come l’altro, accantonando temporaneamente il proprio
modo di sentire, percepire e pensare. Ciò significa essere capaci di identificarsi, tollerando
l’ansia, la confusione e forse anche il dolore che questo può provocare, per poi distanziarsi e
restituire all’altro ciò che si è colto in una riformulazione che contiene la comprensione, non
solo grammaticale, ma anche emotiva di ciò che è stato comunicato» 15..
La specificità della relazione d'aiuto, per l’operatore, per i suoi schemi cognitivi ed emotivi,
nella sua particolarità di processo identificatorio, può essere evidenziata facendo riferimento
alle diverse forme dell’esperienza che gli esseri umani hanno a disposizione:
➫ esperienza diretta
➫ esperienza mediata (al cui interno si colloca l’esperienza mediatica)
➫ esperienza virtuale 16.
L’esperienza diretta, che è il nostro primo ambito di esperienza, con il meccanismo
dell’identificazione, ci consente di fare, anche se per poco tempo, l’esperienza diretta dell’Altro.
1.5 Capacità relazionali e consapevolezza di sé
Le capacità relazionali dipendono dunque non da un apprendimento esterno di tecniche, ma da
uno sviluppo interiore (che deve essere prima di tutto emotivo) cioè, in definitiva, dalla salute
mentale dell’operatore. La quale si manifesta non quando l’operatore è senza difetti (questa è
una fantasia di onnipotenza) ma quando l’operatore è ben consapevole di avere dei limiti e del
fatto che dentro di lui esistono delle parti incompiute e problematiche.
In altri termini, per chi opera con persone in difficoltà la consapevolezza di sé (del proprio
mondo interno e dei propri sentimenti) non è un optional ma un obbligo. Anzi è un vero e
13
Fortuna F., Tiberio A., cit., p. 70-72
14 O. Cellentani, Manuale di metodologia per il servizio sociale, 1995, Milano, Franco Angeli, p.121 e sgg
15 idem, p. 122
16 C. Giaccardi, M. Magatti, L’Io globale, 2003, Roma-Bari, Laterza
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proprio strumento di lavoro che dovrebbe garantire di non attribuire all’altro i propri pensieri e
al tempo stesso di poter relativamente tollerare la sofferenza dell’utente senza farsi travolgere.
Un’altra fondamentale capacità relazionale dell’operatore sociale è dunque quella di non
sapersi onnipotente, di conoscere i propri limiti e difetti. Ciò comporta anche autointerrogarsi
sul perché si sono compiute certe scelte e sul significato che hanno.
Sottolineare l’importanza delle funzioni mentali dell’operatore sociale significa ribadire che
queste funzioni sono fondamentali strumenti di lavoro per l’operatore.
Non basta la competenza tecnica nei lavori assistenziali curativi, ma è necessaria una modalità
di rapporto (una capacità relazionale appunto) in cui l’altro sia presente e “si senta” tenuto
presente, ovvero preso in considerazione come persona, prima che come caso. Anche il senso
di responsabilità è un fatto terapeutico e di profilassi: la responsabilità dell’operatore cura.
Le capacità relazionali da sole non bastano e non esentano l’operatore dal dovere di acquisire
una ben precisa competenza tecnico strumentale ed operativa (ad esempio sapere fare i
colloqui, conoscere le procedure, avere una metodologia di riferimento). Ma nemmeno le
competenze tecniche sono sufficienti in quanto ad esse si deve aggiungere una professionalità
relazionale, tutta da costruire e da sviluppare, non esauribile con la frequenza a scuola o a
qualche corso di formazione, ma da registrare e controllare continuamente, nel senso che la
capacità di operare con gli altri e di porsi in modo adeguato rispetto all’utenza può crescere e
migliorare col tempo se viene continuamente analizzata e sottoposta a riflessione. Riflessione e
confronto continuo con i colleghi su quello che viene fatto e come viene fatto.
Se ci si mette in una prospettiva di riflessione su di sé mentre si lavora (ovvero si assume la
prospettiva del pensiero prima dell’azione) il lavoro emotivo dell’operatore risulta alleggerito,
anziché appesantito, e soprattutto si ha la possibilità di apprendere dall’esperienza
trasformando il suo impegno in un momento creativo.
Come si declina nella pratica, la professionalità relazionale? Spiccano sui diversi aspetti, la
capacità di osservare e ascoltare: capire ciò che l’altro vuole comunicare e ciò che chiede e
cogliere al contempo la componente emotiva del suo messaggio. Ascoltare vuol dire prendere
in considerazione l’interlocutore partendo dal presupposto che non si conosce ciò che sta per
essere detto. Ascoltare implica mettersi in relazione con l’altro come fosse la prima volta e
quindi con un atteggiamento di curiosità e sgombro da preconoscenze (per quanto è possibile si giunge come soggetti culturalmente definiti all’incontro con un altro), senza inserire l’utente,
prima ancora che abbia finito, in una tabella di casistiche predeterminate.
Ascoltare dunque, come capacità relazionale principe o, meglio, come manifestazione
principale della presenza di una mente emotivamente matura, che non è un’operazione passiva
ma eminentemente interattiva.
La capacità negativa (Bion, 1970) consiste nel saper tollerare la frustrazione di non capire, di
non sapere, nell’accettare di mantenere il giudizio sospeso, del non andare alla ricerca di
spiegazioni a tutti i costi, spiegazioni che poi si risolvono in razionalizzazioni utili solo a togliersi
le ansie, ma non certo a comprendere le situazioni o le problematiche dell’utente. La capacità
negativa è la capacità di saper aspettare.
Freud raccomandava ai giovani psicoterapeuti di non farsi prendere dal furore terapeutico,
dall’accanimento curativo perché è negativo; l’operatore che ha bisogno di ottenere risultati
dimostra di avere soprattutto bisogno di rassicurare se stesso, di confermarsi buono e utile.
Volere avere a tutti i costi dei risultati è spesso un problema più dell’operatore che dell’utente ovvero non bisogna essere interventisti
Le capacità relazionali possono essere sintetizzate in uno schema.
Componenti delle capacità relazionali:
Osservare
Ascoltare
Immedesimarsi
Identificarsi
Comunicare
Pensare
Negoziare
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Avere pazienza
Collaborare
Essere in contatto con i sentimenti della persona e con i propri sentimenti (consapevolezza di
sé)
Tollerare la frustrazione
Contenere l’ansia
Apprendere dall’esperienza
Promuovere la soggettività
Cambiare
Assumersi le responsabilità nel lavoro e verso gli altri
Saper attendere (capacità negativa)
Per concludere, un commento di Demetrio sul tema «e proprio gli operatori in prima linea, nel
momento della loro iniziazione (anche come tirocinanti) vengono gettati in situazioni relazionali
così complicate e avvolgenti che ben difficilmente ritrovano sostegno in quello che hanno
imparato: restano sconcertati dalla distanza fra le teorie, le tipologie, le indicazioni
metodologiche […] e la difficoltà di ricondurre quel che vedono, quel che ascoltano, quel che li
sovrasta entro questa o quella matrice concettuale. Si avvertono sempre dentro la relazione
più di altri, travolti da essa nella sua (anche sgradevole) consistenza fisica, catturati dalla pena
e dalla sofferenza, dall’assenza di una qualche speranza di guarigione se non almeno di
riconquista di un barlume di normalità. E così, in questo sconcerto che si protrae, fanno ricorso
a risorse non apprese nei luoghi della formazione: attingono a quel che credono di aver
imparato in quanto donne e uomini, seppur giovani»17
Da questa esperienza Demetrio sottolinea il carattere virtuoso della relazione d'aiuto, facendo
riferimento a quando, per comprendere il senso della relazione stessa, si attinge al sapere
morale e non soltanto a quello scientifico.
1.6
Si parla di impegno e di responsabilità, quando si parla di relazione d'aiuto, si parla quindi di
un incontro con l’altro molto intenso, forte. Si parla di coinvolgimento emotivo. Perché?
Osservare ed ascoltare, come componenti della capacità relazionale, mettono in contatto e
questo essere in contatto (l’abbiamo visto prima, l’empatia è immedesimazione) provoca un
incontro fra emozioni, le emozioni dell’altro e le emozioni dell’operatore.
Borgna evidenzia che «nel cuore di ogni emozione, anche delle emozioni più dolorose e
apparentemente al di là di ogni orizzonte di senso, si nasconde almeno una scheggia di
palpitante umanità e di inesauribile trascendenza che ci induce a riconsiderare anche la
tristezza e l’angoscia in una loro alta e indelebile significazione umana psicologica e umana:
sottraendole a qualsiasi immediata connotazione patologica. Questa è l’angoscia che potremmo
definire esistenziale: l’angoscia legata alla condizione umana […]»18. Il che porta a riconoscere
che l’ansia e l’angoscia sono componenti della condizione umana, non sono condizioni
patologiche e che quindi non occorre averne paura, ma imparare a riconoscerle e trattarle –
non sono qualcosa di cui avere paura, da cui cercare di fuggire, ma sono parti del nostro
essere umani.
Afferma quindi che «nel contesto delle relazioni umane (quelle quotidiane ma soprattutto
quelle ad impronta sociale terapeutica) è necessario ri-conoscere la presenza delle emozioni
fondamentali, come l’ansia e la tristezza, per interpretare i significati nascosti di
comportamenti altrimenti oscuri o comunque incompresi o ambivalenti […] cogliere le
connessioni possibili, o almeno intravederle, fra ansia e timidezza, fra ansia e solitudine, fra
ansia e aggressività, fra ansia e fuga dalla realtà, non è cosa irraggiungibile da parte di
chiunque abbia a educarsi a guardare senza timore negli abissi della propria interiorità e in
17
18
Demetrio D., La relazione è anche una virtù?, in Animazione Sociale, 11/2004
Borgna E., Quel che l’angoscia aiuta a comprendere, in Animazione Sociale, 6-7/2004
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quelli dell’interiorità altrui; e a decifrare non solo il linguaggio delle parole, talora insondabile,
ma anche il linguaggio del corpo: il linguaggio degli occhi e degli sguardi, del sorriso e delle
lacrime, dei gesti (delle mani) e infine dei volti»19.
In altre parole riconoscere la normale condizione di ansia e conoscere se stessi è un mezzo per
capire ciò che l’ansia – nostra, altrui – comunicano. L’ansia come fonte di conoscenza, quindi:
un ampliamento dei nostri schemi cognitivi, una prospettiva di evolutiva.
Ancora Borgna: «riscattarci e salvarci, dalla routine, dal burn out che […] rischiano di svuotare
di senso ogni lavoro di impegno psicologico e sociale con le sue sacche di ripetitività è possibile
solo quando si sia capaci di cogliere quello che, ogni volta, ci sia di nuovo e di originale nel
modo di essere e di soffrire delle persone […] l’angoscia è un’emozione che, come la emozione
sorella, la tristezza, trascina con sé metamorfosi del mondo e dell’io, lacerazioni e turbolenze;
ma fa nascere in noi risorse interiori che senza di essa sarebbero imprigionate e ammutolite.
La incapacità di provare sentimenti di ansia è segno […] di una malattia, forse, ancora più
grave che non quella di essere assaliti e dominati dall’ansia. Questa può essere curata ed
arginata; quella non ha farmaci che possano farla risorgere: farla sorgere. Troppa ansia e
troppo poca ansia, testimoniano di una condizione umana ferita; ma l’ansia, l’angoscia […] può
essere la premessa non solo ad un’apertura al mondo e agli altri ma anche la premessa ad
esperienze creative che si manifestano in molte aree estetiche: dall’arte alla letteratura, dal
cinema al teatro»20.
Il che riconduce a delle considerazioni di Natoli (1986, 1994) sul dolore; il dolore si conosce
per esperienza e l’esperienza del dolore produce una forma particolare di conoscenza: si tratta
infatti di un’esperienza cruciale – experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo
vive, sino a mettere in discussione il senso dell’esistenza.
Quest’esperienza cruciale, secondo Natoli, ha due caratteristiche, è insieme patimento e
rivelazione. Il dolore interrompe la continuità dell’esistenza, si vede il mondo come non lo si
era mai visto prima; la persona è sottoposta ad una tensione, che se non produce distruzione,
accresce enormemente la percezione.
Attraverso il dolore si conosce non per astrazione ma per immedesimazione: c’è scarsa lucidità
in un dolore intenso, ma c’è molta intensità emotiva.
Il dolore quindi colloca in un’esperienza altra, dove chi soffre può fare cose e capire cose del
mondo che coloro che hanno le cosiddette possibilità “normali” non possono né fare né capire.
L’operatore sociale deve imparare a rapportarsi con chi soffre (stare accanto al sofferente,
“interiorizzo la sua ferita e mi ammalo con lui”):
- stando accanto al dolore degli altri. Il dolore isola, distingue, separa, perché è
un’esperienza cruciale. Chi soffre ha bisogno di parole, ma magari non le trova. Ma il dolore
patito, da qualcuno, è un dolore possibile, per ciascuno di noi. Tenendo presente questa
dimensione dell’individuale/universale, si possono trovare le parole, ed i gesti, ed i silenzi;
- comunicare il senso dell’esperienza altra, che ogni dolore porta con sé, che può essere
l’apertura verso una crescita, proprio perché il dolore porta, con sé, la possibilità di una
visione diversa del mondo;
- far comprendere alla persona che soffre che deve farsi responsabile della propria
sofferenza; nessuno ti aiuta, se tu non ti aiuti il soggetto deve essere abilitato a
diventare pienamente titolare di se stesso, qualunque sia la condizione in cui egli si trovi.
L’azione pedagogica deve far sì che la persona si assuma l’impegno della propria finitudine
(che non è disgiungibile dalla condizione umana).
In che modo: attraverso la relazione personale: comunicare alla persona che soffre che lei è
importante, per l’operatore sociale “tu sei importante per me, la tua vita, questa tua stessa
esperienza di dolore sono per me fondamentali, mi costituiscono come essere umano”.
1.7 La costruzione della relazione d'aiuto
19
20
idem
Borgna E., I mille volti dell’ansia, in Animazione Sociale, 5/2004
11
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Incontrare l’altro presuppone sensibilità, conoscenza di se stessi, accettazione dei limiti della
condizione umana, assunzione di responsabilità – presuppone anche la capacità di saper agire
queste premesse, quindi il possesso di abilità tecniche. Saper fare i colloqui, ad esempio: il
colloquio come mezzo per la costruzione della relazione d'aiuto.
«La costruzione della relazione d'aiuto passa attraverso l’abilità dell’assistente sociale nel
creare un ponte con chi sta vivendo un disagio che non è in grado di affrontare da solo e che
necessita dell’intervento di sostegno da parte di una persona competente. A partire da questa
definizione di relazione d'aiuto, riteniamo che il colloquio sia lo strumento base per costruire
questo ponte metaforico con l’altro. Il colloquio è […] qualcosa di diverso dalla semplice
conversazione o da un dialogo fra amici: deve essere un dialogo speciale dove si incontrano
ruoli precisi e diversi, ma entrambi attivi, e dove si trovano regole definite dal contesto in cui
avviene il colloquio stesso, regole che vanno esplicitate per essere condivise.
Per realizzare un colloquio di questo tipo è necessario avere
a) un obiettivo chiaro
b) un metodo di lavoro, ossia un ordine operativo che guidi la riflessione durante il processo e
inibisca l’agire istintivo
c) un modello teorico di riferimento, ovvero una premessa concettuale […] che orienti
l’assistente sociale a costruire […] una mappa dell’intervento»21.
Un colloquio, prima di avere luogo, dev’essere preparato. L’assistente sociale deve aver ben
chiaro l’obiettivo di quel colloquio e il suo ipotetico svolgimento.
Il colloquio va «visto in un’ottica più complessa rispetto a una semplice comunicazione diadica,
poiché il sistema di comunicazione è esteso e comprende la relazione dei partecipanti con altre
persone significative anche se non presenti (Ricci, 1981). In questa prospettiva si spiega
l’esigenza, anche nel colloquio diadico, di mantenere una visione sovraindividuale, per
collocare l’individuo nella sua rete di relazioni. [il colloquio] richiede una definizione dei ruoli
dei comunicanti in quanto: l’operatore agisce nei limiti del mandato dell’utenza e/o servizio di
appartenenza; ha la responsabilità di condurre il colloquio, di far domande, di circoscrivere o
approfondire le aree di indagine, di aiutare l’utenza a esprimere fatti e sentimenti, nonché di
impegnarsi a realizzare gli obiettivi concordati; l’utenza ha una legittima aspettativa di aiuto,
entro le regole di una relazione che richiede la sua partecipazione e collaborazione; ha diritto di
essere ascoltata, capita, informata, orientata»22.
Strategie per la conduzione (in una prospettiva sistemica):
- il processo di influenzamento
«Nel colloquio, inteso come la realizzazione di un’interazione interpersonale che segue le leggi
della comunicazione, è impossibile non influenzare e non essere influenzati […] l’operatore
influenza quando pone le domande e il cliente, da parte sua, partendo dal proprio bisogno,
dalle proprie premesse mentali e dal modo di rispondere alle domande, tenderà ad influenzare
l’operatore nella direzione della propria “punteggiatura” sul problema. È con questa
consapevolezza che l’assistente sociale dovrebbe utilizzare strategicamente la propria capacità
di influenzamento, porre molta attenzione alle retroazioni, […] proporre al suo interlocutore di
accogliere una “punteggiatura” differente, ma congruente, che interrompa il circolo vizioso del
disagio [inoltre] per non scivolare nel gioco relazionale dell’utente, l’assistente sociale
dovrebbe riconoscere i propri pregiudizi, non sempre consapevoli, ma che possono favorire sia
la collusione23 che la conflittualità con l’utente»24.
- Le connessioni
«Fare connessioni [vuol] dire cogliere la capacità della mente di essere flessibile, di essere
attenta al contesto, di ristrutturarsi e di apprendere da ogni esperienza. Nella conduzione del
colloquio di servizio sociale questa definizione trova un’applicazione pratica importante, in
quanto sviluppa nell’operatore la consapevolezza che anche solo con dei dati semplici si
possono recuperare molte più informazioni di quelle che apparentemente sembrano
21
Zini M.T., Miodini S., Il colloquio di aiuto, 1997, Carocci, Roma
Lerma M., Metodo e tecniche del processo di aiuto, 1992, Astrolabio, Roma
23
la collusione è un’adesione acritica, che non permette all’altro di crescere e di recuperare delle abilità.
24
Zini M.T., Miodini S., cit. p. 30
22
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disponibili.»25 Il racconto del proprio quotidiano dà per esempio informazioni sulla rete di
relazioni di una persona. Sta all’abilità dell’operatore connettere le azioni, i personaggi ed i loro
significati per la persona.
- La formulazione delle ipotesi.
«L’ipotesi ha il valore di una traccia, di una griglia che fa emergere il quadro di riferimento
relazionale dell’utente, connesso al problema portato, e permette di formulare domande
coerenti che confermano o disconfermano quanto supposto e di ottenere risposte necessarie ad
individuare risorse per la risoluzione dei problemi. Se l’obiettivo è risolvere il problema,
l’operatore dovrebbe essere in grado di formulare un’ipotesi di funzionamento diversa da
quella portata, ovvero un’ipotesi che contenga elementi nuovi di lettura del problema: molto
spesso è proprio la mappa rigida dell’utente che non gli permette di trovare una via d’uscita»26.
- Tecniche
Lerma (1992) distingue le tecniche di convocazione dalle tecniche di indagine.
Definisce il problema della convocazione come il modo con cui l’assistente sociale sceglie di
mettersi in contatto con l’utenza. Inoltre, facendo riferimento alla prospettiva sovraindividuale,
sottolinea come sia opportuno, quando una persona chiede un intervento per cambiare il
comportamento di un membro della propria famiglia, sia opportuno proporre una convocazione
dei conviventi e non della sola persona segnalata come disfunzionante.
Per quanto riguarda le tecniche di indagine evidenzia che «l’indagine circolare richiede lo
spostamento dell’attenzione dal presunto portatore del problema al contesto relazionale di cui
egli è parte e quindi dal punto di vista singolo al confronto tra vari punti di vista. L’indagine, in
tal modo, non consiste solo nella rilevazione di dati in senso burocratico […] bensì nella
costruzione di una mappa di rapporti del sistema utente finalizzata alla comprensione della
situazione in cui si è determinato quel certo problema»27.
Le domande utili28.
- Domande iniziali: dare la parola a chi viene per la prima volta, perché esprima il suo punto
di vista, o lasciare la libertà a chi vuol parlare, o rivolgersi alla persona più debole o meno
importante (per esempio un bambino). Le domande devono riguardare il motivo per cui
ciascun convocato ha accettato di venire, se è interessato, se è venuto di malavoglia, ecc.
Può essere importante non iniziare con le domande dirette sul problema, ma sul colloquio
stesso, sulla presenza dei partecipanti in quel dato momento, ricostruire il percorso della
partecipazione dei singoli affinché tutti si sentano considerati.
- Domande per definire il problema: vertono intorno alle opinioni sul problema così come è
percepito nel presente, in collegamento col passato e con le sue possibili soluzioni, come si
colloca il problema nella storia della famiglia, quando una certa situazione è diventata
problema.
- Domande per valutare le possibili soluzioni al problema: servono per capire se le
aspettative rispetto alla soluzione sono realistiche o meno ed il grado di intenzionalità
rispetto al un percorso di soluzione problema – cosa ognuno è disposto a fare per risolvere
il problema.
- Domande volte a stabilire le relazioni con altri sistemi. Servono per capire le relazioni fra il
sistema e altri sistemi significativi. Rientrano in questo ambito i rapporti all’interno delle
famiglie estese. Vanno inoltre considerati i rapporti con i servizi socio-sanitari ed
assistenziali già intervenuti nella situazione.
- Domande volte a ricostruire la storia della famiglia: servono ad acquisire informazione sulle
tappe più significative del ciclo vitale della famiglia.
- Domande per testare come si prendono le decisioni nel gruppo. Tendono a stabilire se nel
nucleo c’è possibilità di accordo su cui fare leva, se il problema provochi dei conflitti su chi
ha il diritto di decidere o dei comportamenti di delega o di ostruzionismo.
25
idem, p. 35
Zini M.T., Miodini S., cit., p. 36
27
Lerma M., cit., pp. 114-115
28
tratto da Lerma M., cit., pp.115-117
26
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Occorre inoltre osservare il comportamento analogico dei partecipanti al colloquio, se vi è
coerenza o incoerenza tra le dichiarazioni verbali e il comportamento. L’assistente sociale
dovrà far notare, con garbo, le eventuali incoerenze e proporre una loro possibile decifrazione.
- Tattiche del colloquio.
- Cautela nell’esprimere competenze: non essere troppo precipitosi nell’esprimere il proprio
orientamento e la propria definizione del problema, perché le persone non sono disposte a
cambiare idea e comportamento immediatamente.
- Equilibrio nelle alleanze: non schierarsi con una parte del sistema utente, perché
l’operatore deve adottare criteri di equità.
- Ponderazione nel riflettere: prendere il tempo necessario per pensare ed analizzare
eventuali proposte da fare agli utenti.
- Adeguamento del linguaggio: fare in modo che il linguaggio dell’assistente sociale sia
adeguato agli interlocutori. Assumersi la responsabilità del non avere capito in caso di
risposte vaghe.
- Connotazione positiva «può riguardare la valorizzazione esplicita di un certo
comportamento, osservato o descritto, a conferma dell’altrui sforzo per risolvere un
problema; può anche costituire una modalità per ridefinire, paradossalmente, un
comportamento indesiderato attribuendogli un significato positivo nelle intenzioni di chi lo
attua […] [in questo caso] la connotazione positiva può essere una mossa pragmatica per
ristrutturare una situazione-problema definendo un comportamento negativo come
tentativo, anche se realizzato in modo controproducente, di corrispondere alle richieste di
qualcuno, oppure come espressione di disagio, di protesta, di rabbia, ma non di cattiveria,
oppure come richiesta di attenzione e non come manifestazione di ostilità»29.
- Tattiche per superare l’impasse comunicativo
- Tenersi equidistanti
- Mettere in grado ciascuno di esprimere le proprie opinioni senza prevaricare un altro
- Rimarcare il contesto: interrompere l’interazione improduttiva utilizzando la propria facoltà
di porre le regole del colloquio e rimarcare quindi il contesto appellandosi allo scopo del
colloquio stesso.
- Sospendere tatticamente il colloquio: se l’assistente sociale non riesce a imporre la propria
autorevolezza, ciò significa che i partecipanti al colloquio stanno squalificando i suoi
messaggi e il contesto. Può essere utile assumere comportamenti inconsueti (stare zitto,
guardare per terra), comunicando analogicamente il proprio ritiro dal contenzioso in atto,
oppure sospendere il colloquio per rinviarlo ad un momento migliore.
1.8 Componenti delle capacità relazionali
Le capacità relazionali sono un argomento complicato (non le vediamo, ma di esse facciamo
esperienza, e questo le complica ancora di più).
Riguardando lo schema di pag. 9 possiamo sintetizzare dicendo che sono capacità di
scomposizione e ricomposizione. Scomporre per quanto riguarda le capacità a carattere
analitico (osservare, ascoltare, etc). La dimensione educativa della relazione (apprendere
dall’esperienza, promuovere la soggettività, cambiare) è comporre insieme il concetto di
problema e del suo superamento, tenere unite la dimensione della difficoltà e della risorsa, la
dimensione del futuro implicita in un percorso evolutivo umano.
Ma questo passaggio – da una condizione presente ad una condizione futura, presuppone delle
scelte: la scelta di stare in una relazione di aiuto, sia da parte del cittadino che da parte
dell’operatore, ad esempio. La scelta dell’operatore di pensare la relazione come un percorso di
crescita, di approfondimento è una decisone – è una decisione interpretare la relazione
soltanto come un luogo di contenimento affettivo, tralasciando la dimensione educativa della
relazione.
Ne consegue che la relazione è un luogo di decisioni, di scelte.
29
Lerma M., cit., p. 122
14
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Questo spiega perché ho cercato di analizzare il processo decisionale come una componente
della capacità relazionale (nello schema quindi si può aggiungere saper decidere).
Inoltre, la condizione d’incertezza insita nel decidere30 (nelle premesse: decido ma non so se
ho tutte le informazioni per questa decisione – e non so se questa scelta avrà esattamente
l’effetto che desidero) e la possibilità di utilizzare, per decidere, un registro che va dalla più
ponderata razionalità all’istinto meno pensato, mi sembra che si colleghino certi aspetti
costitutivi dell’interazione umana: il mio gesto, le mie parole che effetto avranno? Mi comporto
in un certo modo, di slancio, o dopo averci a lungo pensato? La comunicazione umana è per
sua natura, ambigua.
Allora propongo queste riflessioni, sul tema della decisione – il processo decisionale come un
elemento costitutivo della relazione e, quindi, di conseguenza, la capacità di assumere delle
decisioni, in modo critico e coerente con la situazione, come una componente della capacità
relazionale.
La decisione è un atto della vita quotidiana.
Normalmente, si decide sulla base dell’esperienza. Per fare un regalo, userò la mia esperienza:
la conoscenza della persona a cui fare il regalo, quindi utilizzerò come criteri di scelta i desideri
di questa persona, la mia valutazione sull’opportunità di quel regalo ed altri criteri, come il mio
senso estetico, la mia capacità di spesa. Ovvero metterò a disposizione della mia decisione
rispetto al regalo tutte le informazioni che possiedo rispetto all’argomento specifico.
Quando questa esperienza manca o è insufficiente, ricorrerò ad un esperto (anche il commesso
del negozio che mi orienta tra i diversi telefonini).
Alcuni aspetti del processo decisionale:
- per decidere occorre trovarsi di fronte ad una serie di possibilità o opzioni
- le alternative da considerare nella decisione possono essere esplicite o implicite
- il processo di scelta può essere ponderato (c’è tempo, si possono considerare con più
accuratezza varie alternative) o automatico (c’è poco tempo, si consultano velocemente un
numero ridotto di alternative)
- la scelta automatica si effettua o per economia e/o per necessità
- la scelta automatica può essere l’esito di procedure ponderate basate su esperienze
pratiche o conoscenze teoriche, che fanno parte del patrimonio di chi deve prendere la
decisione
- c’è differenza tra la scelta ottimale e la scelta soddisfacente: la scelta ottimale presuppone
una elaborazione di informazioni più complessa di quanto il sistema cognitivo di un uomo
normale possa reggere ed una certa quantità di tempo, che non sempre c’è
- ne consegue che normalmente si utilizzano strategie (o regole) per fare delle scelte
soddisfacenti: regola congiuntiva, eliminazione per aspetti, procedura per esclusione,
focalizzazione
- per prendere una decisione occorre assumere informazioni: non sempre è possibile
assumere tutte le informazioni necessarie; il processo di decisione si articolerà sulla base
di un numero limitato di informazioni
- un modo per ridurre l’incertezza su ciò che si deve valutare è la tendenza alla verifica
(ricerco informazioni che confermino l’ipotesi di partenza)
- le euristiche sono procedure pragmatiche per formulare dei giudizi sociali che diventano
informazioni per effettuare delle scelte
- vi sono l’euristica della rappresentatività, della disponibilità, dell’ancoraggio o
dell’accomodamento
- una buona decisione è una decisione che produce gli esiti prefissati
- vi possono essere importanti elementi d’incertezza: l’esito della decisione non dipende
esclusivamente dal fatto che la decisione sia stata presa correttamente. Può accadere che:
- non tutte le informazioni siano disponibili
30
Decidere deriva da “decidere” che vuol dire “tagliare” – una separazione netta, mentre scegliere deriva da ex ligere,
eleggere, nominare qualcuno ad una carica.
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-
Un
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il tempo è troppo poco o troppo
l’ambiente su cui la decisione produce effetti è spesso mutevole.
tra la scelta e le conseguenze della scelta può non esserci un rapporto diretto: ovvero
l’esito reale può essere diverso dall’esito previsto: ciò non esime dalla responsabilità della
scelta
esiste la paura di decidere: non prendendo una decisione, si decide comunque: non
decidere è una scelta
non si sceglie perché si ritiene di non avere informazioni sufficienti. Si sospende la
decisione in attesa di acquisire più informazioni
non si sceglie perché si è in una situazione di conflitto; le alternative vengono percepite
come troppo simili fra di loro. Una soluzione del conflitto è il cedere la scelta a qualcun
altro
il decisore esperto è colui che è esperto nel suo campo di lavoro. I decisori esperti
possiedono particolari caratteristiche, comportamentali e cognitive
sembrano essere meglio attrezzati cognitivamente dei decisori meno esperti, perché sono
dotati di elevate capacità nel semplificare i problemi complessi
nell’individuare e utilizzare le informazioni rilevanti per il problema che stanno affrontando
manifestano una maggiore creatività nella scoperta di nuove strategie decisionali
dimostrano di essere in grado di far fronte allo stress
di affrontare in maniera efficace un evento inatteso
di affrontare la situazione problematica in modo lucido
hanno un forte senso di responsabilità per le decisioni prese.
Il decisore esperto non dev’essere confuso con il decisionista (colui che prende le decisioni
rapidamente, senza tentennamenti): il decisionista non segue necessariamente una
procedura corretta
Le emozioni hanno importanza nel prendere le decisioni – forniscono informazioni
soggettive che condizionano il processo decisionale
le emozioni segnalano al decisore che la decisione che sta prendendo o la scelta appena
effettuata possono procurargli piacere o dispiacere
una fonte di stress nel prendere le decisioni è la pressione temporale, che crea ansia.
buon percorso per decidere:
qual è l’aspetto cruciale della questione?
Come sono state effettuate decisioni simili a questa?
Questa decisione può essere presa completamente? è necessario prenderla ora? può essere
delegata a qualcuno o condivisa con qualcuno?
Quanto tempo richiedono decisioni come questa? Quanto tempo hanno richiesto decisioni
simili a questa?
Dove devo concentrare il mio tempo e le mie risorse? Quanto tempo richiederà ogni fase
del processo di decisione?
Come e quali feedback posso trarre da esperienze passate e da decisioni analoghe a
questa? Ho bisogno di acquisire altri punti di vista?
Quali sono le mie abilità, i miei limiti a trattare decisioni come questa?
2.1 Società globale e capacità relazionali
Qualche mese fa mi è capitato di partecipare come discussant alla presentazione di un testo
sulla società globale, in una lezione del prof. Berzano. Il testo era L’io globale di Giaccardi e
Magatti.
Ho letto questa appassionata e puntuale analisi delle trasformazioni sociali ed individuali
nell’epoca della globalizzazione e ho trovato molte correlazioni possibili tra questa analisi e
l’intervento di servizio sociale. In altre parole: la trasformazione della società moderna in
società globale è una trasformazione che incide sull’esperienza soggettiva e questo fatto non
può essere ignorato dal servizio sociale.
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Ho ritrovato recentemente delle considerazioni simili alle mie in un articolo di una docente di
servizio sociale dell’Università della Calabria, dal titolo “La relazione di aiuto nell’attuale società
dell’incertezza: le emozioni in gioco, il gioco delle emozioni”.
Loredana Nigri, che insegna alla Facoltà di Scienze Politiche dell’università della Calabria e
lavora come assistente sociale coordinatore in un’ASL, in questo saggio analizza il lavoro degli
assistenti sociali, nella società dell’incertezza (così Baumann, 1999): il servizio sociale non può
prescindere dalla società e dalla storia.
In particolare, Nigri evidenzia come elementi critici, fra gli altri «la caduta della centralità del
lavoro nel processo di valorizzazione esistenziale e di costruzione dell’identità, la rottura dei
meccanismi di ricompensa differiti31 e […]l’accentuazione delle componenti di estetizzazione
della vita quotidiana, la crescita delle dinamiche sociali di differenziazione e dei bisogni
individuali di personalizzazione»32.
La concezione del lavoro è cambiata, secondo Gallino (2001) «la diffusione dei lavori flessibili
introduce nel mercato del lavoro il principio del “numero chiuso”. Nella nuova economia il
lavoro decente, con ciò intendendosi il lavoro stabile, ben retribuito, con buone prospettive di
carriere e di gratificazione personale, non è destinato a scomparire. È piuttosto destinato a
diventare il privilegio d’un numero limitato di eletti – intorno a un quinto di coloro che lavorano
per ciascuna impresa. Attorno a loro ruoteranno […]circa quattro quinti di lavoratori
temporanei, nomadi, precari, gitani, di passaggio, in affitto […]lo scenario sociale che per tal
via si delinea è quello di un mercato del lavoro nazionale e internazionale dove i lavori decenti
– espressione dell’Organizzazione internazionale del lavoro – saranno a numero chiuso, come
gli accessi alle facoltà di Medicina o i concorsi per dirigenti statali. Si tratti di operai, di tecnici o
di dirigenti d’azienda»33.
Le trasformazioni sociali hanno conseguenze gravi sulla condizione umana «dalla marginalità
indotta dalla mancanza ed incertezza del lavoro, allo sgretolamento dei nuclei familiari,
all’aumento degli stati di malessere anestetizzati dalla chimica legalizzata o proibita, alla
desertificazione dei sentimenti a favore della performatività, all’erosione degli scambi
interpersonali sovrastati dai rumori delle cascate comunicative dei media»34.
La complessità di questo scenario solleva molti interrogativi sugli orientamenti e le
metodologie di servizio sociale.
Due interrogativi, fra i tanti, possono essere evidenziati, sono i due volti di un medesimo
problema:
il processo di aiuto ha un fine intrinseco di cambiamento (verso l’autonomia:
autorealizzazione e autodeterminazione) – ma come si colloca il processo di aiuto in una
società dove i progetti esistenziali individuali dei più hanno poco spazio di realizzazione? A
proposito del lavoro flessibile, Gallino osserva che i lavori flessibili si riconducono a tre tipi
di precarietà:
♦ il primo è la limitata o nulla possibilità di fare previsioni e progetti sia di breve che di lunga
durata rispetto al futuro
♦ il secondo è che la maggior parte dei lavori flessibili non consentono di accumulare
significative esperienze professionali, che possano essere trasferite da un datore di lavoro
all’altro (non consentono di costruirsi una carriera)
♦ il terzo è la destrutturazione di aspetti spaziali e relazionali del lavoro che sono alla base
dell’identità e dell’integrazione sociale della persona (gli studi sulle reti personali
considerano, tra gli attori della rete primaria, i colleghi di lavoro. Ma se i miei colleghi
31
Su questo, si veda anche Giaccardi, Magatti, 2003, laddove si dice che l’homo sociologicus, soggetto agli obblighi dei
ruoli sociali che la società gli insegnava, lascia il posto all’uomo consumatore, che è concentrato sull’intensità
emozionale dell’istante, sulla soddisfazione immediata, quindi, senza riguardo per ciò che viene prima e senza interesse
per le conseguenze che la sua massima e immediata soddisfazione possono produrre sull’ambiente, le persone, la
cultura.
32
Nigri L., La relazione di aiuto nell’attuale società dell’incertezza: le emozioni in gioco, il gioco delle emozioni, in
Rassegna di Servizio Sociale, n. 1/2004, p. 17
33
Gallino L., Il costo umano della flessibilità, 2001, Laterza, Roma-Bari, p. 18
34
Nigri L., cit., p. 18
17
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cambiano ogni tre/sei mesi, quando non più spesso, come farò a stabilire dei legami con
loro?)35
la relazione di aiuto ha contenuti di contenimento e di promozionalità: come può realizzarsi
in uno scenario che rende incerta la vita degli individui ed impedisce di fare dei progetti? E
come può essere considerato attuale ed applicabile uno strumento che è antitetico
all’infatuazione relazionale36 e che si realizza in un rapporto faccia faccia, mentre gli
individui hanno, oggi, moltissime possibilità di coltivare relazioni mediate, distanti, virtuali?
Ovviamente non ci sono risposte univoche.
Nigri propone una risposta tecnico politica, ovvero l’agire in modo finalizzato all’interno del
sistema integrato di interventi e servizi sociali, per realizzare ciò che recita l’art. 1 della legge
328 (qualità della vita, pari opportunità, diritti di cittadinanza): si torna al ruolo politico
dell’assistente sociale, come partecipazione alla definizione delle politiche sociali locali –
politiche sociali tese a disegnare delle zone di equità e di diritto per i cittadini.
Non soltanto attraverso la partecipazione alla costruzione dei piani di zona ma con la
partecipazione a tutte le istanze democratiche di sviluppo sociale, in un determinato territorio.
Non è che in questo ruolo le capacità relazionali dell’assistente sociale non c’entrino nulla, anzi.
Le abilità relazionali, in questo percorso di partecipazione-documentazione-progettazione sono
essenziali, perché questo percorso è un percorso collettivo, fra soggetti diversi, con visioni
diverse, con interessi diversi, con culture diverse.
Questa dimensione tecnico-politica rimanda ad una definizione dell’assistente sociale come
operatore che promuove degli apprendimenti e dei processi collettivi di riconoscimento e di
presa d’atto del livello ecologico del vivere, con dei momenti di informazione, elaborazione e
confronto, che possono dar luogo ad opportune iniziative. «Dobbiamo abituarci a pensare che
gli operatori sociali non possono intervenire soltanto su chi sta male, ma è importante che
intervengano in un’area intermedia tra chi sta bene e chi sta male. […] gli operatori sociali
lavorano per il contesto sociale e il contesto sociale è fatto di persone escluse, deprivate,
emarginate, ma anche di persone che si credono normali, che costituiscono la cosiddetta
normalità, i benpensanti, quelli che non hanno un disagio ben definito e visibile, un’etichetta
pronta di emarginazione, ma che ugualmente ricoprono un ruolo strategico e problematico. È
importante che gli operatori vedano il loro lavoro come in una posizione intermedia tra le fasce
cosiddette deboli, emarginate, e la supposta normalità. Questa è la posizione più adatta per far
fruttare le risorse ed esplorare che cosa in un dato contesto sociale provoca esclusione ed
emarginazione. In un certo senso muoviamo qui da una constatazione ovvia, persino banale: le
risorse economiche ci sono se ci sono risorse sociali. Noi non apparteniamo a una società in cui
manchino le risorse: piuttosto devono essere reperite ed attivate, è come se fossero in certe
casseforti, tenute ben strette in alcune centrali o sotto i materassi. Per fare questo c’è bisogno
di vedere, connettere ed orientare meglio, non necessariamente di spendere di più per una
cosa o per l’altra […] uno dei compiti che i servizi troppo spesso sottovalutano è proprio quello
di una connessione che produca interesse, informazione, partecipazione, aiutando i cittadini a
capire che cosa può voler dire avere dei servizi che si occupano dei minori a rischio, dei
giovani, ecc. e che significato ha questo per la vita sociale, per il benessere collettivo, per la
“salute” di una comunità. Il fatto è che, invece, nelle occasioni in cui gli operatori prendono
posizione, si schierano, i loro messaggi gravitano in modo quasi esclusivo intorno alla difesa
delle istanze degli utenti. Questa è senz’altro una funzione fondamentale, ma per esercitarla
con consapevolezza ed efficacia è necessario mostrarsi aperti e vicini anche all’altra parte (gli
“utenti indiretti”, i cittadini, i “normali”) perché altrimenti si rischia di essere emarginati con gli
emarginati. È un fenomeno tutt’altro che raro»37.
35
Gallino L., cit., p. 41-42
Giaccardi e Magatti definiscono (riprendendo Lipovetsky) l’infatuazione relazionale come «il desiderio di trovarsi in
compagnia di esseri che condividono le stesse preoccupazioni immediate e circoscritte». Un legame ludico e debole, in
altri termini, poiché il senso di affinità è basato su interessi mutevoli o su aspetti singoli, si lascia sempre aperta la
possibilità di potersi disconnettere dalle relazioni che si rivelano faticose, impegnative, vincolanti, una volta che
l’intensità emozionale si è attenuata o esaurita (p. 191-192)
37
Intervista a F. Olivetti Manoukian di R. Camarlinghi, L’operatore sociale leggero, in Animazione Sociale, 3/2000
36
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2.2
L’assunzione di una posizione tecnico-politica da parte dell’assistente sociale ha forti
connotazioni relazionali. Evidenzio una componente delle abilità relazionali:
- la capacità negoziale.
La negoziazione è una strategia che serve per uscire da una situazione di potenziale, o
esplicito, conflitto laddove ci sono interessi divergenti o contrapposti.
Una negoziazione non avrebbe luogo se non ci fosse qualcosa di interessante per ambedue le
parti, presuppone sempre un interesse/un utile da parte dei soggetti che stanno negoziando.
La capacità negoziale può essere considerata sia una capacità organizzativa – è la capacità di
condurre una trattativa verso un risultato – sia una capacità relazionale, perché il modo con cui
si conduce la trattativa, ovvero la capacità di comunicare e di stare in relazione con gli altri
soggetti coinvolti nel processo di negoziazione, condiziona il raggiungimento del risultato.
La negoziazione38 ha delle fasi ed implica che il negoziatore si predisponga mentalmente prima
che la negoziazione vera e propria abbia inizio. Il negoziatore dovrà
• autoeducarsi a una flessibilità nel cambiamento delle proprie reazioni emotive o dei propri
punti di vista
• sviluppare un rapporto comunicativo corretto con gli altri
• convincersi della non evitabilità dei conflitti ed essere disponibile ad affrontarli
• imparare dai conflitti a cui assiste
• imparare a non temere le proprie emozioni e a saperle esprimere correttamente
• conoscere il proprio modo abituale di affrontare i conflitti
• sviluppare l’abilità a parlare dei comportamenti senza giudicare le persone.
Questo implica che l’assistente sociale-negoziatore si preparerà ad affrontare degli eventuali
conflitti, a capire quali aspetti del conflitto sono superabili oppure no, a cercare di vedere le
cose dal punto di vista dell’altro. Inoltre cercherà di creare quel che si chiama “un clima di
negoziazione” ovvero si comporterà in modo da costruire una reciproca fiducia: non
giudicando, non etichettando l’altro, dimostrando sincerità nella ricerca, usando espressioni di
scusa o di complimento e cercando, in ultimo, tra tutte le soluzioni proposte cercare quella che
sembra più promettente e in grado di soddisfare ambedue i contendenti completamente e di
stabilire comportamenti concreti per realizzare la soluzione trovata.
Le capacità negoziali hanno anche a che fare con la riforma dei welfare state nazionali iniziata
tra la fine degli anni 80 – inizio anni 90, in cui si ipotizza una completa esternalizzazione dei
servizi39. Nella realtà di fatto si è imposto un sistema misto dove il pubblico e il privato si
intrecciano – welfare mix – dando vita ad un sistema di attivazione e di regolazione dei servizi
sociali che viene definito “quasi mercato”. Tra i destinatari finali delle prestazioni – gli utenti –
e gli erogatori (i singoli servizi ed i singoli professionisti) rimane sempre necessaria
l’intermediazione dell’ente pubblico, sia come diretto o indiretto finanziatore delle prestazioni,
attraverso la leva fiscale, sai come valutatore della qualità delle prestazioni e del rispetto degli
standard minimi collettivi.
Fra le competenze richieste si pone davanti a tutte quella della negoziazione, cioè l’arte di
trattare e di mediare per arrivare ad accordi soddisfacenti per tutte le parti coinvolte
nell’affare. Queste sono competenze tradizionali degli operatori sociali, a cui s’aggiunge un
elemento nuovo: la questione del denaro.
La negoziazione si attua al livello delle dirigenze, ma anche i singoli operatori responsabili delle
cure ne sono coinvolti.
38
Alcune definizioni: “Processo di interazione in cui due o più parti cercano di accomodarsi su un risultato
reciprocamente accettabile” ( Druckman, 1997) - “ Decisione congiunta tra due o più parti che non hanno gli stessi
interessi” ( Bazerman e Lewicki, 1983) - “ Situazioni interattive tipicamente caratterizzate da un confronto faccia a
faccia tra le parti” (Rumiati, 2001).
39
Fletcher Keith, La negoziazione nei servizi sociali e sanitari, Trento, Erikson, 2000 (ed. or. 1998)
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Si parla di case manager40, che nel sociale possono essere assistenti sociali: questi operatori
possono venire incaricati della gestione di piccoli budget procapite per i loro utenti41.
Un assistente sociale può avere una cifra x per un anziano e entro quella cifra può decidere se
acquistare prestazioni di assistenza domiciliare da una cooperativa o pasti caldi da un’altra
cooperativa o assumere una badante a pagamento o rimborsare le spese ad un vicino, ecc.
Nel lavoro diretto con le persone, un luogo che mette in particolare evidenza le abilità
dell’assistente sociale-negoziatore è la fase di definizione del contratto con la persona.
Un esempio: Cinzia, che ha otto anni, è figlia di una casalinga, e di un operaio. La famiglia ha
sempre vissuto con la mamma di lei, sino a quando – da circa un anno – sono finalmente
riusciti ad affittare un alloggio e sono andati a vivere per conto proprio.
Cinzia ha una leggera insufficienza mentale. Fa terza elementare, va piuttosto male a scuola,
ha dei problemi di apprendimento e di comportamento, è sovrappeso. Le maestre e la pediatra
pensano che sia opportuno fare un intervento sostitutivo della mamma, magari con delle
prescrizioni del Tribunale.
Sia le maestre che la pediatra segnalano la bambina all’assistente sociale perché ritengono che
i due genitori siano inadeguati: la madre è una persona molto semplice, non riesce a seguire
scolasticamente la bambina, il padre ha delegato tutto alla moglie, perché lavora, la bambina è
sovrappeso, non fa sport, non sa stare in gruppo con gli altri bambini, alla mamma è stato
detto di farle fare nuoto e di seguire una dieta, ma la madre non ha mai seguito le indicazioni.
Le maestre e la pediatra ritengono che delle prescrizioni del Tribunale Minori condizionerebbero
positivamente il comportamento dei genitori verso Cinzia.
L’assistente sociale ha bisogno di confrontare il punto di vista delle maestre e della pediatra
con le informazioni che raccoglie direttamente, perché la valutazione finale della segnalazione
alla magistratura sarà sua.
Questa posizione – la necessità di effettuare una valutazione prima di formulare un’ipotesi sulla
famiglia - incrina da subito la relazione tra l’assistente sociale e le maestre e il pediatra. Si
arriva quasi ad un conflitto: per i segnalanti, la trascuratezza di Cinzia è evidente, per
l’assistente sociale no. In questa situazione, il risultato accettabile non è trovare chi ha ragione
e chi ha torto, ma è quello di mettere a confronto le diverse informazioni sulla situazione.
Quindi acquisizione di altre informazioni, conoscenza della mamma e del papà e conoscenza
approfondita di Cinzia. Effettivamente i genitori appaiono un po’ fragili, semplici ma forse si
può immaginare un tentativo nella direzione di un’evoluzione di competenze genitoriali, prima
della segnalazione di Cinzia (che è una bambina trascurata, ma non in modo grave). La
decisione del sostegno educativo a Cinzia, un educatore passerà del tempo con lei e con la
mamma. Il risultato: ulteriori informazioni – il servizio sociale ipotizza che la sig.ra sia in grado
di seguire delle sequenze di attività per sua figlia, se indirizzata in modo concreto e non
generico (ovvero se la si accompagna a iscrivere Cinzia a nuoto, le si spiegano gli orari, il
corredino anziché darle una prescrizione generica).
A questo punto, terminata la fase di conoscenza, il servizio sociale dovrà fare un contratto con
i genitori di Cinzia, per verificare se l’ipotesi è sostenibile.
Il servizio sociale decide di fare un pre-contratto che contiene tre aree di compiti
- l’alimentazione
- la relazione genitori-Cinzia
- le regole educative.
Queste tre macro aree hanno al loro interno dei compiti precisi, per quanto riguarda
l’alimentazione un compito sarà la consulenza di un dietologo e l’impegno rispetto ai pasti, in
termini di orari e di quantità (Cinzia apre il frigo, mangia ciò che trova, in qualsiasi orario e i
genitori non riescono a fermarla); la relazione genitori-Cinzia contiene l’investimento da parte
dei genitori su tempo ed attività da fare con la figlia (ai giardinetti con la mamma tutti i giorni,
la domenica al cinema con il papà, ecc.); nella terza area si colloca la definizione di regole e il
40
41
Manager dell’assistenza individualizzata
Questo succede già in Gran Bretagna
20
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loro rispetto (fare i compiti prima di andare a giocare, rispettare l’orario per andare a dormire,
ecc.).
In questo pre-contratto ci saranno gli impegni dell’assistente sociale e dell’educatore:
l’assistente sociale farà un colloquio ogni 15 giorni con la mamma e il papà, per vedere come
funziona con Cinzia, parlerà con le maestre una volta al mese, terrà i contatti con gli altri
servizi (la pediatra, il servizio di dietologia infantile); l’educatore trascorrerà un pomeriggio con
Cinzia tutte le settimane e la aiuterà nei compiti e nelle attività con i coetanei.
Questo però è un pre-contratto; deve essere negoziato, affinché i genitori dicano che cosa
vogliono fare e che cosa si sentono di fare. Per cui, nel momento della sua definizione, il
contratto sarà diverso da quello previsto – è l’esito di un confronto fra le parti.
2.3
Nella loro riflessione sul mutamento delle forme dell’esperienza individuale nella società
globale, Giaccardi e Magatti, facendo riferimento a Giddens, dicono che l’esperienza moderna
riduce al minimo le esigenze di reciproca conoscenza e di compresenza fisica. «I mondi
altamente formalizzati e astratti dell’economia, del diritto, della burocrazia si fondano sulla
condivisione di codici e di regole che riducono al minimo le tradizionali esigenze di
personalizzazione dei rapporti sociali»42.
Ma la capacità di fare a meno della compresenza fisica è legata alla capacità di astrazione. E
coloro la cui capacità di astrazione è minima?
Dal mio punto di vista questo è un nodo importante.
Abbiamo possibilità di forme di esperienza diverse, abbiamo però il problema che queste forme
devono essere ricomposte, devono trovare una qualche forma di coerenza cognitiva e vi sono
soggetti che accedono solo parzialmente a queste diverse forme e non hanno strumenti di
ricomposizione.
Questo pone una questione di disomogeneità sociale non secondaria.
Se a questo si aggiungono la ridotta protezione sociale, il nascere di nuove forme di
conflittualità sociale, occorrono nuovi profili di mediazione sociale e culturale (e anche di
giustizia sociale). Forse – sottolineo il forse – la mediazione sociale e culturale43 può aiutare la
traduzione in forme visibili della necessità – e dell’urgenza - di una dimensione etica collettiva.
Per questo sottolineerei l’aspetto della mediazione sociale e della mediazione culturale, non
soltanto come procedura generale per la risoluzione dei conflitti, ma come buona prassi,
ovvero come pratica di lavoro sociale per connettere,
collegare, individuare coerenze,
annodare nodi, ritessere trame, verso una dimensione ecologica del vivere, nella dimensione
più ampia della proposta di comportamenti etici minimi, ovvero la cura di sé e la cura del
proprio microcosmo relazionale. Ancora una volta, vengono chiamate in causa le abilità
relazionali dell’assistente sociale ed in particolare la capacità negoziale.
Si distingue tra mediazione rispetto ai macro conflitti e mediazione sui micro conflitti44. Come
esempio del primo ambito, i conflitti legati a determinate scelte di pianificazione territoriale
(nessuno vuole la discarica nel proprio quartiere) o quelli connessi ai vari programmi di
progettazione partecipata (la riqualifica delle periferie) e, per il secondo ambito, tutte quelle
situazioni di vita quotidiana che ingenerano conflitti, scontri di interessi opposti (la
separazione).
Ulteriori distinzioni si possono fare studiando le varie utilizzazioni della mediazione, familiare,
penale, culturale, e può essere utile, in questa sede, richiamare la mediazione sociale
42
Giaccardi C., Magatti M., cit.., p. 96-97
La mediazione, in generale consiste nel processo che tende a far evolvere un conflitto, aprendo dei canali di
comunicazione, bloccati, fra le parti.
44
Un metodo per la risoluzione dei cosiddetti microconflitti è quello messo a punto da Robinette. Orientato dalla
premessa di intenzionalità dei soggetti confliggenti a sottoporsi a un percorso di mediazione e in cui il luogo della
mediazione è un luogo neutro, che è altro, rispetto agli abituali scenari del conflitto fra i soggetti coinvolti. La filosofia
di fondo è quella dell’“inventare la possibilità per un reciproco guadagno”, superando posizioni precostituite rigide e
dogmatiche. È un forte richiamo all’assunzione di responsabilità, connessa peraltro ad un utile.
43
21
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propriamente detta: una tecnica di lavoro sociale che si utilizza sui problemi di conflitto che si
verificano nell’ambito dell’ambiente di vita delle persone. Trova una sua applicazione nei
rapporti tra cittadino ed istituzioni, nei conflitti nei rapporti di vicinato, nelle relazioni tra
diverse generazioni all’interno di un quartiere ecc.
Un altro campo è quello della mediazione culturale, intesa perlopiù come mediazione
interetnica: la mediazione culturale interviene come processo teso ad individuare l’esistenza di
sistemi culturali o subculturali separati, aumentando le capacità di adattamento degli immigrati
nel nuovo ambiente. Si tratta di un intervento a forte orientamento pratico, tendenzialmente
rivolto a singoli individui (micro-gruppi, nuclei familiari) volto al cambiamento ed anche con
caratteristiche di prevenzione – prima che il conflitto interetnico si radicalizzi.
Stanno sorgendo iniziative e centri di mediazione rivolti ai microconflitti.
Un esempio di un percorso di mediazione sociale il cui esito sono dei risultati e degli
insuccessi45.
È il racconto di un intervento di mediazione sociale a Venezia.
Gli antefatti: tra la fine dell’estate del 2003 e la primavera del 2004, nei dintorni del SERT si
crea una situazione di alta tensione tra gli abitanti del quartiere e i tossicodipendenti; in
particolare gli episodi scatenanti la tensione furono due: il costante degrado della zona causato
dai tossicodipendenti, frequentanti il SERT e non, attorno al servizio: utilizzo degli angoli delle
strade come gabinetti pubblici, consumo di sostanze in modo pubblico, litigi, schiamazzi, piccoli
furti; l’altro episodio fu la morte di un abitante del quartiere, dopo un litigio con un
tossicodipendente seguito dal SERT.
A quel punto anche le istituzioni cominciarono a muovere i primi passi per affrontare la
situazione – molti cittadini, sostenuti da alcuni giornalisti e alcuni politici, chiedevano il
trasferimento del SERT.
Sull’onda della difficoltà cominciarono i primi incontri per avviare un lavoro di rete istituzionale
che coinvolgeva
- il parroco (la parrocchia è a pochi passi dal luogo di ritrovo dei tossicodipendenti)
- il SERT
- l’unità di strada del servizio di riduzione del danno del Comune di Venezia
- la polizia municipale
- l’azienda municipalizzata per i rifiuti urbani.
Tutti questi soggetti hanno lavorato per una definizione comune del problema e hanno
individuato delle carenze strutturali della zona:
- la mancanza di spazi di ritrovo, di ristoro per le persone tossicodipendenti
- l’insufficiente manutenzione e pulizia dei luoghi utilizzati per il consumo di sostanze
stupefacenti
- la mancanza di servizi igienici pubblici
- la scarsa presenza di forze dell’ordine (con intenti dissuasivi).
Definite le caratteristiche del problema, ci si è chiesti: è possibile mettere intorno ad un tavolo
i lupi (i tossicodipendenti) e le pecore (i residenti del quartiere)?
In un primo momento, l’unità di strada, insieme al parroco, ha fatto degli incontri nei locali
della parrocchia con i tossicodipendenti. Il mediatore tra gli abitanti del quartiere ed i
tossicodipendenti è stato, di fatto, il parroco.
In concreto sono state ottenute, alcune tessere gratuite per usare i bagni pubblici (gestite
dall’Unità di strada) e l’utilizzo da parte dell’utenza di un bagno del SERT, la manutenzione e
la pulizia periodica del luogo di consumo delle sostanze e l’installazione di un contenitore per
la raccolta di siringhe, un maggior coordinamento tra polizia e vigili urbani.
Sono stati fatti undici incontri tra tossicodipendenti, operatori dell’unità di strada del SERT, il
parroco a cui hanno partecipato, in qualche occasione, abitanti del quartiere.
Risultati
- il gruppo più numeroso di tossicodipendenti ha trovato forme di autoregolazione interna e
di convivenza fragile con la comunità
45
Izzi T., Trevisiol L., Il tavolo dei lupi e delle pecore. Un intervento di mediazione sociale a Venezia, in Animazione
Sociale n. 5/2004
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- alcuni residenti hanno iniziato a interloquire direttamente con i tossicodipendenti sia nelle
situazioni più critiche che in quelle più serene
- la presenza delle forze dell’ordine è stata rispettosa degli equilibri presenti nel quartiere
- la stampa ha ridotto la sua pressione strumentale e il suo interesse nella zona.
Per fare un intervento di comunità (la situazione critica poteva essere utilizzata come una
premessa per un lavoro di comunità) ci sarebbero voluto un maggior impegno da parte dei
soggetti più significativi del territorio, in primis il SERT.
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